Primo Interludio
Adamanta,
Monte Trave, Tempio di Arceus
Mille Anni
Prima
Dove c’era
Prima tutto era strano.
L’aria
veniva incanalata attraverso le piccole feritoie di quella stanze, creando
rumori sinistri, addolciti poi dal tintinnio delle campanelle appese. La sera
era ormai scesa e tutte le fiaccole erano state accese e applicate al muro. La
giovane Livia vedeva le fiamme danzare sinuose, sospinte leggermente dal vento,
a creare ombre strane sulle pareti di pietra dura. L’inverno stava per arrivare
e il freddo ad Adamanta scendeva portando con sé una mano di candida neve,
assieme a gelidi venti del nord.
“Sta per
succedere!” aveva ripetuto Olimpia, la più anziana, per la quarta volta. Dava
fretta alle ancelle del tempio durante i preparativi. Prima era seduta su
quello che pareva essere un trono, mentre delle belle e giovanissime donne le
pulivano mani e piedi.
“Livia, i
capelli” aveva ordinato Olimpia. La giovane scattò immediatamente, raccogliendo
un pettine e dirigendosi poi alle spalle dell’oracolo.
“Oi...” le
sussurrò poi Prima.
“Ciao” fece l’ancella.
Si
conoscevano da anni, erano entrambe bambine quando furono raccolte dalla mano
sapiente di Olimpia, tra le strade di Nuovaluce, e non erano cambiate per
niente: gli occhi gentili di Prima erano rimasti sempre gli stessi, due pozze
blu nel bianco candore della sua pelle. Il contrasto era enorme già allora, con
quei lunghi capelli neri e quella frangetta a nasconderle leggermente lo
sguardo. Livia invece era sempre stata più alta di lei, coi boccoli biondi e la
pelle comunque più olivastra. Crescendo, le due rasentarono esemplari di
bellezza perfetta ma differenti, guidate dalle direttive della madre delle
ancelle, proprio quell’Olimpia che le aveva cresciute come figlie.
“Come ti
senti?” aveva domandato sottovoce la bionda, affondando il pettine nella lunga
chioma corvina dell’oracolo.
“Come ogni
volta che Arceus parla con me” aveva risposto quella. “Ho paura”.
“Non riesco
a immaginare cosa possa succedere alla tua mente quando entra in te”.
“È strano”
ribatté rapida. “Hai come la sensazione che qualcosa cominci a pervaderti il
corpo. Ossa, muscoli... la testa, la pancia. Arceus entra dentro di te e tu non
vedi altro che bianco. Ti trovi d’improvviso in quella che dovrebbe essere...”.
“Silenzio!”
fece Olimpia, accendendo altre candele e spargendo oli sacri all’interno della
stanza.
“... in
quella che dovrebbe essere la sua casa. Lui non vive nel nostro mondo; è così
potente da avere un mondo tutto per sé”.
“E poi?”
domandò Livia, continuando a spazzolare.
“Piacere e
dolore si uniscono nel mio corpo e tutto ciò che devo fare è seguire quel
flusso d’energia, ascoltare le sue parole. Quando ha finito mi rispedisce qui”.
“Incredibile...”
sorrise l’altra.
“Livia!”
urlò poi Olimpia. L’ancella alzò lo sguardo, osservando l’anziana donna dalla
lunga treccia canuta. “Se hai tutta questa voglia di parlare allora esci fuori.
Le latrine hanno bisogno di una pulita!”.
“Le ho
soltanto chiesto una cosa, Olimpia, mia signora” s’inserì Prima.
“Il fatto
che tu sia l’oracolo non significa che tu possa fare ciò che vuoi. Dobbiamo
mantenere un clima di rigore e perfezione, di perfetta educazione. Lo svago ha
tempo e modo di esistere ma non mentre ti prepariamo per accogliere Arceus”.
“Sì, mia
signora” rispose educatamente Prima, abbassando la testa.
“Bene”
sorrise la più anziana, annuendo e voltandosi verso la porta. La sue
espressione mutò immediatamente quando uscì dalla camera, colmandosi di
un’apprensione cieca, di una preoccupazione senza pari. Si avvicinò alla finestra
e vide in lontananza le fiaccole accese degli Ingiusti, e il loro esercito che bivaccava nell’accampamento poco
oltre il Monte Trave.
“Mia
signora, Olimpia, mia signora” si sentì chiamata alle spalle. Si voltò, non
riuscendo a celare il malessere che la stava assalendo, quindi vide proprio
Livia dietro di lei, mentre stringeva il sacro pettine con le mani conserte. La
lunga veste bianca le cadeva addosso pesante.
“Che cosa
c’è, Livia?”.
“Volevo
scusarmi con voi per il mio comportamento” disse, facendo un leggero inchino.
“Non
preoccuparti...”.
“C’è
qualcosa che vi turba?”.
Olimpia
riuscì a vedere la purezza d’animo della donna guardandola solamente negli
occhi.
“...
Livia...”.
Devo parlare?
Devo dire tutto alle ancelle? Di Re
Nestore, degli Ingiusti e della guerra che stanno combattendo contro i
Templari?
“Olimpia,
mia signora, se desiderate parlarmi di qualcosa fatelo pure... Liberatevi del
vostro peso”.
La più
anziana pensò che condividendo il peso che portava in corpo avrebbe potuto
dividere la propria paura. Ma il senso di responsabilità che provava verso la
giovane che aveva davanti e le sue sorelle la stoppò. “No” tuonò. “Non sarebbe
giusto, queste preoccupazioni scaturiscono dai miei compiti, dalle mie
responsabilità...”.
“Ma potrei
aiutare a liberarvi un po’ da questi fardelli. Sarei felice di potervi
alleggerire” sorrise bonaria quella. Olimpia abbassò lo sguardo, tentata. Livia
rimaneva ferma davanti a lei, coi piedi uniti e le mani congiunte sul ventre e
quando la più anziana rialzò lo sguardo fu sopraffatta dalla paura: il volto
dolce di quella era quanto di più angelico potesse esservi. Immaginò le mani
rudi di un qualsiasi soldato figlio d’ignoti che divellevano le porte dalle
pareti e che subito dopo stracciavano le vesti candide da quel corpo sacro.
L’avrebbe
fatta oggetto di stupro, rendendola madre di un figlio, bastardo come lui.
Nel migliore
dei casi.
E al sol
pensiero del sangue, delle urla, della violenza che si sarebbe trascinata
arrancando lungo quelle pareti, una fitta l’attraversò di netto il costato.
Pensò a quelle ragazze, limpide come rugiada, mai corrotte. Così candide.
Il volto di Livia
era puro e cristallino. I suoi occhi la fissavano contriti.
“Olimpia…
mia signora…” fece.
“Tranquilla.
Stavo solo pensando”.
Cercò di
essere quanto più naturale possibile, e sorrise a mezza bocca. Ma quando sentì
le urla nella sala dell’oracolo, la sua espressione tornò seria e concentrata.
“Prima…”
sussurrò, lanciando quel nome come fosse una stilettata. Livia si voltò subito,
cominciando a correre. La donna più anziana la seguì col suo passo, quando
ormai l’oracolo era in piedi. Fuori alle finestre, il buio stava lentamente
stendendo il velo della notte sulle loro teste, e le fiammelle delle torce,
applicate sui muri di tutta la stanza, danzavano sinuose, a creare meravigliosi
giochi d’ombra. L’elemento più luminoso, però, era Prima: era avvolta dalla
luce sacra, fluttuava al centro della stanza, posseduta da quel potere immenso
ed esclusivo.
Olimpia
protesse gli occhi stanchi col palmo della mano e richiamò tutte le giovani
all’ordine.
“Veloce!”
esclamò. Livia fu la più reattiva, raccolse subito lo scrigno di legno e lo
poggiò sul piedistallo alle spalle dell’oracolo, che intanto rimaneva zitta e
immobile in quello stato quasi incorporeo. L’ancella era pronta ad aprirlo, ma
prima cercò il permesso con lo sguardo della matrona, che si limitò ad annuire.
Quando Livia
aprì lo scrigno, tutto fu inondato dallo stesso bagliore di cui riluceva prima.
Risplendeva con forza, costringendo i presenti a stringere le palpebre. Loro
non percepivano altro che quel candore illimitato, ma Prima descriveva
tutt’altro, e a Livia la cosa faceva invidia, perché lei non aveva mai sentito
quel vento freddo sulla pelle, dei cori celestiali che si diffondevano in
sottofondo quando il dio parlava, del dolore e del piacere che si univano,
viaggiavano nel suo corpo, lo abbandonavano e poi vi si rimmergevano con forza.
Diceva che
durava più di un minuto, ogni volta, e che la confusione e lo smarrimento che
provasse dopo non fosse paragonabile a nulla che avesse mai provato. Prima
aveva parlato migliaia di volte di quelle sensazioni, tuttavia era ancora
troppo difficile immaginare una situazione del genere.
Durava poco
più di un minuto, ogni volta. Come ogni volta, la luce bianca s’affievolì,
ritraendosi all’interno del cristallo. Livia fu veloce, si alzò e chiuse subito
lo scrigno che lo conteneva. Prima non si accorse quasi di nulla; era stesa sul
pavimento di fredda pietra, in preda alle convulsioni. E come ogni volta, la
bell’ancella si voltò verso Olimpia, che annuì, sospirando. Nel corso della sua
vita aveva già preparato tre donne al contatto superiore con dio, ma quelle
scene continuavano a turbarla.
“Prendetela”
fece, col volto granitico. “Portatela nelle sue stanze. Curatele le ferite e
assicuratevi che stia bene. Quando si sveglierà dovrete chiamarmi
immediatamente”.
“Sì,
signora” risposero tutte, all’unisono, raccogliendo la donna da terra, leggera
come una foglia secca, e fecero quanto ordinato. Poggiarono la donna sul suo
giaciglio e cominciarono a spogliarla delle vesti. Una donna portò un tino
ricolmo d’acqua riscaldata, con cui cominciarono a lavarle il corpo. Livia
vedeva il respiro di quella, lento e pesante, gonfiarle il petto. La pelle
candida della donna era colma di lividi, sul seno, sul ventre e sugli arti.
Apparivano sul suo corpo ogni volta che Arceus la usava come ambasciatrice, e
impiegavano un paio di giorni ad andare via.
Le donne
lavarono il corpo della bella con pezze di morbida e umida seta, e Livia stessa
le rimase accanto anche quando le altre, stanche e affamate, lasciarono quelle
stanze per andare a rifocillarsi.
Passarono
sei ore, che l’ancella impiegò nel pettinare i capelli di Prima, prima che i
suoi occhi blu si aprissero. Il respiro, dapprima greve e regolare, accelerò
coi battiti del cuore della donna. Spalancò le mani, strinse il giaciglio e si
mise a sedere. Le palpebre celavano rapide gli occhi, poi li mostravano
nuovamente in tutta la loro bellezza. Livia sorrise dolcemente e le spostò i
capelli corvini dal volto.
“Timoteo…” sussurrò,
facendo per alzarsi, noncurante del fatto che fosse in sottoveste. Non indossò
neppure i sandali e fece per dirigersi verso la porta, quando la mano di Livia
le strinse il polso.
“Calmati…
Sei appena uscita dallo stato di contatto…”.
“E
lasciami!” esclamò l’altra, strattonandola e liberandosi. “Devo andare da
Timoteo!”.
“Ma è
all’accampamento, Prima!”.
Livia
afferrò nuovamente il braccio della giovane, tenendola lì. Quella tirava e,
nonostante fosse minuta, riuscì a divincolarsi nuovamente dall’ancella. Si
voltò e spintonò l’amica di sempre, totalmente in preda al panico.
Poi corse
fuori.
Il cuore di
Livia saltò un battito. Stava realizzando che Prima stesse per uscire fuori dal
tempio.
“Ragazze!
Fermatela! Fermate l’oracolo!” urlò, alzandosi di scatto. Corse verso la porta
e vide le vergini intercettare Prima, lanciata come un proiettile verso
l’atrio.
“Lasciatemi
andare da Timo!” gridava l’oracolo, mentre Olimpia si affacciava preoccupata
dalle sue camere.
“Che
succede?”.
Prima si
voltò, con gli occhi spalancati.
“Devo andare
da Timoteo! Lasciatemi! Lasciatemi!”.
Si
sbracciava, l’oracolo, con le spalline della veste calate, un seno candido scoperto
e la morte sul volto. Le lacrime deturpavano quella bellezza intoccabile,
dilatavano gli occhi azzurri e cadevano sulle guance candide. I capelli neri
dondolavano con frenesia lungo la schiena. Nonostante tremasse dalla paura la
sua femminilità rimaneva intatta.
Olimpia le
si pose davanti, le carezzò il volto e sospirò. Quella parve calmarsi
leggermente.
“Dimmi che
sta succedendo” le chiese poi, vedendo l’altra alzare il volto verso di lei.
Quella
strinse i denti e si aggiustò la veste, quindi annuì.
“Olimpia,
mia signora!” esclamò. “Devi ordinare subito alle vergini di lasciarmi
andare!”.
Quelle
parole tagliarono in due il respiro della più anziana. Annuì, dopo aver battuto
le palpebre un paio di volte.
“Lo farò
solo se mi dirai perché sei così agitata”.
Prima si
morse le labbra, stringendo i pugni.
“Ebbene…”
sospirò, abbassando lo sguardo. “Arceus ha in serbo per noi la distruzione di
ogni cosa… Io… io devo andare ad avvertire Timoteo!”.
Quella voce
rimbombò tra le pareti di pietra dura e si perse oltre le aperture dei grandi
finestroni. Livia guardò sconvolta la matrona, poi spostò lo sguardo su Prima.
“Arc…
Arceus?”.
“Sì!”
riprese l’oracolo. “Vuole distruggere tutto! Il mondo è corrotto dal male delle
persone!”.
“Non tutte
le persone sono malvage!”
Sentiva lo
sguardo di Olimpia addosso.
“Cosa dovrei
dirti?! Arceus ha detto così! Non credo gli interessi la tua opinione… né la
mia. Io devo solo andare da Timoteo”.
“Lo farà
qualcun altro al posto tuo, Prima” s’inserì la matrona. “Non possiamo rischiare
che tu perda la vita in un momento come questo...”.
“Ma Timoteo
ha bisogno di me!”.
Fu un
attimo, la donna scattò e allungò verso la porta, spalancandola e ritrovandosi
all’esterno. Il freddo pungeva la sua pelle, i piedi affondavano nella neve e
la notte aveva rapidamente raccolto tutto il cielo tra le braccia. Raggiunse la
discesa dei Mille Gradini, che
l’avrebbe condotta alla piazza antistante il Monte Trave, poco prima della
città.
E scese giù.
Livia guardò
colpevole Olimpia, che del resto non si scompose.
“Beh…” fece
quella. “La conosciamo, sapevamo che non saremo riuscite a trattenerla qui.
Abra!” urlò poi, vedendo il Pokémon Psico
materializzarsi accanto a Livia, che sobbalzò non appena si accorse della sua
presenza. Fluttuava in una bolla d’energia psichica.
“Eccoti qui...
Segui Prima e assicurati che non si faccia del male. Se sta per succedere
qualcosa di pericoloso riportala immediatamente qui al tempio”.
Bastò un
secondo e il Pokémon sparì.
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