II
Ceramica
Ceramica
Dalla cabina dell’aereo si udiva il debole rumore dei motori in funzione. Sapphire guardava le nuvole fuori dal finestrino scorgendo di tanto in tanto qualche piccolo frammento del paesaggio sottostante. Volavano da quasi un’ora, ma le sembrava di aver sprecato un pomeriggio intero. Ruby aveva lavorato al PC scambiando qualche parola con lei solo di tanto in tanto e Gold si era appisolato quasi subito su quei comodissimi sedili di prima classe.
Sapphire avrebbe voluto chiacchierare con Ruby, aveva bisogno di comprendere molte cose a proposito di... loro due. Lei lo aveva baciato, il giorno prima. Era avvenuto durante la lotta contro Zero, quando erano in pericolo e, si sa, tutti si amano nel pericolo, lo aveva imparato dai film americani. Ma comunque, quel bacio c’era stato. Poi, non era accaduto nient’altro. Non avevano avuto modo di parlare o di chiarirsi. Lei non era neanche più tanto sicura che quel ragazzo fosse innamorato di lei. D’altronde, non ne aveva mai davvero avuto la certezza.
«Simpatica, la tua amica... come hai detto che si chiama?» disse, prendendo coraggio.
«Orthilla?» chiese Ruby, ridendo.
Era evidente che la battuta altezzosa del non ricordo il suo nome non funzionasse quando la persona in questione era una star famosissima in tutta Hoenn.
«Sì, quella» arrossì Sapphire.
«Che vuoi sapere?»
«Da quanto vi conoscete?»
Ruby levò gli occhi dallo schermo del portatile e tolse gli occhiali. Controllò che non ci fossero hostess nei paraggi e che Gold dormisse profondamente. Sorrideva, forse aveva percepito la nota di gelosia nella sua voce.
«Lei era una Coordinatrice emergente, aveva talento. Ha fatto carriera e ci siamo ritrovati più volte a lavorare insieme» riassunse lui.
«Sa qualcosa a proposito della Faces?»
«Sa che lavoriamo per loro, non sa che sono dei criminali e che lo facciamo perché siamo costretti».
«Tu sei costretto, quindi lavora per te» dedusse lei.
«Lavora per me» confermò il ragazzo.
Sapphire non sapeva come continuare. Sperava che l’argomento Orthilla la aiutasse a tirare fuori a Ruby qualche informazione in più a proposito della sua vita amorosa, ma si era messa all’angolo da sola. Decise allora di far ricorso all’eleganza: «Te la sei fatta?»
Ruby sgranò gli occhi. Sapphire cercava di mantenere un’espressione di distacco, ma non poteva controllare il rossore che aveva invaso le sue guance.
«No, Sapphire» rispose il ragazzo.
«Ok» mormorò lei.
Per un intero minuto, i due evitarono di guardarsi negli occhi, nel silenzio imbarazzante.
«Tu, invece?» chiese.
«Io cosa?» Sapphire aveva frainteso la domanda.
«Hai qualcosa da raccontarmi... di questi due anni?»
«Oh. Beh, ho viaggiato molto» generalizzò «ho visto tanti bei posti...» era evidente che non sapesse cosa dire.
«Ho fame» grugnì Gold, aprendo gli occhi.
Ruby e Sapphire si resero conto in quel momento che probabilmente il ragazzo aveva ascoltato tutta la loro conversazione. In effetti, il sorrisetto che aveva sotto i baffi faceva ben intendere cosa ne pensasse.
Dieci minuti dopo, stavano mangiando sashimi accompagnato da sakè caldo. Le due hostess impeccabilmente truccate che si erano occupate di servirli indossavano un uniforme con lo stemma della regione di Hoenn sul petto.
«Abbiamo già viaggiato per Sinnoh insieme» affermò Gold, prima di portarsi alla bocca un pezzo di salmone.
«Tu e Sapphire?» chiese Ruby.
Quello annuì «bellissima» commentò «Sinnoh intendo».
Ruby contrasse il volto in un’impercettibile smorfia.
Green e Blue avevano raggiunto Kanto, riscontrando anche lì una temperatura molto più bassa del normale. I due avevano viaggiato scambiandosi pochi sguardi e qualche rara parola. Non c’era poi tanto di cui parlare, stavano attraversando uno di quei momenti in cui le chiacchiere erano superflue e tutti avevano solo bisogno di distrarsi o di non essere infastiditi.
«Potremmo passare prima a casa mia? Ho davvero bisogno di prendere alcuni vestiti» chiese Blue, mentre sorvolavano Zafferanopoli.
«Ok, ma fai in fretta» acconsentì Green.
La coppia scese precipitosamente verso la zona residenziale. Un anno prima, Blue aveva preso un piccolo appartamentino da settanta metri quadri al sesto piano di una vecchia palazzina di periferia. Non era casa sua, o meglio, lei non la considerava tale. Era la sua base, il luogo in cui ritirarsi temporaneamente tra un viaggio all’estero ed un altro. Lo aveva acquistato solo per la necessità di autonomia e di uno spazio personale al di fuori dalla casa dei suoi genitori. Green era entrato in quell’appartamento soltanto una volta, parecchio tempo prima, ma il ricordo era parecchio vivido. Quelle immagini cominciarono a riaffiorare alla sua mente non appena mise i piedi sullo zerbino con la scritta: ricorda di portare il vino.
Qualche secolo prima, aveva invitato Blue a cena, andando a prenderla a casa dei suoi. Quando si hanno ormai vent’anni le ragazze vanno invitate a cena, e non l’aveva mica portata in un ristorantino da quattro soldi, ma nel miglior bistrot che con il suo stipendio da Capopalestra aveva potuto permettersi. Da quel momento tutto era andato in discesa, la loro “relazione seria” sembrava funzionare, le cose andavano bene, nelle loro grandi differenze avevano trovato una sorta di armonia.
Poi Blue aveva cercato più libertà: era un periodo di cambiamento per lei, si era resa conto di aver raggiunto gli ultimi anni della propria gioventù e di star per entrare nell’età adulta. La cosa la spaventava, ma lei non se ne era ancora resa conto. Aveva stretto un forte legame con Sapphire, le due ragazze avevano cominciato a viaggiare in lungo e in largo. E intanto, la sua relazione con Green aveva iniziato a scricchiolare. Stare in compagnia di una ragazza che pativa per amore di un ragazzo non l’aveva certamente avvicinata al suo fidanzato. Un giorno, Blue era tornata a Kanto, intenzionata a dare al suo partner un’ultima possibilità. Aveva chiesto a Green di portarla fuori, spiegandogli la situazione.
Il ragazzo si trovò di nuovo a quel giorno, mentre Blue gli apriva per la prima volta dopo tanto tempo la porta di casa. Gli sembrava di essere di nuovo in giacca e camicia, con un grosso mazzo di fiori, in ansia per il suo secondo-primo appuntamento in cui la loro relazione avrebbe preso una tra le due strade possibili: terminare immediatamente o durare per sempre. Lei aveva aperto, bellissima come sempre, e insieme erano usciti. Avevano scherzato e riso tutta la sera, si erano guardati negli occhi come se non conoscessero già a memoria i loro rispettivi volti, si erano baciati lentamente e con tenerezza, come due liceali con i libri negli zainetti. Poi lui l’aveva accompagnata a casa e lei lo aveva maliziosamente invitato a salire. Si erano saltati addosso nell’ascensore, incapaci di attendere fino al sesto piano. Lui la baciava sul collo, lei lo stringeva a sé per la giacca. Poi lo scatto della serratura: il salotto di casa nuova e il suo corpo che sgusciava fuori dal vestito, i mobili vintage ripitturati da lei e la cravatta di Green stretta tra le sue unghie smaltate, i suoi quadri di ritagli di giornale e il colletto della camicia macchiato di rossetto.
“No!” aveva gridato.
Green era rimasto congelato. Teneva ancora una mano sulla sua coscia e l’altra nel mozzato tentativo di toglierle il reggiseno. Lo aveva allontanato con le mani, respirando a fatica. Il suo fiato era caldo, ma il suo sguardo era glaciale. Si fissavano, immobili. Blue aveva realizzato che non c’era più niente, che era una donna cambiata, e che Green faceva parte della sua vecchia vita.
“No” aveva ripetuto.
Green aveva capito. Si era rivestito alla ben e meglio, aveva preso la cravatta ed era uscito dall’appartamento, chiudendosi la porta alle spalle. Blue era caduta a terra, mezza nuda, col trucco sbavato e i capelli spettinati. Seduta sul freddo pavimento, aveva pianto tutta la notte.
Un anno dopo, Green tornava in quell’appartamento. Tra lui e Blue perdurava ancora un silenzioso accordo: nessuno avrebbe parlato di niente. E così erano riusciti ad essere amici, senza mai chiarirsi sul perché la loro relazione fosse deragliata.
«Scusa il disordine» mormorò Blue, mentre o invitava ad entrare. Era una frase di circostanza, ma risultava terribilmente adatta a quel contesto: casa sua era un disastro.
Green dedicò particolare attenzione alle innumerevoli tele dipinte abbandonate sul pavimento, su alcune erano perfettamente individuabili le impronte di vernice di alcuni piccoli Pokémon. Appesi al muro c’erano dei quadri nuovi: fiori secchi schiacciati tra lo sfondo di velluto e il vetro che li sigillava: Blue si era resa conto di non riuscire a gestire delle piante, essendo a casa un giorno no e l’altro neanche, quindi aveva ovviato al problema in quel modo. Nella camera della ragazza, sopra al futon blu mezzanotte, pendeva una nuvola di lampadine appese con dei fili colorati. Era sicuramente un’abitazione eccentrica, ma Blue non era mai stata famosa per la sua banalità.
Green pensò di fare apprezzamenti su certe scelte di arredamento; per lui, accanito compratore di mobili Ikea, tutto quel caos era praticamente una magia. Cambiò idea all’ultimo, per evitare di essere frainteso.
«Mi sbrigo, devo solo fare qualche bagaglio» lo rassicurò lei, spalancando l’enorme armadio a muro. «Prenditi qualcosa da bere, dovrei avere un succo di frutta o qualcosa di simile in frigo».
Green non rispose ed entrò in cucina. Il piano cottura era disordinato e pieno di cianfrusaglie, ma i fornelli sembravano essere stati utilizzati sì e no tre volte: Blue non era mai stata un’appassionata di cucina; al contrario, il forno a microonde sembrava come appena uscito da una guerra. Il ragazzo aprì il frigorifero, faticando ad individuare la maniglia, in mezzo a quella fitta corazza di calamite e adesivi di cui era ricoperto. Trovò due cartoni di latte talmente inacidito da essere potenzialmente fatale, un bricchetto di succo ACE mai aperto ma scaduto da sei mesi, una brocca d’acqua, una confezione sigillata di insalata di riso inutilmente messa in frigo e infine un pacco dai sei Tennent’s miracolosamente ancora bevibili. Ne afferrò due, stappandosi la prima sullo spigolo del tavolo. Sorseggiando il liquido dorato, gettò un occhio alla lavagnetta delle cose da fare magnetica attaccata al frigorifero. Lesse i due punti che ancora non erano stati spuntati: compra divano nuovo e visita ginecologica Yellow il 15/06. Rifletté che il quindici giugno era passato da quasi un mese, ragion per cui Blue non rientrava a casa da prima di quel giorno, altrimenti avrebbe spuntato l’impegno. Oltretutto, non gli era chiaro per quale motivo la ragazza avrebbe dovuto segnarsi la data della visita dal ginecologo di una sua amica. Un piccolo germoglio di dubbio cominciò a mettere le radici nel suo cervello, continuò a sorseggiare la birra per non pensarci, non era mai stato un fan sfegatato dei fatti altrui.
«Prendo il cappotto verde o il giaccone nero?» chiese Blue dall’altra stanza.
Green, non conoscendo la differenza tra i termini cappotto e giaccone, dovette raggiungerla per poter dare un’opinione ponderata.
La trovò immersa in un mare di vestiti riversati disordinatamente a terra, aveva indossato dei pantacollant neri strappati in più punti e una grossa felpa col cappuccio, in testa si era messa una cuffia di lana di colore rosso. Nelle mani stringeva due soprabiti completamente differenti, ma che Green, nella sua mente, aveva effettivamente identificato con la stessa parola.
«Quello lì» decise Green, indicandone placidamente uno a caso, tanto a Blue stava sempre tutto bene.
«Non esserne così entusiasta» borbottò.
Green non ribatté.
«Questo me lo hai comprato tu» aggiunse la ragazza, con un filo di voce.
Ottimo, Green Oak, te ne eri dimenticato. Effettivamente, il Capopalestra di Smeraldopoli aveva qualche vago ricordo che lo rimandava alle innumerevoli passeggiatine per negozi in compagnia di Blue alla ricerca di questo vestito Tommy Hilfiger o di quel profumo Versace. Tuttavia, le memorie più vivide riguardavano solo i prezzi esorbitanti e mai la natura dell’articolo acquistato.
«Dici sul serio?» chiese, non sapendo cos’altro dire.
«Delicato, Green» rispose visibilmente delusa, voltandogli le spalle.
«Dai...» si lamentò il ragazzo.
Blue continuò ad ignorarlo, sigillandosi le labbra.
«Va bene, in fondo sei stata tu a lasciarmi» rinunciò lui.
Lungo la schiena di Blue corse un brivido, lo scossone che ebbe al sentire le parole di Green fu più che evidente. Il Capopalestra di Smeraldopoli rotto il patto: improvvisamente, quello che fino a pochi istanti prima era il suo amico era tornato ad essere il suo ex ragazzo con cui aveva rotto bruscamente.
«Vuoi veramente parlare di questo?» chiese lei, indignata.
«No, ovviamente no, non serve parlarne» Green era acidamente sarcastico «non lo abbiamo mai fatto, perché mai dovremmo iniziare?»
«Ok, Mister Maturità, parliamone allora! Se davvero ne hai così tanto bisogno possiamo pure farne un saggio scritto».
«Dio, come mi dai fastidio quando fai così!»
«Dimmi una sola cosa che non ti dia fastidio, ti prego».
«Cerco solo di... argh, maledizione! Cerco solo di capire cosa ti frulla in testa».
«A che cosa serve? Tanto ti darei comunque fastidio!»
«Ci sono stato male, ok?!» gridò infine Green.
Blue era sul punto di rispondere aspramente, ma nessuna battuta fuoriuscì dalla sua bocca.
«Io ci credevo, mi piacevi veramente» disse, apparendo più calmo «poi tutto è precipitato e... niente, mi hai cacciato di casa e due settimane dopo tu eri di nuovo chissà dove con Sapphire in qualche posto lontano a divertirti con uno sconosciuto mentre io ero chiuso in quella maledetta palestra da solo» Green alternava deboli sguardi al terreno e amari sorrisi nei confronti della sua ex fidanzata.
Il ragazzo era ormai partito per la tangente. Blue si rese conto solo in quel momento di come dietro quella scorza dura ci fosse comunque un essere umano. Anche quando erano stati insieme, non aveva mai scoperto quel lato fragile di Green, non ne aveva mai avuto modo. Solo lì, riuscì a capirlo davvero. Lo vide mentre cercava di convincersi che la sua vita non era proprio da buttare e che forse condividerla con qualcuno l’avrebbe resa un poco migliore, per poi vedere ogni sua prospettiva era crollare in un solo momento lasciandolo solo e abbandonato, nella solita monotonia.
«Senti... lasciamo stare» il ragazzo mise le mani in tasca e si avviò verso l’uscita.
Blue si accorse in quel momento di star rimanendo immobile mentre Green lasciava quell’appartamento per la seconda volta. Lo fissava, vedendo ogni sua mossa al rallentatore. E nel frattempo, sentiva che una parte di sé chiedeva con insistenza di prenderlo per un braccio e costringerlo a rimanere. Quella parte di Blue aveva già sofferto troppo per poter tirare avanti ancora: aveva visto Emerald morire e Red voltare le spalle alla squadra, aveva visto Silver immobile sul letto di un ospedale, attaccato ad un elettrocardiogramma, e Crystal perdere ogni speranza e mollare il gruppo. Si sentiva abbandonata e maltrattata, aveva perso ogni punto fermo, le sembrava quasi che ogni singolo momento felice della sua vita dovesse risultare vano, alla fine.
«Aspetta» mormorò, con un filo di voce «non andartene» disse quella parte di Blue.
Green si immobilizzò «dammi un motivo per restare» sibilò.
Tutti se ne erano andati, ormai. Tutto il castello di carte che era la sua vita sembrava crollare sotto il soffio del vento. Persino lui la stava lasciando. Di nuovo. L’unico uomo che era stato capace di farla innamorare.
«Mi resti solo tu» mormorò Blue, nascondendo le lacrime con l’avambraccio.
Blue teneva gli occhi chiusi, ma udì bene i passi del ragazzo. Percepì del calore, comprese che erano le sue braccia strette attorno al suo corpo. Vi scivolò dentro, abbandonandosi sul corpo del suo uomo.
Si abbracciarono per duemila anni che a lei parvero due secondi e mezzo. Cercò le sue labbra nell’ispida cornice della sua barba di pochi giorni. I due si dettero conforto l’un l’altro, dimenticandosi del resto del mondo per qualche istante. Si abbandonarono sul letto, stanchi e devastati da tutto e da tutti. Sotto quella cascata di lampadine dai fili colorati tornarono a quel giorno di tanti mesi prima, quando il loro noi si era spezzato, tentando di rimetterlo insieme.
Nonostante tutto, Green era rimasto.
Nel frattempo, parecchie centinaia di chilometri più a nord, la neve scendeva silenziosamente sulla città di Evopoli. Nelle prime ore del pomeriggio, Sinnoh aveva avuto il primo momento di tregua dalla tormenta: la violenta bufera che aveva imperversato per l’intera mattina di quel due luglio aveva ricoperto l’intera regione con un bianco strato gelido. La società era nel caos, gli spazzaneve e i soccorritori erano stati costretti ad intervenire all’istante per mettere in sicurezza le zone più a rischio. La popolazione sembrava paralizzata da quell’insolito evento.
«Sono in viaggio, stanno venendo qui a Evopoli» disse Aurora, togliendo il piumino.
«E Ruby?» chiese una voce, dall’oscurità.
«Gold ha detto di volergli dare fiducia, io sono d’accordo con lui» la ragazza sfilò anche la sciarpa e il cappello, liberando i suoi capelli mori tinti di azzurro vicino alle punte. Aurora era la Capopalestra di Porto Stellaviola, a Holon. In quanto membro della Resistenza e nemica della Faces, si era mobilitata qualche giorno prima per informare e reclutare i Dexholder Gold, Green e Blue. Aveva intercettato Gold a Secondisola, parlando con lui per primo, il ragazzo avrebbe poi riferito le informazioni ai suoi amici. Aurora stava aspettando che l’intero gruppo raggiungesse Evopoli, dove li stava attendendo insieme ad un altro paio di membri della Resistenza. Li avrebbero raggiunti all’interno del vecchi palazzo abbandonato del Team Galassia, avevano avuto la possibilità di accedervi molto facilmente ed era subito risultato essere un luogo ottimale per i loro incontri che necessitavano di sicurezza e anonimato. Le luci non funzionavano, lasciando i corridoi di colore metallico in una semioscurità spezzata soltanto dalla luce che riusciva ad filtrare dalle assi con cui erano state sprangate le finestre. Ogni stanza di quell’edificio era stata lasciata al degrado: sui pavimenti erano riversate cianfrusaglie di ogni tipo, pezzi di intonaco scrostato e scrivanie rovesciate, quello che una volta forse era stato un luogo di lavoro serio e pulito, era diventato un triste scenario tetro e desolato.
«Abbiamo dato alla Faces troppo spazio di manovra, a Holon siamo caduti nella loro trappola» disse il ragazzo, lasciandosi intravedere da Aurora, tra una zona d’ombra e l’altra «ho bisogno di parlare con Antares».
«Antares non può risponderti, ora» ribatté una terza voce, da un angolo di quella stanza.
Aurora, seduta su una scrivania rovinata, vide emergere due figure dal buio: un ragazzo dai capelli bianchi e disordinati con indosso un pesante cappotto grigio e una giovane ragazza dalla lunga chioma bionda e delle profonde occhiaie sul viso.
«Antares ha altro a cui pensare, attualmente» precisò la ragazza.
Kalut, il ragazzo dai capelli bianchi la fulminò con gli occhi, ma la ragazza non si lasciò intimorire.
«Abbiamo bisogno di lui, Celia... è una situazione critica» disse Aurora, con lieve tono di rimprovero.
«Beh, non sono più la sua assistente, parlate direttamente con lui» la liquidò la bionda, prendendo una sigaretta da un pacchetto di Marlboro Gold che aveva in tasca e accendendola con un clipper nero. Lei era Celia, neo eletta Capopalestra di Vivalet, altro membro della Resistenza come Aurora e Kalut.
Nell’oscurità, il denso fumo della sigaretta cominciò a diffondersi per la stanza. Kalut non ne era infastidito, era una persona molto adattabile, ma Aurora, che era abituata all’aria salmastra e alla brezza marina della sua città, cominciò a storcere il naso.
«Per il momento non ti stai rendendo utile, Celia» sottolineò Kalut «potresti almeno darci una mano con tuo fratello Xavier» il ragazzo teneva le braccia strette al petto in segno di contegno, ma nella sua voce si percepiva una sottile vena aggressiva.
«Non riesco più a mettermi in contatto con mio fratello da un anno ormai» si giustificò la bionda.
«Allora vedi di mobilitarti di conseguenza» ordinò Kalut, alzando la voce «potrebbe essere l’unico modo di fermare tutto questo inferno di ghiaccio» mormorò.
Aurora non mise bocca, era d’accordo con il ragazzo ma non voleva mostrarsi ostile nei confronti della bionda. Celia, dal canto suo, voltò indignata le spalle a Kalut e continuò a fumare la sua sigaretta.
«Non riuscirei mai a portare mio fratello dalla nostra parte» mormorò, dopo un po’.
«Sei cosciente del fatto che potremmo doverlo affrontare, un giorno?» chiese Aurora.
Celia non rispose. Tossì un paio di volte a causa del fumo. Fece finta di non pensarci, ma in realtà, quel pensiero la affliggeva da molto tempo.
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