Johto,
Azalina
Azalina era
come sempre tagliata da una brezza fredda, che lasciava ondeggiare le fronde
degli alberi.
Prima verso
destra, poi verso sinistra.
Del resto il
mare non era lontano, e la presenza del grosso massiccio nel quale si snodava
la Grotta di Mezzo creava un corridoio che il vento poteva percorrere con
tranquillità.
E in estate
era parecchio piacevole lasciarsi accarezzare dalla brezza fresca.
Tuttavia era
inverno, e ad Azalina aveva da poco smesso di nevicare. I passi di Demetra, al
contrario di quelli di Koga, impercettibili, crepitavano nella neve fredda e
spettinata. Nonostante quello la donna non sembrava essere in difficoltà.
“Mi ricorda
tanto Sinnoh. Mi sembra un buon benvenuto, questo” sorrise la bella, con le
mani stese lungo i fianchi.
Koga non
parlava, si limitava semplicemente a camminare in avanti. Avevano appena
superato il Centro Pokémon, dal quale fuoriuscivano luci e dolci musiche di
pianoforte.
“Dovrò
andare a presentarmi con gl’infermieri della città” ragionò ad alta voce la
donna. Il viale centrale di Azalina si prestava perfettamente a passeggiate
tranquille e riflessive, dato che la vasta presenza della natura aveva reso
quella umana davvero fuoriluogo.
Sulla
sinistra, poco prima del grande Bosco di Lecci che avvolgeva tutto ciò che la
montagna non toccava, vi era un poco ampio complesso residenziale, fatto di
piccole villette a schiera dai tetti a spiovente. Ognuna aveva il proprio
giardino, recintato da steccati di legno perfettamente dritti e in cui ogni
listarella era della stessa medesima dimensione di quella che aveva accanto.
Ordine, ad
Azalina. Demetra aveva notato questo, e di tanto in tanto qualche Slowpoke che
sonnecchiava sulla neve.
“Ce ne sono
molti...” sorrise.
“...”.
“Che
problemi ci sono, Koga? Perché non parli?” domandò ancora lei, gioviale, con
quel tono di voce che avrebbe calmato chiunque. L’uomo si voltò per un attimo,
rapidamente, scontrando quella velocità calcolata, quella fretta metodica con
la calma floreale della donna dai lunghi capelli verdi. I suoi occhi smeraldini
gli sorrisero.
“Muoviamoci”
tuonò lui, quasi ringhiando.
Poggiò
ancora i suoi passi sul viale, dandole le spalle e lasciandola nei suoi dubbi.
“Questa è
casa di Franz. Devi passarci, è il più anziano del paese” fece il Superquattro,
indicando con la mano una vecchia abitazione di mattoni, dal lato opposto delle
piccole villette a schiera.
“Lo conosco,
Koga” sorrise ancora quella. “Franz è famoso ovunque per essere l’ultimo degli
artigiani a creare sfere tramite le ghicocche”.
“Mhm...” sospirò quello. Imboccò un piccolo vialetto,
tra le azalee bruciate dal freddo, ma Demetra era ferma ad ammirare il grande
arco in legno cinto dai lecci, poco prima dell’ingresso al sentiero boschivo
che portava a Fiordoropoli.
Le piaceva
il modo in cui era stato intarsiato, e adorava come la natura se ne stesse
riappropriando lentamente, con piante rampicanti destinate a fiorire in
primavera.
Koga era
fermo, qualche passo più indietro, e aspettava che la donna si sbrigasse. Un
soffio di vento fece in modo che il suo foulard si librasse nel vento.
Schioccò le
dita, richiamando lo sguardo della donna.
“Entriamo”
tuonò infine.
Demetra
annuì e lo seguì lungo tutto il viale. La Palestra di Azalina era proprio
davanti a lei, con ampie mura sorrette da bastioni e il tetto composto
interamente da lucernari.
Era una
grande serra, quella.
“Ci sarà un
bel calduccio, in quell’edificio” sorrise la donna dai lunghi capelli verdi.
“Il sistema
di vetrate che compone il lucernario è dotato di una speciale funzione
d’ombreggiamento, per evitare l’inquinamento luminoso durante le ore notturne e
per combattere, appunto, la calura estiva”.
“Sembra una
serra ma non lo è”.
“È la
Palestra di Azalina” continuò quello. Demetra scrutò meglio il suo volto, con
quegli occhi minuscoli e scuri e, più giù, il grosso naso con quella gobba
prominente. Passò poi in rassegna le labbra, sottili, fino a quando Koga non si
voltò, infastidito dal suo sguardo inquisitore. Avanzò di qualche metro e
spalancò le porte dell’edificio alla nuova Capopalestra, che rimase letteralmente
a bocca aperta, mentre muoveva i primi passi in un quello che pareva essere una
sorta di boschetto con le mura attorno, dove la natura cresceva rigogliosa e il
profumo d’erba umida sovrastava quello della città alle sue spalle. Koga chiuse
le porte, fermo poi ad ammirare curiosamente il modo in cui la donna si metteva
a proprio agio: la vide smontare le ballerine e lasciarle davanti a lui, quindi
affondare i piedi nudi nel prato che aveva davanti.
“È meraviglioso”.
“Ogni notte
vi è la manutenzione dei giardini. Il prato viene regolato ogni trentasei ore”.
Demetra
annuì, avvicinandosi a un cespuglio di azalee; inalò il profumo dei fiori rosa
e si voltò nuovamente verso l’uomo.
“Questo
posto è davvero meraviglioso”.
“Raffaello
soleva stare sotto quella grande quercia” disse, abbassando poi il capo.
Lei si
avvicinò al tronco, lentamente, e ne carezzò le venature rugose. Sapeva che il
vecchio Capopalestra avesse cominciato con quella mansione quando era poco più
che un bambino ed era morto senza aver conosciuto l’amore di una donna. Quel
posto era la sua reliquia, l’unica donna che avesse mai amato, l’unico uomo che
lo avesse mai difeso.
“Lui è
ancora qui. La sua anima vivrà per sempre in questa grande quercia” disse,
lisciando i capelli che poggiavano sul seno. “E io difenderò questa città, in
suo onore”.
Smontò il
giacchetto verde, rimanendo con un’aderentissima canottiera nera. Si sedette,
sorridente, incrociando le gambe e facendo attenzione che la lunga gonna non
salisse.
“Accetti
quindi? Diventerai la nuova Capopalestra di Azalina?” domandò Koga, con la
stessa maschera di granitica inespressività autoimposta.
La pelle
diafana della donna riluceva sotto i neon e i faretti che illuminavano la
struttura. I suoi occhi erano spalancati, i suoi polmoni si riempivano d’aria
pulita e gettavano fuori quel pizzico d’ansia che naturalmente covava in petto.
“Onorerò il
ricordo di Raffaello” fece, tornando a guardare la grande quercia. Si alzò in
piedi e si voltò, tendendo la mano al Superquattro, ma quando sollevò lo
sguardo lui non c’era più.
Adamanta,
Primaluce, Casa Recket
“Questo
tempo non mi piace...” brontolò Allegra, con le braccia incrociate e il muso
pronunciato, a mo’ di broncio.
Pioveva.
Allegra odiava
la pioggia.
“Cos’è
quella faccia arrabbiata, principessina?” domandò Zack, sul divano. Le gambe
erano stese sul tavolino e la televisione trasmetteva il telegiornale.
Parlavano delle Rovine D’Alfa, Lance stava dando la notizia della dipartita di
vari Capipalestra, dietro a quattro grandi microfoni.
“Mi
scoccio!” esclamò lei, vedendo poi suo padre spalancare gli occhi alla notizia
e poggiare i talloni per terra. Cercò il telecomando e alzò il volume.
“Un attimo,
piccola”.
“... Non è stato per nulla facile
prendere atto della morte di Raffaello, Chiara e Furio e...” diceva il Campione, intervistato da
TeleHoenn.
“È morto
Furio?” chiese Zack, più a se stesso che ad Allegra, unica interlocutrice.
Grattò la barba sul mento e mise la mani tra i capelli, ormai troppo lunghi per
i suoi gusti.
“Papà!” lo
chiamò autoritaria Allegra, puntando i grossi occhi azzurri sull’uomo che
intanto continuava a dare attenzione alla televisione.
“... Il provvidenziale intervento dei Dexholder
di Kanto, in particolar modo di Red, ex Campione della Lega Unificata di Kanto
e Johto, ha permesso a Jasmine, Valerio, Sandra e Angelo di non perire,
tuttavia i primi due hanno deciso di lasciare la sedia di Capopalestra nelle
rispettive città. Stiamo già lavorando per sostituirli”.
“Green era
lì...” fece, alzandosi in piedi e cercando il cellulare. Ricordava di averlo
lasciato sul camino ma quando andò a vedere non lo trovò. Si voltò poi
rapidamente, sospirando e controllando sul divano.
“Hai visto
il mio cellulare?” domandò alla piccola.
“È scarico,
ho giocato a Candy Crush Soda Saga e
si è spento” rispose Allegra, quasi meccanicamente.
“Non so come
tu faccia a pronunciare il nome di quel gioco così bene senza conoscere tutto
l’alfabeto”.
“Arrivo alla
effe!” protestò lei.
“Devo usare
quello della mamma, allora” disse, saltando agilmente il divano e cominciando a
salire le scale.
“Ma io mi
scoccio!”.
“Gioca con
Arcanine e non fare danni” rispose lui, salendo gli scalini rapidamente. Poi
però rallentò davanti alla porta dello studio.
Rachel
soleva passare molto tempo in quella camera, in quel periodo.
Bussò
delicatamente, mentre il cuore pompava sangue nelle arterie. Pensava a Green, a
quanto potesse star male, e al fatto che lui fosse davvero troppo lontano da
lui.
“Avanti”
sentì poi. Aprì la porta e vide sua moglie di spalle, coi capelli corvini
legati alti sulla testa. Lui entrò e le si avvicinò. Attorno aveva quattro
tavole raffiguranti la visuale che aveva dalla finestra stanza.
Le baciò il
collo.
“Zack...”
sorrise poi quella, voltandosi verso di lui.
“Come sapevi
che fossi io?” disse, ignorando il forte odore di vernice.
“Allegra
avrebbe sfondato la porta a calci, amore. Che succede?”.
“Problemi a
Johto. Devo chiamare Green Oak e mi serve il cellulare”.
La donna dai
grandi occhi azzurri si voltò e lo fissò, preoccupata. “Che problemi? Devi
andare lì?”.
“No...”
fece, grattandosi la tempia e fissandola in volto, sporco di vernice arancione
sulle guance e sulla fronte. “Non penso... È che è morto il suo maestro.
Immagino che ora sia un tantino scosso...”.
“È sulla
scrivania”.
“Grazie
mille”.
“Allegra che
fa?” domandò poi, voltandosi nuovamente e carezzando la tavolozza col pennello.
“Gioca coi
Pokémon”.
Rachel si
voltò nuovamente, rapida. “Mica è con Luxray?!” chiese, malcelando l’ansia
nella sua voce.
“No” fece,
portando il cellulare all’orecchio. “Arcanine”.
“Sai che non
mi piace che resti con Luxray”.
“È Arcanine.
Pronto? Green... Ho saputo dal telegiornale di Furio... Mi spiace molto. Se c’è
qualcosa che possa fare... Sì, Adamanta è tranquilla, Ryan e i suoi non hanno
molto da fare se non lottare contro gli sfidanti... Sì...” sorrise poi “La
piccola è indistruttibile” fece, suscitando ilarità anche in Rachel. “Oh
certo... Scusami se ti ho disturbato per così poco ma volevo sapere se fosse
tutto a posto... A presto”.
Johto,
Fiorlisopoli
A Chicco era
toccata la poco stimolante presenza di Bruno.
Del resto il
Superquattro era molto pratico della città di Fiorlisopoli, andandovi in
parecchie occasioni per i suoi allenamenti.
“Quindi è un
ottimo luogo per il training all’aria aperta?” chiese conferma Chicco,
spostando i lunghi capelli dietro le orecchie. Guardò il volto di Bruno, con
quegli occhi totalmente neri a fissare davanti a sé il paesaggio. Attese, ma
non ricevette risposta. Scesero dal traghetto pochi secondi dopo e Chicco si
ritrovò a fissare col sorriso l’antico splendore di quell’insediamento.
Bruno
sospirò e annuì, mentre la fiumana cominciava a dirigersi verso l’uscita
dell’imbarcazione, al piano inferiore.
“Fiorlisopoli
è un’isola, Chicco. E in quanto tale le persone che la abitano sono schive
rispetto agli stranieri. I primi insediamenti si sono manifestati un paio di
secoli fa, quando questa enorme montagna al centro del mare fu utilizzata come
base per gli spostamenti verso le Isole Spumarine”.
“Che sono
praticamente di fronte”.
“È un luogo
che ha conservato la sua aura, leggendaria e mistica, in cui l’uomo ha avuto
prevalenza soltanto in minima parte sulla natura. La zona portuale è l’unica
praticamente abitata. Potrai trovare piccole abitazione sulla montagna, baite
di vecchi eremiti, talune disabitate. La Grotta Falesia porta verso ovest, dove
si trova la Zona Safari”.
“Ce
l’abbiamo anche a Sinnoh, una cosa del genere: la Grande Palude”.
“Qui non ci
sono paludi, questa è Johto e nevica solo d’inverno” rispose, duro.
Chicco
inarcò un sopracciglio e sospirò. “Sì, ma stai calmo”.
“Il turismo
e il viavai di Allenatori è aumentato” disse, ignorando totalmente
l’affermazione dell’uomo e mettendosi in fila per uscire. Un minuto dopo erano
fuori, sulla banchina. Chicco si guardava attorno col volto meravigliato;
adorava il fatto che i boschi e le pareti rocciose parevano spingere le case e
l’uomo lontani, mantenendoli a distanza, proteggendo la verginità di quelle montagne
e gli alberi che vi erano radicati.
“La
scogliera è meravigliosa”.
“Questo
posto è un gioiello della natura. L’uomo qui ha pochissimo da dire e da fare.
Non consentire mai a nessuno di deturpare questo luogo e sii tu il primo a dare
buon esempio”.
“Sì... assolutamente”.
“La Palestra
è quella” ribatté l’altro, puntando il dito verso l’edificio costruito sotto
una grande cascata. Bruno anticipò il più minuto forestiero, che lo seguì
silenzioso. Il Superquattro si fermò, costringendo l’altro ad affiancarlo. La
Palestra era davanti a lui, quasi incastonata all’interno della parete della
montagna, dove la cascata crollava verso il basso, accedendo all’interno
dell’edificio.
“La cascata
entra... dentro?” domandò Chicco, dubbioso.
“Questa
struttura è un gioiello dell’architettura. Accedivi, prego”.
Il nuovo Capopalestra annuì e spalancò la
porta in vetro satinato, che dava all’interno di una non troppo vasta sala
d’aspetto. Le luci erano tenute al minimo e di fronte la cascata, come intuito
precedentemente, accedeva all’edificio direttamente dal tetto. Era tuttavia
contenuta da un pilastro di vetro, che ne consentiva la visione estetica e la
contemporanea sicurezza.
“Incredibile”
sorrise.
“Buongiorno”
sentì poi, voltandosi verso sinistra. Una donna dai lunghi capelli biondi e gli
occhi azzurri si alzò all’in piedi, gioviale. Chicco non gli avrebbe dato più
di trentasette o trentotto anni.
Si grattò la
barba sulle guance e inchinò leggermente il capo.
“Buongiorno,
Ottavia. Lui è Chicco e viene da Sinnoh. Lei...” continuò poi Bruno,
rivolgendosi al nuovo arrivato. “Lei è Ottavia, la tua segretaria e assistente.
Prenderà le tue telefonate e segnerà i tuoi appuntamenti in Palestra. Aprici il
passaggio, per cortesia”.
La donna
annuì, senza accorgersi dello sguardo insistente dell’ultimo arrivato, che le
scrutava le lunghe gambe. Pochi secondi dopo una cancellata nella roccia si
aprì, e si presentò davanti a loro il principio d’una lunga scala a chiocciola,
totalmente buia. Bruno vi si tuffò, Chicco lo seguì lentamente, col sorriso
sulle labbra. Ascoltava i loro passi risuonare sulla lamiera bugnata dei
gradini. Scendeva, quella spirale, proprio accanto alla cascata, per una decina
di metri, fino a quando raggiunsero una debole luce. Il forestiero poggiò i
piedi sul pavimento di marmo, e avanzò alle spalle di Bruno. Più avanti, poteva
scorgere le figure degli Allenatori che stazionavano lì mentre si facevano da
parte alla vista del Superquattro.
“Loro
lavorano per te. Tu sei l’avversario finale, se gli sfidanti non battono questi
Allenatori non saranno minimamente degni di sfidare te”.
“Comprensibile”
ribatté Chicco.
E continuarono
ancora a camminare, costeggiando la cascata e incontrando numerosi Allenatori
pronti a fronteggiare gli sfidanti, fino a quando una curva non li condusse al
termine della passerella. Fu Bruno ad avanzare, come sempre, avvicinandosi alla
zona dove l’acqua terminava la propria caduta, scrosciando rumorosamente.
“Qui è dove
starai tu. Qui è dove stava Furio. Aspettava la gente temprando il fisico sotto
il pesante getto della cascata; così…” disse, assumendo la posizione del loto
proprio in corrispondenza della forte colonna d’acqua, davanti gli occhi
estasiati di Chicco. I suoi occhi erano totalmente riempiti dalla figura di
quella meraviglia della natura e dalla monumentalità della montagna che aveva
scavato.
“Questo
posto è meraviglioso”.
“Temprerai
quindi corpo e anima qui, a Fiorlisopoli?”.
L’altro annuì.
Levò quindi la maglietta, e si sedette accanto a lui, sotto il peso della
cascata.
Johto,
Amarantopoli, Rainbow Hotel
Yellow non
aveva dormito molto, quella notte.
Red le aveva
chiesto più e più volte cosa le stesse accadendo e lei lo aveva liquidato
imputando il tutto allo stress eccessivo. Il più delle volte si limitava ad
annuire, a baciarle la fronte e a tornare a fare quello che faceva, ma non
appena la sveglia suonò, e i suoi occhi si poggiarono su quelli della sua
donna, già aperti, percepì l’effettivo disagio che quella provasse.
Sospirò, poi
la vide sospirare.
“Buongiorno...”
fece lei. Sorrise con un lembo della bocca, molto rapidamente, per poi tornare
a indossare quella maschera di preoccupazione che stentava ad abbandonarle il
volto.
Red si
limitò a baciarle le labbra e a poggiare la fronte contro la sua.
“Amore...
Andrà tutto bene. I buoni vincono sempre...”.
“Lo so...”.
“Che vuoi
fare, stamattina?”.
Lei distolse
lo sguardo; avrebbe voluto rispondergli che sarebbe andata a Ebanopoli a
parlare con sua cugina, per quello che era la scoperta che con ogni probabilità
aveva mandato a puttane tutta la sua debole concezione dell’esistenza.
No, non
avrebbe detto mandato a puttane.
E non gli
avrebbe parlato neppure di quel pensiero insano, instillatole dall’illusione di
cui era stata vittima; c’erano troppi interrogativi che vagavano galeotti nella
mente del suo uomo, in quel momento, e non sarebbe stato particolarmente saggio
dargli ragione di tentennare.
“Vorrei
andare a Ebanopoli. Sandra doveva dirmi alcune cose...” faceva, passando da
stesa a seduta. Prese il pettine e cominciò a passarlo nella lunga chioma
bionda. Red le prese la spazzola dalle mani e la sostituì.
“Siete
diventate amiche? Non pensavo foste... compatibili” sorrise.
“Lo
siamo...” rispose, ma sapeva di mentire, data la matrice troppo aggressiva
della Domadraghi; era un vento troppo forte per quel girasole delicato.
“Che stana
coppia...” sorrise, continuando col pettine. Yellow lo sentiva carezzarle i
capelli; si rendeva conto di quanto fosse amata dal suo uomo, di come
l’espiazione di quel peccato si fosse così tanto radicata in lui da esser stata
messa al centro della sua vita.
“Credo
passerò da lei”.
“Verrò con
te”.
“In
realtà...” disse la bionda, voltandosi e fissando dritto negli occhi il
fidanzato. “... è lei che mi ha chiesto di andare lì. Credo voglia parlarmi
di... parlarmi di...”.
Stava per
dire una bugia. Un’altra.
“Si?”
domandò poi l’uomo, sospirando. “Parlarti di?”.
“Parlarmi
di... di fatti suoi...” concluse, allontanando subito lo sguardo dagli occhi di
Red, che continuarono a fissare il retro della sua testa.
“Va bene...”
sussurrò, continuando a spazzolare per qualche altro minuto.
Rimasero in
silenzio, poi lui terminò.
“I capelli
sono a posto, credo che vadano bene. Se non volevi che venissi bastava dirmelo”.
“No!”
sorrise Yellow, colpevole. “Mi... mi farà piacere un po’ di compagnia durante
il viaggio”.
Lui annuì e
sospirò, alzandosi. Si avvicinò alla finestra dell’hotel, affacciandosi e
avendo una meravigliosa visuale dei boschi che costeggiavano Amarantopoli. Nel
cortile dell’hotel vi era Green, in piedi, col lungo soprabito nero e i guanti
in pelle. Era al telefono.
“Hai visto
Blue?” domandò poi.
“No...”
rispose prontamente la bionda.
“Green è lì
da solo”.
Yellow fece
spallucce ma Red, voltato, non poté vederlo.
Johto,
Fiordoropoli
“Questo
posto mi piace un casino!” urlava entusiasta Matilde, perdendo lo sguardo tra
gli altissimi palazzi del centro di Fiordoropoli. La grande città era ancora
scossa dalla perdita della Capopalestra Chiara e tutti erano leggermente
straniti dalla presenza di Pino, ad accompagnare la giovane verso la Palestra.
“Tutti mi
guardano male...” sospirò lei, vedendo come il Superquattro fissasse dritto a
oltranza, col sorriso sul volto e la maschera fissa a nascondergli lo sguardo.
“È naturale.
Erano parecchio affezionati alla vecchia Capopalestra e hanno appreso la
notizia della sua morte solo pochi giorni fa...”.
“Mi
piacciono i tuoi capelli” disse poi la ragazza, guardando il caschetto lilla
del ragazzo.
“Anche i
tuoi non sono male. Il centro è questo”.
“Questo
qui?” domandò la ragazza, vedendo la piazza principale della città gremita di
gente.
“Esattamente.
Le manifestazioni verranno organizzate qui, assieme agli eventi di maggiore
interesse”.
“Aspetta”
disse, poi quella.
Prese a
correre verso il centro della piazza, in direzione della grande statua
centrale, sulla quale la ragazza si arrampicò. Stringeva le mani attorno al
braccio della vecchia statua che raffigurava il fondatore della città, e
rimaneva in bilico coi piedi sul bordo del basamento, a due metri d’altezza.
Tutti la
guardavano straniti, mentre quella prendeva aria nei polmoni.
Poi prese a
urlare.
“GENTE DI
FIORDOROPOLI!”.
Chiunque non
la stesse già guardando, si voltò in sua direzione. Qualcuno invece proseguì,
allontanandosi nelle varie vie che sfociavano nella Main Square.
“IO MI
CHIAMO MATILDE E SARÒ LA NUOVA CAPOPALESTRA DELLA CITTÀ!”.
Dopo quella frase la gente cominciò ad
avvicinarsi. La presenza di Pino, qualche passo accanto alla statua, donò enorme
credibilità a quell’energica ragazza poco più che maggiorenne.
“NON
CONOSCEVO CHIARA MA S CHE VOI LE VOLEVATE TANTO BENE! BEH! CERCHERÒ DI
CONQUISTARMI IL VOSTRO AFFETTO E DI DIVENTARE MIGLIORE DI LEI! FIORDOROPOLI È
LA PIÙ GRANDE CITTÀ DI TUTTA JOHTO E SI MERITA LA PIÙ GRANDE CAPOPALESTRA DI
TUTTA JOHTO! TRA QUALCHE GIORNO POTRETE VENIRE A SFIDARMI PER CONQUISTARE LA
MEDAGLIA... LA... LA MEDAGLIA...”
Poi si voltò
verso Pino.
“Come
diamine si chiama la medaglia?!”.
“Piana”
sorrise divertito il Superquattro.
“LA MEDAGLIA
PIANA!” urlò poi, tornando a guardare la folla. “IO MI CHIAMO MATILDE, E SARÒ
LA VSTRA NUOVA CAPOPALESTRA!” ripeté. La gente, dopo un iniziale silenzio,
cominciò a mormorare, fissando la ragazza che si era voluta elevare su tutti.
La videro
saltare giù e raggiungere rapidamente Pino, che annuì lentamente.
“Non hai
paura di parlare in pubblico, eh?”.
“Chi, io?
Sono nata per il pubblico, cocco”.
“Pino. Mi
chiamo Pino”.
“Sì, lo so.
Era per dire.”.
“Non sono
sicuro che sia tanto sbagliata, la tua mossa. La gente parla di te e stai
creando sensazionalismo” fece il Superquattro, con quelle movenze da gatto di
cui generalmente abusava. Sembrava che ogni suo movimento lasciasse una scia
vellutata alle sue spalle.
“Non ho mai
pensato che fosse sbagliata! La gente di Fiordoropoli deve conoscere la nuova
Capopalestra della città!” fece, con Pino che sorrideva ancora.
“Se fossi un
pochino più grande... giuro che m’innamorerei di te con una facilità
sorprendente” le disse.
Matilde
avvampò violentemente.
“Ora che ho
finalmente un po’ della tua attenzione, voglio mostrarti, alla tua sinistra, la
grande Torre Radio”. La giovane dai capelli fucsia si voltò, rimirando la
grossa struttura in ferro che terminava con tre grandi parabole.
“Le sue
frequenze arrivano in tutta Johto”.
“A Sinnoh ci
sono stazioni televisive” rispose subito.
“Sì, lo
so... Giubilo TV è sul canale sette. Accanto abbiamo il casinò”.
“Non mi
piace il gioco d’azzardo...” disse poi, disegnando una smorfia sul volto. Gli
occhi, di quel colore così simile ai suoi capelli, si strinsero in una feritoia
dove solo il suo sguardo riusciva a passare.
“Delle
volte, nella vita, bisogna saper giocare. Proseguendo...” fece, allungando il
passo e superando una coppia di anziani. “... abbiamo la stazione del
Supertreno. Questo collega Johto a Kanto. E di fronte abbiamo la tua Palestra”.
Matilde
allungò il collo, per vedere la grande costruzione che si trovava al di là
della strada, dopo un ampio spiazzale accerchiato da palazzine e vicoletti. Una
grossa tabella con la faccia di Chiara stava per essere smontata, secondo
ordine di Lance. La nuova non aveva il volto di Matilde e la cosa non le
piaceva. Col tempo avrebbe provvisto a tappezzare tutta quella città con la sua
figura.
Entrarono,
Pino le fece educatamente strada. Sulla sinistra vi era una donna di mezz’età,
dai capelli castani, raccolti, con una spruzzata di efelidi sul naso. Gli
occhi, di un rosa innaturale, si spalancarono non appena il Superquattro e la
neo Capopalestra fecero il proprio ingresso nella sala.
“S-salve!”
sobbalzò, alzandosi in piedi.
“Matilde,
lei è Laura, la tua segretaria. È anche la madre della compianta Chiara”.
“Ouw...”
sbuffò la ragazza, calando il capo. “Mi spiace molto per sua figlia, signora.
Cercherò di non sfigurare”. Alzò gli occhi e guardò la Palestra, dalla grande
passerella d’alluminio, vedendo un complesso labirinto fatto di ponti e archi.
“Ma lei non
può lavorare qui dentro” continuò, diventando seria all’improvviso.
Pino rimase
stupito.
“Co-come?
Vuole licenziarmi?” domandò la donna, con un’ansia crescente che le trapanava
lo stomaco.
“Mi dia del
tu, lei è un’adulta e io non sono che una ragazza appena uscita
dall’adolescenza con improvvisi picchi di maturità, ma molto, molto rari. Il
problema è che lei, essendo la madre di Chiara, vivrà per sempre con il ricordo
di sua figlia e la sua morte sarà una ricorrenza quotidiana nei suoi
pensieri...”.
“Dove vuoi
arrivare?” chiese il Superquattro, incrociando le braccia.
“O lei se ne
va o qui buttiamo tutto per terra. E sarei orientata per la seconda scelta”.
La donna
abbassò lo sguardo.
“Matilde è
un tipo piuttosto particolare, Laura, lo hai capito. Io, personalmente, non mi
sentirei a mio agio a stare a casa senza fare nulla. Lance non darà problemi a
operare un piccolo... ammodernamento” disse Pino.
“E voglio
subito un’insegna col mio volto!” esclamò.
Pino fece
cenno di sì con la testa, fissandola con attenzione. Sorrise e sospirò.
“Che dolce
guaio, che sarai...”.
Johto, Ebanopoli,
Palestra di Ebanopoli
“Yellow...
Che ci fai qui? Sono successe altre cose?” domandava Sandra, in piedi davanti a
un grosso sacco da kick-box. La bionda osservò le cosce toniche della
Capopalestra fasciate da un paio di pantaloncini arancioni. La donna s’avvicinò
alla Dexholder, prendendo un asciugamano e passandoselo attorno al collo.
Yellow si
guardò attorno, poi, con la gente che si allenava duramente.
“Sei a
disagio?” domandò Sandra, fissandola in volto.
“Devo
parlarti di una cosa”.
“Quella
cosa?”.
“Sì... quella
cosa di Lance”.
Sandra annuì
e le fece strada attraverso la Palestra, passando nel lungo e buio corridoio,
illuminato qui e lì da qualche lampadina volutamente fioca. Intersecarono un
secondo corridoio, sulla destra, e lo percorsero interamente. Yellow vedeva la
donna ancheggiare sinuosamente al centro del corridoio, calpestando con
delicatezza il pavimento in resina azzurro, che donava colore e leggera
luminosità a quel luogo buio come una caverna. Sulla sinistra poté vedere,
giusto per qualche secondo, il campo di battaglia dove Sandra veniva sfidata.
Non erano in
molti a riuscire a giungere a lei, in quanto ultima Capopalestra di Johto.
E chi ci
riusciva aveva filo da torcere.
Alla fine
del corridoio entrarono nella camera sulla destra, ovvero il suo ufficio.
Era ordinato.
La scrivania era proprio al centro della parete lunga, ed era posta davanti a una
grossa finestra che lasciava entrare la luce del giorno dall’esterno.
“Perdonami”
disse Sandra “Lascia che mi cambi un momento...”.
Prese dei
vestiti da un attaccapanni e si voltò di spalle, alzando il top e il reggiseno
sportivo, lasciando la schiena nuda agli occhi della bionda, che si voltò
dall’altra parte, imbarazzatissima.
Pochi
secondi dopo era lì, nella sua tenuta ufficiale.
“Allora...
Che dicevi?”.
Yellow
deglutì qualcosa di denso e quasi doloroso, sentendo le gambe tremare. Le mani
si cercavano l’un l’altra, trovandosi davanti allo stomaco in subbuglio. Si
morse il labbro e poi si decise a confessare.
“C’è una
probabilità che Lance possa essere il mio fratellastro”.
Sandra
spalancò gli occhi, rimanendo immobile. Batté le palpebre un paio di volte ed
espirò, buttando con lentezza l’aria fuori dai polmoni.
“Mi stai
prendendo in giro, vero?”.
“Purtroppo
no. Purtroppo c’è davvero una probabilità che suo padre sia pure il mio”.
“Ma tu non
sai chi è tuo padre... Hai vissuto nel Bosco Smeraldo per una dozzina d’anni,
da sola... Cioè... com’è possibile?”.
“Beh...”
sorrise la bionda. “È ovvio che in quel bosco io sia stata abbandonata da
qualcuno. Sono comunque il frutto del rapporto di qualcuno”.
Sandra
abbassò gli occhi. L’aveva sempre etichettata come figlia del bosco ma si era appena resa conto che non fosse
sbocciata dal nulla. Pensò al fatto che Yellow fosse cresciuta da sola, in
balia dei pericoli, da quando era nata.
“E come mai
pensi che mio zio Dorian sia tuo padre?”.
“Io... nelle
Rovine D’Alfa, l’altro giorno... Sono stata vittima di un’illusione”.
Sandra
spalancò gli occhi, nuovamente. “Continua...” fece.
“Ho visto
mia madre e mio padre che mi lasciavano nel bosco. E mio padre era il padre di
Lance...”.
La
Capopalestra vide l’altra abbassare lo sguardo e sospirare. Doveva proteggere i
Domadraghi, e lasciare che suo zio non ne uscisse con le mani sporche, in
quanto era il capo dell’intera federazione.
“Sarà stata
sicuramente l’illusione a farti credere che mio zio fosse tuo padre”.
“Ma era
tutto così vivido!” ribatté. “E ho visto mia madre...” sorrise poi Yellow, con
dolcezza, e Sandra non poté non abbassare lo sguardo. Si stava mettendo contro
una ragazza totalmente innocente, vittima di una situazione barbara e meschina.
E lo stava
facendo da vigliacca, gettandole polvere negli agli occhi.
“Com’era?”
domandò poi. “Tua madre... com’era?”.
Il sorriso
della bionda s’allargò e il suo volto assunse l’espressione di chi ricordava un
bel sogno.
“Bellissima”
rispose. “Dai capelli ramati e corti... e belle labbra! Ed è dolcissima! Si
chiama Diana”.
Sandra cercò
di fare mente locale per capire se conoscesse quella donna. Ma nulla. “No...
questo nome non mi dice nulla”.
“Lance mi ha
detto di chiederti di controllare nei registri della Palestra se questa donna
vive in questa città. Dovresti conoscere tutti i nomi degli abitanti di
Ebanopoli”.
“Beh,
conosco tanta gente ma non proprio tutti...” sorrise quella, cercando di
trovare una finestra d’ilarità nel panico crescente che provava.
“No,
intendevo a livello cartaceo...” seguì il sorriso la Dexholder. “Puoi
controllare se vive qualche Diana, qui?”.
“Beh... sì,
posso. Ma non ora. Purtroppo gli archivi non sono accessibili in ogni orario e
il responsabile oggi è in ferie”.
“Oh...”
sospirò lei. “Ma tu sei la Capopalestra... insomma... potresti entrare, sono i
tuoi uffici questi...”.
Sandra
sospirò, pensando alla possibile reazione di Lance; e avrebbe mentito a se
stessa se non avesse ammesso che il disappunto di suo cugino un po’ non le
creava piacere.
Tuttavia non
era più una ragazzina. Non poteva creare disordine nell’intero ordine dei
Domadraghi soltanto per l’invidia che provava per Lance.
Doveva
riuscire a svincolarsi.
“Beh... mi
metti in difficoltà, così, Yellow...”.
“Ti
supplico!” esclamò, con gli occhi spalancati, afferrando le mani e
congiungendole nelle sue. “Mi daresti un aiuto eccezionale!”.
Si sentiva
davvero troppo meschina. Quindi crollò.
“Vieni...”
le disse, alzandosi. Tirò il body, stendendolo lungo il corpo tonico, e fece
strada alla più minuta verso l’archivio della Palestra, la prima stanza del
corridoio. Poi accese le luci, illuminando tre lunghe fila di archivi.
“Come hai
detto che si chiama?” chiese poi la proprietaria. Vide il volto di Yellow
rabbuiarsi.
“Non conosco
il cognome... ma il nome è sicuramente Diana”.
Sandra portò
le mani ai fianchi e inarcò le sopracciglia. “Non posso perdere tutto il tempo
del mondo. Gli archivi sono organizzati per cognome”.
“Lo so... ma
non c’è un elenco digitale, o qualcosa di simile?”.
Doveva
mentire.
“Certo, ma è
il nostro addetto che ha le password per entrare nel sistema. Senza di lui non
posso fare nulla”.
La bionda
giochicchiava con la punta della treccia quando annuì. “Beh... Allora ti chiedo
scusa. Passerò prossimamente allora, se me lo concedi”.
“M-ma
certo!” esclamò quella. L’accompagnò poi alla porta e la salutò, vedendola
perdersi dietro l’angolo. Sospirò, sollevata, e tornò indietro, rapidamente.
Rientrò
nell’archivio e si sedette alla postazione computer.
Cliccò un
paio di tasti e digitò la password per accedere al server.
La schermata
di ricerca s’aprì quasi subito e a lei bastò cercare il nome Diana per ottenere
i risultati. Ce n’erano sette.
Due erano
decedute quindici e ventitre anni prima, molto anziane.
Troppo
anziane per aver avuto una bambina negli ultimi decenni.
Scorse un
po’ col mouse, vedendo l’immagine di una donna dai capelli blu, molto giovane.
Troppo
giovane per avere una figlia più grande.
Erano
rimaste quattro donne, di cui due trasferitesi diversi anni prima lontane da
Ebanopoli. Le bastò osservare il volto della prima delle due per rendersi conto
di aver trovato chi cercava: quella donna di poco più di quarant’anni
assomigliava a Yellow in maniera impressionante. Lesse il numero del cassetto
nel quale la sua scheda fosse archiviata, il sessantasette, quindi eliminò il
file e recuperò il cartaceo di riferimento, prendendolo e portandolo con sé.
Nessuno
avrebbe mai dovuto vedere il volto di quella donna.
Johto,
Olivinopoli
“Trovo che
sia la città più bella di Johto... Certo, non la più caratteristica, ma il
faro, il porto... tante belle cose...” faceva Karen. Il suo sorriso era largo
sul volto ma non mostrava i denti.
Al contrario,
Risetta non sorrideva mai.
Camminavano
lungo la strada principale. L’aria era tirata e le persone avevano capito
immediatamente che qualcosa non andasse per il verso giusto, vista la presenza
della donna dai capelli turchesi sulle loro strade.
Karen, come
anche gli altri componenti dei Superquattro, difficilmente si allontanava
dall’Altopiano Blu, e ciò destava una giusta preoccupazione. In più, pochi
giorni prima si era tenuta un’assemblea cittadina, in cui Jasmine aveva
comunicato ufficialmente l’abbandono della carica di Capopalestra. Aveva anche
affermato che avrebbe lasciato Olivinopoli e più probabilmente l’intera regione
di Johto. Aveva lasciato la sala in lacrime, raccolto la valigia al faro ed era
fuggita via.
Risetta non
faceva altro che guardare diritto, con la stessa espressione sul viso, mai
mutevole, mai arrabbiata, mai felice. Al contrario, Karen sorrideva maliziosa,
ancheggiando a ogni passo che muoveva accanto alla scogliera meravigliosa del
lungomare; quella era famosa in tutta Johto, per via di una competizione che si
teneva ogni anno e che vedeva i migliori scultori e intarsiatori fronteggiarsi
e scolpire un soggetto. Il migliore veniva piazzato lungo il passeggio del
lungomare della città.
“Bellissima,
Olivinopoli...” continuò Karen. “... con le sue casette bianche e i tetti blu,
la sabbia chiara e il mare meraviglioso. Qui le persone sono sempre soddisfatte
e felici”.
Difatti Risetta
sembrava davvero fuori luogo, lì, con quell’espressione perennemente seriosa.
“Che ne
pensi?” domandò infine la Superquattro, vedendo che dopo qualche secondo dalla
precedente affermazione non vi fosse stata alcuna ribattuta.
“È una città
come tante. Dov’è la Palestra?” domandò rapida quella, massaggiandosi il collo,
da sola.
“Ci
arriviamo subito. Prima devi sapere che il tuo compito prevede anche una
mansione extra, qui a Olivinopoli”.
Risetta non
si scompose, rimanendo a fissare il vuoto davanti a sé. Karen sorrise,
divertita.
“Sei anche
la guardiana del faro. La tua casa è quella” disse puntando il dito contro la
grande costruzione conica al di sopra del promontorio.
“Almeno me
ne starò per i cazzi miei... Finiamo presto questo supplizio e fammi vedere la
Palestra”.
“Ma certo...”
sospirò quella dai capelli turchesi, cominciando a infastidirsi dal comportamento
altamente superficiale della donna.
Camminarono
per un minuto circa, nel totale silenzio e nello sbigottimento generale. Non
appena arrivarono alla Palestra, fu proprio la Superquattro a essere sintetica.
Non aprì neppure le porte dell’edificio e le porse le chiavi.
“Se hai dei
cambiamenti da fare alla struttura lo comunicherai alla segreteria della Lega.
Negli uffici della Palestra troverai anche il numero di Virgil, l’uomo che
t’insegnerà a manovrare i comandi del faro”.
“Va bene”.
Karen perse
un secondo a fissarla, analizzando gli occhi di quel celeste scuro dalla
palpebra cadente, a celarla quasi per metà. I capelli neri erano corti, ben
pettinati e tenuti fermi da una molletta. Carina, per carità, ma si chiedeva
come potesse, un uomo esuberante come Chicco, stare accanto a una donna che non
provava emozioni.
Non erano
problemi suoi, lasciò cadere le chiavi tra le sue mani e si voltò, sculettando
via.
Adamanta,
Primaluce, Casa Recket
La sera era
scesa lentamente, e l’intero paesino si stava rintanando mano a mano nelle
proprie case. Allegra aveva passato l’intero pomeriggio con Arcanine e dopo
cena era caduta sfinita sul divano. Rachel e Zack avevano passato un po’ di
tempo a tavola, quella sera, parlando e ricordando di alcuni episodi del
passato. Poi avevano gettato entrambi un occhio sul divano e avevano guardato
la bambina che dormiva.
“Ti
assomiglia troppo” disse Rachel, sospirando e sorridendo bonariamente. Tuttavia
la reazione di Zack fu quella d’inarcare le sopracciglia e spalancare la bocca,
incredulo.
“Ma di che
parli?! Tu sei il cristallo della luce! Lo eri, almeno... Tua madre, tua nonna,
tutte le tue antenate... siete tutte identiche!” esclamava, urlando a bassa
voce.
Rachel
sorrise nuovamente e annuì.
“Sì, hai
ragione... ma è un vulcano, ha i tuoi comportamenti... È esplosiva, piena di
vita... Io ero una bambina assai più tranquilla”.
“Immagino.
Sai che palle...” sbuffò Zack, sorridendo poi quando Rachel gli lanciò una
mollica di pane addosso.
“Ma! Io ero
una bambina dolcissima ed educata!”.
“Non lo
metto in dubbio, i tuoi genitori saranno stati sicuramente fantastici. Ma sai
che palle lo stesso...”.
“Fanculo,
Recket” sbuffò la donna, aggiustando il ciuffo corvino sulla fronte.
Zack si
perse negli acquitrini che quella aveva al posto degli occhi, sorridendo e
riconoscendosi innamorato. Gli piaceva.
Ma tanto.
“Sei sporca
di vernice” disse poi.
“Oh. Dove?”.
“Sul volto.
Lì” fece, puntando l’indice contro la fronte.
“Dove, qui?”
rispose quella.
“No. Più
giù”.
“Qui?”.
“No. Più
giù!”.
“Ma dove?”.
I loro occhi
si scontrarono per qualche istante, prima che Zack sorridesse, facendo sbuffare
Rachel.
“Non ho
nulla, vero?”.
“No. Ma sei
meravigliosa”.
“Uff... La
smetterai mai?” chiese, vedendolo alzarsi. Zack circumnavigò il tavolo e le si
avvicinò, dandole un bacio sulla fronte.
“Se vuoi
puoi andare a rilassarti... laverò io questi piatti”.
“Sei molto
dolce... Magari andrò a dipingere un altro po’…”.
“Ti sta
prendendo tanto, eh, questa storia della pittura?”.
Rachel
annuì, alzandosi in piedi e baciando nuovamente il suo uomo. “Alma dice che
alcune mie tele avrebbero la qualità per essere esposte in qualche mostra”.
“Sei davvero
brava, ha ragione”.
Zack
raccolse i piatti e si avvicinò al lavello, aprendo l’acqua.
“Non sono
poi così brava...”.
“Certo che
lo sei. Hai questo vizio orrendo di sminuirti in continuazione”.
“Ma tu sei
di parte...”.
“Sei
perfetta così come sei. Forse anche più di ciò che dai a vedere. D’altronde
Arceus ha scelto te, no?”.
“Beh, non è
proprio così...” sorrise lei. “Ma è vero, questa cosa ti dà una bella botta
d’autostima”.
“Porta
Allegra a dormire e comincia a dipingere un po’. Guarderò il telegiornale, per
conoscere gli ultimi sviluppi a Johto, poi salirò più tardi”.
Lei sorrise
e annuì, prima di rabbuiarsi. “Ma sei sicuro che non ti spiaccia che passi
molto tempo da sola a dipingere? Non vorrei che tu ti sentissi messo da
parte...”.
“Stai
tranquilla...” sorrise quello. “Tu fai la mamma a tempo pieno e hai bisogno di
rilassarti, di tanto in tanto...”.
“Tanto Allegra
preferisce sempre te, quindi...” sospirò quella, storcendo il muso.
Zack
sorrise. “Questo perché sono straordinario... Ma anche tu sei una bravissima
madre e sono sicuro che senza di te sarebbe perduta. Totalmente”.
“Dici?”.
Lui annuì.
“Allegra si rende conto degli sforzi che fai come mamma. È una bambina
intelligente”.
“Già...
Qualcosa da me l’ha presa, è vero...”.
Johto, Violapoli
“Eccoti qui,
Marisio. Scusami per il ritardo...”.
Violapoli
era gremita di gente quella sera. Il freddo s’era calmato leggermente,
lasciando spazio alla folla per festeggiare. Marisio non aveva ben capito cosa
rendesse la gente tanto fiera e felice, quel giorno; si era limitato a sedersi
al tavolino di un bar poco fuori il centro della città, dove Lance gli aveva dato
appuntamento.
Aveva bevuto
un drink, sgranocchiato qualche nocciola fresca e aspettato pazientemente che
il Campione lo raggiungesse.
“Non
preoccuparti, Lance. Non ero qui da molto...”.
Il Campione
non indossava il mantello, quella sera. Era tuttavia avvolto nel solito
giubbino di pelle bordeaux, con le mani nelle tasche e il sorriso sicuro
stampato sul volto.
Marisio
chiuse per un attimo gli occhi, accertandosi della grande quantità d’aura che
accerchiasse la sua figura. Quello era un uomo dalla forza incomparabile.
“C’è un
motivo se ho voluto accompagnarti di persona qui, a vedere la tua prossima
Palestra”.
“A dire il
vero non avrei ancora deciso se accettare il posto”.
“Oh, certo,
tranquillo” fece, spostando una ciocca dei capelli fulvi dallo sguardo. “Ma,
come dicevo, cerco di arruffianarti e di convincerti con la bellezza
dell’antichità e della tradizione che Violapoli trasuda”.
“Beh...”
sorrise Marisio, non riuscendo a dare torto all’interlocutore. E d’altronde,
non avrebbe trovato il modo per contraddirlo. Le strade della città erano
interamente mattonellate, e arrivati a un certo punto le automobili non
potevano andare oltre. Solo persone, al limite biciclette e Pokémon. Anche le
abitazioni, tutte, avevano quell’aria anticata, costruite interamente in
mattoni di pietra viva. I tetti erano composti da tegole violacee, a creare
un’atmosfera particolare, col verde dei boschi a contenere le periferie
tranquille della città e il Monte Scodella a vegliare alle sue spalle.
Lance
cominciò a camminare, seguito rapidamente dall’altro.
“Sai perché
ci sono tutte queste persone per strada?” domandò il Campione, guardando
granitico un ragazzino che lo salutava da lontano.
“A dire il
vero no, Lance”.
“Oggi è un
giorno di festa. La gente di Violapoli ricorda la fine della battaglia con
Ebanopoli, la mia città. La guerra si tenne in cima al Monte Scodella, tra due
grandi eroi. Uno era uno dei miei avi, vissuto secoli fa; un grandissimo
Domadraghi. E poi vi era un uomo che aveva addestrato un grandissimo Pidgeot,
velocissimo e potente, proprio come il Dragonite che aveva schierato il
rappresentante della città di Ebanopoli”.
“La festa
qui mi fa intuire che a vincere sia stato Pidgeot e l’eroe di Violapoli...”
fece Marisio.
“Errore. I
Domadraghi non si lasciano sconfiggere così facilmente. Tuttavia, dopo tre
giorni e tre notti passati a lottare, gli uomini decisero di fermarsi e di
riposarsi”.
“La guerra
per cosa scoppiò?”.
“Per il
predominio del Monte Scodella, Marisio. Dopo due giorni e due notti che gli
eroi passarono dormendo, si rincontrarono sulla cima della montagna e decisero
di dividere i territori, in modo che a Violapoli sarebbe appartenuta la
facciata a sud, mentre a Ebanopoli quella a nord”.
“Festeggiano
la fine degli scontri”.
“Di quasi
mille anni fa. Ed è solo una leggenda. La tradizione è ben radicata in questo
luogo”.
Il
forestiero annuì, inspirando l’aria antica che pervadeva quelle vie. Percorsero
la strada che si snodava sinuosa davanti al Centro Pokémon.
“Anche
quest’edificio è stato costruito secoli fa. Valerio ha voluto riadattarlo, per
riconsegnargli valore effettivo. E, chiaramente, è una delle strutture più
utilizzate da tutti, in città”.
“Un punto di
riferimento, ovviamente” sorrise a mezza bocca Marisio. “D’altronde è un Centro
Pokémon”.
“Esattamente”
sorrise Lance. Lasciò che passasse davanti a lui, per permettergli di guardare
per primo allo spettacolo che si presentò ai loro occhi: cento bambine, fino ai
dieci anni, erano vestite con abiti tradizionali di Violapoli, sfarzosi ed
eleganti, variopinti, ornati da piume di Pidgeot e foglie di Bellsprout.
Marisio non
riuscì a non lasciarsi scappare un sorriso, vedendo le bimbe fare un grande
girotondo intorno a tutta la piazza, cantando e ballando, riempiendo di sorrisi
i volti dei passanti. L’uomo alzò la tesa del cappello, guardando le donne
anziane, che ancora vivevano nei borghi centrali del paese vecchio, affacciate
ai balconi, battendo le mani a tempo con l’orchestra che suonava sul palco
davanti al laghetto.
“Cos’è
quella?” domandò poi, puntando l’indice verso la grande torre che sembrava
ballare alle spalle della folla. “Si muove...” osservò.
Lance
sorrise, facendo segno di no con la testa.
“Come tutte
le vecchie città, anche Violapoli ha una grande quantità di leggende. Quella
della Torre Sprout è forse una delle più affascinanti...”.
“La Torre
Sprout...” ripeté il forestiero.
“Fu
costruita per un gruppo di Monaci buddisti in un periodo in cui uno sciame di
terremoti stava mettendo a ferro e fuoco la nostra nazione. Guardala...”
suggerì il Campione.
“È costruita
interamente in legno...”.
“Sarebbe
crollata alla prima scossa. Ecco perché il pilastro centrale attorno al quale è
stata concepita l’intera struttura è flessibile, e lascia danzare leggermente
la torre. Si chiama Torre Sprout proprio perché, si racconta, fosse stata
costruita attorno al corpo di un gigantesco Bellsprout, alto più di trenta
metri...”.
“Incredibile...”
sorrideva Marisio, osservando i due ponti consecutivi che servivano a
raggiungerla, al di là del lago.
Superarono
la festa nella piazza, attraversando il borgo più antico e dirigendosi verso
una zona più residenziale, dove spiccava una grande costruzione.
“Quella è la
Palestra” fece, avvicinandolo. Lo afferrò per il braccio, tirandolo dentro.
L’edificio
era al buio ma a Lance bastò allungare la mano lungo il muro per farsi strada
verso il bancone della segreteria. Prese la torcia e illuminò il quadro
elettrico, annuendo soddisfatto, saltando poi con un agile balzo il tavolo e
alzando poi tutti gl’interruttori, illuminando a giorno l’edificio.
Marisio
sorrise ancora, vedendo una grande voliera, con esemplari selvatici di Pokémon
di molteplici regioni che volavano liberi e spaventati dall’improvvisa
accensione dei riflettori. Tuttavia l’occhio non poté che cadere sulla grande
impalcatura in legno mantenuta da quattro grossi pilastri. Un ascensore, mosso
da un sistema di carrucole, li portò entrambi sulla sommità, dove poterono
ammirare da quasi sei metri l’intero edificio e i suoi volatili.
“Insomma...”
sorrise il candidato Capopalestra. “La vera Palestra è su questa passerella”.
“Già.
Valerio lo aveva fatto per limitare gli avversari e favorire incontri volanti
spettacolari”.
“È veramente
fenomenale...”.
“E sarà
tutto tuo, se accetterai il posto da Capopalestra”.
Gli occhi
dei due s’incontrarono, incrociandosi in un pericolosissimo confronto. Marisio
vedeva lo spettro della sua aura continuare ad aumentare, donandogli sempre
maggiore forza spirituale. Pensò che Lucario sarebbe stato molto attratto da
una persona del genere.
“Non lo so,
Lance” rispose poi.
Quello
spalancò gli occhi dorati, poi li batté un paio di volte.
“Come,
scusa?”.
“Non
fraintendermi, Violapoli è una città meravigliosa e tu sei stato gentilissimo a
offrirmi questo posto, qui, in una località così importante per l’intera
Johto... È tutto fantastico, tutto caratteristico...”.
“Ma?”
interruppe il Campione.
“Ma ho degli
affari in ballo, a Sinnoh. Ho una donna, lì”.
“Avresti a
disposizione un ingaggio che ti permetterebbe tranquillamente di poter
sostenere l’affitto o l’acquisto a breve termine delle abitazioni più lussuose
del posto. E la tua donna potrebbe venire qui con te”.
Marisio
sorrise. “La mia donna ha il suo lavoro lì. La sua vita è a Evopoli”.
E fu lì che
Lance capì. “Gardenia?”.
“Esattamente...”
allargò il sorriso quello. “Non voglio separarmi da lei né squilibrare il
nostro rapporto. La distanza...” continuò. “Beh... è una di quelle cose che se
non tenuta a bada, se non gestita... ci ammazzerebbe”.
“Potresti
indire un giorno settimanale di pausa... o cercare un sostituto, e raggiungere
Gardenia ogni sette giorni. Non sarebbe male, no? E potrebbe fare lei lo
stesso”.
Marisio fece
cenno di no con la testa, abbassando il volto. “No, è complicato...”.
“I tuoi
compagni hanno tutti accettato. Resti solo tu. Non ti alletta l’idea?”.
Rialzò
subito il viso, fissando negli occhi Lance. “Certo, non è come pensi... Vorrei
tanto rimanere qui. Ma vorrei farlo a cuor leggero”.
“Dimmi che
ci penserai”.
“Lo farò.
Domani tornerò a Sinnoh e ne parlerò con lei... dopodiché c’incontreremo e ti
darò la mia risposta”.
“Violapoli è
una Palestra di vitale importanza, Marisio. Non potrà rimanere scoperta per
molto”.
“Già”.
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