Forse era per quel buio, che quando arrivava la notte si distendeva come il mare sulle rive di una spiaggia deserta, scrosciando senza che nessuno lo sentisse.
O forse era per il silenzio.
Quel silenzio terribile che nella sua vita era sempre stato assente giustificato e che era esploso quella sera assieme al malessere che rapiva i suoi pensieri.
Aveva pianto, Zack, piegato in due dal dolore e dai rimorsi.
Forse non doveva lasciarla da sola? Avrebbe dovuto costringerla, forse? Eppure le aveva specificatamente chiesto di andare con loro al parco, a fare due passi e godersi un po’ di quel sole prima che cominciasse nuovamente a nevicare.
“Rachel...” ripeté, prendendo profonde boccate d’aria e riempiendo i polmoni di polvere e veleno.
Avrebbe dovuto prevederlo.
Sì, avrebbe dovuto capire che prima o poi quei pezzi di merda sarebbero tornati a prendersi ciò che lui abilmente aveva sottratto dalle loro mani.
La figlia di quell’uomo ignobile che lui aveva sposato, e da cui era nata il gioiello più prezioso della sua corona, sua figlia.
Aveva vissuto quegli anni nell’utopia più che totale, immerso nell’amore che le sue donne gli donavano e che lo dissetava nei giorni in cui ricordava di esser cresciuto da solo, durante le tempeste di vento e le tormente di neve.
Passò da steso a seduto, su quel pavimento così freddo. Pensò di esser stato stupido, soltanto per aver pensato al fatto che quella perfezione sarebbe potuta durare per sempre, per poi evolversi durante il corso della sua vita.
E invece no.
Invece aveva sempre dovuto lottare coi suoi fantasmi, contro di loro e contemporaneamente al loro fianco, fronteggiando se stesso e quella sensatissima voglia di pace e di tranquillità: era andato via da casa, partito per quel viaggio quasi vent’anni prima, e aveva girato in lungo e largo durante ogni grande evento che le regioni avessero vissuto.
Era a Sinnoh quando Cyrus aveva deciso di far detonare l’interno universo. Ricordava il periodo subito successivo, quando aveva deciso di allenarsi duramente per arrivare a lottare nelle Palestre di quella regione, dove peraltro conobbe Gardenia; con lei ebbe una relazione di un paio d’anni, prima che i loro caratteri, così diversi ma così simili, facessero scoppiare quella situazione, dando di fatto a Zack l’occasione di muoversi verso Adamanta, dove conquistò il titolo di Campione della Lega.
Dove conobbe Rachel.
C’erano volte, soprattutto quelle notti fredde in cui il solo sacco a pelo non bastava a riscaldarlo, in cui rimpiangeva la morbidezza del suo materasso, a Celestopoli.
E la voce di sua madre, a ricordargli che era tardi e che doveva andare a scuola.
Avrebbe voluto rifugiarsi nei ricordi, nelle risate infantili e scappare da quell’orribile situazione.
Ormai era grande.
Ormai doveva darsi da fare.
Si sollevò in piedi e si spogliò, coi morsi del freddo a strappargli brividi e brandelli di carne, poi aprì l’armadio e indossò uno dei suoi jeans e una lunga felpa con cappuccio nera. Infilò quindi la bandana che lo aveva accompagnato per anni durante le sue avventure e tirò su i guanti senza dita.
Era quasi pronto.
Abbandonò la sua camera da letto, dove i vestiti che aveva smesso erano ancora sul pavimento. Guardò il cuscino di Rachel e riuscì a sentire il suo profumo aleggiare nell’aria. Aprì il cassetto del suo comodino e infine vi prese la Pokéball che custodiva.
Entrò poi nella stanza di Allegra e si guardò attorno, come fosse spaesato.
“Ti riconsegnerò la tua mamma...” disse, voltandosi rapido e scendendo nel salotto.
Ancora buio, ancora silenzio.
Accese una luce e pose sulla tavola le sue Pokéball, che velocemente attaccò alla cintura.
Era davvero pronto.
- Adamanta, Timea, Locali Server della Omecorp –
“Lasciatemi! Ho detto lasciatemi!”.
Nel buio di quei corridoi Rachel si dimenava con tutte le forze che aveva ma era inutile: i due grossi omaccioni dalle divise bianche con l’omega fiammeggiante stampata sul petto la tenevano stretta per le braccia, trascinandola con forza.
Lei si opponeva, resisteva. Pensava a sua figlia.
Pensava alla disperazione di suo marito.
Non capiva perché fosse finita nuovamente in quella faccenda. Lei non aveva più il cristallo nel corpo, non aveva più nulla a che fare con quella situazione, se non fosse stato per il fatto che era rimasta comunque l’oracolo di Arceus.
E poi Lionell era morto. Forse.
L’aveva dato sempre per scontato, pensando al fatto che fosse rimasto nel passato, dopo l’ultima volta che si erano visti.
E l’omega, quella lettera infame sui petti di quegli enormi scagnozzi, era il simbolo del periodo più brutto della sua vita, in cui Lionell stesso ne era stato protagonista.
Com’era possibile che quella società fosse rinata dal nulla.
La rabbia risalì nuovamente dal suo stomaco quando ripensò al volto di Allegra; non poteva lasciarla da sola.
“Lasciatemi! Mettetemi giù!”.
“Non urlare!” ribatté uno di quei due colossi, colpendola con un violento ceffone.
“Per… perché mi avete preso…” diceva quella, cercando di non pensare al forte schiaffo che aveva ricevuto.
“Devi stare in silenzio” aveva suggerito l’altro, conciso e diretto. L’avevano poi trascinata lungo un corridoio con poche porte; erano nere, di ferro, e su ognuna di quelle vi era un neon a luce fredda.
Sostanzialmente era tutto buio.
L’ultima porta, però, era ben illuminata.
Vi era un grosso divieto d’ingresso affisso sopra, e un ostrano rumore di macchinari proveniva oltre di lei.
“Vi prego, non potete! State per commettere un errore grandissimo io…”.
E lì stava per parlare di sua figlia, facendosi scacco matto da sola.
Doveva tenere Allegra fuori da quella storia.
Spalancarono la porta davanti a lei e una grossa luce rossa la investì.
“Mettetela lì” sentì. La voce era di una donna; una voce che già conosceva.
Si guardò attorno, mentre veniva trascinata verso un grosso tavolo d’acciaio, osservando enormi server con decine e decine di fili che partivano verso le altre stanze di quell’installazione, sparendo nei cavi che poi attraversavano i muri. Per terra era steso il pavimento in linoleum, grigio, graffiato dalle rotelle di qualche carrello che trasportava qualcosa di troppo pesante. Poche luci, tanti led accesi dalle decine di calcolatori elettronici che emettevano calore e radiazioni. C’erano almeno tre persone, in quella camera, e una era sicuramente sulla poltrone con lo schienale alto, vicino allo schermo luminoso che emetteva grande luce bianca. Poi c’era quella donna nell’ombra, anche se Rachel non riusciva a vederla, e un altro di quegli scagnozzi, con un grosso fucile nella fondina e un Houndoom tenuto al guinzaglio.
“Lasciatemi andare!” urlò quella, fin troppo audace.
E quel coraggio era sicuramente dovuto al fatto che avesse una bambina da ritrovare, quando quella pessima situazione sarebbe finita.
“Non so evocare nessun dio! Non so parlare con Arceus! È lui che ha scelto me ma io non lo volevo!”.
“Non serve che tu lo faccia” ribatté l’uomo dietro il lungo schienale, con quella voce graffiante che lui conosceva fin troppo bene.
“Legatela” continuò poi la donna, palesandosi dall’ombra in cui sostava.
“Linda!” esclamò con rabbia Rachel, ormai stesa sul lungo tavolo. “Lasciami andare!”.
“Sai che non possiamo” aveva risposto l’unico che ancora non aveva visto in faccia. E ormai, la prigioniera, aveva capito di chi si trattasse.
“Pa... papà?”.
- Adamanta, Timea –
La notte era scesa e a Timea nevicava. A Timea nevicava sempre.
O almeno, a Timea nevicava sempre, quando ci andava.
Zack camminava con le mani strette in tasca e le Pokéball nascoste sotto il lungo gilet felpato. Avrebbe avuto parecchio sonno, a quell’ora, se non fosse stato per l’adrenalina che il suo cuore aveva pompato ovunque.
Doveva entrare negli uffici della Omecorp, di nuovo. E anche quella volta doveva farlo per salvare qualcuno che era stato rapito.
Era in piazza; era appena passato sotto la statua di Timoteo qualche minuto prima, osservando la sua figura incastrata nel marmo e rivelandosi leggermente differente dall’originale, più alto e barbuto.
Rude, come un vero guerriero, nonostante la sua cotta fosse d’argento e la grossa croce templare spiccasse sulla sua armatura e sul suo vessillo.
Ricordava Timoteo, Zack, quando qualche anno prima era tornato nel passato. Era un uomo d’onore, pronto a sfidare una morte certa e predetta pur di salvare la donna che amava.
E la donna che amava era la più importante di tutte.
Zack sapeva cosa si provasse a essere l’uomo che l’amava, perché Rachel era chiaramente la donna più importante dell’universo, l’unica che avrebbe potuto visitare la dimensione divina.
Non se ne capacitava.
Rabbrividì pensando al fatto che la situazione fosse paradossalmente errata, in quel momento. Già, perché era Allegra a esser diventata il nuovo oracolo di Arceus.
E ciò poneva la situazione in una posizione parecchio delicata, dato che avrebbe dovuto cominciare una missione lampo di pochi minuti, in cui sarebbe entrato, avrebbe recuperato Rachel e sarebbe uscito e fuggito via, in groppa al suo Braviary.
Avrebbe recuperato Allegra da Ryan e sarebbero fuggiti via da Adamanta.
Nonostante il suo nucleo fosse essenzialmente lì, Zack era stanco di rischiare.
Camminava lungo le mattonelle innevate della piazza, nel buio più che totale e ignaro del reale freddo che in quel momento lo stava divorando, per via del sangue che gli ribolliva nel corpo, ma gli suonò così irreale la soluzione effettiva di tutta quella situazione che fu costretto a distogliere lo sguardo per allontanare quel pensiero.
Avrebbe dovuto uccidere tutti.
Avrebbe dovuto uccidere tutti per la sua famiglia, per salvaguardare sua figlia e sua moglie, per poi passare tutta la vita in galera.
Sarebbe stata la chiave di volta, l’effettiva luce che illuminava il buio. Se tutti, nel grosso edificio poco oltre le vie centrali, e si riferiva unicamente a quelli con l’omega sul petto e nella mente, fossero morti, lui non avrebbe avuto più alcun motivo per avere paura.
Avrebbe vissuto la sua esistenza in totale tranquillità.
Come aveva fatto in quei pochi anni.
Tuttavia era del tutto fuori discussione: lui amava la vita, la riteneva un dono troppo prezioso per potersi permettere di autoproclamarsi giudice e boia per chiunque altro.
Neppure per il nuovo capo dell’Omega Group.
La mano era sempre ferma sulla ball di Lucario, immobile, mentre il respiro tremava e la condensa usciva sottoforma di vapore dalla sua bocca.
Cominciava a sentire il freddo, proprio mentre entrava in un vicolo buio e stretto.
Nessuno aveva osato fermarlo, vedendo la mano pronta su di una possibile Pokéball. Gli Allenatori non erano molti, in giro, soprattutto a quell’ora, e i malviventi sapevano che attaccare chi possedeva delle Pokéball era un po’ come giocare al lotto, dato che spesso chi si era a quell’ora in mezzo alla via non doveva essere uno sprovveduto.
Zack raggiunse il lungo passeggio che poi avrebbe portato nella zona industriale, dove diverse fabbriche s’erano stabilite nel corso degli anni.
La Omecorp era la prima della fila.
Era rimasta come la ricordava, con le mura di cinta nere e il grosso cancello serrato. Vi erano diverse guardie che pattugliavano il perimetro esterno.
“Società di videosorveglianza...” sbuffò quello, guardando gli scagnozzi armati. Ricordava perfettamente l’ultima volta che era entrato lì, ed era con Rachel. Girò l’angolo, seguendo il marciapiede con fare guardingo.
Forse doveva mettere fuorigioco una guardia e prendere il suo costume, entrare dagl’ingressi principali e fare tutto con relativa tranquillità, senza la paura di venire scoperto.
Oppure no.
Camminò rapido, acquattandosi nel buio e visualizzando il suo obiettivo: la grata dell’areazione.
“Se li conosco non l’avranno mossa da lì...” fece, tra sé e sé.
Sarebbe entrato di lì, strisciando nei condotti. Avrebbe dovuto soltanto trovarla in tempo prima che le fosse successo qualcosa.
“Zoroark...” fece, guardando le telecamere di videosorveglianza. Sarebbe stato strano se non ne avessero disseminate per tutto il perimetro. “Fai in modo che non mi vedano” disse, lasciando che il Pokémon uscisse dalla propria sfera.
- Timea, Locali Server della Omecorp –
“Papà” aveva ripetuto sorridendo Lionell, sollevandosi dalla poltroncina. Osservò gli occhi di sua figlia risplendere nel buio di quella stanza.
“Lionell! Lasciatemi andare!” urlò Rachel, ormai in preda a una forte crisi di pianto. Provava paura. Era terrorizzata.
L’uomo s’avvicinò a lei, lentamente, riconoscendo nel suo sguardo, sbiadito dal pianto e sporcato per via del trucco sciolto, quello di Irya, madre di Rachel e moglie dello stesso Lionell.
Identiche le labbra, stesso naso perfetto e lunghi capelli di seta corvina.
“Sei identica a lei...” sorrise, carezzandole le guance.
Rachel vide il volto dell’uomo, inspessito da quegli anni passati lontano dal presente ma totalmente identico a quello che ricordava: capelli lisci e ben pettinati, dal lontano tono biondo ma ormai ingrigiti dal tempo. Alcune cicatrici, profonde e ben visibili, gli deturpavano il viso oblungo, ben rasato, dove gli occhi azzurri erano principi dall’alto delle piccole fessure in cui abitavano.
Elegante, come sempre, svestì la giacca nera e levò i gemelli dalle maniche della camicia, cominciandole a piegare ordinatamente verso il gomito.
“Non ti mentirò. Quello che vedi qui è un uomo differente...”. Rachel sentì rimbombare la sua voce in tutta la sala server. Il sudore grondava dalla sua fronte e il trucco sciolto s’era accumulato lungo le sue guance, poggiate sul freddo metallo del tavolo su cui era legata a mani e piedi.
Lionell continuò a parlare.
“Sono passati tre anni... Tre lunghi anni in cui pensavo di dover espiare i miei peccati, di dovermi pentire del male che avevo provocato. Ma...” e lì sorrise, come un ragazzino ingenuo. “Io non sono mai stato il colpevole dei miei peccati. Io sono stato scelto, per la mia forza e la mia intelligenza. Perché no...” allargò il sorriso. “Per il mio autocontrollo... Beh, io credo in dio, Rachel. Io l’ho visto, e anche tu... Lo stavo sconfiggendo... avevo quasi imbrigliato il suo potere, e sarei salito lì!” urlò, puntando l’indice verso l’alto. “Verso il cielo! Dove lui comanda tutto! Avrei avuto il suo potere... il mio nome sarebbe stato venerato al pari del suo...”.
“Tu sei un folle!” urlò Rachel.
“No! No! No! Non sono un folle!” ribatté l’altro, portandosi vicino al volto della donna. “Io sono solo un visionario! Tante cose funzionerebbero meglio, se il libero arbitrio fosse qualcosa di non voluto! Potrei dare ascolto a tutte le preghiere e risolvere ogni questione! Niente più fame nel mondo, niente guerre! Chi deve morire morirà! Chi deve sopravvivere sopravvivrà! Comanderò con bontà tutto quello che Arceus ha creato e mandato a puttane! Perché ha lasciato tutto tra le nostre mani senza un libretto d’istruzioni!”.
“Non ci vuole alcun libretto d’istruzioni! Tu stai uccidendo tua figlia per dei loschi scopi!” ribatté la moretta, in preda alle convulsioni date dal pianto.
“E avrei dovuto farlo prima, Rachel! Avrei dovuto strapparti quel dannato cristallo dal petto in casa mia! Invece Irya ti ha nascosta e sostituita e ha ammazzato una giovane ragazza che ho creduto mia figlia per anni! Per anni!”.
“Non l’ha ammazzata lei! Sei stata tu!”.
“No! No! Io non ho fatto nulla di male! Sto soltanto seguendo il grande piano!”.
“Nessun grande piano! Tu sei un... un...”.
“Un peccatore, Rachel. Io sono un peccatore. E non perderò più tempo. Tu hai ciò che mi serve, nel petto”.
E lì non poté far più nulla per fermare l’adrenalina che gli scorreva nel corpo. Lionell si voltò frenetico, cercando il grosso coltello che aveva preparato.
“Linda, spogliala” disse poi, osservando il filo della lama che aveva davanti. La donna s’avvicinò veloce, coi tacchi che emettevano un ticchettio snervante, che si sovrapponeva ai bip dei computer.
“No! Lionell, no! Ti prego!” urlava Rachel.
Si guardò attorno, col cuore che batteva a un ritmo impazzito e il panico che le faceva girare la testa. Non c’era nulla che la potesse salvare, lei, con le mani legate e nessuno a giocare nel suo team. Dov’era Zack?
Dov’era andato a finire? Si era reso conto del fatto che fosse stata rapita?
Alzò gli occhi, vedendo la grata che dava nel condotto d’areazione, ma la griglia non nascondeva nessun volto.
E poi capì che tutto sarebbe stato inutile.
Linda le sbottonò la camicia e le tagliò il reggiseno, sfilandoglielo via. Le coprì il petto con la camicia, lasciandole scoperta la parte centrale del torace, fino all’ombelico.
Lionell s’avvicinò e l’ansia nel petto di Rachel esplose. Chiuse gli occhi per un attimo, immaginando il volto di sua figlia accanto a quello di suo marito, con le lacrime che continuavano a uscire rapide.
“Una nuova era sta per cominciare!” urlò l’uomo e tutto divenne dolore.
Il coltello affondò sotto lo sterno e scese lento fin sopra il bacino.
Rachel non urlò, sentì soltanto la vita andar via, e poi lo vide: il volto di Zack, dietro quella grata.
Lui era immobile, osservava la scena esterrefatto con gli occhi e la bocca spalancati.
“Rachel...” sussurrò, senza che nessuno lo sentisse. Le lacrime fuggirono dal suo sguardo, devastando la sua mente; vedeva il sangue fuoriuscire dal corpo della moglie e i suoi occhi diventare mano a mano più opachi, più spenti. Le labbra di Rachel tremavano e le lacrime continuavano a scendere, quando la bocca mimò inavvertitamente una parola.
"AL-LLL-LE-LE-GRA...".
Zack fu rapido, nell’intesa; non poté fare altro che annuire, rassegnatosi: aveva appena perso sua moglie.
Ragionò in una frazione di secondo, con una lucidità che non avrebbe mai creduto di possedere. Avrebbe avuto la possibilità di sfondare quella grata, forse l’intero condotto d’areazione, cadere dal cielo e consegnare morte e punizione a tutti i presenti.
Forse l’avrebbero sparato nelle gambe. O forse avrebbe fatto la fine di Rachel.
Ma poi a quel punto cosa sarebbe rimasto a sua figlia?
La stessa Rachel, ormai rassegnatasi alla morte, aveva capito quale fosse la priorità, e non solo perché Allegra fosse la loro bambina ma anche perché era l’unica potenzialmente in grado di comunicare con Arceus.
Difatti, la morte di sua madre aveva sancito il passaggio delle funzioni; Allegra, con la maturità, sarebbe diventata il nuovo oracolo.
Tuttavia era difficile rassegnarsi all’impotenza che provava, al dolore che lo stava pervadendo, pressando, schiacciando sotto il peso di mille mari.
Si sentiva bruciato dal fuoco di mille soli, congelato dal freddo di mille inverni.
D’improvviso la stanchezza lo pervase, le gambe tremarono e le lacrime non riuscivano più a fermarsi.
Sarebbe morto volentieri anche lui, in quel condotto, se non ci fosse stata la sua bambina ad aspettarlo a casa.
Però era difficile metabolizzare; gli risultava impossibile metabolizzare quella scena che si stava presentando davanti agli occhi, con Lionell che infilava le braccia nel corpo di Rachel, col sangue e gli organi che strabordavano.
Sentiva il calore del suo corpo volatilizzarsi, percepiva l’anima di sua moglie evaporare, ormai ricordo felice di anni passati a combattere per la normalità.
Avevano perso. Lei era speciale, troppo speciale per poter vivere un’esistenza normale.
Non riusciva a trattenere le lacrime, Zack, e quel senso d’angoscia che si stava espandendo a macchia d’olio nel profondo della sua coscienza stava macerando gli ultimi residui di coraggio e forza di volontà.
Il cuore batteva e in pochi secondi si ritrovò costretto a decidere se dare ascolto al suo cuore, al suo istinto, a quel primordiale richiamo di vendetta e giustizia che gl’imponeva necessariamente di staccare la testa dal collo di quell’uomo e bere il suo sangue, senza lo stesso risultare mai il vincitore.
Oppure usare l’intelligenza, pianificare e riuscire a vincere proteggendo sua figlia.
Sì, Allegra sarebbe dovuta essere la priorità.
Piano, si voltò, cercando di non far rumore.
Lionell non avrebbe comunque sentito nulla: era impegnato e concentrato, con l’adrenalina che non gli consentiva di chiudere gli occhi.
Il volto era sporco di sangue e le mani cercavano qualcosa di duro e candido differente dalle ossa.
“Dov’è?! Dannazione, dov’è?!” fece.
Smosse il corpo ormai senza vita di Rachel, cercando di farne uscire il cristallo.
“Non c’è! Linda, dov’è?!” urlò, abbassandosi per vedere il pavimento al di sotto del tavolo.
Solo sangue e brandelli di vestiti.
“Forse è tornato in forma tangibile, il cristallo…” osservò la donna, a distanza. Guardò Lionell, interamente impiastricciato di sangue, senza riuscire a capire come avesse fatto ad ammazzare sua figlia senza neppure un briciolo di rimorso.
Poi lo vide pulire con la mano il ventre dal sangue.
“Linda…” sussurrò, quasi sbiancando. Il sangue grondava dal suo volto e i suoi occhi non facevano altro che peggiorare la situazione. Quando la donna si avvicinò, attenta a non scivolare sul sangue, carezzò la cicatrice del cesareo sulla pancia di Rachel.
“Ha una figlia”.
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