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17. Tessere del Mosaico pt. 4
- Johto, Rovine D’Alfa, Sala 7 –
Blue era stata poggiata delicatamente per terra da Sandra e Yellow, che intanto, sfere alla mano, cercavano d’individuare l’aggressore, responsabile dell’illusione che aveva colpito la Dexholder di Biancavilla.
“Dobbiamo stare attente” faceva Sandra, con i lunghi capelli che danzavano dietro la schiena ad ogni movimento del capo. La bionda, meno preoccupata dell’altra ma molto più analitica, si guardava attorno per notare la minima distorsione della realtà: quello avrebbe indicato la presenza dell’ancora, del particolare che serviva alla vittima per riacciuffare la realtà.
“Non riesco a capire dove si trovi!” esclamava la Domadraghi.
Yellow si voltò verso Blue e la fissò, vedendola con gli occhi semiaperti, mentre fissava il vuoto.
“È nel pieno di un’illusione, Sandra... non possono essere così lontani, i nostri avversari”.
“Odio gli Zoroark!”
“Sono semplici Pokémon, come tutti gli altri. E come tutti gli altri sono succubi delle volontà degli Allenatori. Purtroppo non tutti hanno buone intenzioni come noi”.
Videro d’improvviso il pavimento mutare; Sandra si stava accorgendo che il marmo ai loro piedi stesse prendendo le sembianze delle doghe di legno che c’erano in casa di suo nonno.
“Yellow...?” la chiamò.
“Sì, lo vedo anche io, il prato, qui per terra”.
“Prato?!” si voltò. Yellow era in quella stanza del tutto buia, con solo il pavimento di legno a risaltare. “Qui non c’è nessun prato!”
“Dammi la mano” rimbeccò l’altra.
“Io non vedo prati!” s’allarmò. “Questa è casa di mio nonno!”.
Yellow cercò alle sue spalle la Capopalestra, percependola. Tuttavia gli alberi che aveva davanti erano così reali da darle la parvenza d’esser veramente in quel bosco.
Se lo sentiva: si trovava all’interno del Bosco Smeraldo.
“Sandra... non dobbiamo perdere il contatto con la realtà, altrimenti finiremo come Blue...” fece, mettendo una mano sulla Pokéball. Tutte presenti, fortunatamente.
“Lo so” diceva quella, abbassando lo sguardo.
Poi vide la scena che più le era rimasta impressa, proprio davanti ai suoi occhi.
Tutto era così tangibile da farle dubitare della propria capacità d’intendere la realtà, di ciò che vedeva. Osservò se stessa entrare dalla porta, con quell’acconciatura a maschietto, cerulea e spettinata. Quasi vent’anni prima.
Riconobbe sulle sue guance lo stesso colorito che caratterizzava il suo volto anche negli anni successivi, ma il suo sguardo era piegato dal pesante confronto con suo cugino Lance, più grande di qualche anno e suo idolo da quando era ancor più piccola.
In famiglia era il più amato, da tutti. Lei s’abbeverava della sua luce riflessa e finiva per esser travolta dagli sguardi dei capifamiglia che si chiedevano come mai una donna fosse all’interno del Concistoro dei Domadraghi.
Era rimasta immobile, pareva fosse nascosta nel vecchio armadio dove il nonno teneva appesi i mantelli; nessuno pareva essersi accorto della sua presenza. Nessuno aveva percepito la sua presenza, né la versione di se stessa del passato, stretta in quel mantello oltremodo grande per le esili forme d’una bambina di non più di dieci anni, né quella di suo cugino Lance, adolescente, appena entrato nella camera delle riunioni con il solito sguardo sprezzante d’ogni cosa, quasi disinteressato.
Sandra, quella grande, osservava la scena in cui suo cugino le si era avvicinata; non era mai stato aggressivo nei suoi confronti, anzi, aveva assunto un atteggiamento di manifesta superiorità verso il mondo intero e ciò lo costringeva ad adottare l’etica del difensore dei più deboli.
E reputava Sandra meno forte di lui.
E la cosa era ricambiata, anche la Capopalestra d’Ebanopoli, quell’adulta, si reputava meno abile del più celebre cugino ma l’orgoglio di chi non aveva mai mollato l’aiutava ad andare avanti, ad estrarre il nettare dalla vita che stava vivendo.
Del resto non era un’Allenatrice scarsa, in confronto agli altri Domadraghi, essendo riuscita addirittura a superare per bravura il suo stesso padre, e di conseguenza quello di Lance.
Quella era una cosa strana, ed era probabilmente il motivo della sua bassa autostima: suo padre era stato uno dei più grandi Domadraghi di tutti i tempi: alto, bello, potente, disciplinato, era stato l’orgoglio dell’intero clan, finendo per inondare d’ombra tutti gli altri elementi, suo fratello compreso.
E suo fratello era il padre di Lance.
S’era resa conto che essere figlia di suo padre fosse un peso insostenibile; tutti s’aspettavano da lei che ripetesse fedelmente le gesta del padre.
Tuttavia non avevano fatto i conti con il nuovo pupillo d’Ebanopoli, contro cui non poteva assolutamente competere. Lance aveva quella cosa, quel segreto, quella capacità innata che lei non possedeva e che segnava nettamente la differenza.
Lo vide accomodarsi accanto a lei, sorridendole ed arruffandole il ciuffo ceruleo ben pettinato. “Ciao, piccoletta”.
“Ciao Lance”.
“Tra poco entreranno gli anziani con gli esiti dei nostri allenamenti di quest’anno. Sei nervosa?”.
La più giovane annuì vistosamente, indossando d’improvviso una maschera d’angoscia.
Lance la fissò, con i suoi occhi ambrati, sorridendo. Scarmigliò i capelli rossicci e poi la strinse in un abbraccio. “Sei stata molto brava, Sandra. Non devi dubitare del tuo lavoro”.
Lei lo fissò, spalancando i grossi occhi azzurri, quando l’intero consiglio fece il suo ingresso nella grossa sala. Il primo ad entrare fu il capo del concistoro, il nonno dei due ragazzi; era un vecchio uomo dalla lunga barba candida. Indossava un pesante mantello di tessuto rosso carminio, lucido, molto più lungo di quello indossato dagli altri Domadraghi. La testa era completamente calva, data l’età avanzata, ma il corpo era ancora tonico per via del profondo allenamento sostenuto fin da giovane, ogni giorno.
Il capo del concistoro fu seguito dal padre di Sandra, un uomo imponente dagli occhi blu ed i capelli radi. Un grosso spadino dall’impugnatura in ebano ed intarsi in avorio era ben saldo nel fodero. Ricordava che suo padre ne carezzava la sommità superiore come se fosse un automatismo, quasi per rassicurarsi sul fatto di non averlo perduto. Dopo di lui fece il suo ingresso suo fratello, il padre di Lance, più basso decisamente più basso ma comunque tonico al di sotto della sua divisa da Domadraghi. Aveva i capelli biondi, tirati all’indietro, ben pettinati, e gli occhi ambrati, proprio come quelli di suo figlio. Sul viso una grossa cicatrice deturpava la guancia destra, a riprova di una devastante lotta con un grosso Ursaring da ragazzo.
Lance guardò il viso di sua cugina, totalmente impanicata.
“Non dubitare” le ripeté. “Sei stata molto brava”.
Entrambe le versioni della donna sorrisero ed abbassarono la testa. Ricordò la profonda autostima che la bambina seduta su quella panca aveva incamerato dopo quella frase.
Poi però strinse la mano di Yellow, lottando contro l’istinto di gettarsi a capofitto in quell’illusione, di perdersi nella successiva delusione portata dalle parole dei membri anziani che avrebbero promosso le azioni di Lance e bocciato le sue, definendole disinteressate ed acerbe. Ricordava la sua rabbia, la sua delusione. La solitudine provata quando, una volta ritiratosi l’intero consiglio, rimase da sola, cercando di capire dove avesse sbagliato, dove sarebbe potuta sembrare così superficiale, non riuscendo a capire: lei ce l’aveva sempre messa tutta per assomigliare almeno un po’ a suo cugino.
“Yell...” la chiamò. Le strinse nuovamente la mano quando si accorse di non percepirla più.
Impanicata abbassò lo sguardo verso le sfere, non riuscendo più a vederle.
“Cazzo!” esclamò, vedendo la piccola Sandra voltarsi rapidamente. Spalancò gli occhi, non s’era resa per nulla conto della presenza di quella donna nell’armadio.
“E tu chi sei?!” si alzò immediatamente. Portò subito la mano verso la sua unica sfera.
A quella grande sembrò inutile restare nascosta. Sapeva che non sarebbe arrivato nessuno, quindi decise di uscire.
“Io sono... un’amica”.
“Assomigli tanto al mio papà” ribatté subito lei.
“Sandra!” urlava Yellow, stringendo sempre più forte la sfera di Omny, il suo Omastar. Percepiva ancora la sua mano, pesante e dal basso.
“È svenuta! Dannazione, calmiamoci...” sospirò quella. Sentiva la corrente fresca che soffiava tra i tronchi del Bosco Smeraldo, pettinando i lunghi fili d’erba nella direzione in cui spingeva.
Era nel lato ovest della foresta, quello più vicino al Monte Argento, e lo sapeva perché ognuno di quei tronchi d’albero era cresciuto con lei.
La sua tana era lì.
Sbuffò, una coppia di Pikachu s’inseguì fino a sparire oltre un grosso cespuglio, spaventando un Pidgey che volò da un ramo all’altro.
Poi il silenzio, che mai aveva caratterizzato quel posto, scese come un sipario lungo e pesante.
Yellow fu in grado di sentire delle voci poco dopo la grossa quercia che aveva davanti.
Quello era un albero assai particolare: i lunghi rami erano cresciuti in maniera parecchio irregolare e s’erano annodati attorno al tronco d’una quercia più sottile; sembrava che l’albero più grosso avesse abbracciato quello più piccolo.
Avanzò, sempre pronta ad utilizzare Omny per uscire da quell’illusione, ma poi vide qualcosa che le interessava così da vicino da non permetterle di sottrarre l’attenzione: una donna stava uscendo dal suo rifugio.
Lei era nata e vissuta in quel bosco ma non aveva alcun ricordo di come la sua tana fosse stata costruita. Questa era una profonda rientranza nella facciata della montagna, abbastanza lunga e larga, perfetta per sopravvivere. Le pareti interne erano rivestite d’un caldo tessuto che fungeva da isolante per il freddo e l’acqua, filtrata dalle rocce ed incanalata successivamente in grosse vasche.
C’era un piccolo giaciglio, e accanto alcuni giocattoli intagliati in legno.
Effettivamente, e se l’era sempre chiesto, non aveva mai capito come fosse finita in quel luogo. Lei era un mistero.
Quando gliel’aveva chiesto, i Pokémon asserivano che lei fosse la figlia del bosco; aveva bonariamente date per buone quelle parole, tacciando ogni altro dubbio che le crescesse in grembo.
Nascosta dal grosso tronco della quercia affettuosa guardò la scena: una donna dagli occhi verdi e dai capelli castani era uscita dalla tana, frettolosamente. Indossava eleganti abiti di diverse tonalità di verde.
Verde speranza, si diceva, che però non era espressa dal suo viso; al contrario, i suoi occhi erano colmi di paura ed ansia. Quasi vergogna, lo sguardo era basso ed i pugni stretti.
Si sentiva impotente, lei, costretta a fare qualcosa contro la sua volontà.
Accanto a lei c’era un uomo, che aspettava al di fuori del rifugio con in braccio un neonato.
Quel signore sembrava essere un Domadraghi; non aveva l’aspetto imponente, assomigliava vagamente a Lance ma aveva i capelli biondi, ed una grossa cicatrice sulla guancia destra.
Il lungo mantello toccava quasi il pavimento.
“Ecco” diceva la donna, non riuscendo più a trattenere le lacrime. “La... la sua casa è pronta”.
Afferrò il neonato dalle mani dell’uomo e gli baciò il viso più e più volte, disperandosi e ripetendo la parola scusa fino allo sfinimento. “Mi spiace, piccola mia! Mi spiace!”.
Alzò poi gli occhi verso l’uomo, come accusandolo. Quello deviò lo sguardo, verso la tana.
“Hai fatto un ottimo lavoro” disse infine.
La donna non considerò affatto le parole del Domadraghi né si sentì lusingata. S’accovacciò poi per terra, affondando le ginocchia nel terriccio e sporcando la gonna.
“Spiega ai Pokémon ciò che devono fare” disse all’uomo.
“Andate lì” annuiva quello.
Yellow vide il volto corrucciato della donna, crogiolato nella sua confusione, quasi abituato a quello spaesamento.
La Dexholder però aveva capito cosa l’uomo stesse facendo; ne ebbe infatti la conferma quando, qualche attimo dopo, diversi Caterpie e Weedle, un Pidgey e quattro Rattata s’erano avvicinati alla signora inginocchiata.
Yellow era colpita: quello stava parlando con i Pokèmon, proprio come sapeva fare lei.
Il Domadraghi riprese la parola. “Lei è mia figlia. E come me, crescerà qui, nel Bosco Smeraldo. Fate in modo che sia al sicuro”.
Dopo una piccola pausa fu la donna a parlare. “Io... io... sono costretta ad abbandonarla qui e... dannazione...” tossì, distrutta dal pianto. “Vi prego, aiutatela a crescere! Vegliate sempre su di lei, nutritela e fate in modo che diventi una brava persona!”.
La lasciò su di un letto d’erba soffice e si sollevò, pulendo il vestito con veloci ed inutili manate.
“Ciao, Yellow” concluse poi e si voltò verso l’uomo, che assisteva colpevole alla scena.
“Mi spiace molto” fece.
“Non è vero! Non ti spiace! Sei tu che mi hai costretta a lasciarla da sola!”.
“Non è impossibile crescere in questo posto, io ne sono la dimostrazione”.
“Quella è mia figlia! Tu sei stato abbandonato ed il bosco ti ha adottato, ma eri già più grande! Hai questi... questi strani poteri per puro miracolo, altrimenti non avresti passato la prima notte!”.
“Diana, lo sai bene che Yellow è frutto d’un errore madornale” rispose quello, rigido ed impettito.
La donna pulì il viso dal trucco che si scioglieva e poi si sciolse i capelli. La luce del sole filtrava attraverso il fitto fogliame del bosco.
“No! Mia figlia non è frutto d’alcun errore! Io e te le abbiamo dato la vita!”.
“È questo il punto!” s’alterò lui, smontandosi quell’impalcatura di ghiaccio che lo faceva sembrare freddo e distaccato. “Noi siamo stati un errore!”.
Diana spalancò le labbra e gli occhi, incredula di ciò che sentiva. “Io rifarei questo errore miliardi di volte ancora. E queste tue parole sono la dimostrazione che per te sono stata soltanto una fuga dalle tue responsabilità!”.
“Ma che cred?!” ribatté quello. “Che non vorrei smontare quest’armatura di roccia e fuggire via con te?! Crescere nostra figlia ed amarti come meriti?!”.
“E perché non lo fai, allora?! Perché mi costringi a stare lontana da mia figlia?! Perché non ci accetti come la tua vera famiglia?!”.
“Diana!” tuonò l’altro, afferrandola per i polsi e zittendola. Era di poco più alto di lei. “Sai bene che la nostra relazione è sbagliata. Sai bene che ho una famiglia, un figlio già grande e che sarei buttato fuori dal concistoro se si sapesse che non ho ottemperato alle rigide leggi di fedeltà e tradizionalismo di Ebanopoli e dei suoi Domadraghi. Lyssa, mia moglie, m’è stata imposta quando avevo vent’anni. E non l’amo, Diana. Ma la mia vita ha delle regole e, amando te, ne ho infrante fin troppe. Questa bambina è la testimonianza che io ho commesso degli errori... dovrebbe sparire. Molti già sospettano di una relazione tra di noi”.
La donna era ancora ferma, immobile, bloccata per i polsi da quell’uomo così senza cuore.
“Come ho fatto...” disse lei. “Come ho fatto ad innamorarmi di un merda come te?” chiese, con una calma quasi glaciale. Era in netto contrasto con la grande quantità di lacrime che le cadevano dal viso e finivano per macchiare la camicetta.
“Non rinuncerò alla posizione che mi sono creato, a casa. Non per una bambina nata per errore”.
“Questo che stai commettendo adesso è un errore! Per definizione dovresti combattere contro queste ingiustizie!”.
“Domadraghi! Guerrieri! Spartani! Noi siamo questo, dobbiamo lottare contro le nostre debolezze, contro i pregiudizi. Contro i draghi, Diana... non deve esistere vizio. Non deve esistere piacere. Solo disciplina”.
“Ed io cosa sarei?”.
“Piacere...” sussurrò quello, col volto basso. “Vizio. In ogni caso le nostre leggi le conosci. Io verrei espulso ed ho impostato la mia vita nel raggiungere i miei obiettivi. È meglio per tutti chiudere questa cosa, vivere le nostre vite normalmente e lasciare che il bosco cresca tua... nostra figlia”.
“Un altro uomo mi avrebbe proposto di fuggire” ribatté lei, solida.
“Per fare cosa? Per vivere nell’ansia che ogni giorno qualcuno possa ritrovarci? E poi a Lance non ci pensi? A mio figlio non ci pensi?”.
“A Yellow non ci pensi, tu!”.
“Lo faccio eccome. Non morirà, crescendo qui. E tu non dovrai tornare a prenderla, altrimenti potrebbero cominciare a farsi delle domande sul perché una donna che saltuariamente è stata vista col figlio del capoclan abbia una bambina con i miei occhi. Libererò perciò questo Dratini nel bosco...” disse, eseguendo con i fatti ciò che le sue parole avevano anticipato. “Ti attaccherà se, un giorno, deciderai di tornare qui”.
Diana s’avvicinò all’uomo e lo guardò negli occhi. Bellissimo, lui, con i capelli biondi, tirati indietro e sempre perfettamente pettinati. “Un giorno pagherai per questo male, Dorian. Un giorno ti si ritorcerà contro”. Con la mano poi carezzò il collo dell’uomo, verso l’alto, fino a raggiungere la guancia deturpata. La toccò col dorso della mano e poi nei suoi occhi apparve l’ira. Dove prima c’era una carezza, arrivò quindi uno schiaffo, tremendo.
“Sei una delusione. Spero che tua figlia un giorno sopravviva per smascherare i tuoi altarini”.
Lui abbassò lo sguardo, limitandosi a sospirare.
“Addio, Diana” fece quello, salendo in groppa ad un Aerodactyl e volando oltre il tetto di foglie.
Yellow, quella adulta, era rimasta in perfetto silenzio per tutto il tempo, sconvolta dalla scena. Le labbra erano spalancate, gli occhi pure, le mani lunghe contro i fianchi.
“Tu...” fece, uscendo allo scoperto, agli occhi della donna. Quella ebbe un sussulto e si fiondò sulla bambina, prendendola tra le proprie braccia.
“Chi sei?! Hai sentito tutto?! Vieni dal concistoro, vero?!” sbraitava quella, cullando la piccola che, svegliatasi dal lungo sonno, prese a piangere a dirotto.
“Tu...”.
“Chi sei?!”.
“Tu sei mia madre?”.
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