- Kanto, Arancipoli, Ospedale Civile –
"Buonasera" disse Marina, entrando nella camera dov'era ricoverato Gold. Levò il cappotto e porse a Silver e a Crystal i due caffè lunghi che aveva comprato prima di entrare. Il volto di Crystal era fisso e contrito su quello di Gold, ancora cereo. Il respiratore gli gonfiava il petto, nascosto dalla coperta sdrucita della branda in cui dormiva.
Crystal si voltò non appena la Caporanger entrò nella stanza, sospirando. Era stanca, aveva sonno.
"È già mattina?" chiese, voltandosi poi verso Silver, in piedi davanti alla finestra. L'uomo abbassò lo sguardo verso l'orologio e sospirò.
"Sì. Sei in anticipo, Marina".
"Non ho dormito molto..." ribatté la Ranger, poggiando il cappotto sulla sedia dove Crystal s'era appena alzata. "La notte è stata tranquilla?".
"Nessun miglioramento, nessun peggioramento... Tutto stabile e tranquillo".
Marina abbassò lo sguardo. "Sembrano anni che è qui dentro... Non sono passate neppure un paio di settimane...".
"Vedere questo casinista così è veramente impietoso... Mi spiace tantissimo" continuò la Catcher, sconsolata. Silver le si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla.
"Spiace a tutti" disse poi.
Il silenzio si sedimentò rumoroso sul pavimento di quella stanza, e uno sguardo imbarazzato di circostanza fu interrotto solo dal rumore dell'elettrocardiogramma.
Marina prese coraggio e ruppe gl'indugi. "Io... Come sempre vi ringrazio per... ecco, per essere qui, per darmi una mano con le notti e...".
Crystal sorrise dolcemente e la strinse in un abbraccio caloroso e rincuorante. "Io ci sarò sempre" fece poi, sentendola sospirare. Si staccò e riprese il contatto coi suoi occhi. "E penso di parlare anche per Silver quando dico che teniamo a cuore questa situazione. Negli anni ci siamo affezionati a Gold, nonostante sia una testa di legno...".
"Legno duro" sospirò l'uomo, con le mani nelle tasche. Si avvicinò a Crystal e la strinse in un delicato abbraccio. Le due donne sorrisero.
"Grazie ancora".
"Di nulla" replicò Crystal. "Per stanotte sei coperta?".
"Rimarrò io, non ci sono problemi, tranquilli...".
Silver spalancò gli occhi. "Starai qui per più di ventiquattr'ore, Marina... Non pensi di doverti rilassare un tantino?".
Quella continuò a sorridere, gioviale, ma il rosso riuscì a saggiarne la stanchezza mentale. Gold era in quel letto da troppo tempo, specialmente per lei che non era abituata a vederlo silenzioso per più di un paio di minuti.
“Non preoccuparti, Sil, starò con lui… Gli racconterò ciò che sta accadendo nel mondo, parleremo del più e del meno e immaginerò le sue risposte”.
“Fagli sentire un po’ di musica. Io ci provo spesso” ribatté Crystal. “Il suo MP3 è sul comodino”.
“Sì, con le canzoni rap”.
“Esatto. Magari potrebbe svegliarsi per fare freestyle”.
Marina sorrise ancora, quindi guardò il suo uomo. Silver e Crystal salutarono e sparirono, lasciandola in quella camera da sola con lui, nel silenzio intermittente.
Si avvicinò lentamente al letto, guardando il viso smunto del suo uomo. Gli carezzò le guance, rasate il giorno prima. Lui si radeva tutti i giorni, anche se non era una persona eccessivamente villosa. Da quando erano in ospedale una volta ogni tre giorni passava un’infermiera a raderlo e a pulirlo. Lei assisteva inerme e addolorata, aiutando come poteva. La grossa ferita alla colonna vertebrale sembrava fosse guarita, o almeno così aveva detto il dottore l’ultima volta che l’aveva visitato, tuttavia non aveva saputo dire con certezza se, una volta risvegliatosi, quello avrebbe camminato o meno.
“Ciao, amore… Buongiorno. Come stai?”.
Immaginava le sue risposte, vedendo quei grossi occhioni dorati sbattere, sopra al suo ghigno malizioso, perennemente sul volto dopo qualche battutaccia sconcia di dubbio gusto.
“Stamattina faceva particolarmente freddo, fuori. Sono andata a casa, ieri, per fare una doccia e fare altri piccoli servizietti. Ho fatto una lavatrice. Sai…” sorrise, non riuscendo a trattenere una lacrima. “Vorrei tanto rimproverarti per via dello stato dei tuoi vestiti, sporchi al limite dell’umana immaginazione ma…” sospirò, pulendosi il volto con la manica del maglioncino nero che indossava. “Ma la lavatrice è carica soltanto dei miei panni, ultimamente. E devo aspettare molto prima di riempire il cestello, almeno un paio di giorni in più, e le mie divise sono lì dentro. Se tu ti svegliassi potrei fare lavatrici più velocemente e non aspettare…”.
Sorrise dolcemente, stringendogli la mano. “So che non dovresti svegliarti per questo motivo, e che se lo facessi saresti lo stronzo peggiore di tutto il creato, però se funzionasse sarei felice lo stesso… Inoltre ho fatto uscire un po’ dalle loro sfere i tuoi Pokémon. Exbo non ha mangiato quasi nulla, ieri… È parecchio triste, gli manchi. E manchi anche agli altri, certo…”.
Voleva vederlo sorridere, e rispondere con quelle sue solite battute in stile certo che gli manco, sono straordinario!
“In più… in più, e mi costa dirlo… mi costa tanto… Mi manca fare l’amore con te” fece, cominciando nuovamente a piangere, tossendo prima che una calda lacrima le colasse giù sul mento. “Mi manca sentirti dall’altra parte del letto, e mi manca stringerti la notte, quando hai caldo… quando poi ti lamenti che sono bollente, ma che ho i piedi freddi…E nonostante tutto mi abbracci lo stesso... e allunghi le mani” sorrise poi. “Perché non puoi negare di farlo”.
Guardò ancora il suo volto, fisso. Lui non si muoveva.
“Perché non lo puoi negare…” sussurrò.
Si alzò lentamente e gli schioccò un dolcissimo bacio sulle labbra, quindi sospirò, inalando il suo odore; le mancava. La pelle di Gold aveva un odore dolciastro ma fresco, che riusciva ad associare soltanto a lui e che le faceva stringere i pugni per quanto le piacesse.
Lasciò per un attimo la mano del suo uomo e afferrò l’MP3. Lo accese, Crystal lo aveva lasciato sotto carica e quindi la batteria era piena. Scorse l’infinita playlist col dito, leggendo velocemente i nomi di 2Pac e 50 Cent, poi altri e altri ancora, fermandosi su “Stuck On You” di Prodigy. La fece partire, sentendo la musica che lui amava fluire ovunque e riempire quella stanza vuotissima.
A lui piaceva il rap; avrebbe potuto fare freestyle usando il battito del suo cuore come beat, se avesse voluto. Lei lo sentiva cantare sotto la doccia, parlando velocemente.
Rideva, Marina. Non capiva, inizialmente. Poi si abituò.
Sospirò diverse volte, quel mattino, continuando a parlare con lui mentre la musica andava avanti.
- Sinnoh, Evopoli –
"Papà, fa freddo...".
La grande piazza centrale di Evopoli brulicava di persone. C'erano molte famiglie e alcune avevano annessi i carrozzini. Nonostante il freddo la gente di lì era abituata a quelle rigide temperature e sembravano poco disturbate dai quasi dieci gradi esterni.
Sinnoh era a nord, del resto.
I suoi occhi, verdi come smeraldi, tuttavia spenti e senza scintilla, si erano persi su di una coppia assai giovane, dove un padre sorrideva nel vedere la sua bellissima moglie stringere tra le braccia un altrettanto bellissima bambina, dai capelli biondi come la madre.
C'era un atmosfera di calore, tutt'intorno, e le persone erano serene.
"Lo so, Allegra".
In molti avevano buttato un occhio alle gambe della bambina, coperte soltanto da un paio di calze sdrucite e sporche di fango. Zack proseguiva nel suo passeggio, stringendo nel suo abbraccio sua figlia.
"Dove siamo?".
Lui sospirò, guardandosi velocemente attorno; la grande statua di marmo raffigurante Palkia, protagonista da sempre del centro della città, era stata ricostruita dopo che Giratina l'aveva distrutta, diversi anni prima. Era illuminata da diversi piccoli fasci di luce che salivano dal basso, incastonati nel marmo del basamento.
Anche Sinnoh aveva vissuto attimi di panico, forse ancor più grandi di quelli di Adamanta, in quegli anni; il Team Galassia aveva devastato città e ridotto l'equilibrio delle dimensioni primordiali al limite della tolleranza prima del disastro, e neppure la presenza di Camilla e di Palmer avevano aiutato.
C'era voluta fortuna, in quel caso.
C'era voluta la conoscenza del loro boss, Cyrus, che si era ritorta contro il genio infame di Plutinio, affamato di potere.
Il potere.
Zack sbuffò e il viso di sua moglie apparve davanti a suoi occhi, come succedeva da ventiquattr'ore a quella parte.
"Papà, ho davvero tanto freddo..." si lamentò la piccola, che aveva affondato il naso nel collo di Zack diversi minuti prima, una volta scesi dal pullman che li aveva portati da Giubilopoli, dove il loro aereo era atterrato, a Evopoli.
Alzò gli occhi, i palazzi antichi erano ben illuminati dai lampioni, che donavano loro un piacevole colorito giallastro. Alle loro spalle si stagliava il bosco, che divideva la grande città da Giardinfiorito.
Avrebbe voluto vedere sua figlia correre tra i fiori. Vederla sorridere spensierata, mentre viveva la sua età come tutte le altre bambine: con un padre e una madre accanto.
Ingoiava sangue e veleno, ferro e sabbia, la saliva diventava pesante, amara, se solo doveva pensare a come dirle che Rachel non era a casa e che lui le aveva mentito.
Perché prima o poi se ne sarebbe accorta, lei.
Prima o poi si sarebbe accorta del fatto che sua madre non fosse più lì con loro.
Superò la statua e vide la Palestra della città, ormai chiusa; le luci erano spente e i cancelli erano sbarrati. Gardenia era sicuramente a casa, in quel momento. Da ragazzini, quando avevano condiviso il tetto dell'ostello per quei mesi in cui lui era nel pieno del suo viaggio a Sinnoh, quella era sempre piena di vita, con quella vena polemica che affiorava ogni qualvolta i due avessero opinioni differenti.
Stettero insieme per diverso tempo, e tutto fu parecchio denso, pieno di cose belle e ricordi da dimenticare, liti passionali seguite da ricongiungimenti carnali pieni di sospiri e corpi giovani, troppo giovani per restare fermi.
Affiorava nella sua mente il viso di quella e gli occhi castani, che diventarono immediatamente azzurri quando il suo volto prese le sembianze di quelle di Rachel. Rachel, Rachel, ancora Rachel.
Era ancora fresca la ferita e sapeva che avrebbe lasciato una grande cicatrice, e che quella avrebbe bruciato ogni qualvolta i suoi occhi si fossero poggiati su quelli di sua figlia.
"Andiamo..." le sussurrò poi, carezzandole la nuca piena di capelli. Voltò l'angolo, sempre con la bambina in braccio, ed entrò in un negozio d'abiti. C'erano molte luci, lì dentro, e diverse donne s'accalcavano per pagare i prodotti appena comprati. C'erano anche degli uomini, pochi. Uno stava provando un cappotto bianco col pellicciotto sul cappuccio, mentre altri due erano nel reparto calzature.
Zack si dipinse sul volto il sorriso più finto che possedesse, nonostante la stanchezza del viaggio e l'atterrimento generale, e salutò la commessa.
"Abbiamo avuto un piccolo problema di guardaroba... Ci può consigliare qualcosa di caldo per questa modella?".
La donna sorrise e vide Allegra alzare la testa. "Sì, fuori fa freddo".
"Certo" rispose quella, con l'acconciatura corvina a maschietto. Guardò le scarpette sporche di fango, come anche le calze, quindi afferrò la bimba per mano e si recarono nel reparto bambini.
Zack la vedeva da lontano che sorrideva tranquilla. Avrebbe voluto congelarla in una bolla senza tempo, bloccare la sua immagine e conservare quel fotogramma assieme a tutte le belle sensazioni che si portava dietro.
Tuttavia doveva decidere della sua vita; doveva capire come avrebbe dovuto andare avanti in quel momento.
Zack non poteva convivere con la paura di poter perdere anche sua figlia.
Il cellulare suonò e lui lo prese velocemente dalla tasca. Il nome di Ryan era fisso sotto l'orologio. Chiuse la chiamata, non voleva che lo rintracciassero, quindi tolse la batteria del telefono e prese la SIM, lasciandola cadere nelle tasche dei suoi pantaloni. Se ne sarebbe sbarazzato fuori.
- Un’ora dopo –
Quando il campanello suonò, Gardenia era appena uscita dalla doccia.
"Un attimo!" urlò lei. Odiava quelle situazioni; avvolse un lungo asciugamano bianco attorno alla vita e un altro, più piccolo, a mo' di turbante attorno alla testa. Infilò quindi un paio di morbide pantofole bianche e strisciò i piedi fino alla porta.
Aveva freddo, era tornata da poco dalla Palestra e non aveva ancora avuto il tempo d'accendere il camino e i riscaldamenti.
Quella sera avrebbe voluto mangiare qualcosa di caldo, e magari avrebbe finito di leggere quel buon libro che sbocconcellava pagina dopo pagina, sera dopo sera.
Tuttavia, quando aprì la porta, i suoi piani svanirono come vapore.
"Zack..." disse, stranita, trovandoselo davanti. Sbatté un paio di volte le palpebre, vedendo davanti a sé lo spettro dell'uomo che aveva visto qualche anno prima allo Snowflake, il bunker nel quale avevano discusso il destino del cristallo che avrebbe dovuto uscire dal corpo della sua donna, onde evitare di trasmettersi a quello della sua bambina.
E quella che lui, dal volto pallido e la barba di qualche giorno, teneva per mano, doveva essere Allegra.
"Gardenia... ciao..." disse lui, abbassando lo sguardo. La donna non sapeva se quella reazione fosse dovuta al fatto che lei fosse praticamente nuda, sotto quel telo da bagno, oppure se le cose che passavano nella testa dell'uomo producessero tanto, troppo rumore.
"Papà" s'inserì la piccola, con quella voce cristallina come una campanula. "Chi è questa signora?".
Gardenia sorrise quasi immediatamente. La guardò negli occhi azzurri, così accesi e profondi.
"Lei è Gardenia. Una mia cara amica..." rispose quello, stanco.
Il vento soffiò sibilando; la pelle di Gardenia s'accapponò, e pure Allegra si strinse nel nuovissimo e caldo cappottino col colletto di pelliccia.
"E tu come ti chiami?" disse lei, piegandosi sulle ginocchia. Zack guardò dritto davanti a sé, volenteroso di entrare in casa e di proteggere sua figlia dal vento.
"Avanti" disse poi lui, carezzando il capo della bimba. "Rispondi. Di' a Gardenia come ti chiami".
"Allegra" rispose lei.
Gardenia sorrise, stringendole la mano e guardando negli occhi il padre. Addolcì lo sguardo e lo strinse in un abbraccio, staccandosi subito dopo.
"Scusami, sono tutta bagnata... Sono appena uscita dalla doccia".
"Mi spiace... Scusami se ti ho disturbato. Non sapevamo dove altro andare". Gli occhi di Zack erano incurvati verso il basso. Esprimevano tristezza e fragilità.
"Che sta succedendo?" chiese lei, preoccupata.
Zack guardò Allegra e sospirò, carico d'ansia. "Facci entrare, ti prego" sussurrò.
I loro occhi erano strettamente legati, con quelli di Gardenia che non lasciavano liberi quelli dell'uomo.
"Entrate pure".
E forse aveva sbagliato.
Conosceva Zack, sapeva quanto fosse una testa calda ed era bene a conoscenza della sua attitudine a mettersi nei guai.
"Lasciate che m'infili qualcosa di caldo, ragazzi... Fuori fa freddo..." disse quella, chiudendo la porta.
"Sì, tranquilla".
"Accomodatevi. Se vuoi, Zack, prendi qualcosa da mangiare… Sai dove sono le cose…”.
E sfilò in un corridoio avvolto nella penombra.
L’uomo sospirò e smontò il pesante giubbino che aveva appena acquistato, poggiandolo sul divano. Spogliò del cappottino anche sua figlia e poi la spinse in avanti, con un colpetto alla spalla sinistra molto leggero.
“Andiamo a preparare qualcosa”.
“Perché ha detto che sai dove sono le cose?”.
Zack si voltò verso di lei e sospirò. Pensò che fosse arguta.
“Perché prima che io conoscessi la mamma, io e Gardenia eravamo molto… amici. Sono già stato in questa casa, diverse volte. Ecco perché”.
“La mamma quando verrà?” chiese poi.
Il senso di colpa tornò a bussare prepotente alla sua porta. Doveva mentire ancora, non era pronto a raccontarle la verità.
“Lei non verrà, amore. Ha da fare con i suoi dipinti e… Noi ci prenderemo qualche giorno”.
Zack aprì l’acqua della fontana e sciacquò le mani, cominciando a mettere su un buon brodo per il ramen che aveva trovato nella dispensa.
“Che fai?”.
“Cucino, amore”.
La bambina fece spallucce e si guardò un po’ intorno. La cucina era accanto al salotto e formavano un unico grande open space, diviso soltanto dal banco cucina. La bambina camminava sul parquet grigio di quella casa, notando come effettivamente fosse arredata in maniera assai differente da dove viveva lei: Gardenia possedeva oggetti di design costosi e assai estetici, utilizzando uno stile minimale parecchio accattivante.
A Zack piaceva quel luogo; del resto conosceva il gusto di Gardenia nelle cose.
Tornò qualche minuto dopo, lei, vestita con una comoda tuta e un maglioncino aderente. Aveva mantenuto un fisico tonico e asciutto, lei, figlio degli allenamenti continui.
Notò che Zack non poggiò minimamente lo sguardo su di lei, non sapendo se la cosa la sollevasse.
“Eccomi arrivata. Allora?”.
“Gardenia” la chiamò Allegra, alle sue spalle. Già amava quella voce, la Capopalestra. Si voltò, con ancora l’asciugamano tra i capelli, e le sorrise.
“Cosa c’è, bimba?”.
“Posso guardare un po’ di televisione? Ci sono i cartoni animati, a quest’ora”.
“Oh, ma certo. Puoi andare nella camera degli ospiti, ho lì la televisione!”.
Allegra guardò gli occhi ambrati della donna, quindi cercò lo sguardo rassicuratore del padre.
“Se vuoi, puoi andare” le disse lui, mentre immergeva il ramen nel brodo già pronto.
“Ho paura di restare sola” ribatté la piccola, onestamente.
Gardenia impazzì, emettendo un piccolo urletto. “Dannazione, quanto sei bella!”. S’inginocchiò e la riempì di baci. Zack la vide sorridere.
“Se vuoi puoi stare in compagnia dei miei Pokémon”.
Zack sorrise leggermente, mentre immergeva i naruto nella zuppa.
“La mamma non vuole che stia coi Pokémon cattivi”.
Gardenia si voltò stupita verso Zack, che però non la guardava.
“Il Luxray di papà, per esempio” continuò. “Lui è cattivo”.
“Hai un Luxray cattivo, Zack?” domandò quindi.
Non rispose, lui, limitandosi a sorridere leggermente. Allegra era la cura a tutti i mali.
“Cattivo. Ringhia e sta sempre lontano dagli altri Pokémon. Arcanine invece è bravo”.
“Arcanine?! Si è evoluto, alla fine?!” chiese ancora la Capopalestra. Zack continuava a non rispondere.
“Papà” lo chiamò poi la piccola. “Che significa evolvuto?”.
E lì l’uomo sorrise. “Evoluto, amore. Te lo spiegherò un'altra volta”.
“Allegra” s’inserì Gardenia, tirando dietro l’orecchio un ciuffo rossiccio scappato dalla morsa del turbante. “Se vuoi posso presentarti i miei Pokémon. Sono piccoli e carini”.
“Sono bravi?”.
“I più bravi del mondo”.
“Più di Arcanine?” chiese poi la piccola, con l’ingenuità nello sguardo.
“Certo! I miei Pokémon sono bravissimi! E profumano!”.
“Davvero?!” spalancò gli occhi lei.
“Andiamo di là, te li faccio vedere”.
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