L’alba
di un nuovo giorno iniziava la sua nascita. La luce del sole,
timidamente, spuntava con forza sempre maggiore, illuminando palazzi,
case, mura e tutto ciò che incontrava nel suo cammino. Il grande
giardino situato al centro città era ancora avvolto nella penombra,
mentre la rugiada scorreva dolcemente su foglie e fiori di alberi e
piccoli arbusti, per poi raccogliersi in minuscole pozzanghere alla base
di tronchi e steli.
La luce, calda e luminosa, andava poi riflessa dal candido bianco delle strutture, venendo riversata in ogni dove. La città si stava risvegliando, dopo una notte calma e tranquilla.
E quello sarebbe stato un risveglio particolare, come ogni settimana. Era Domenica, giorno santo della settimana nel culto del Sacro Ordine; e questo significava giorno di festa e di riposo. Ogni tipo di lavoro era proibito, in quel giorno. Fatta eccezione per i Sacerdoti: loro erano incaricati direttamente da Arceus per poter vegliare sulle vite di tutti gli abitanti del nuovo Regno, in particolare per coloro che vivevano proprio lì, ad Astoria, città nata dalle ceneri della vecchia Rupepoli. Ovviamente ampliata, modificata e resa molto più funzionale. Trovandosi sul fianco di una delle vette della Catena del Monte Corona, godeva di un’ottima vista su tutto il territorio circostante. Ogni giorno migliaia di persone entravano e uscivano dalla città, accorrendo da ogni parte di Sinnoh per poter commerciare o chiedere permessi di viaggio. Tutto quel flusso di persone richiedeva costante controllo e sicurezza, per questo erano state create le bianche mura di cinta: alte quaranta metri e spesse più della metà, circondavano l’intera città, percorrendo molti chilometri sul fianco della montagna, reso quasi piano grazie a molti anni di lavori intensi. Le imponenti mura erano sovrastate da torri da guardia, fori per l’appostamento di cecchini, cannoni da 120mm e altre armi sperimentali, come i cannoni al plasma. Come se non bastasse, potenti Pokémon Drago sorvolavano costantemente il perimetro esterno, con uomini sempre pronti a combattere.
Per questo, molta della gente che era costretta a introdursi nella città, camminava con costante terrore e paura di venir catturati per un qualsiasi motivo o per un semplice capriccio di una delle guardie.
Uno stormo di Staraptor si levò in aria quando risuonarono le enormi campane della costruzione più grande e imponente dell’intera città. Situata nel cuore della vita cittadina, si ergeva l’enorme tempio di Arceus, sormontato dall’altissima Torre Bianca, dove dimorava Sua Santità in persona. Le pareti completamente lisce, eccezion fatta per le incisioni in onore di Arceus che la percorrevano in tutta la sua lunghezza, giungendo fino in cima, dove si ergevano quattro pilastri ai quattro punti cardinali, stagliati verso il cielo, come una mano che prova ad aggrapparsi a una sporgenza. Quello era il luogo dove Sua Santità si dirigeva, per poter parlare con le Divinità per comprendere il loro volere. La Torre Bianca, coi suoi settanta metri di diametro e oltre trecento di altezza, era il simbolo dell’Ordine. Grazie a essa, Astoria veniva anche chiamata “La Città Bianca”. Ed effettivamente sembrava un faro di luce, in contrasto con la spoglia e scura roccia su cui era costruita.
La città si era svegliata, la campana delle sette risuonava nell’aria e il cancello, unica via d’accesso alla città, veniva aperto grazie alla forza combinata di varie decine di Aggron.
Il turno di guardia finiva mentre centinaia di Sacerdoti percorrevano in lungo e in largo le grandi mura della città e i primi rumori della vita cittadina si innalzavano nell’aria.
Quasi nello stesso istante, Madame Carol stava aprendo la porta della stanza della sua ragazza. Era dalla nascita della piccola che lei se ne occupava come fosse sua figlia, nonostante non avesse alcun tipo di parentela con la ragazza. Dal giorno in cui i Sacerdoti l’avevano amichevolmente convinta ad adempire al lavoro per cui volevano assumerla, lei aveva indossato i vestiti da balia e dedicava giorno e notte a quella ragazza. Nonostante i ritmi serrati e l’orribile divisa completamente bianca, poteva dire di essere fortunata a svolgere quella vita.
Guardò l’orologio, appeso sul grande letto a due piazze dove dormiva la sua protetta, che segnava appena le sette e dieci.
- Sveglia, Alice, non farti chiamare una seconda volta – disse lei, diretta alla ragazza avvolta nelle coperte come un involtino primavera.
Ricevette, come ogni mattina, un lungo lamento mozzato in gola, come di un motore che fa fatica ad avviarsi.
Madame Carol, come ogni mattina, si avvicinò alle enormi finestre, scostando le tende spesse e pesanti, facendo così entrare i primi raggi di sole, ancora deboli e timidi della notte passata.
In pochi attimi la penombra color amaranto lasciò il posto al chiarore del sole.
- Tende nuove, vedo. Quelle rosa non erano meglio, tesoro?
La ragazza si rigirò nel letto, facendo cadere uno dei cuscini e sradicando le coperte dal lato sinistro del letto, per avvolgersi meglio al loro interno.
- Non mi piace più il rosa da quanto avevo dieci anni – bofonchiò Alice, soffocando sempre più a fondo nel materasso.
- E come mai non le hai mai cambiate?
- … Pigrizia. Semplice.
- Già, ma che ne dici di metterla da parte, almeno oggi? So che tuo padre si arrabbierà molto se dovessi arrivare di nuovo in ritardo. Sai che ti vuole al tuo posto. E so già anche quali proteste stai per farmi, quindi risparmiati. In piedi, forza – e mentre parlava, smuoveva mobili, apriva ante e infine tolse parte delle coperte che coprivano il corpo della ragazza.
- Alle otto devi trovarti in cucina, stamattina ho intenzione di fare colazione con te, quindi non tardare. Hai quarantotto minuti.
Alice non fece in tempo a rispondere, che Madame Carol era già uscita dalla stanza, chiudendo la porta alle sue spalle.
Lei con sforzo sovraumano si mise a sedere sul letto. Aveva gli occhi ancora completamente chiusi, le coperte che ricoprivano il ruolo di mantello e la chioma che sembrava essere passata attraverso tre guerre civili e un’epidemia di colera. Fece un altro sforzo, alzandosi dal letto. Separarsi dal caldo delle coperte fu un dolore atroce per lei, mentre si dirigeva verso il bagno, strisciando i piedi.
Camminava senza ancora riuscire a vedere completamente, quando andò a sbattere con il ginocchio contro uno dei mobili della stanza.
- Porca troia che male… Tu non avvisarmi eh, Gallade. So che sei sveglio, infame – la ragazza si girò verso il punto in cui si trovava il tappeto su cui il suo Pokémon amava riposare.
Non lo aveva mai visto dormire veramente, sembrava limitarsi a sedersi a gambe incrociate e meditare, fissando un punto nel vuoto o con gli occhi persi dietro le pupille.
Lui ricambiò uno sguardo gelido e privo di emozioni, come ogni mattina. Rimase nella sua posizione, continuando a fissare un punto non ben definito della stanza.
Alice, adesso un po’ più sveglia, si diresse verso il suo armadio della biancheria, col pantalone del pigiama tutto arrotolato attorno alle gambe e la spallina sinistra della maglietta che gli cascava sul lato, lasciando intravedere le sue forme femminili. Prese il necessario, assieme alla sua spazzola preferita, che utilizzava fin da piccola, e poi si diresse finalmente verso il bagno.
Aprì immediatamente la manopola dell’acqua calda della doccia, lasciandole il tempo di scaldarsi. Nel frattempo liberò la sua vescica dalla pressione della notte passata e preparò bagnoschiuma, shampoo e balsamo. Aprì nuovamente la porta in vetro opaco che permetteva l’ingresso nel piatto doccia, per tastare il calore dell’acqua. La trovò bollente come un fiume di lava, come piaceva a lei.
Sorrise.
Si liberò dei vestiti della notte, lanciandoli verso il cestino degli indumenti sporchi.
- LeBron! – urlò a se stessa, quando fece canestro con la maglietta.
Una volta finito venne immediatamente raggiunta da un brivido di freddo e decise quindi di non indugiare oltre e di fiondarsi all’interno della doccia.
L’interno era già pieno di vapore, generato dai getti dei tre grossi soffioni che spuntavano dal tetto del box doccia. Non aveva mai capito perché servisse una doccia tanto grande, però le piaceva. Il calore all’interno era paragonabile solo a quello generato dal caldo abbraccio del letto. Inoltre, il vapore generato era tale da nascondere qualsiasi cosa agli occhi indiscreti. Le era sempre piaciuto quel particolare. L’essere nascosta, in qualche modo, la faceva sentire al sicuro.
Circa venti minuti dopo Alice fuoriusciva dalla doccia. Mise l’accappatoio e andò dritta verso il lavello, su cui era montato il grande specchio del suo bagno. Si asciugò con cura, tralasciando per il momento i suoi capelli. Attaccò il phon alla presa elettrica e diresse il suo getto sullo stomaco, assorbendo quanto più calore possibile. Nel mentre, fissò lo specchio, completamente ricoperto di vapore.
Indirizzò il phon nella sua direzione, puntandolo al centro dello specchio, per liberarlo dal vapore. Un senso di soddisfazione apparve sul suo viso quando, dopo poco, iniziava ad aprirsi uno squarcio nella tenda di vapore acqueo. Poco dopo, aveva liberato tutto lo specchio, giocando con i vari punti ancora occupati dal vapore. Fu in quel momento che la sua immagine fu libera di essere riflessa dal vetro, seppur ancora umido.
Alice vedeva i suoi lunghi capelli rossi, d’una tonalità molto scura e intensa, simile al rosso rame, scendere appiccicati al suo corpo, per poi finire sull’asciugamano che portava avvolta attorno al seno. Pensò che in quello stato non rendevano molto, in quanto il loro colore era alterato dalla forma presa a causa dell’acqua. Si diede da fare col phon, impiegando molto del suo tempo rimanente per poterli asciugare e portare nella forma migliore possibile. Anche se ne era contraria, quello era il giorno di festa e avrebbe fatto meglio a rendersi il più presentabile possibile, oppure il suo padre adottivo si sarebbe arrabbiato e non aveva alcuna voglia di perdere tempo a discutere inutilmente con lui. Quindi fece del suo meglio, pettinando i capelli per poi farli ricadere, come sempre, sulle sue spalle. Dato che erano lisci e senza il minimo ricciolo, lei ne approfittava per lasciarli vivere la vita propria, senza perdere ore e ore ad acconciarli. Nessuna pettinatura bizzarra, a lei andavano benissimo così. Le piacevano i suoi capelli lisci.
Una volta finito, uscì dal bagno per ritornare nella sua stanza da letto. Gallade era ancora immobile nella sua posizione, solo che adesso levitava a circa mezzo metro da terra, con gli occhi chiusi, come sempre.
Alice non ci fece molto caso e si diresse verso il suo grande armadio. Ne trasse una semplice camicia a maniche lunghe, bianca, con una gonna che arrivava sotto al ginocchio, rosso scarlatto con grandi pois bianchi a cui abbinò il colore delle sue scarpe che avevano giusto un paio di centimetri di tacco, come sempre. Concluse il tutto riprendendo i suoi occhiali con le lenti belle grandi e color blu scuro, senza altri particolari o artifizi. Li pulì usando il tessuto della gonna e se li mise sul naso, nascondendo in parte le lentiggini che le riempivano la parte di viso fra gli zigomi e gli occhi. Non erano poi così tante, ma lei non le sopportava e quindi preferiva nasconderne il più possibile.
Si diede una rapida occhiata nello specchio appeso di fianco alla grande finestra, prima di decidere di essere presentabile. Alice si diresse verso di Gallade, il quale stava ancora fluttuando a mezz’aria, in trance. Una lieve aura viola ne circondava il corpo, inspessendosi in prossimità delle lame sulle braccia del Pokémon.
Lei gli diede un bacio sulla guancia, appena accennato, ma abbastanza da fargli perdere la concentrazione e cadere per terra.
Ma Gallade era addestrato, e al minimo contatto col terreno, balzò di lato, coprendosi il volto con le braccia, pronto a contrattaccare.
- Tranquillo, sono io. Volevo solo dirti che scendo nelle cucine a mangiare, se vuoi venire – disse lei, cercando di trattenere una risata.
Gallade si ricompose, riassumendo quell’aria di calma glaciale che circondava sempre il Pokémon.
Acconsentì con un minimo e inavvertibile movimento del capo, per poi ritornare una statua di pietra.
- Allora andiamo – disse Alice, aprendo la porta che dava sul corridoio del piano ottantotto della Torre Bianca.
Come sempre, le due guardie poste a vegliare sul suo riposo, si trovavano fuori dalla sua stanza.
- Salve, Kal e Kalin.
- Buongiorno, signorina – risposero quelli, quasi in coro.
- Vi ho detto un sacco di volte di chiamarmi Alice, anche se Lui non vuole. Se proprio dovete perdere tempo controllandomi, chiamatemi pure per nome.
- Come desidera, Alice – Kal fece l’occhiolino nell’esprimere l’ultima parola.
- Parli per entrambi, Kal?
- Certo, Miss. Sono il più grande fra noi fratelli, la mia parola vale per tutti.
- Più grande solo di dodici minuti – aggiunse il suo gemello, colpendolo con il piccolo scudo espandibile, posto sull’avambraccio sinistro.
- Sono comunque più grande, non discutere. Faresti piangere la mamma.
- Ti odio quando la metti in mezzo.
- Quanto siete carini – Alice rise di gusto – Vorrei avere anche io un fratello con cui parlare.
- Non è per niente bello – risposero all’unisono, come facevano quasi sempre.
I tre, seguiti da Gallade, si incamminarono per i vari corridoi, giungendo infine all’ascensore che portava ai piani inferiori. Nel passare davanti alle grandi finestre, il sole colpiva forte le armature delle due sentinelle, facendone risplendere il colore bianco e oro, unito al biondo dei loro capelli.
Alice fu costretta a salutare diverse persone durante l’ultimo pezzo del loro tragitto. Riusciva a sentire il disagio di Gallade, non era affatto entusiasta quando qualcuno si avvicinava troppo alla sua allenatrice. A causa di ciò che era capitato a entrambi in passato, era molto protettivo.
Non si fidava di nessuno, se non di Madame Carol.
Kal e Kalin camminavano ora in silenzio, alle immediate spalle di Alice; in presenza di altre persone era meglio non andare fuori dal personaggio.
Qualunque uomo appartenente al loro Ordine ne era consapevole: una volta entrati a far parte dell’Ordine di Kyurem, l’élite dell’élite delle guardie fra i Sacerdoti, bisognava seguire regole rigide e ordini ben precisi. Non era ammesso sbagliare, in quanto loro erano la rappresentazione fisica della volontà di Sua Santità, e quindi della volontà divina.
Nonostante la loro dedizione e il loro giuramento di fedeltà verso Sua Santità, Gallade non si fidava di loro, e camminava in perenne allerta, pronto a balzare su di loro e metterli fuori combattimento o, se necessario, ucciderli per proteggere Alice. Il suo primo allenatore gli aveva dato quel compito, e lui non intendeva deluderlo. Alice era la sua sola famiglia, e in famiglia ci si aiuta sempre.
Quindi preferiva restare sempre all’erta, soprattutto quando non si trovava in solitudine con la sua allenatrice.
Poco dopo, erano finalmente giunti nella sala da colazione privata di Sua Santità, dove quel giorno lei avrebbe dovuto consumare il primo pasto della giornata, circondata da persone illustri e, ovviamente, Madame Carol.
- Grazie mille del passaggio, Doppia-K – chiamò così i gemelli, come era solita fare.
- Immagino che dovrete aspettare qui fuori, stavolta. Non penso che il mio patrigno sia favorevole al far mangiare due guardie assieme a tutti quei personaggi importanti.
- No, Miss, a noi non è consentito. Resteremo qui fuori, qualsiasi cosa succeda basterà dire la parola d’emergenza e noi saremo subito da lei. Se la ricorda, giusto? – chiese Kal
- Pineapples! – disse ad alta voce Alice, soddisfatta della sua idea.
- Perfetto, Miss, allora – disse Kalin
- Buona colazione – concluse Kal.
Alice si accomiatò dalle sue guardie del corpo, per poi avvicinarsi alla porta. Fece un profondo respiro e la spalancò lentamente, facendo scricchiolare l’anima in legno della porta.
Entro, e Gallade fu subito dietro di lei.
All’istante la sala calò nel più tetro silenzio. Nessuno osava parlare per primo, sapendo che Lui ci avrebbe tenuto a darle il buon giorno per primo.
Lui la guardò un istante, riempiendo il suo cuore del viso di lei.
- B-buon giorno a t-tutti – disse Alice, timidamente e completamente a disagio per la situazione.
Odiava queste situazioni.
- Finalmente mia figlia è qui! Che la colazione abbia inizio! – esordì, entusiasta, Sua Santità.
Alice venne accompagnata al suo fianco, prendendo posto alla destra del padrigno.
Gallade, nonostante gli venisse detto da camerieri e servitori che quello era un posto a lui chiuso, non batté ciglio e rimase in piedi, dietro la sedia di Alice.
Quando vide la tensione crescere sul suo volto, appoggiò una mano sulla spalla della sua protetta, cogliendone il ripudio verso la figura del patrigno.
Gallade fissò il volto di Sua Santità, con sguardo vitreo.
Sì, lo odiava con tutto se stesso.
La luce, calda e luminosa, andava poi riflessa dal candido bianco delle strutture, venendo riversata in ogni dove. La città si stava risvegliando, dopo una notte calma e tranquilla.
E quello sarebbe stato un risveglio particolare, come ogni settimana. Era Domenica, giorno santo della settimana nel culto del Sacro Ordine; e questo significava giorno di festa e di riposo. Ogni tipo di lavoro era proibito, in quel giorno. Fatta eccezione per i Sacerdoti: loro erano incaricati direttamente da Arceus per poter vegliare sulle vite di tutti gli abitanti del nuovo Regno, in particolare per coloro che vivevano proprio lì, ad Astoria, città nata dalle ceneri della vecchia Rupepoli. Ovviamente ampliata, modificata e resa molto più funzionale. Trovandosi sul fianco di una delle vette della Catena del Monte Corona, godeva di un’ottima vista su tutto il territorio circostante. Ogni giorno migliaia di persone entravano e uscivano dalla città, accorrendo da ogni parte di Sinnoh per poter commerciare o chiedere permessi di viaggio. Tutto quel flusso di persone richiedeva costante controllo e sicurezza, per questo erano state create le bianche mura di cinta: alte quaranta metri e spesse più della metà, circondavano l’intera città, percorrendo molti chilometri sul fianco della montagna, reso quasi piano grazie a molti anni di lavori intensi. Le imponenti mura erano sovrastate da torri da guardia, fori per l’appostamento di cecchini, cannoni da 120mm e altre armi sperimentali, come i cannoni al plasma. Come se non bastasse, potenti Pokémon Drago sorvolavano costantemente il perimetro esterno, con uomini sempre pronti a combattere.
Per questo, molta della gente che era costretta a introdursi nella città, camminava con costante terrore e paura di venir catturati per un qualsiasi motivo o per un semplice capriccio di una delle guardie.
Uno stormo di Staraptor si levò in aria quando risuonarono le enormi campane della costruzione più grande e imponente dell’intera città. Situata nel cuore della vita cittadina, si ergeva l’enorme tempio di Arceus, sormontato dall’altissima Torre Bianca, dove dimorava Sua Santità in persona. Le pareti completamente lisce, eccezion fatta per le incisioni in onore di Arceus che la percorrevano in tutta la sua lunghezza, giungendo fino in cima, dove si ergevano quattro pilastri ai quattro punti cardinali, stagliati verso il cielo, come una mano che prova ad aggrapparsi a una sporgenza. Quello era il luogo dove Sua Santità si dirigeva, per poter parlare con le Divinità per comprendere il loro volere. La Torre Bianca, coi suoi settanta metri di diametro e oltre trecento di altezza, era il simbolo dell’Ordine. Grazie a essa, Astoria veniva anche chiamata “La Città Bianca”. Ed effettivamente sembrava un faro di luce, in contrasto con la spoglia e scura roccia su cui era costruita.
La città si era svegliata, la campana delle sette risuonava nell’aria e il cancello, unica via d’accesso alla città, veniva aperto grazie alla forza combinata di varie decine di Aggron.
Il turno di guardia finiva mentre centinaia di Sacerdoti percorrevano in lungo e in largo le grandi mura della città e i primi rumori della vita cittadina si innalzavano nell’aria.
Quasi nello stesso istante, Madame Carol stava aprendo la porta della stanza della sua ragazza. Era dalla nascita della piccola che lei se ne occupava come fosse sua figlia, nonostante non avesse alcun tipo di parentela con la ragazza. Dal giorno in cui i Sacerdoti l’avevano amichevolmente convinta ad adempire al lavoro per cui volevano assumerla, lei aveva indossato i vestiti da balia e dedicava giorno e notte a quella ragazza. Nonostante i ritmi serrati e l’orribile divisa completamente bianca, poteva dire di essere fortunata a svolgere quella vita.
Guardò l’orologio, appeso sul grande letto a due piazze dove dormiva la sua protetta, che segnava appena le sette e dieci.
- Sveglia, Alice, non farti chiamare una seconda volta – disse lei, diretta alla ragazza avvolta nelle coperte come un involtino primavera.
Ricevette, come ogni mattina, un lungo lamento mozzato in gola, come di un motore che fa fatica ad avviarsi.
Madame Carol, come ogni mattina, si avvicinò alle enormi finestre, scostando le tende spesse e pesanti, facendo così entrare i primi raggi di sole, ancora deboli e timidi della notte passata.
In pochi attimi la penombra color amaranto lasciò il posto al chiarore del sole.
- Tende nuove, vedo. Quelle rosa non erano meglio, tesoro?
La ragazza si rigirò nel letto, facendo cadere uno dei cuscini e sradicando le coperte dal lato sinistro del letto, per avvolgersi meglio al loro interno.
- Non mi piace più il rosa da quanto avevo dieci anni – bofonchiò Alice, soffocando sempre più a fondo nel materasso.
- E come mai non le hai mai cambiate?
- … Pigrizia. Semplice.
- Già, ma che ne dici di metterla da parte, almeno oggi? So che tuo padre si arrabbierà molto se dovessi arrivare di nuovo in ritardo. Sai che ti vuole al tuo posto. E so già anche quali proteste stai per farmi, quindi risparmiati. In piedi, forza – e mentre parlava, smuoveva mobili, apriva ante e infine tolse parte delle coperte che coprivano il corpo della ragazza.
- Alle otto devi trovarti in cucina, stamattina ho intenzione di fare colazione con te, quindi non tardare. Hai quarantotto minuti.
Alice non fece in tempo a rispondere, che Madame Carol era già uscita dalla stanza, chiudendo la porta alle sue spalle.
Lei con sforzo sovraumano si mise a sedere sul letto. Aveva gli occhi ancora completamente chiusi, le coperte che ricoprivano il ruolo di mantello e la chioma che sembrava essere passata attraverso tre guerre civili e un’epidemia di colera. Fece un altro sforzo, alzandosi dal letto. Separarsi dal caldo delle coperte fu un dolore atroce per lei, mentre si dirigeva verso il bagno, strisciando i piedi.
Camminava senza ancora riuscire a vedere completamente, quando andò a sbattere con il ginocchio contro uno dei mobili della stanza.
- Porca troia che male… Tu non avvisarmi eh, Gallade. So che sei sveglio, infame – la ragazza si girò verso il punto in cui si trovava il tappeto su cui il suo Pokémon amava riposare.
Non lo aveva mai visto dormire veramente, sembrava limitarsi a sedersi a gambe incrociate e meditare, fissando un punto nel vuoto o con gli occhi persi dietro le pupille.
Lui ricambiò uno sguardo gelido e privo di emozioni, come ogni mattina. Rimase nella sua posizione, continuando a fissare un punto non ben definito della stanza.
Alice, adesso un po’ più sveglia, si diresse verso il suo armadio della biancheria, col pantalone del pigiama tutto arrotolato attorno alle gambe e la spallina sinistra della maglietta che gli cascava sul lato, lasciando intravedere le sue forme femminili. Prese il necessario, assieme alla sua spazzola preferita, che utilizzava fin da piccola, e poi si diresse finalmente verso il bagno.
Aprì immediatamente la manopola dell’acqua calda della doccia, lasciandole il tempo di scaldarsi. Nel frattempo liberò la sua vescica dalla pressione della notte passata e preparò bagnoschiuma, shampoo e balsamo. Aprì nuovamente la porta in vetro opaco che permetteva l’ingresso nel piatto doccia, per tastare il calore dell’acqua. La trovò bollente come un fiume di lava, come piaceva a lei.
Sorrise.
Si liberò dei vestiti della notte, lanciandoli verso il cestino degli indumenti sporchi.
- LeBron! – urlò a se stessa, quando fece canestro con la maglietta.
Una volta finito venne immediatamente raggiunta da un brivido di freddo e decise quindi di non indugiare oltre e di fiondarsi all’interno della doccia.
L’interno era già pieno di vapore, generato dai getti dei tre grossi soffioni che spuntavano dal tetto del box doccia. Non aveva mai capito perché servisse una doccia tanto grande, però le piaceva. Il calore all’interno era paragonabile solo a quello generato dal caldo abbraccio del letto. Inoltre, il vapore generato era tale da nascondere qualsiasi cosa agli occhi indiscreti. Le era sempre piaciuto quel particolare. L’essere nascosta, in qualche modo, la faceva sentire al sicuro.
Circa venti minuti dopo Alice fuoriusciva dalla doccia. Mise l’accappatoio e andò dritta verso il lavello, su cui era montato il grande specchio del suo bagno. Si asciugò con cura, tralasciando per il momento i suoi capelli. Attaccò il phon alla presa elettrica e diresse il suo getto sullo stomaco, assorbendo quanto più calore possibile. Nel mentre, fissò lo specchio, completamente ricoperto di vapore.
Indirizzò il phon nella sua direzione, puntandolo al centro dello specchio, per liberarlo dal vapore. Un senso di soddisfazione apparve sul suo viso quando, dopo poco, iniziava ad aprirsi uno squarcio nella tenda di vapore acqueo. Poco dopo, aveva liberato tutto lo specchio, giocando con i vari punti ancora occupati dal vapore. Fu in quel momento che la sua immagine fu libera di essere riflessa dal vetro, seppur ancora umido.
Alice vedeva i suoi lunghi capelli rossi, d’una tonalità molto scura e intensa, simile al rosso rame, scendere appiccicati al suo corpo, per poi finire sull’asciugamano che portava avvolta attorno al seno. Pensò che in quello stato non rendevano molto, in quanto il loro colore era alterato dalla forma presa a causa dell’acqua. Si diede da fare col phon, impiegando molto del suo tempo rimanente per poterli asciugare e portare nella forma migliore possibile. Anche se ne era contraria, quello era il giorno di festa e avrebbe fatto meglio a rendersi il più presentabile possibile, oppure il suo padre adottivo si sarebbe arrabbiato e non aveva alcuna voglia di perdere tempo a discutere inutilmente con lui. Quindi fece del suo meglio, pettinando i capelli per poi farli ricadere, come sempre, sulle sue spalle. Dato che erano lisci e senza il minimo ricciolo, lei ne approfittava per lasciarli vivere la vita propria, senza perdere ore e ore ad acconciarli. Nessuna pettinatura bizzarra, a lei andavano benissimo così. Le piacevano i suoi capelli lisci.
Una volta finito, uscì dal bagno per ritornare nella sua stanza da letto. Gallade era ancora immobile nella sua posizione, solo che adesso levitava a circa mezzo metro da terra, con gli occhi chiusi, come sempre.
Alice non ci fece molto caso e si diresse verso il suo grande armadio. Ne trasse una semplice camicia a maniche lunghe, bianca, con una gonna che arrivava sotto al ginocchio, rosso scarlatto con grandi pois bianchi a cui abbinò il colore delle sue scarpe che avevano giusto un paio di centimetri di tacco, come sempre. Concluse il tutto riprendendo i suoi occhiali con le lenti belle grandi e color blu scuro, senza altri particolari o artifizi. Li pulì usando il tessuto della gonna e se li mise sul naso, nascondendo in parte le lentiggini che le riempivano la parte di viso fra gli zigomi e gli occhi. Non erano poi così tante, ma lei non le sopportava e quindi preferiva nasconderne il più possibile.
Si diede una rapida occhiata nello specchio appeso di fianco alla grande finestra, prima di decidere di essere presentabile. Alice si diresse verso di Gallade, il quale stava ancora fluttuando a mezz’aria, in trance. Una lieve aura viola ne circondava il corpo, inspessendosi in prossimità delle lame sulle braccia del Pokémon.
Lei gli diede un bacio sulla guancia, appena accennato, ma abbastanza da fargli perdere la concentrazione e cadere per terra.
Ma Gallade era addestrato, e al minimo contatto col terreno, balzò di lato, coprendosi il volto con le braccia, pronto a contrattaccare.
- Tranquillo, sono io. Volevo solo dirti che scendo nelle cucine a mangiare, se vuoi venire – disse lei, cercando di trattenere una risata.
Gallade si ricompose, riassumendo quell’aria di calma glaciale che circondava sempre il Pokémon.
Acconsentì con un minimo e inavvertibile movimento del capo, per poi ritornare una statua di pietra.
- Allora andiamo – disse Alice, aprendo la porta che dava sul corridoio del piano ottantotto della Torre Bianca.
Come sempre, le due guardie poste a vegliare sul suo riposo, si trovavano fuori dalla sua stanza.
- Salve, Kal e Kalin.
- Buongiorno, signorina – risposero quelli, quasi in coro.
- Vi ho detto un sacco di volte di chiamarmi Alice, anche se Lui non vuole. Se proprio dovete perdere tempo controllandomi, chiamatemi pure per nome.
- Come desidera, Alice – Kal fece l’occhiolino nell’esprimere l’ultima parola.
- Parli per entrambi, Kal?
- Certo, Miss. Sono il più grande fra noi fratelli, la mia parola vale per tutti.
- Più grande solo di dodici minuti – aggiunse il suo gemello, colpendolo con il piccolo scudo espandibile, posto sull’avambraccio sinistro.
- Sono comunque più grande, non discutere. Faresti piangere la mamma.
- Ti odio quando la metti in mezzo.
- Quanto siete carini – Alice rise di gusto – Vorrei avere anche io un fratello con cui parlare.
- Non è per niente bello – risposero all’unisono, come facevano quasi sempre.
I tre, seguiti da Gallade, si incamminarono per i vari corridoi, giungendo infine all’ascensore che portava ai piani inferiori. Nel passare davanti alle grandi finestre, il sole colpiva forte le armature delle due sentinelle, facendone risplendere il colore bianco e oro, unito al biondo dei loro capelli.
Alice fu costretta a salutare diverse persone durante l’ultimo pezzo del loro tragitto. Riusciva a sentire il disagio di Gallade, non era affatto entusiasta quando qualcuno si avvicinava troppo alla sua allenatrice. A causa di ciò che era capitato a entrambi in passato, era molto protettivo.
Non si fidava di nessuno, se non di Madame Carol.
Kal e Kalin camminavano ora in silenzio, alle immediate spalle di Alice; in presenza di altre persone era meglio non andare fuori dal personaggio.
Qualunque uomo appartenente al loro Ordine ne era consapevole: una volta entrati a far parte dell’Ordine di Kyurem, l’élite dell’élite delle guardie fra i Sacerdoti, bisognava seguire regole rigide e ordini ben precisi. Non era ammesso sbagliare, in quanto loro erano la rappresentazione fisica della volontà di Sua Santità, e quindi della volontà divina.
Nonostante la loro dedizione e il loro giuramento di fedeltà verso Sua Santità, Gallade non si fidava di loro, e camminava in perenne allerta, pronto a balzare su di loro e metterli fuori combattimento o, se necessario, ucciderli per proteggere Alice. Il suo primo allenatore gli aveva dato quel compito, e lui non intendeva deluderlo. Alice era la sua sola famiglia, e in famiglia ci si aiuta sempre.
Quindi preferiva restare sempre all’erta, soprattutto quando non si trovava in solitudine con la sua allenatrice.
Poco dopo, erano finalmente giunti nella sala da colazione privata di Sua Santità, dove quel giorno lei avrebbe dovuto consumare il primo pasto della giornata, circondata da persone illustri e, ovviamente, Madame Carol.
- Grazie mille del passaggio, Doppia-K – chiamò così i gemelli, come era solita fare.
- Immagino che dovrete aspettare qui fuori, stavolta. Non penso che il mio patrigno sia favorevole al far mangiare due guardie assieme a tutti quei personaggi importanti.
- No, Miss, a noi non è consentito. Resteremo qui fuori, qualsiasi cosa succeda basterà dire la parola d’emergenza e noi saremo subito da lei. Se la ricorda, giusto? – chiese Kal
- Pineapples! – disse ad alta voce Alice, soddisfatta della sua idea.
- Perfetto, Miss, allora – disse Kalin
- Buona colazione – concluse Kal.
Alice si accomiatò dalle sue guardie del corpo, per poi avvicinarsi alla porta. Fece un profondo respiro e la spalancò lentamente, facendo scricchiolare l’anima in legno della porta.
Entro, e Gallade fu subito dietro di lei.
All’istante la sala calò nel più tetro silenzio. Nessuno osava parlare per primo, sapendo che Lui ci avrebbe tenuto a darle il buon giorno per primo.
Lui la guardò un istante, riempiendo il suo cuore del viso di lei.
- B-buon giorno a t-tutti – disse Alice, timidamente e completamente a disagio per la situazione.
Odiava queste situazioni.
- Finalmente mia figlia è qui! Che la colazione abbia inizio! – esordì, entusiasta, Sua Santità.
Alice venne accompagnata al suo fianco, prendendo posto alla destra del padrigno.
Gallade, nonostante gli venisse detto da camerieri e servitori che quello era un posto a lui chiuso, non batté ciglio e rimase in piedi, dietro la sedia di Alice.
Quando vide la tensione crescere sul suo volto, appoggiò una mano sulla spalla della sua protetta, cogliendone il ripudio verso la figura del patrigno.
Gallade fissò il volto di Sua Santità, con sguardo vitreo.
Sì, lo odiava con tutto se stesso.
- Hancock
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