18. My Bad
Johto,
Amarantopoli, Casa di Angelo
“... dalle riprese dei nostri
elicotteri siamo in grado di vedere un grande scontro tra quelli che sembrano
essere due Pokémon molto somiglianti a un Gyarados ed uno Steelix. Delle
Megaevoluzioni, così si chiamano. Sul posto c’è l’intero corpo di Capipalestra
di Johto con l’eccezione del rappresentante di Mogania, carica ancora mancante.
Oltre ai Capipalestra ci sono anche i possessori dei quattro Pokédex in
circolazione nella regione di Kanto e sono arcinoti per le loro abilità nella
lotta. Le Rovine d’Alfa sembrano essere sotto l’attacco di un’organizzazione
paramilitare che intende rubare i mosaici e in questo momento i rappresentanti
della Lega di Johto...”.
Cindy non
batteva gli occhi da quasi trenta secondi.
Cominciavano
a bruciare.
Non era
rimasta entusiasta di come suo marito l’avesse liquidata, quella notte. Avevano
trovato finalmente un po’ d’intimità, dopo le notti passate a fare i conti nel
locale. Erano nudi nel letto, a scambiarsi baci e carezze di velluto quando il
cercapersone suonò.
E quando
Angelo sentiva quel rumore voleva dire soltanto una cosa: guai.
Valerio
aveva rapito la sua attenzione, e lui ovviamente non poteva mancare, né chiedere
all’emergenza di aspettare perché i desideri di sua moglie dovessero venire
soddisfatti. E così, come ogni volta che Angelo abbandonava il suo letto
nottetempo, Cindy si alzava e andava a farsi una doccia calda, poi s’asciugava
lentamente e avvolgeva il suo corpo in una lunga vestaglia. Quindi scendeva al piano inferiore, con un buon
libro e un caffè alla cannella fumante da sorseggiare.
La
televisione rimaneva accesa sul telegiornale 24h, ma senza volume; di tanto in
tanto buttava un occhio e guardava le ultime news in sovrimpressione.
Quel giorno
però sentiva nel cuore, nello stomaco e nella testa una pressione senza pari
che non riusciva ad allontanare in alcun modo. Passò un’ora, cercando di
concentrarsi, girando e rigirandosi il libro tra le mani senza la voglia
effettiva di aprirlo. Poi lo fece, rilesse per nove volte la pagina sessantatré,
perché distratta, e solo infine alzò bandiera bianca.
Lo gettò sul
divano e andò a prendere un bicchiere d’acqua.
“... la situazione non sembra delle migliori.
Da lontano riusciamo a vedere due corpi stesi per terra, tra i Capipalestra.
Non riusciamo ad avvicinarci più di così perché è in corso una lotta tra un
MegaGyarados ed un MegaSteelix all’interno di quella che un tempo era la Sala 1
delle Rovine D’Alfa. Adesso l’edificio è totalmente distrutto. Rimaniamo in
attesa per nuovi aggiornamenti...”.
La testa
parve scoppiarle con forza. Gli occhi bruciavano, le fauci le si seccarono
immediatamente. Affondò con le spalle nei cuscini del divano e respirò profondamente.
“Non gli è
successo nulla…” sussurrò. “Come sempre andrà tutto bene”.
Ma il cuore
batteva e le lacrime fuggivano via senza controllo.
Il respiro
le si rarefaceva tra i denti. Le labbra tremavano.
Poi il
campanello suonò.
Cindy guardò
l’orologio e il cuore prese a martellare con forza. Era davvero troppo presto
perché qualcuno bussasse alla sua porta e la televisione non la
tranquillizzava.
S’alzò,
afferrando il cellulare, e telefonò Angelo, pregando che quello almeno
suonasse.
…
…
…
Era libero
ma non rispondeva.
“C-chi è?”
fece poi, avvicinandosi alla porta, col cuore che ormai faceva su e giù nello
stomaco con semplicità assoluta. L’orecchio era ancora al telefono, mentre
l’occhio s’accingeva a guardare dallo spioncino.
“Sono Xav.
Xavier” sentì rispondere.
Quindi aprì
sorpresa, con la preoccupazione che cresceva per la risposta che non riceveva e
la curiosità di sapere perché a quell’ora della notte l’uomo fosse venuto da
lei. Aveva i capelli spettinati, lui, come sempre, assieme al viso stanco e
alle occhiaie che ben s’abbinavano al color blue navy del maglioncino che
indossava.
“Entra”
disse, sentendo poi il cellulare staccare automaticamente la chiamata. “Merda!”
si lamentò, quasi piangendo. “Non risponde!”.
“Sta bene.
Credo. Sono venuto appena l’ho saputo...” disse l’altro, facendo un passo
avanti e permettendo a Cindy di chiudere la porta.
“E come fai
a saperlo? Telegiornale?”.
“No, mi ha
chiamato Green Oak. A quanto pare... No, niente, lascia perdere...” sbuffò
Xavier. “Non so neppure perché sia venuto qui, a dire il vero. Forse ho
sbagliato, Angelo potrebbe tornare da un momento all’altro e pensare a qualcosa
di male, no, lascia stare. Vado via” diceva il biondo, stringendo gli occhi in
un’espressione più che compressa. Fece per voltarsi quando Cindy gli afferrò il
polso.
“Xav...”
disse, usando quel tono di voce con cui riusciva a catturarlo ogni volta.
Lui sospirò;
non poteva tollerare il pensiero di averla abbandonata in difficoltà,
nonostante tutte le brutte cose che avesse passato per causa sua. “Ti prego,
stai con me... Ho una paura tremenda che sia successo qualcosa...”.
Xavier
sospirò e la vide esplodere in un pianto disperato, che le riempiva gli occhi
smeraldini di lacrime calde e sapide.
“N-Non
saprei cosa fare... Ti suppli-ico, fam-mi compagnia... T-ti offro qualcosa di c-caldo,
dai...” diceva, cercando di calmare i nervi e tirandolo per mano verso la
cucina. Xavier la seguì in silenzio, guardandole le caviglie sottili e poi più
su, sui polpacci scoperti dalla vestaglia a fiori. Entrarono in cucina, la vide
mettere il bollitore sul fuoco e poi voltarsi, appoggiandosi al banco e
incrociando le braccia sotto al petto.
Sospirò, col
viso pieno di lacrime. Lo guardò, sospirò ancora poi annuì.
“Mi spiace…
So che è tardissimo e non vorrei costringerti a stare qua… ma sono
terrorizzata...”
“Tranquilla”
sussurrò Xavier, nel silenzio disturbato soltanto dal brusio del televisore
nella camera adiacente. “Sono venuto io, qui. Avevo paura che fossi colta da un
attacco di panico”.
La bella
sorrise, amaramente. “È quasi un paradosso: prima che arrivassi tu stavo
riuscendo tranquillamente a...” starnutì “... a gestire... a gestire tutto,
ecco...”.
I loro
sguardi s’incrociarono. Xavier si limitò ad annuire, non sapendo bene cosa
dire. Fece spallucce e la vide ridere.
“Appena ti ho visto sono scoppiata in
lacrime!” esclamò, ancora più bella, con gli occhi tristi e la bocca felice.
L’uomo sentì quella sensazione pessima che lo attanagliava quando la vedeva,
quando la sentiva, quando la poteva toccare e prendere. Ma poi ricordava che
non fosse sua.
Gettò
lontano quel macigno ed espirò, liberando i polmoni dal veleno.
“Stai
tranquilla. Green non mi sembrava molto impaurito... Credo sia riuscito a
gestire la cosa...”.
“Hanno visto
dei corpi, al telegiornale. Dei corpi per terra…”.
Riprese poi
il cellulare e lo riportò all’orecchio. Gli occhi di Xavier percorsero l’intera
lunghezza del suo viso, e poi del suo collo, fino a terminare nella scollatura
coperta dalla vestaglia.
Quella sospirò
e fece cenno di no con la testa.
“Dio,
aiutami tu…” disse, perdendo un’ultima lacrima silenziosa, che le baciò il viso
e colò finì per pendere sul mento. Xavier rapprese le labbra e si avvicinò a
lei, stringendola in un abbraccio accogliente. Cindy poggiò la fronte sul suo
petto, sentiva il cuore battere forte.
Alzò gli
occhi, così vicini alla bocca dell’uomo.
E poi il
bollitore prese a fischiare. Si staccò subito, quella, allontanando i pensieri
che stava per fare. Non avevano senso, in quel momento.
“L’acqua è
pronta…” fece. “Tè o tisana?”.
Johto,
Amarantopoli, Ospedale Civile
“Non credo
ci siano dubbi...” sussurrò Green, con le mani tra i capelli. Il vetro di
divisione dell’obitorio era trasparente abbastanza da permettere a lui, ad
Angelo e a Valerio di guardare ciò che succedeva all’interno della fredda sala
delle autopsie.
“Quella è
Jasmine...” sussurrò il poliziotto, mordendosi il labbro e sospirando, quasi
sbuffando.
Guardarono
entrambi il Capopalestra di Amarantopoli, come a chiedere conferma della cosa.
Conferma che arrivò con un rapido cenno del capo.
Videro il
medico pulire il volto della salma dal sangue incrostato e, successivamente,
praticarle un’incisione a y per aprirle cavità toracica e addominale.
“Il fatto è
che non riesco a spiegarmelo. Una donna totalmente identica a Sandra ha mandato
Gold in coma e rapinato una banca ad Aranciopoli, con la nostra Sandra sotto le
lamiere, presente lì e le registrazioni a testimoniarlo…” ragionava Green. “Una
copia di Fiammetta ha ammazzato Rafan e svaligiato una miniera di diamanti,
mentre lei era con Rocco Petri e la sorella minore. Infine Jasmine…Tutti noi
abbiamo visto la vera Jasmine fuori, accanto a Chiara, vero?”.
Valerio e
Angelo annuirono contemporaneamente.
“I mosaici
sono tutti andati?” chiese quest’ultimo.
“No. Red ha
salvato quelli della Sala 1. Sono gli unici che quel gruppo di mercenari non è
riuscito a prendere”.
La porta alle loro spalle si spalancò. Lance entrò,
con le braccia incrociate.
“Non credevo
fosse una situazione così difficile da fronteggiare” fece, nella penombra più
che totale. I lunghi capelli rossicci erano dritti sulla testa e ben
s’accostavano al giubbino di pelle che gli fasciava il torace. Valerio gli
diede un’occhiata torva, e tornò a guardare avanti.
“Solo
l’intervento dei Dexholder ci ha salvati. In caso contrario saremmo morti
tutti” ribatté, quasi a colpevolizzarlo.
“Siete tutti
grandi Allenatori, Valerio” rispose Lance, avvicinandosi a Green. Quello lo
salutò con un gesto della mano.
“Due dei
tuoi grandi Allenatori sono morti, oggi. Tutto questo perché la vostra presenza
era troppo preziosa per la regione di Johto”.
Angelo
inarcò le sopracciglia, rimanendo a guardare la mano fasciata.
“Sai bene
che non è come dici. La Lega di Kanto e Johto è in tutto e per tutto...”.
“Non
raccontarmi le solite stronzate! Avresti dovuto prendere i Superquattro per le
orecchie e fiondarti da noi! Raffaello e Furio sarebbero ancora vivi, adesso,
se non fossimo rimasti da soli!”.
Lance rimase
in silenzio. Prese un lungo respiro e annuì.
“Interventi
del genere sai bene che non possono essere stabiliti solo da me o dai
Superquattro... C’è una commissione che...”.
“Che cazzo
me ne fotte della tua commissione!” sbottò l’altro, voltandosi verso di lui e
puntandogli l’indice contro il viso. La rabbia sul suo viso stentava ad
abbandonare gli occhi blu, deformando quel viso candido e pulito e
trasformandolo in una maschera di disperazione.
“Valerio,
devi calmarti...” fece Angelo.
“Non ho da
calmarmi un cazzo, Angelo! Questi signori dovevano saltare sul primo Pokémon e
volare a sporcarsi di sangue, come noi!”.
“Sono io a
chiedermi come sia possibile che dei semplici criminali siano più forti dei
miei Capipalestra...” ribatté Lance. “Hanno trafugato i nostri mosaici e hanno
distrutto un’area importantissima per la nostra regione”.
“Non è la
tua regione!” urlò di contro Valerio. “È la mia! Quella di Angelo! Quella di
Jasmine, quella di Chiara! Quella di tua cugina Sandra! Questa è la terra della
mia gente e tu non hai fatto nulla per noi! Perché ho l’impressione che per te
sia tutto un gioco?! Raffaello è morto davanti ai miei occhi, stanotte!”
s’alterò il poliziotto. “Ed era uno dei migliori Allenatori dell’intera
regione!”.
“Sicuramente,
Valerio... Non volevo prenderti in giro ma siamo di fronte ad una delle crisi
peggiori che la nostra regione abbia mai fronteggiato”.
Con tempismo
perfetto, il Pokégear di Lance emise uno strano rumore. Il Campione lo guardò e
sospirò, abbassando lo sguardo, sconfitto.
“Chiara non
ce l’ha fatta...”.
Angelo
chiuse gli occhi e rapprese le labbra mentre Green rimase immobile, spostando
di poco lo sguardo verso il pavimento. Valerio sentì invece ribollire il sangue
nelle vene, fino a quando non gli fu impossibile sostenere i suoi pensieri. Gli
partirono dalle viscere, risalirono rapidi come un fiotto acido e vomitò fuori
tutta la sua rabbia.
“Vaffanculo,
Lance! Fanculo tu e la fottuta Lega Pokémon! E fanculo la Palestra di
Violapoli! Mollo tutto!”
L’uomo si
allontanò, sbattendo la spalla contro quella del Campione e spingendo con forza
la porta, che emise un tonfo sordo quando batté nel muro. Lance sorrise
amaramente.
“Anche
Jasmine ha lasciato il suo posto, a Olivinopoli, aggiungendo la sua posizione
ai posti vacanti ad Azalina, Fiordoropoli, Fiorlisopoli, Violapoli e Mogania.
Nessun altro? Amarantopoli non ti piace più, Angelo?”
“Io ho una
responsabilità verso la mia città e ne rimarrò il Capopalestra. Ma ciò che ha
detto Valerio è vero: è gravissima la vostra mancanza di supporto”.
Il Campione
non annuì neppure, guardò direttamente Green e lo interrogò con gli occhi.
“Avete
capito chi sono, queste persone?”.
Il Dexholder
fece cenno di no.
“Avevamo
catturato Jasmine” disse, indicandola con la mano che puntava oltre il vetro
della sala delle autopsie. “Ma si è suicidata davanti ai nostri occhi”.
“Quindi
brancoliamo nel buio. Parlerò con Pino e Karen, per fare in modo che tengano
d’occhio il mercato nero. Prima o poi qualcuno venderà le tessere dei nostri
mosaici e sarà allora che li beccheremo” sospirò il Campione, avvicinandosi al
vetro che divideva l’obitorio dall’antisala. Guardava il corpo di quella
versione di Jasmine e inarcò un sopracciglio.
“È
incredibile come quella donna assomigli a Jasmine… Siamo sicuri non sia morta
proprio lei?”. Si voltò in direzione del Dexholder, in cerca di risposta.
“No” tuonò
Green. “Quella è una copia, una strana versione di lei di un altro universo.
Non riesco a essere più preciso ma è così che funziona… E poi hai detto che ci
hai parlato prima”.
Il medico
legale estrasse dal corpo della donna un cuore dalle proporzioni spropositate.
“Uò…”
sussultò Valerio. “Quello è il cuore di un bue…”.
“È
effettivamente enorme” rispose Lance.
“Non è
Jasmine” concluse infine quello dagli occhi verdi. “Jasmine è fuori da questa
stanza. Ne sono sicuro”.
Angelo
sentiva i morsi della fame, i conati di vomito e le grinfie del sonno.
“Adesso che
facciamo?” domandò.
Tutti si
rifecero al Campione, spostando lo sguardo verso di lui.
“Dobbiamo
solo aspettare, per ora non possiamo fare nulla. Riposatevi e domani indirò
un’assemblea della Lega Unificata di Kanto e Johto, per ufficializzare gli
addii e lavorare alle sostituzioni…”.
Green
sospirò, con l’angoscia che gli cresceva lentamente in corpo. “Io vado a
dormire”.
“Ne hai
bisogno” aggiunse Lance. “Vai pure e grazie per quello che avete fatto per
Johto”.
“Di nulla”
sospirò il Dexholder, aprendo la porta e sparendo oltre l’uscio.
Blue lo
aspettava in piedi, con le braccia incrociate. I suoi occhi erano stanchi e i
capelli, spettinati come non mai, le cadevano disordinati davanti al volto.
“Blue...”
sussurrò Green, avvicinandosi a lei.
Quella lo
guardò, sbuffando. “Dobbiamo andare ad aggiustarti il naso...” rispose, con lo
stesso tono basso e provato.
“Xavier
Solomon mi ha preso a pugni, sì...” fece, stanco. “Ma se vuoi puoi... puoi
andare in albergo a riposare. Senza problemi. Faccio un salto al pronto
soccorso e mi faccio raddrizzare il setto...”.
Gli occhi
della donna si chiusero e si riaprirono, sempre più stanchi. Poi si voltò, lei,
con movimenti lenti e posati, fino a sparire oltre la porta del reparto.
L’uomo
annuì, storcendo il muso.
“Faccio da
solo. Ciao”.
Johto,
Amarantopoli, Rainbow Hotel
Blue arrivò
in albergo una ventina di minuti dopo. Era stanca e confusa e l’unica cosa che
le serviva era un buon letto. Fece cenno con la mano a un bambino che la
salutava, nella hall che si stava risvegliando. Prese le chiavi alla reception
e si piazzò davanti all’ascensore, aspettando che arrivasse. Il leggero brusio
del televisore, a pochi metri da lei, stava per mandarle in corto il cervello;
necessitava di silenzio, di una bella doccia calda e di almeno dodici ore di
sonno.
L’ascensore era
tra il sesto e il quinto piano, intanto pensò all’abbraccio che Red diede a
Yellow subito dopo il suicidio di quella copia malsana di Jasmine. Forse fu una
lucida follia, quella che le stava passando per la mente, ma all’improvviso
Green non parve essere più una sua priorità.
Pensava
ancora a Red.
Rivedeva
nella mente quell’abbraccio e cercava di immedesimarsi in Yellow, provando a
raccogliere il calore di quell’abbraccio e farlo suo.
Voleva le
attenzioni di quell’uomo, e voleva finalmente scendere da quella giostra che la
stava portando al delirio. Quando poi rivide il volto di Yellow si rese conto
del fatto che lui stesse con la ragazza, la bionda buona e ingenua, sensibile e
delicata, senza malizia.
Sbuffò,
ricordò il passato e pensò che fosse stata lei a forgiare Yellow, creando la
persona che gli stava rubando le caramelle e che le mangiava deliziata.
Quando
l’ascensore aveva appena raggiunto il secondo piano, però, Blue capì che,
nonostante la sua voglia di parlare con Red, di passare il tempo assieme a lui
e rubare il suo sguardo ogni volta che potesse, non sarebbe stato giusto.
Abbassò lo
sguardo. Forse si sbagliava?
Forse
avrebbe dovuto scegliere se stessa, quella volta? Oppure avrebbe dovuto
mantenere intatta la felicità di quelle due persone?
Aveva già
creato loro dei problemi, e dopo un duro scossone quelli si erano rimessi in
carreggiata.
Forse si
stava accanendo. O Forse no.
Non lo
sapeva. E non sapeva neppure a chi chiedere, data la delicatezza della cosa. Ciò
di cui era certa al cento percento, però, era che non amava Green e che non le
pareva giusto continuare a perdere altro tempo accanto a lui, illudendolo di un
amore fittizio e vuoto, come un palloncino gonfio di parole forzate e sguardi
lascivi.
Era vuoto. E
una volta che quello se ne fosse accorto, si sarebbe reso conto d’aver perso
soltanto tempo. Poi l’ascensore arrivò, lei vi salì, senza essersi minimamente posta
il problema d’aver lasciato il suo uomo da solo all’ospedale, a farsi medicare.
Anzi, non la turbava quel pensiero. Avanzò nella cabina e premette il tasto del
suo piano, pregustando un lauto e guadagnato riposo.
Ebbe
soltanto un accenno di pensiero, più che altro un ricordo, del volto di Karen
da ragazzina, associato al suo.
“Che
illusione...”.
Aprì la
porta della camera ed entrò in bagno. Venti minuti dopo era nel letto, che
dormiva distesa sul fianco. Dava la schiena alla porta.
Non avrebbe
condiviso la sua parte del letto con nessuno.
*
Un’ora dopo
anche Green raggiunse la hall dell’albergo.
Camminava
lentamente, con la testa che gli scoppiava e il naso dolorante, fasciato dalle
mani sapienti di un’infermiera. Piccoli ematomi violacei erano spuntati al di
sotto delle orbite.
Sembrava un
pugile non in serata.
Andò al bar,
con la voglia di qualcosa che gli bruciasse le papille gustative, si sedette
allo sgabello e ordinò uno scotch. Il bartender non riuscì a non guardare
l’orologio, appurando che fossero circa le dieci del mattino.
“Certo,
signor Oak” rispose.
“Senza
ghiaccio” aggiunse quello. “E doppio”.
Pochi
secondi dopo buttò giù il drink e strinse i denti, con ancora l’intero volto
dolorante.
Il primo
pensiero andò a Furio, quindi sospirò e riversò la testa sul tavolo. Era stato
il suo maestro, gli aveva insegnato la disciplina e il modo corretto di
affrontare le situazioni, dal momento che ne aveva particolarmente bisogno dopo
la morte dei suoi genitori.
Ricordava
benissimo quei giorni in cui non sapeva scegliere contro chi urlare,
vittimizzando il nonno e sua sorella Margi per l’incidente avvenuto a mamma e
papà. Era diventato un ragazzino intrattabile, lo ammise a se stesso;
“Finitela di trattarmi tutti come un
bambino!”.
“Tu sei un bambino, Green!” urlava Margi, in preda al pianto. “E io non ti ho fatto nulla! Per quale
motivo mi urli contro?!”.
“Tu non capisci! Voi credete che
adesso tutto sia normale, vero?! È passato tempo e quindi dovrei essermi
abituato a non vedere papà rientrare in casa la sera, vero?! Non è così! Quando
la mattina mi sveglio sento ancora il profumo della mamma! Posso sentire ancora
la sua voce! Non è giusto, Margi! Non è giusto!”.
Poi aveva
tirato il lembo di una tovaglia e rovesciato l’intero pranzo addosso a sua
sorella. Margi aveva urlato, spaventata, vedendo infine suo fratello correre
fuori, in lacrime.
Si alzò,
prendendo la cornetta del telefono. Quel giorno non le venne voglia di giocare
col filo, come faceva di solito.
No.
Tre squilli,
poi qualcuno rispose.
“Betty, sono Margi! Passami subito
il nonno!”.
Green
ricordava ancor meglio il volto di suo nonno quando lo vide, in riva al mare
come faceva tutti i pomeriggi. Così pieno di rabbia e contemporaneamente
compassione.
“Hey, campione...” diceva, avvicinandosi lentamente.
Il ragazzino
odiava quella cautela. Gli pareva che tutti stessero avendo a che fare con un
pazzo suicida pronto a gettarsi da un ponte.
“Nonno... che vuoi?” aveva risposto, brusco come sempre,
da qualche mese a quella parte.
“Voglio parlare un po’ con te”.
Green si era
voltato e lo stava guardando negli occhi.
“Sai... Io ho perso una figlia, in
quest’affare. Una figlia che amavo molto e che pensavo un giorno avrebbe visto
morire me. Sai, siamo un po’ egoisti, noi genitori, su questo fatto. Certamente
nessuno augura la morte di qualcuno, qui, eh... anzi. Il posto della tua mamma,
ed anche del tuo papà a cui volevo tanto bene, sarebbe dovuto sempre essere
questo, qui, accanto a noi... tuttavia noi siamo nonni, a nostra volta mamme e
papà... e dimentichiamo che certe cose accadono. Ecco, io ho lavorato sodo per
vedere tua madre crescere, per farla studiare e appassionare a ciò che più le
piacesse. A farla innamorare del tuo papà, dannazione...” aveva sorriso poi, lentamente. Si era
seduto sulla sabbia, invitando il nipote a fare altrettanto. “Una volta che diventi abbastanza adulto,
che i tuoi figli diventano grandi e fanno a loro volta dei figli, cominci a
stendere il tappeto ad una convinzione così malsana e strampalata, e spesso
falsa: noi genitori pensiamo di morire prima di voi, figli. Perdere un caro è
sempre una cosa brutta e io ricordo
che, quando morì mia madre, avrei voluto fare le più grandi stupidaggini della
mia vita, lasciarmi andare e gettarmi tutto alle spalle, facendo finta di
nulla. E lo feci! Ci provai, Green! La nonna Aurelia aveva da poco partorito
tua madre e la zia Kylie aveva poco più di quattro anni...”.
“Tu già avevi dei figli” aveva osservato il piccolo.
“Oh, sì. Mia madre è morta quando
ero già adulto, ma perdere un caro è sempre una brutta esperienza, campione. E
feci tante stupidaggini”.
“Che facesti?”.
“Cominciai a diventare sempre più
iracondo, proprio come te adesso. Trattai male la nonna, cominciai a rincasare
tardi, rimanendo all’Osservatorio a volte anche per quarantotto ore... E alla
fine mi accorsi che avevo passato parecchio tempo arrabbiato, dando odio alle
persone che mi volevano bene. Senz’alcun motivo, per altro... Non ero più
felice e non mi stavo godendo la felicità delle mie figlie, Green. La felicità
di mia moglie. Mi serviva disciplina, e credo che serva anche a te”.
“Io già vado a scuola, nonno”.
“No” rideva Samuel Oak, divertito. “Non intendo quello. Ti manca disciplina nel
pensiero, Green. Ti manca l’abilità nel riuscire a riposizionare tutto quando
uno scossone crea disordine. Tu sei come me, il disordine c’innervosisce... Ma
non possiamo costringere le persone che ci stanno accanto a sopportarlo. Quindi
devi mettere a posto ogni cosa fuori dal proprio binario per fare in modo che
la nostra vita proceda regolare...”.
“E tu che facesti?”.
“Andai da un mio vecchio amico. Si
chiama Furio, vive a Fiordoropoli, a Johto”.
“Che schifo, Johto!” aveva esclamato il ragazzino dagli
occhi verdi.
“Hey, Green! È una regione
bellissima, piena di città meravigliose! E la nonna Aurelia era di Azalina,
pensa un po’!”.
“Azalina è a Johto?”.
Il
Professore aveva annuito. “Azalina è a
Johto, sì...”.
“E che ti fece Furio?”.
“Mi aiutò a reagire, a non venire
assalito dai miei istinti. E tornai dalla nonna e dalle mie bimbe più felice di
prima. Sai, temevo che, durante la mia assenza, qualcuno avrebbe potuto
sostituirmi accanto a loro... insomma, diventare il nuovo marito di mia moglie,
il nuovo padre delle mie figlie. Ora avresti avuto un altro nonno, per esempio”.
“Avevi paura che la nonna ti
tradisse?”.
“No” aveva risposto prontamente. “La nonna non avrebbe mai fatto una cosa del
genere... Ma io non sapevo a che
pensare, Green. E, riflettendoci ora, non sarebbe stata una cosa impossibile.
Nonostante due gravidanze, la nonna era una donna bellissima”.
Il volto di
Green s’era increspato. “Le gravidanze
sono le volte che una donna è incinta, vero?”.
“Sì, campione. E con una gravidanza il corpo
di una donna diventa più sgraziato, si modifica. La nonna Aurelia invece era
rimasta una donna parecchio appetibile...”.
“Appetibile...”.
“Bella. Significa Bella. E proprio
perché era bella dovevo aspettarmi che qualcuno me la portasse via...”.
“E invece è rimasta lì”.
“Invece è rimasta lì. Però la nonna
Aurelia era speciale. E a meno che non trovi un’altra donna come
lei, meravigliosa e piena di vita, devi stare attento con le persone. Perché,
una volta che si accorgono del disordine nella tua mente, potrebbero decidere
di andare da un’altra parte. Di abbandonarti per sempre”.
Green
accettò a malavoglia d’intraprendere lo stesso viaggio che aveva fatto suo
nonno, per ritrovare se stesso. Però, quel mattino, ordinando il terzo giro di
scotch, s’era reso conto di non esser mai riuscito totalmente a ordinare la
stanza nel quale tutto veniva sballottato qui e lì.
E Blue se
n’era accorta.
Anche lui
s’era reso conto di una cosa: l’aveva persa.
Aveva di
nuovo perso Blue.
Johto,
Amarantopoli
La riunione
era per il giorno dopo e Lance lo aveva congedato rapidamente.
Angelo aveva
percorso la strada dall’ospedale alla stazione assieme a Valerio, lasciandolo
lì e dandosi appuntamento dopo ventiquattr’ore, quando si sarebbero incontrati
tutti negli uffici dell’Altopiano Blu. Lui, Valerio, Sandra e Jasmine, ciò che
era rimasto del vecchio corpo dei Capipalestra di Johto.
Il maestro
di tipo Spettro camminava lentamente tra la gente, che lo salutava preoccupata,
stupita per gli avvenimenti delle Rovine D’Alfa e per il suo braccio, fasciato
e tenuto al collo da una banda di sostegno. Si permise di passare per qualche
minuto in Palestra, sbrigare tutte le pratiche che c’erano da organizzare e
delegare tutto a Timothy, il suo assistente.
“Mi
raccomando. Non fare errori” gli aveva detto.
“Tranquillo.
Si vada a riposare, Signor Angelo”.
Aveva
lasciato i suoi Pokémon a riposare lì, portando con sé soltanto Gengar, per
evenienza, e lentamente passeggiò per il corso, diretto verso l’Harold’s.
Quando vi
arrivò prese un’aranciata da bere per strada, dato che Cindy, a detta delle sue
cameriere, quel giorno non si era presentata.
“Stanotte
avrà fatto l’alba davanti al telegiornale, ragazze. Occupatevi voi del locale”.
“Sicuro,
Signor Angelo” aveva risposto la più grande tra le cameriere, Gwyneth, dai
lunghi capelli neri e gli occhi azzurri. Soleva portare sempre una catenina col
crocifisso; le ballava sul petto, al di sopra della divisa.
La salutò,
sorseggiò la bevanda e arrivò davanti casa, prendendo le chiavi.
Poi le
riposò, erano quelle della Palestra. Le confondeva sempre, in tasca.
Aprì la serratura
e smontò l’armatura da uomo di legge, da uomo con corsie preferenziali, da uomo
con visioni mistiche e rimaneva soltanto lui.
Soltanto un
uomo.
Sentiva il
televisore acceso, il telegiornale parlava ancora del disastro delle rovine.
Pensò che Cindy si fosse addormentata sul divano, pregando e sperando che
nessun diavolo sarebbe venuto a prenderlo quella notte. Passò prima dalla
cucina, lavò il bicchiere dell’Harold’s e lo poggiò sul bancone, quindi smontò
la fascia dai capelli e levò con attenzione la maglietta.
Entrò poi in
salone a petto nudo, con il preciso intento di svegliare Cindy e portarla a
dormire a letto.
Ma quello
che si ritrovò davanti fu l’espressione di qualcosa di cui, era certo, prima o
poi si sarebbe dovuto occupare: Xavier dormiva sul suo divano.
E Cindy, sua
moglie Cindy, era stesa accanto a lui.
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