- Sinnoh, Memoride -
Senza pietà.
Quel freddo mattino, la sveglia suonò senza pietà.
Il letto di Camilla era caldo, seppur troppo vuoto. Purtroppo, funzionava così: una donna piena di responsabilità che aveva a malapena il tempo di pranzare non poteva lasciarsi distrarre dalle necessità umane. Lei era la Campionessa di Sinnoh, inumana per definizione, e quel mantello che indossava non era un semplice capo d’abbigliamento. Spostandolo, nessuno avrebbe visto soltanto il fisico statuario di quella bellissima donna, ma anche doveri e ansie in dosi massicce.
Sul comodino l’allarme continuava a trillare, noncurante del fatto che la bionda si fosse infilata sotto le coperte soltanto quattro ore prima.
Aveva terminato tardi, troppo tardi, la riunione coi Superquattro per la costruzione del Ponte che avrebbe collegato Canalipoli al Lago Verità. Tutti avevano votato a favore del progetto e si erano detti d’accordo nell’aiutare i collegamenti tra Canalipoli e i piccoli paesini del sud della regione.
Certe volte, Camilla pensava che Duefoglie e Sabbiafine, nonostante fossero divise da Giubilopoli soltanto da una decina di minuti d’auto, dovessero essere parecchio più collegate al resto della regione. Stessa cosa per Canalipoli, grande città portuale ma con nessuna via di accesso se non quella marittima.
Sinnoh era ancora troppo selvaggia.
Ci avevano ragionato sopra per quasi sei ore, finendo per proporre quella soluzione. L’indomani sera si sarebbero rincontrati per cercare di collegare anche Nevepoli, essendo il sobborgo più a nord e isolato di tutta Sinnoh.
Tuttavia in quel momento Camilla pensò soltanto a spegnere quella dannata sveglia. Si rigirò nel letto un paio di volte dato che, come ogni notte, s’addormentava su di un cuscino e si risvegliava su quello accanto.
Probabilmente perché era più fresco.
Lei era quel tipo di persona che adorava sentire dal suo letto il vento sbuffare impetuoso e spazzare le piccole strade di Memoride; il solo fatto di non essere nella bufera la riscaldava.
Adorava stare al caldo, generalmente, anche se ogni tanto le piaceva spostare leggermente il piede verso sinistra, per assaggiare il fresco delle lenzuola dall’altra parte del letto.
Non ci faceva neppure caso, lei, ma certe volte sentiva la necessità d’un clima più mite, ed erano quelli i momenti in cui fuggiva a Unima, quando poteva godersi le sue meritate vacanze.
Allungò il braccio, con ancora gli occhi chiusi, cercando di fare un rapido check della propria posizione e di quella della sveglia; otto volte su dieci la giornata cominciava con un vaffanculo perché la urtava per sbaglio e la faceva cadere per terra.
Ne aveva rotte quattro, in sei anni.
Una buona media.
Quello era l’unico momento in cui Camilla si dimostrava umana e viziata, perché quando il silenzio riacquistava prepotentemente possesso della sua camera, lei apriva gli occhi e diventava la Campionessa di Sinnoh, che annullava il proprio volere e metteva quello di tutti gli abitanti della regione davanti.
Responsabilità, serietà, professionalità.
Non appena spegneva la sveglia, Camilla diventava un nugolo di concetti in un corpo di donna.
Si prese qualche secondo, riaffondando la testa tra i comodi cuscini e poi stiracchiando ogni muscolo del proprio corpo, per poi rilassarli totalmente.
“Buongiorno…” disse, sapendo di parlare con se stessa. Allungò lo sguardo verso i led della sveglia, che segnavano le 05:32. Era già in ritardo sulla tabella di marcia.
E quindi non indugiò oltre, prese coraggio e si scoprì, per poi poggiare i piedi perennemente congelati sulle pantofole di lana. Il pigiama che indossava non era assolutamente niente di sexy e provocante tuttavia la teneva al caldo in giornate d’inverno come quella. Il meteo aveva previsto neve su tutta la parte centro-nord di Sinnoh e la cosa non la faceva impazzire di gioia.
Guardò ancora l’orologio, era passato un altro minuto e lei ancora doveva andare in bagno. Levò quindi il pezzo di sopra del pigiama e lasciò cadere alle caviglie quello di sotto, rimanendo in slip. Infilò infine le pantofole e andò in bagno, ancheggiando stanca.
Furono tre i secondi che impiegò a riconoscersi, ferma davanti al grosso specchio che aveva tra la doccia e il grosso mobile di mogano che conteneva asciugamani e accessori vari.
Aveva una pessima cera e i capelli erano totalmente da dar fuoco.
Si guardò un seno e quindi sospirò, diretta verso la cabina doccia.
Un’ora dopo era pronta, coi capelli puliti e pettinati, gli stivaloni neri lucidati e il tailleur che utilizzava per i giorni di lavoro. Infilò la cintura con le Pokéball e s’immerse nel freddo di Memoride.
La neve cadeva ma il vento non era assai forte.
Lì tutto sembrava così dannatamente immobile, con le auto del piccolo sobborgo parcheggiate davanti ai portoni di quelle antiche case in pietra. Tutte le napoletane erano serrate e le poche persone che non avevano abbandonato quelle antiche abitazioni per i grandi sobborghi urbani della regione erano ancora nei propri letti.
Molti anziani, pochi giovani che si erano caricati Memoride sulle spalle. Come ogni giorno, la Campionessa scendeva le quattro scalette della sua abitazione, un tempo appartenente alla vecchia nonna, e gettava l’occhio alle cime del Monte Corona che accerchiavano il piccolo insediamento.
Pioveva e l’odore che si alzava dai boschi circostanti era forte e piacevole. Aprì l’ombrello dopo qualche secondo, noncurante dei capelli appena asciugati, e poggiò le suole degli stivali sulle mattonelle della via principale.
Una grossa statua di Arceus era stata costruita parecchi anni prima, e lo raffigurava in posizione semieretta, poggiato sulle zampe posteriori e sollevato, a impennare.
Maestoso.
Era cosciente del fatto che quel luogo potesse essere uno dei primi insediamenti mai creati, almeno secondo le leggende che si erano tramandate di padre in figlio e, nel suo caso, di nonna in nipote.
Camminava verso il Percorso 211 quando ricordò i momenti in cui, da bambina, sua nonna la prendeva in braccio e la metteva a sedere sul grosso tavolo che aveva in cucina. Poi, mentre impastava il pane che avrebbero mangiato quella sera, la donna raccontava decine di storie alla piccola.
Quella che Camilla chiedeva spesso era quella riguardante i quattro fratelli.
“Ancora quella?” sorrideva la donna, parecchio minuta ma lo stesso bellissima. “Non ti annoi ad ascoltare sempre la stessa leggenda? Potrei raccontarti quella della vecchia guerra in una lontana regione”.
Camilla la guardava affondare le mani nella morbida pasta bianca, sorridente. Lei non lo sapeva, ma tanto tempo dopo le sarebbe somigliata moltissimo, se non per la statura.
“No, quella dei quattro fratelli, nonna!” esclamava sempre, col vestitino grigio macchiato sull’orlo della gonna. L’indomani la nonna lo avrebbe smacchiato raggiungendo il fiume.
I loro occhi si scontrarono per un secondo, s’accese l’intesa innata che solo i nipoti hanno con quelli che erano genitori al quadrato e sorrisi si rilassarono sui volti.
“All’inizio era il nulla…”.
“Il nulla” ripeté Camilla, che quasi ricordava ogni singola parola che sua nonna utilizzava durante quel racconto.
“C’era soltanto un puntino luminoso, nel cielo infinito, che raccoglieva energia”.
“Era un uovo, vero?”.
“Certo. E quando l’uovo si schiuse nacque Arceus”.
La nonna sorrise, lasciando riposare l’impasto per qualche secondo. Aggiunse la farina sul tagliere e lo riprese, dividendo il tutto in quattro panetti più piccoli.
“Bravissima” annuì lei, prendendo il primo pezzo di pasta. “Arceus è un essere assai potente, che creò altri tre Pokémon fortissimi, ovvero Dialga, Palkia e Giratina”.
“Ma Giratina era cattivo” aggiunse lei. “E Arceus lo imprigionò”.
“Esatto. Loro crearono l’universo e i loro equilibri. Poi Arceus creò anche il trio dei laghi… Ti ricordi come si chiamano?”
“Sì!” aveva esclamato. “Uxie… Uxie, Azelf e… e…”.
“E Mesprit”.
“E Mesprit! Sì! Lo sapevo!”.
“Certo che lo sapevi” disse quella, prendendo i panetti e infilandoli in una ciotola. Si voltò e andò verso il lavello, dove scendeva sempre acqua fresca di fonte. La nonna si sciacquò le mani e prese un canovaccio, lo inumidì leggermente e lo strizzò, per poi ricoprire la scodella col pane. “E poi Arceus creò gli uomini e i Pokémon. Ma siccome non voleva che il potere del tempo, dello spazio, della luce e dell’oscurità fossero soltanto dei Pokémon, lui creò dei cristalli e li donò agli uomini”.
Camilla ascoltava, coi grossi occhi spalancati.
“E ognuno di quei cristalli, così potenti, diede vita a un’entità, che assomigliava tanto a una persona ma che una persona non era”.
“Due uomini e due donne” ribatté la bambina.
“Esatto” sorrise la nonna, mettendo il pane in un mobile e pulendo il tavolo con una pezza.
Quando Zackary Recket era entrato nello Snowflake assieme a Green Oak, quel giorno ventoso di qualche anno prima, non riuscì a credere ai propri occhi: davanti a lei c’era davvero il cristallo della leggenda che le raccontava sua nonna.
E la cosa era strana.
La neve continuava a scendere lenta ma il bosco ormai era vicino. Lì, le fronde degli alberi l’avrebbero protetta, e il suo allenamento sarebbe potuto cominciare.
- Sinnoh, Nevepoli, Snowflake -
Le prime luci dell’alba stavano riscaldando lentamente il volto di Jake Murlow. Quella notte gli era toccata la ronda del perimetro esterno e la neve, come sempre, vorticava nel buio e gli si poggiava sugli occhialoni, e poi sulle guance.
Odiava quel lavoro. Faceva troppo freddo per lavorare in quelle condizioni, e secondo lui non veniva pagato abbastanza per dover passare la notte in bianco, nella tempesta.
Il suo equipaggiamento era ghiacciato e la sua divisa militare, interamente nera, era totalmente fradicia.
Guardò per un attimo l’orologio, sbuffando quando si rese conto che mancasse ancora un’oretta o poco più fino al cambio turno.
Jake voleva andare a dormire. Casa sua non era molto lontana, lì a Sinnoh, dato che alloggiava nella bucolicissima Flemminia, e dopo un’oretta di bus si sarebbe ritrovato nel suo letto.
No, forse avrebbe fatto prima una doccia, per scaldare le ossa, e poi avrebbe messo qualcosa sotto i denti.
Sarebbe andato a letto con la pancia piena.
La radio emetteva strani suoni e interferenze, e nel mentre il vento lamentoso continuava a soffiargli sul volto.
Il fucile pesava ma lo imbracciava lo stesso e lo stringeva con entrambe le mani, per non perdere l’attimo in caso d’eventualità.
Davanti a lui solo l’innevata distesa, alle sue spalle le solide mura dello Snowflake.
Si chiedeva cosa nascondesse, quel posto, per essere protetto da cinquanta soldati armati e muniti di Pokéball.
Jake Murlow aveva con sé un Hitmonlee, donatogli da suo nonno che l’aveva catturato quando non era così difficile trovarne uno selvatico. Col tempo erano diventati una specie protetta e anche quando li si trovava selvatici si aveva l’obbligo di lasciarli allo stato brado, in quanto specie in via d’estinzione.
Era difficile ottenere un Pokémon del genere.
Doveva smettere di pensare a quelle cose futili mentre lavorava, ne era benissimo a conoscenza, tuttavia era l’unico modo per far passare il tempo.
La distesa di neve davanti a lui era ferma, immobile.
O forse no.
Oltre la bufera qualcosa si muoveva, ondeggiava prima a destra e poi a sinistra, come un grande mare bianco, calmo.
“Ma sono…”.
Non poteva essere vero. Sembrava fossero uomini ma Jake non riusciva ad accertarsene.
Troppa neve davanti a lui, e quelli forse erano vestiti di bianco.
Pulì con la manica le lenti degli occhialoni. La neve li aveva totalmente ricoperti.
Quella marea biancastra cominciava a prender forma. Poi dei Pokémon le apparve davanti.
Jake s’allarmò. Prese la radio e cercò di tenere il contatto premuto, con le dita intorpidite.
“Comandante, sono di piantone davanti all’ingresso! Sembra… sembra che ci sia qualcuno!”.
Le interferenze della comunicazione lo fecero rabbrividire.
L’uomo aspettò per qualche secondo la risposta del superiore, guardando Tre Scizor muoversi velocemente in avanti.
“Comandante!” urlò lui, mettendo mano alla Pokéball di Hitmonlee. Fece un passo avanti, posando la radio e sentendo solo interferenze.
“Altolà!” gridò lui, con la voce che produsse una forte eco, assorbita immediatamente dal vento lamentoso che disordinava la discesa dei fiocchi di neve. “Siete in una zona militarizzata!”.
L’uomo aguzzò la vista, impallidendo più di quanto non avesse già provvisto il clima rigido: c’erano migliaia di teste a marciare ordinatamente verso l’edificio grigio che si stagliava nella radura al di sopra di Nevepoli.
“Comandante!” urlò ancora Jake, quasi terrorizzata. Lasciò uscire Hitmonlee dalla sfera e imbracciò il fucile. Gli Scizor invece, velocissimi, s’erano staccati dal gruppo ed accelerarono furiosi.
“Cazzo…” sospirò quello.
Hitmonlee si gettò in avanti, affondando le gambe lunghe e affusolate nella neve fredda.
“Tieniti pronto!” urlò Jake, vedendo il proprio Pokémon abbassarsi sulle gambe, pronto a sferrare un grosso calcio, tuttavia gli avversari sembravano preparati a ogni evenienza, e anche in quel momento dimostrarono un’organizzazione magistrale: Lo Scizor centrale rallentò e i due sui lati si fiondarono sul Pokémon.
Fu Hitmonlee il primo ad attaccare, mentre Murlow urlava qualcosa alla radio; poi, irritato, la lasciò cadere nella neve, imprecando. Non sapeva che Lionell Weaves fosse munito d’un disturbatore di frequenze.
Sollevò la canna del fucile e la puntò minaccioso verso i primi volti che la sua vista riuscì a definire ma fu distratto dalla lotta del suo Pokémon, che aveva colpito con un violento Megacalcio uno dei due Scizor. Ma quelli, appunto, erano in superiorità numerica, e non ci volle molto prima che uno dei due lo attaccasse alle spalle, dandogli un potente colpo con la chela metallica.
Hitmonlee ruzzolò nella neve, per poi rialzarsi immediatamente. Lanciò un rapido sguardo al suo Allenatore, che però fissava dal mirino del fucile l’ondata estranea che si avvicinava.
Alzò leggermente la canna e sparò un paio di colpi, di avvertimento. Nel vuoto più che totale, le esplosioni dei proiettili crearono un forte rimbombo, sostituito poi dal sibilo sinistro del vento.
Guardava solo avanti, noncurante del suo Pokémon che attaccava a ripetizione con calci potentissimi ai danni di entrambi gli Scizor. Ancora calci, ma le alte difese dei Pokémon acciaio non risentivano minimamente né degli attacchi dell’avversario né della morsa del freddo, e nessuno riusciva a capire perché.
Jake gettava sempre un occhio a Hitmonlee, poi alzava il fucile e sparava ancora.
E poi successe tutto in un attimo.
Non appena il grosso gruppo fu vicino abbastanza da poterne riconoscere i dettagli l’altro Scizor, quello rimasto indietro, sembrò puntare direttamente al soldato semplice Jake Murlow.
Quello spalancò gli occhi e puntò l’arma su di lui.
Non voleva uccidere nessuno, non era lui a dover decidere a chi levare il beneficio di vivere un’esistenza, cattiva o buona che fosse, meno ancora un Pokémon, che non era malvagio di per sé ma soltanto obbediente.
Però sparò lo stesso, perché doveva proteggere se stesso, e la paura gli aveva scatenato un rapido rilascio d’adrenalina, che lo costringeva a tenere gli occhi sbarrati anche se i grossi occhialoni erano quasi totalmente ricoperti dalla neve.
Partirono più di venti colpi da quella mitragliatrice, che rimbalzarono impietosi sulla testa e sul corpo di quello Scizor.
Le porte alle sue spalle si spalancarono subito dopo, quando dallo Snowflake uscirono numerose truppe armate, ma il peggio stava già per accadere.
Jake si distrasse, un attimo di troppo, guardando come uno dei Pokémon che affrontava il suo Hitmonlee gli avesse tranciato di netto una gamba. L’altro lo emulò, lasciandolo zoppo e sanguinante in mezzo alla neve.
Tornò con lo sguardo verso il suo avversario che, ormai troppo vicino, strinse la morsa attorno a suo cranio, distruggendolo completamente.
Jake Murlow ora riposava in pace.
Lionell guardava soddisfatto la manovra offensiva alla porta. Gli altri soldati a guardia del perimetro erano stati uccisi tutti a sangue freddo dall’esercito di Scizor, che si stava compattando proprio davanti all’ingresso del Bunker.
Guardò Linda, poi Malva, che annuirono.
Entrambe presero due Pokéball, mandando in campo quattro Electrode.
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