20. Rovine
Sinnoh,
Evopoli, Casa di Gardenia
La neve
quella mattina s’appoggiava debole sui tetti già candidi della città. Talvolta
scivolava giù ma lo faceva di rado, cadendo in mucchi grossi e piccoli e
inondando i vialetti delle villette a schiera di Coronet Street. Evopoli era
una bomboniera, soprattutto in inverno, quando una mano di bianco donava
eleganza a quella perla tra due valve fatte di boschi e montagne.
La prima
casa di Coronet Street, o l’ultima se si procedeva dal senso opposto, era quella
della Capopalestra di quel luogo meraviglioso, Gardenia.
Il suo
programma quotidiano era parecchio duro dato che, essendo una figura importante
per l’intera città, doveva essere costantemente sul pezzo. Quindi sveglia
all’alba, indossava una tuta e scendeva in cantina, che aveva sapientemente
trasformato in palestra personale. Lei e i suoi Pokémon cominciavano con un’ora
di esercizi, fino a quando l’orologio non segnasse chiaramente che fossero le
sette. Una volta finiti gli allenamenti si spogliava e si lavava velocemente,
quindi si asciugava, piastrava i capelli e indossava quella fascia nera che le
permetteva di tenere i ciuffi ribelli lontani dagli occhi.
Mangiava due
frutti e alle nove era già nei suoi uffici, nella Palestra che si trovava
proprio al centro della città.
E lavorava,
lavorava duramente, almeno fino a mezzogiorno. Se aveva l’opportunità di
uscire, cioè, se in quel momento non stava lottando contro qualche sfidante,
evadeva per cinque minuti, si sgranchiva le gambe e prendeva un caffè al bar della
strada di fronte. Ma poco dopo era di nuovo la Capopalestra, sistemava la
fascia nei capelli e tornava al lavoro. Fino alle quattordici, quando aveva
un’ora per mangiare.
Preferiva
farlo al sole, cosicché i suoi Pokémon si nutrissero con lei. Del resto era
entrata in simbiosi con quelle creature d’erba; erano con lei per la maggior
parte della sua giornata.
Alle
quindici era di nuovo in Palestra e smontava alle diciotto. Passava per il
supermercato, comprava una baguette e delle verdure, più qualcosa da cucinare
come portata principale.
Si divertiva
a fare la spesa, poteva ascoltare le sue necessità e dare importanza ai suoi
vizi.
Tornava poi
a casa, infilava nuovamente la tuta e correva per un’altra oretta sul suo
tapis-roulant, prima di farsi un bagno rilassante di almeno mezz’ora, con le
candele accese e gli oli profumati a creare un’atmosfera piacevole.
Si asciugava
nuovamente, infilava il pigiama e cucinava mentre ascoltava il radiogiornale.
Soleva mangiare ascoltando un po’ di musica rilassante quindi, a giorni
alterni, leggeva un buon libro o vedeva un film alla televisione.
Alle
ventitre esatte era nel suo letto, e dormiva.
La vita
della bella Capopalestra era questa, sostanzialmente. Doveri e piacere riuniti
in ventiquattro ore.
Ma se nevicava
tutto saltava.
I suoi
programmi erano rigorosamente per un clima dove il sole, al massimo la pioggia,
baciavano il suo mondo.
La neve non
era contemplata tra le possibilità.
Da qualche
mese a quella parte Marisio si era trasferito da lei. Ormai si frequentavano da
un po’ di tempo e gli obblighi professionali della donna avevano costretto il
ricco Allenatore ad allontanarsi da Canalipoli, dove viveva, muovendosi verso
est.
E a Gardenia
faceva piacere. Non solo perché le piacesse la compagnia, in particolare quella
di quell’uomo, ma anche perché con lui poteva riempire in maniera più
divertente i vuoti delle sue giornate.
Capitava
spesso che si allenassero assieme.
Anche la
doccia la facevano assieme.
Verso ora di
pranzo lui portava il cibo alla Palestra, e mangiavano assieme fino a quando
lei non rientrava. A fine turno lui era lì, a controllare che tutte le finestre
fossero chiuse.
Andavano poi
al supermercato assieme, facevano la spesa, si allenavano e facevano un’altra
doccia.
Poi
mangiavano e guardavano un programma in tv.
O magari
facevano un’altra doccia.
Insomma, la
vita di Gardenia era rimasta sostanzialmente la stessa. Era cambiata soltanto
la sua attività sessuale, oltre al pigiama, più elegante e sexy di quello che
soleva indossare.
La routine
però quel mattino fu sconvolta. Quando si svegliò quel mattino, l’orologio
segnava le quattro e quarantaquattro. Era in anticipo rispetto alla tabella di
marcia.
Marisio si
scoprì leggermente ma sapeva che Gardenia si sarebbe svegliata non appena
avesse mosso le coperte, e infatti così fu.
“Già te ne
vai?” domandò lei, con voce compressa. Accese la luce, stringendo subito le
palpebre non appena il bulbo s’illuminò.
“Sì, devo
arrivare rapidamente a Giubilopoli. Ho il check-in alle sei e mezza e l’aereo
partirà poco dopo”.
“Ti
accompagno” fece, scoprendosi a sua volta e sistemando il pigiama, che era
salito e aveva lasciato nuda la pancia.
Marisio
sorrise, silenzioso come sempre.
“Che c’è?”
domandò Gardenia, divertita.
“Sei davvero
meravigliosa”.
“Ma grazie!”
esclamò, inginocchiandosi sul letto e baciando l’uomo che amava. “Com’è il
tempo fuori?”.
“Ancora
neve”.
“Uff...”
sbuffò lei, con i capelli arruffati sulla fronte.
Marisio si
limitò a sorridere, tirando a sé la donna e baciandola ancora, con più
passione.
“Starò via
per pochi giorni. Credo che domani potrei essere già di ritorno”.
“Ti
aspetterò a braccia aperte. Ma non conosci i motivi di queste convocazioni?”.
“No” disse
l’uomo, sbottonando la camicia del pigiama e rimanendo a petto nudo. Leggera
peluria scura cresceva ordinata e verticale e partiva dall’ombelico fino a
nascondersi oltre il bordo dei pantaloni del pigiama. Gardenia la carezzava
spesso, nei momenti d’intimità.
“Mi pare
molto strano che la Lega di Kanto e Johto ti abbia contattato personalmente.
Hai fatto qualcosa di male?”.
“Io non
faccio mai nulla di sbagliato. Almeno non con coscienza” rispose, sfilando
anche il pezzo di sotto. S’avviò in boxer nel bagno della camera, seguito
subito dopo dalla donna.
“Aspettami”
disse quella, sfilando la camicetta e rimanendo soltanto con gli slip. Levò
anche quelli e rimase davanti allo specchio, guardando il riflesso del volto
stanco e i capelli spettinati, acconciati solitamente in quel carré fulvo.
Cercò di ammaccare la capigliatura con la mano ma non ci riuscì, scatenando il
sorriso dell’uomo, che le scivolò alle spalle e le baciò il collo, carezzandole
addome e seno.
“Sei
bellissima...”.
“Non ho un
filo di trucco, Marisio... Non dire assurdità... Con la capigliatura post-coito
e le occhiaie scavate...” sorrideva lei, voltandosi e aprendo l’acqua della
doccia.
Lo baciò
una, due, tre volte, carezzando quel viso che cominciava a pungere.
“Devi
raderti...” sorrise poi, grattando con le unghie le guance dell’uomo.
Mostrò a sua
volta il sorriso, Marisio, baciandole la punta del naso. “Hai ragione”.
“Non puoi
presentarti così trasandato”.
“Non sono
trasandato”.
Allungò poi
la mano verso l’acqua che scendeva dalla doccia. Era ancora fredda. La stessa
mano strinse poi la donna e le carezzò il collo; dalle dita cadde una piccola
goccia, che le percorse l’intera lunghezza della schiena.
Gardenia rabbrividì,
inarcò la schiena e chiuse gli occhi. Quando li riaprì si ritrovò davanti lo
sguardo di Marisio, grigio come il cielo di quel mattino.
“Sei
meravigliosa...”.
Noncurante
della temperatura dell’acqua, Gardenia trascinò il suo uomo sotto il getto
della doccia.
*
Aveva
viaggiato per circa un’ora in volo sul suo Salamence e aveva raggiunto
Giubilopoli.
Era sceso al
volo dal suo Pokémon, poggiando le scarpe di pelle nera sulla passerella
d’ingresso dell’aeroporto. Il suo bagaglio era un pratico trolley grigio, che
lo seguiva fedelmente.
Un paio di
ragazze, in viaggio verso qualche meta esotica, lo riconobbero e si voltarono,
meravigliandosi di come il vestito blu gessato gli cadesse a pennello sulle
spalle e sulla vita.
Era un
bell’uomo, con quegli occhi dallo sguardo profondo e i capelli pettinati,
tirati indietro.
Elegante,
salì sul volo che diverse ore dopo lo avrebbe fatto scendere a Johto.
Si sedette
sul sedile 16P, posto finestrino, e si perse a guardare fuori per qualche
minuto, fino a quando qualcuno non si avvicinò.
“No! Il
posto finestrino è già occupato!”.
Marisio
conosceva quella voce, gli era molto familiare. Si voltò, vedendo Matilde
fissarlo con più attenzione.
“Ma tu...”
fece lei, spalancando poi gli occhi. “Marisio!” esclamò, sorridendo. L’uomo
emulò il sorriso e se la ritrovò addosso, in una stretta fin troppo amichevole.
“Hey,
Matilde... ciao...”.
Quando quei
due si conobbero erano in una situazione assai critica, col Team Galassia che
minacciava l’intera Sinnoh. E la ricordava, praticamente una bambina, aveva
poco più di dieci anni, e portava i capelli in maniera davvero vistosa. Marisio
ricordava anche la camicetta bianca con i lustrini rosa, che aveva indossato
nei giorni in cui avevano contribuito alla pace. Poi confrontò quell’immagine
con l’ormai donna che aveva davanti, con i denti dritti e i capelli legati in
una lunga coda di cavallo, una sola, che scendeva ripida lungo la schiena.
“Non ti
vedevo da anni! Come stai?!” chiese quella, espansiva come sempre.
L’uomo
annuì, mantenendo l’espressione divertita sul volto. “Tutto bene. Tu, invece?”.
“Mah... sono
un po’ contrariata del fatto che non ci sia nessun altro aereo per Johto prima
di martedì... del resto la convocazione è per oggi. Ma arriveremo!” rispose.
Neppure la
sua logorrea era cambiata.
“Convocazione
a Johto?”.
“Ah, già!
Non dovevo parlarne!” si rammaricò, inarcando le sopracciglia.
“Lance?”
domandò l’altro, vedendola annuire.
“Sì. Ho
ricevuto proprio ieri quella telefonata ed è stato tutto così... strano...
Cioè, Lance ha chiamato proprio me!”.
“Ha
contattato anche me”.
“Oh...
Allora ci saranno anche gli altri, sicuramente!” sorrise quella, felice.
Marisio
allungò il collo e si guardò attorno. Vedeva soltanto teste senz’identità che
spuntavano dalla cima dei sediolini.
“Non lo so.
Sai perché ci hanno chiamati?”.
“No, a dire
il vero... Spero per qualcosa di bello. Sono stata a Hoenn e Kalos ma mai a
Johto. Dicono che sia piena di storia, che sia bellissima e che...”.
“È vero. È
così”.
“Ci hanno
chiamati...” interruppe qualcuno alle loro spalle. “... perché devono parlarci
di lavoro”.
Matilde e Marisio
si voltarono, vedendo Chicco appoggiato tra i sediolini. La ragazza spalancò
gli occhi, di quello strano color violaceo, e si avvinghiò al suo collo.
“Ci sei
anche tu?! Che bello!” esclamò.
“In realtà
ci siamo tutti...” fece il ragazzo, cercando di divincolarsi dalla presa, senza
successo.
Marisio si
alzò in piedi, fissando Chicco negli occhi. Ormai era diventato un uomo fatto e
finito: aveva abbandonato quella capigliatura strana, adottandone una più
consona, con i capelli rossi, sciolti, lunghi fino alle spalle. La carnagione
era rimasta sempre la stessa, olivastra, e permetteva ai suoi occhi, di quel
color cremisi così acceso, di risaltare.
“Porti il
pizzetto, ora?” sorrise Marisio, quasi prendendolo in giro. Gli strinse la mano
e, sporgendosi, fu in grado di vedere, accanto a lui, Demetra e Risetta.
“Che bello!
Ci siamo davvero tutti!” esclamò Matilde, appurando come le due donne non
fossero cambiate di una virgola.
Demetra
riposava, con la testa piegata verso destra, e la lunga e classica treccia smeraldina
poggiata sul seno.
“Cerchiamo
di non urlare” ribatté Marisio.
“Oh, per
quel che mi riguarda dovreste starvene totalmente zitti” rispose asettica
Risetta, scatenando il sorriso nel suo vicino di sedile.
“Certo. La
mia donna è rimasta sempre la persona più espansiva del mondo”.
“State
assieme, ora?! Non ci posso credere!” esclamò nuovamente Matilde, stringendo i
pugni.
“Sì. Non è
da molto”.
Marisio
guardò Risetta e le fece un cenno col capo. Lei lo guardò come sempre, con lo
sguardo di chi non era interessato a nulla. Ciò scatenò il sorriso in Chicco.
“Non
cambierà mai... non prendertela, amico”.
“Figurati”.
“Ti sei
tirato a lucido, vedo!” sorrise, dando una pacca sulla spalla dell’uomo.
“Visto
quanto sta bene?!” esclamò invece Matilde.
“Volevo essere
presentabile. Ma... quindi non si sa di preciso di cosa stiamo andando a
parlare?”.
“No” rispose
l’altro. “So che si tratta di lavoro, e so che è stato Lance a chiedere di noi
perché mio fratello Vulcano ha parlato con Camilla, che a sua volta ha parlato
con lui” concluse, grattandosi il mento.
“Stai
seduto, che tra un po’ si parte. Avrete tempo di fare i piccioncini quando
saremo coi piedi per terra... Odio gli aerei” replicò Risetta, costringendo
tutti a sedersi ai propri posti. Marisio notò come non fosse cambiata di una
virgola: stessa capigliatura a maschietto, corvina, stessi occhi truccati
pesantemente e stesso vaffanculo stampato
sul viso.
Obbedì anche
lui alla Stat Trainer e si mise a
sedere.
Sarebbero
partiti mezz’ora dopo, ma al momento del decollo tutti ormai dormivano.
Kanto,
Altopiano Blu, Sala Riunioni della Lega Pokémon Unificata di Kanto e Johto
Lance era
l’ultimo a dover accedere nella grande stanza adiacente alla Sala D’Onore. Non
aveva finestre, non c’era possibilità di guardare verso l’esterno.
In ogni caso
avrebbero visto da vicino una delle pareti inferiori del Monte Argento, nel
quale era stata scavata quella stanza.
Caldi luci
gialle addolcivano l’ambiente, mentre l’atmosfera era chiaramente tesa.
C’erano
quattro sedie vuote accanto a Jasmine, e Angelo, Valerio e Sandra parevano
pensierosi. Lorelei sedeva proprio subito dopo la cugina di Lance, prima che la
grossa tavolata fosse interrotta dalla sedia vacante del Campione. Dall’altra
parte vi erano in Superquattro, con Karen che apriva la fila e Bruno che la
chiudeva. Koga e Pino erano seduti tra i due, il primo serio e il secondo con
un leggero sorriso sul volto. Infine vi erano i cinque Stat Trainer, atterrati a Fiordoropoli un paio d’ore prima. Avevano
atteso qualche minuto prima che un elicottero della Lega li prelevasse e li
portasse sull’Altopiano Blu.
C’erano
ansia e tensione, dal lato più vuoto del tavolo. Era la prima volta che Chicco
vedeva da vicino Jasmine, che era peraltro la fidanzata di Corrado. Sapeva che
fosse a Johto da qualche tempo.
Tuttavia il
volto della donna non pareva essere dei più felici. Ricordava di aver visto,
tramite suo fratello Vulcano, la fotografia di quella donna e aveva pensato che
fosse molto bella; invece, quello che aveva davanti, era il dipinto di una
donna rasa al suolo. Indossava una maschera di disperazione che non le si
addiceva e anche Valerio aveva la stessa espressione sul volto; al contrario,
Angelo sembrava essere più tranquillo, nonostante non riuscisse a smettere di
giocare con la fede che portava al dito. Infine guardò Sandra, che non smetteva
di sospirare e di guardare verso il basso.
Sentiva la
tensione.
Pochi
secondi dopo il Campione fece il proprio ingresso nella stanza, indossando il
solito giubbino di pelle rossa. Lo smontò, rimanendo soltanto con
un’aderentissima maglietta nera.
“Benissimo,
ci siete tutti. Innanzitutto comincio con un breve riepilogo” fece, sedendosi.
Stropicciò gli occhi, mentre parlava, quasi a volersi nascondere dagli sguardi
che aveva davanti.
“Le rovine
d’Alfa sono state attaccate da un gruppo di mercenari, l’altra notte. Volevano
rubare i mosaici e, tranne che per quello nella Sala 1, ci sono riusciti...
Erano capeggiati da...” e allungò poi la mano destra verso Jasmine. “... da una
donna che le assomiglia in tutto e per tutto”.
Matilde
strinse gli occhi e appuntì lo sguardo.
“Una
sosia?”.
“No. È più
complicato di così. In ogni caso...” sospirò, stropicciandosi l’occhio destro.
“... durante l’intervento dei Capipalestra hanno perso la vita Chiara, Furio,
Raffaello e Corrado, che era in congedo autorizzato dalla Lega di Sinnoh a
Olivinopoli...”.
Ancora una
volta, l’attenzione generale della gente si spostò su Jasmine, che abbassò lo
sguardo e sospirò. Era nota a tutti la relazione che la donna aveva intrapreso
col Capopalestra di Arenipoli, e la notizia della sua morte non era certamente
passata inosservata. Una lacrima prese a scenderle silenziosa sulla guancia,
mentre Valerio, accanto a lei, cercava di rincuorarla stringendole una mano.
Chicco li scrutava con occhi pesanti.
“Credo sia
meglio che tu esca a prendere un po’ d’aria...” le fece Lance.
“H-hai
ragione... È inutile che io stia qui...”.
Cercò di
reggere l’impalcatura d’autocontrollo che si era costruita, fino a quando
l’ansia non la costrinse ad alzarsi in piedi. Il bordo del lungo maglioncino
bianco le cadde sulle ginocchia.
“Andrò via
da qui”.
“Aspetta” la
fermò Lance. “Voglio sapere se continuerai a mantenere le tue responsabilità
come Capopalestra di Olivinopoli e guardiana del faro”.
La donna
abbassò lo sguardo, sconfitta da quelle ore di terrore, senza sonno né
speranza. Si voltò, tornando al tavolo e poggiando le mani sul piano freddo e
ricoperto di scartoffie.
“Io non
voglio...” sospirò, con le lacrime che scendevano copiose sulle guance. Il
pianto sporcava le sue parole ma lei cercava di non lasciarsi andare, di
rimanere ferma e chiudere quella porta con tutta la forza che aveva in corpo.
“Non voglio. D-delle persone sono morte, ed erano tutti miei amici... persone
che amavo. Io n-non riesco più a sentirmi sicura... a sentirmi forte. E a
Olivinopoli non riesco più a tornare... in quei posti dove... Corrado” sbuffò
poi, sorridendo amaramente. “Lui non era neppure un Capopalestra di Johto e...
ed è morto”.
Le lacrime
colavano dal mento, cadendo accanto alle sue dita sottili.
“Non è
semplice, lo so” le fece poi Lance.
“Non lo sai!
Tu non sai niente!” ribatté con rabbia Jasmine. Una rabbia del tutto fuori dai
suoi parametri, che costrinsero il Campione a sospirare. Si limitò a umettarsi
le labbra e a guardare Sandra, che rimase con le braccia conserte sotto al
seno, nel silenzio più che totale.
“Io spero...
spero davvero che voi...” fece poi la donna, alzando gli occhi verso Marisio.
“... Io spero...” poi tossì, e pulì con la manica del maglione il volto. “Io
spero che voi riusciate a fare bene. Spero che chi verrà assegnato alla città
di Olivinopoli ami la mia gente... le mie persone. Che guidi il faro con cura,
che sia...” fece, fermandosi e sospirando. “Che... che sia una guida... una
gu-guida per tutti gli... gli... Allenatori e....” poi si fermò. Tutti la
guardavano in silenzio, attendendo le sue parole, mentre le lacrime non
finivano la loro corsa. Le unghie cercarono invano di graffiare il tavolo in
metallo, e le dita si ritirarono, fino a quando i pugni si strinsero, come gli
occhi.
Tutti
avevano davanti una donna finita.
“I-io... Non
ce la faccio, scusate...” disse, muovendosi rapidamente verso l’esterno e
sbattendo la porta. Il rimbombo anticipò le urla disperate che si propagavano
nel corridoio alle loro spalle, e tutto ciò contribuì a riempire di disagio e
angoscia i presenti.
Valerio
guardava Lance fisso, prima di sospirare.
“Ma come
fate a non capire?”.
Lance
sospirò, guardando Pino e incrociando le mani sul tavolo.
“Capire
cosa, di preciso?”.
“Dove
eravate?” rispose di contro il Capopalestra di Violapoli ai Superquattro. Passò
poi lo sguardo sul Domadraghi. “Tu... tu dov’eri?”.
“Altre
situazioni ci hanno tenuti impegnati, Valerio”.
“Ma per quale motivo eravamo lì prima di voi?!
Noi siamo autorità locali! Quella delle Rovine d’Alfa è una zona d’interesse
storico che vede coinvolti interessi enormi! Johto, senza quei mosaici, è più
povera! Dovevate essere lì!”.
“Vi avremmo
raggiunti a breve” ribatté Lance. “E a questo punto mi pare di capire che anche
tu non voglia più mantenere la tua posizione a Violapoli”.
L’uomo si
alzò in piedi. Chiuse gli occhi lentamente e li stropicciò con le dita.
“Ho sempre
adempiuto ai miei doveri con tutta la responsabilità e la professionalità del
caso. Prima di essere un uomo, prima di essere un agente di polizia, prima di
essere un Capopalestra, io ero un cittadino di Violapoli... Ne ho preservato le
tradizioni, ne ho curato le ferite, e ho addestrato i piccoli Allenatori che
poi vi raggiungevano qui, all’Altopiano Blu... Io non ho mai chiesto nulla, a
voi, da quando sono in carica. Le ricompense essenziali derivavano dal vedere
la mia gente tranquilla e sicura di scendere per strada, e vivere la propria
vita con gioia e speranza...”.
Marisio lo
guardò con interesse. Riconobbe le ferite che gli laceravano l’animo.
“Ma poi vedo
ciò che è successo, ci penso, ci ripenso...
Io ho dato tutto me stesso, per costruire quel castello di sicurezza e
condivisione, che è Violapoli. Ma ora la gente è morta, perché il mio lavoro
non è bastato. Ora affondo i piedi nelle rovine di questo mondo, così
differente da quello che ricordavo, e non lo riconosco più... i miei Pokémon
sono... beh, sono morti” disse tra i denti, senza riuscire più a trattenere le
lacrime. “E senza Pokémon non esiste Capopalestra...”.
Lance annuì,
ma pareva tranquillo.
“Sicuramente
c’era un legame affettivo tra te e i tuoi Pokémon, ma è il minore dei mali.
Puoi tranquillamente ricostruire un team, col tempo”.
“Sì, potrei.
Ma quello che tu chiami il minore dei
mali...” fece l’altro, scimmiottando la voce del Campione. “... si scontra
col maggiore dei miei problemi. Che sei tu”.
Lance sbatté
le palpebre lentamente.
“Era palese
che avessi un problema con me, Valerio”.
“Io, le urla
di Jasmine, le sento ancora, anche se lei ora è lontana. E non dimenticare mai,
mio caro Campione supremo, che la colpa di esse è unicamente tua”.
Si alzò.
“E voi
Superquattro, non siete altro che burattini inutili nelle mani di un uomo con
deliri di onnipotenza. Io vado via” concluse, sparendo poco dopo e riempiendo
d’ulteriore silenzio quella camera maledetta.
Tutti
guardavano Lance.
“Angelo...”
disse poi quello, come se nulla fosse successo. “Tu lasci?”.
L’uomo dai
capelli biondi fece cenno di no.
“Se me lo
consentirete, sarò ancora il Capopalestra di Amarantopoli”.
“Assolutamente”
annuì l’altro. “E tu, Sandra?”.
La donna
rimase in silenzio, a fissare il vuoto coi grandi occhi azzurri spalancati.
Sembrava incatenata ai suoi pensieri, ed era restia a tornare alla realtà.
“Rimarrò a
Ebanopoli” fece, compiacendo suo cugino.
“Bene.
Perfetto. Questo significa che abbiamo
le città di Violapoli, Azalina, Fiordoropoli, Olivinopoli, Fiorlisopoli e
Mogania senza la giurisdizione di un ufficiale della Lega” disse. “Angelo e
Sandra manterranno i propri posti. Ora c’è bisogno di riempire le altre
Palestre”.
Si voltò
verso destra, dove Lorelei era rimasta in religioso silenzio per tutto il
tempo. Demetra era rimasta affascinata dall’eleganza del suo viso, ornata dai piccoli
occhi celesti nascosti dalle doppie lenti degli occhiali e la postura dritta
del busto. Teneva le braccia congiunte sotto l’ampio seno, e la testa alta.
Guardò Lance
non appena quello terminò di parlare.
“Lorelei...”.
“È per
questo che mi hai chiamata?”.
“Sì. Mogania
è perfetta per te, sei nel tuo elemento. Hai l’autorizzazione a fare tutti
gl’interventi di ammodernamento necessari nell’edificio che prima apparteneva
ad Alfredo. Accetti di prendere in carico il titolo di Capopalestra di
Mogania?”.
Tutti gli
occhi erano puntati su di lei.
“Mi cogli
alla sprovvista, Lance...” sospirò l’altra.
“Ho bisogno
che tu mi pari il culo. Avrai tutto il supporto che ti servirà, e parleremo più
tardi d’ogni cosa...”.
“Va bene”
concluse quella pochi secondi dopo. “Accetto”.
“Ora tocca a te, Demetra. Sei mai stata a
Johto?” domandò Lance, ma Risetta lo interruppe subito.
“Aspetta. Ci
stai offrendo un lavoro fisso?”.
“Quello che
sto facendo, in pratica, è trovare dei nuovi Capipalestra, forti e affidabili”
rispose il fulvo. “Camilla ha detto che questo è il vostro perfetto identikit”.
“Johto è un
po’ lontana da casa mia...”.
“Questo è
lavoro, non una vacanza in un resort. Come ogni lavoro prevede uno stipendio,
degli indennizzi e dei giorni di ferie che puoi usare per tornare a casa tua”.
Gli occhi
dei due crearono scintille.
“Insomma,
Demetra...” si voltò nuovamente verso di lei. “Avevo pensato ad Azalina per te.
Che ne pensi?”.
La donna
dalla lunga treccia verde inarcò le sopracciglia. “Beh... io...”.
“Anche tu
avrai l’opportunità di personalizzare come meglio credi la tua Palestra. E poi
Azalina si trova al centro di un’area meravigliosa, il Bosco di Lecci.
Atmosfere spettacolari e tradizione. Saresti una boccata d’aria fresca”.
Arrossì,
Demetra, abbassando il volto.
“Guarderai
l’edificio e mi darai una risposta definitiva. Per quanto riguarda Matilde
avevo pensato a...”.
“Sì?!”
interruppe subito lei. “A cosa avevi pensato?!”.
“Alla più
grande città di Johto: Fiordoropoli”.
“Wow! Sì!”
esclamò quella, con gli occhi sognanti.
“Saresti
effettivamente a tuo agio, in una grande città. Tantissime attrazioni e
altrettanti giovani. La Palestra diverrebbe una grande attrattiva con te”.
“Ci sto!”
sorrise, stringendo entusiasta gli occhi violacei.
“Per te,
Chicco, avevo pensato la selvaggia Fiorlisopoli. Anche per te valgono le stesse
condizioni. Potresti andare velocemente da Risetta, so che state assieme.
Infatti per lei volevo proporre Olivinopoli, bella città di mare, con quel
tocco di malinconia... Naturalmente potrai...”.
“Con me
evita le moine...” ribatté la moretta.
“Che ne
dite?”.
“Se per
Chicco va bene...” sospirò quella, ruotando gli occhi verso l’alto, annoiata.
L’uomo sorrise debolmente, quasi arrossendo.
“Sai, Lance...
è una grande opportunità!” sorrise quello. “Sarebbe davvero importante per me
riuscire in questa cosa, ma dovrò valutarla per bene”.
“Ne hai
tutte le capacità” ribatté Lance. “Ma comprendo la tua iniziale confusione...”.
Il silenzio
si appropriò per qualche secondo di quella stanza. Poi Lance riprese parola.
“Rimani solo
tu, Marisio...” sorrise il Campione, gioviale. “Per te avrei pensato a...”.
“Violapoli”
interruppe lui.
“Già...”
disse Lance, gustandosi quella pausa per un attimo. “Violapoli. Valerio ha già
fatto una presentazione più che degna della città”.
“Devo
pensarci. Non credevo che volessi mettermi a capo di una Palestra, ma che ti
servisse aiuto per qualche operazione”.
Lance unì le
mani sul tavolo, proprio davanti a lui. La tensione era così densa da poterla
vedere avvolgere tutti.
“Sarebbe una
svolta, per la Lega di Johto. Sei un grande Allenatore, tutti assieme, voi
otto, alzereste di molto il livello delle Palestre di questa regione”.
Si alzò
dalla sedia, Lance. “Sarebbe un bene anche per chi vive qui. Aumentando la
difficoltà creeremmo una sorta di sfida agli Allenatori più forti, che
giungeranno da tutta la nazione per sconfiggervi. Rendetevi conto, turismo e
richiesta per tutta Johto”.
Si abbassò
sul tavolo, piantandovi i palmi sulla superficie fredda. S’avvicinò al suo
volto, e Marisio poté chiaramente vedere la determinazione nei suoi occhi
ambrati. “Ho bisogno di te, Marisio”.
E la cosa lo
attirava davvero parecchio.
Perché
sarebbe diventato finalmente il re di qualcosa, avrebbe potuto sfruttare delle
strutture di allenamento all’altezza e migliorare ulteriormente le sue
capacità.
Però
Gardenia aveva il suo stesso ruolo, a diverse ore di aereo, e aveva le
stesse responsabilità che avrebbe
acquisito; quella scelta avrebbe ucciso la loro relazione, fatta di abitudine e
passione, nemici paradossali che avevano trovato un equilibrio.
“Come ho già
detto, ci devo pensare”.
Commenti
Posta un commento