1.
“È passato ormai un po’ di tempo da quando hai lasciato Albanova, Ru’… Qui tutto scorre lentamente. E non è per via di queste nuvole di pioggia leggera, che non fanno neppure finta di allontanarsi; sai che è il periodo, questo, in cui passiamo più tempo al chiuso che fuori.
Dicembre, a casa nostra, è così.
Ma immagino che non te lo debba spiegare, anche se manchi da quasi un anno…”
Universo Y, Unima, Austropoli, Manhattan, 10 marzo 20XX
Il Boeing 737-7H4 della Southwest Airlines era atterrato qualche minuto dopo le sette del mattino. Ruby non aveva impiegato molto tempo bastati pochi minuti davanti al nastro bagagli prima di capire quanto differente e confusionario fosse, quel posto.
Sì, perché era nato dall’altra parte del mondo, nella ridente Olivinopoli, quasi trent’anni prima, quando i cellulari erano ancora grossi e doppi e non avevano la fotocamera integrata. Il luogo dove viveva ospitava il porto più grande della regione di Johto ma non sarebbe mai riuscito a paragonare il caos che affollava le vie di Austropoli, grandi o piccole che fossero, con quelle della sua città natale.
D’altronde, ricordava casa sua con una certa poesia, anche se dovette abbandonarla appena dodicenne per seguire suo padre e i suoi sogni professionali.
Il taxi su cui era seduto, una Chevrolet Impala del duemila dodici, accostò accanto al marciapiede proprio mentre il Tissot del ragazzo segnava le quindici e quarantacinque.
- Siamo arrivati. – aveva detto con voce squillante la tassista. Era una donna bionda e spettinata. Il suo accento tradiva origini italiane.
- Sì.
- Sono ventiquattro dollari e trentasette centesimi. – aveva ribattuto, puntando il dito contro il led del tassametro. Il ragazzo annuì, pagò e lasciò una buona mancia, quindi scaricò la valigia dal portabagagli e si tuffò nell’aria satura di smog di Austropoli. Il cemento scuro dei marciapiedi brulicava di gente, indaffarata e imbruttita, che correva in ogni direzione. Ruby si chiedeva dove scappassero tutti, prima che una donna avvolta in un tailleur grigio, dalle alte Louboutin, lo colpisse con una spallata, chiedendogli perché fosse fermo proprio lì in mezzo come un coglione, minacciando qualcuno al telefono di non cominciare la riunione senza di lei.
- Scusi… - aveva risposto, sistemando il Panama sulla testa. Si concesse altri quattro insufficienti secondi per capire cosa stesse succedendo, prima di trascinarsi in avanti, accanto al carretto degli hot dog di Larry, il cui nome era scritto sull’ombrellone dalla fantasia a spicchi, bianchi e rossi, che lo copriva dal sole pallido di quella fine d’inverno. Cellulare alla mano, prese a cercare la mail con l’indirizzo che gli serviva.
- Qui dice… uno quattro sette cinque di Roosevelt Drive, Manhattan… è…
- È davanti a te.
Una voce alle sue spalle lo ridestò. Si voltò, e vide quello che con ogni probabilità doveva essere Larry, col grembiule sporco di senape e la stempiatura appena visibile al di sotto del cappello bianco a barchetta.
- Che, sei un modello? – chiese poi. – Non mi sembri un modello.
- No… non sono un modello ma ho un appuntamento all’uno quattro sette…
- Sì, ti ho detto che è davanti a te. La bi e la doppiavvù, lì…
Ruby spostò lentamente gli occhi dai dispenser di ketchup e senape fino alla grossa scalinata di marmo che aveva davanti, adornata, a destra e a sinistra, da due statue classiche raffiguranti dei leoni, accanto a una serie di fioriere colme di camelie, biancospini e glicine.
Insomma, fiori di marzo.
Seguì con gli occhi i gradini, fino alla maestosa porta d’ingresso, totalmente in vetro, che permetteva di vedere il movimento all’interno dell’atrio. Pochi metri al di sopra c’era una grossa insegna: BW Modeling Agency c’era scritto, in caratteri minimali e molto eleganti.
- Oh… grazie. – gli rispose, sorridendo, poi si avvicinò alla scalinata, salendola lentamente, sollevando la valigia per non graffiare quegli eleganti marmi e riconoscendo quella sensazione d’ansia mista a euforia tipica delle prime volte.
Quando entrò nel palazzo non poté fare altro che guardarsi attorno: gli piaceva molto quell’ambiente, così elegante e fine, dal sottofondo lounge rilassante e poco invadente, che scivolava alle spalle delle conversazioni e non infastidiva. La luce naturale illuminava gli spazi attraverso la lunghissima vetrata, che comprendeva due delle quattro pareti, angolo compreso. Diversi salottini, composti da poltroncine bianche e tavolini neri, erano disposti ordinatamente lungo l’area est dell’atrio, proprio di fronte a un enorme banco accettazione, dove tre donne, giovani e molto attraenti, dirigevano il flusso della folla.
Tutto era inondato di buongusto.
Rilesse la mail che aveva ricevuto e poi guardò l’orologio, avvicinandosi lentamente al piano del bancone di cristallo satinato. Catturò lo sguardo di una ragazza dagli occhi grandi e dai capelli rossi e ricci, educatamente raccolti in un pill-box hat, simile a quelli che indossava Jackie O’, del colore del cielo. Della stessa tonalità erano la giacca hourglass e la gonna longuette, che cadeva ben al di sopra del ginocchio. Le mani erano avvolte da guanti bianchi di velluto.
- Buongiorno. – disse il ragazzo, sorridendole. Lesse il nome Kimberly sul cartellino che aveva sul petto.
- Buongiorno e benvenuto alla Black and White. Siamo la prima agenzia di modeling management di Austropoli.
Sorrise gioviale, quella, chinando il capo. Aveva il volto pulito. Ruby annuì e distolse lo sguardo per un attimo.
- Adoro le vostre divise… Pan Am…
- Come? – domandò l’altra, confusa.
- No, è che siete tutte vestite come hostess di una compagnia aerea di diversi anni fa…
La vide poi abbassare gli occhi, per un colpevole secondo.
- Oh, non lo sapevo… Come posso aiutarla?
- Dovrei incontrare la signora… ehm… White… un attimo che non ricordo il cognome…
- Trebuchet.
- Trebuchet, sì. White Trebuchet. Lavora qui, vero?
Kimberly sorrise a mezza bocca e inarcò le sopracciglia.
- Sarebbe la presidentessa, quindi sì...
- La presidentessa del…
- Dell’agenzia.
- Di tutto.
- Sì. Ha un appuntamento?
- Beh… veramente sì, tra dieci minuti. Ma mi sono anticipato.
Quella annuì gentilmente. – Come si chiama?
- Ruby. Ruby Normanson.
La receptionist abbassò lo sguardo sul suo tablet e scorse col dito lungo una fitta agenda.
- Sì, è qui, c’è. Può accomodarsi. - fece, allungando la mano sottile verso i divanetti. - Intanto gradisce qualcosa da bere?
Il ragazzo allungò l’occhio verso la sala. Avrebbe scelto volentieri un succo di frutta ma era condizionato da tutti quegli uomini d’affari, che riempivano la sala e discutevano seri e indaffarati. Nei loro bicchieri i liquori ambrati la facevano da padrone.
- Brandy. Berrei volentieri del brandy.
L’altra annuì ancora. – Abbiamo del Rochelt Schwarze, o un Mirabelle. Se invece preferisce qualcosa di un po’ più ricercato potrei farle provare del Rey Luis Felipe.
Ruby sorrise imbarazzato, che in realtà non aveva tutta la conoscenza necessaria.
- Il Rey andrà benissimo.
- Va bene. Si accomodi, le servirò tutto tra un istante.
- Grazie, Kimberly.
Si voltò, spingendo poi la valigia fino alla poltroncina più vicina agli ascensori. Tirò fuori il cellulare dalla tasca e aprì la conversazione con Sapphire.
C’era un suo messaggio di più di un’ora prima.
Guardò la sua fotografia e sorrise, pensando al fatto che avrebbe voluto averla lì con sé.
Poi qualcuno lo ridestò.
- Il suo Rey Luiz Felipe.
Kimberly si accovacciò elegantemente accanto al tavolino, poggiando prima la coppa col brandy e poi un piattino con quattro cubetti di cioccolato fondente.
- È alla cannella. E lì c’è un fazzoletto. La chiamerò non appena la dottoressa Trebuchet si libererà. Qualsiasi cosa le sia necessaria, basta che mi chiami.
Poi si alzò e sorrise, voltandosi e sfilando educata verso il bancone.
- Cominciamo bene… - sospirò Ruby, prendendo il bicchiere dal tavolino e odorando gli aromi particolari che sprigionava. Sporcò la bocca col cioccolato e poi bevve un sorso leggero di brandy, prima che il cellulare vibrasse.
Portò gli occhi sullo schermo, era ancora Sapphire.
- Signor Normanson…
Ruby alzò lo sguardo dal cellulare e vide nuovamente Kimberly, leggermente chinata davanti a lui. Inizialmente gli sorrise educata, poi rapprese leggermente le labbra, forse per il fastidio che credeva di dargli.
- Mi scusi, signor Normanson…
- Ah, sì.
- Mi spiace distoglierla dalla sua conversazione. La Dottoressa Trebuchet è pronta a riceverla.
- Oh… ottimo.
Sorrise, stringendo gli occhi. Ruby adorava le fossette che le si erano formate sulle guance.
- Mi segua.
Annuì, Ruby, avendo poi la pessima idea di buttare giù il resto del brandy in un sorso avaro, che andò pungergli le papille gustative e raggiunse lo stomaco, forte come un cazzotto. Pensò che un po’ d’alcool potesse placare quell’ansia che non riusciva a gestire, poi poggiò il bicchiere sul tavolino, seguendo la donna davanti a lui. Le ruote del trolley strisciavano lungo i marmi del pavimento dell’atrio, mentre la mano che non reggeva il manico scriveva a Sapphire che fosse arrivato il suo turno, e che l’amasse. Il telefono scivolò lento nella tasca, mentre l’ascensore spalancava loro le porte automatiche trasparenti, mostrando quel piccolo ambiente le cui pareti erano composte da vetrate.
La pulsantiera aveva solo due tasti. Il primo, quello che premette Kimberly, raffigurava una freccia verso l’alto. L’altro, verso il basso, ed era sicuro, Ruby, che sarebbe stato proprio quello che avrebbe dovuto premere per recarsi all’uscita.
Non aveva belle sensazioni, non era molto sicuro. Il cuore batteva e il brandy stava salendo alla stessa velocità di quell’ascensore che, meravigliosamente, mostrava loro tutto lo skyline di Austropoli.
- Incredibile… - riuscì a sussurrare, mentre le persone e le automobili giù per strada diventavano sempre più piccole, fino a sparire dalla sua vista. Riusciva a vedere la cima della Trump Tower, da lì, svettare a più di dieci chilometri. Il profumo di Kim aveva attirato la sua attenzione, poco dopo oltre il decimo piano. Era familiare, lo aveva già sentito da qualche parte, più di una volta, ma non riusciva a capire addosso a chi. Era dolce e pungente.
Guardò la donna, dritta e composta, con le mani giunte sull’addome. Giochicchiava con l’orlo del guanto, tirandolo. Poi sospirò. Batté le palpebre più volte, guardò Ruby e sorrise.
- È un po’ lunga, la strada per l’ufficio. Chiedo scusa.
Ruby sorrise.
- Ti stai davvero scusando per l’altezza del palazzo?
Quella ridacchiò composta, abbassando lo sguardo. – Ha ragione.
- Perché sembri nervosa? È così terribile, White Trebuchet?
Kim schiuse le labbra e inarcò le sopracciglia. Sospirò di nuovo.
- Devo preoccuparmi, Kim?
- No, no! Non deve preoccuparsi! È che è una donna molto forte e…
- E?
- E… e nulla, io…
E poi le porte dell’ascensore si spalancarono, a mostrare una piccola antisala, divisa da un’ambiente assai più grosso e luminoso da un vasto muro di vetro satinato. Al centro, la porta era spalancata. Questo piccolo vestibolo vedeva quattro poltroncine imbottite, dai braccioli obliqui, in tessuto, bianche e nere, dietro a un tavolino di cristallo, su cui erano poggiati due vasi pieni di fiori freschi; da una parte imperavano i narcisi, dall’altra i tulipani.
Di fronte, davanti a una mezza parete in cui imperava un dipinto di Nashid Chroma, c’era una scrivania in cristallo, dove una segretaria nervosa stava scrivendo rapidamente qualcosa su di un blocchetto. Davanti a lei, dettava una donna elegantissima, non troppo più grande di Ruby. Aveva lunghi capelli castani, mossi, che cadevano sulla giacca bianca del suo tailleur, dalle asole e dalle tasche di raso, color panna. Nascondeva una camicia nera, come le Jimmy Choo che indossava sotto ai pantaloni a zampa.
Ruby la trovava garbata e incantevole, anche se il volto pareva provato. Sembrava non dormisse da più di un giorno, difatti gli occhi, azzurri come il cielo, erano semicelati dalle palpebre stanche, anche se finemente truccate.
- Hai segnato tutto? – aveva detto all’altra.
Quella, una ragazza dalle grosse crocchie ai lati della testa, annuì, incerta. Non sembrava avesse più di vent’anni.
- S-sì, presidentessa…
- Perfetto. Poi… uff, dannazione, non ricordo dov’era… - portò le mani ai fianchi e fissò il soffitto.
- Cosa? – aveva chiesto l’altra.
- La sala… quella che ha aperto da poco…
- Quella con gli archi all’ingresso?
- No, quella è a Tribeca. Si chiama tipo So… South…
- Sour. A White Hall.
- Sour, sì. Di’ loro che ci serve assolutamente la sala per l’evento di Alexander Wang del mese prossimo. Dev’essere un venerdì, meglio se l’ultimo.
- Il penultimo nel caso andrebbe bene?
- No. Voglio l’ultimo. Chiama Sean Prior e fagli organizzare il sopralluogo per il set. E vaglia la disponibilità di Camelia per maggio e giugno… Ho lavorato giorno e notte per accaparrarmi l’appalto di Karl Lagerfeld e voglio che a sfilare sia Camelia.
- Sì, presidentessa… - diceva l’altra, scrivendo velocemente sul suo blocchetto.
- Bene… - sospirò. Poi chiuse per un momento gli occhi, riempì i polmoni e, ancora con le mani ai fianchi, si voltò verso gli avventori.
- Kim. – fece. – Chi c’è con te?
Kim strinse forte i pugni e rapprese le labbra, prendendo un grosso respiro.
- Ruby Normanson, presidentessa. Il suo appuntamento delle diciassette e quindici.
Il viso della donna s’illuminò.
- Oh. Finalmente qualcosa di divertente... – sospirò, avvicinandosi a lui e stringendogli la mano. – Io sono White Trebuchet. Vieni, entriamo nel mio ufficio.
Ruby annuì cordiale e attraversò la vetrata satinata. Si trovò in quel secondo ambiente, più arioso, semisferico, dall’alto soffitto rivestito di listarelle ondulate di legno. Lo stesso materiale era stato utilizzato per il parquet che rivestiva i pavimenti. L'unica, enorme parete curva era la vetrata che avevano di fronte. Tramontava, in quel momento, e Ruby pensò che la vista dello skyline fosse meravigliosa.
- Chiudi pure la porta. – fece White, avanzando imperiosa nel suo regno. – Sono davvero felice che tu sia qui. Whiteley, la mia assistente, ha visto praticamente ogni tuo video online, lì a Hoenn… Ogni volta che esco da qui mi fa vedere i tuoi profili social.
- Ah, la ragazza con le crocchie, qui fuori…
- Sì. Crede tu abbia del potenziale e così ho deciso di incontrarti. Ha un ottimo gusto, mi fido della sua opinione.
Continuava a camminare, quella, elegante e sicura. Il ragazzo sorrise, mentre trascinava delicatamente la porta sul battente.
- Oh, cielo… - sorrise quello, sommessamente. – Vestivo un manichino… - disse poi, quasi a giustificarsi, prima di gettare l’occhio oltre la silhouette della donna, all’arredamento dell’ufficio, semplice e minimale. Vi erano piantane dalla singolare forma a vela, posizionate nei quattro angoli, mentre due erano i lampadari che attraversavano il legno del palissandro sul soffitto, dalla forma circolare. La vide fermarsi vicino a un tavolino bar, in acciaio e cristallo satinato. Vi erano sei bottiglie senz’etichetta, di quelle artigianali, con delle fantasie floreali intarsiate e con dei grossi tappi di forma ovale. Contenevano tutti dei liquori dorati, tranne uno, che doveva essere probabilmente vodka o acquavite.
- Che ti offro? Che hai bevuto, mentre attendevi? – disse, prendendo il secondo distillato partendo da sinistra, e riempì uno dei tre bicchieri di forma cubica che era lì accanto.
- No, va bene così… - sorrise il ragazzo. – Credo che il brandy, giù, mi sia salito in testa…
L’altra sorrise divertita.
- E allora vorrà dire che berrò questo cognac da sola.
Continuò poi a camminare, rapida e posata, sorpassando un piccolo salottino composto da una chaise-longue in pelle nera e un paio di divanetti disposti attorno a un costosissimo tavolino di cristallo, per poi accomodarsi alla propria scrivania. Semplice, anch'essa di cristallo, con su il laptop, una stilografica e un vasetto bianco con un fiore nero.
Minimale, elegante, pulito.
- Accomodati. – gli disse, invitandolo a sedersi con la mano destra, mentre l’altra accendeva il Mac Book. Ruby lasciò il manico della valigia e si sedette davanti a lei.
- Grazie. Il suo ufficio è meraviglioso… - fece lui. - L'idea delle divise da hostess, poi...
- Oh, io le adoro. - aveva ribattuto quella, gesticolando vistosamente. - Inoltre, le ragazze che lavorano giù non sfigurano.
- È una cosa molto particolare, in effetti. Non le ho mai viste da nessuna parte.
White fece spallucce. - Alla fine, non è niente di che... Sono hostess in una hall…
- Non si butti giù. - sorrise quello, levando il cappello dalla testa e mostrando alla donna i capelli corvini, impomatati e tirati indietro.
- Dammi del tu.
Ruby annuì, sorridente.
- E sperò di poter fare altrettanto… del resto siamo quasi coetanei… - aggiunse White, poggiando le labbra sul suo bicchiere e sorseggiando un po’ di liquore.
- Certo. Non c’è problema.
- Detto ciò, parliamo di lavoro. La Black & White Agency si occupa di model management e, più recentemente, di organizzazione di grossi eventi, sempre nel campo della moda. Personalmente, mi piace il modo in cui lavori e quando ti ho visto non ho potuto fare a meno di mettere in moto la macchina dei pensieri…
Il ragazzo sorrise genuinamente.
- E a cosa ha pensato?
- Ho detto di darmi del tu.
- Scusi. Scusa.
La donna digitò rapidamente qualcosa al pc, mentre il suo Blackberry prese a vibrare. Non si accertò neppure di chi la cercasse, rimanendo a fissare lo sguardo dell’uomo.
- Ho pensato che tu abbia delle grandi capacità, e che il tuo modo di lavorare è sì classico, ma al contempo innovativo. Ciò che manca a molti stilisti della nuova generazione è la scintilla che dice “questo sono io”. La loro firma, insomma, e tu ce l’hai. Ecco perché sono sicura che la tua prima sfilata avrà parecchio successo.
Il ragazzo spalancò gli occhi. Si accorse di star muovendo la gamba in maniera ritmica e incessante, su e giù, riconoscendo di essere sovreccitato al sol pensiero. Tuttavia, non voleva apparire come un ragazzino alla sua prima volta in un luna park, quindi s’impose di darsi un tono. Subito dopo il cellulare smise di vibrare.
- Grazie per le sue parole.
- Se non mi dai del tu volerai dal ventiquattresimo piano, giovane stilista. – ribatté la presidentessa, col volto serio, fissando dritto negli occhi il ragazzo, rapendolo per un attimo. Quello si limitò a battere le palpebre, prima di abbassare nuovamente lo sguardo e inspirare. – Parlami del tuo progetto.
Recuperò l’attenzione della donna, proprio mentre il Blackberry riprese a vibrare.
- Beh… io ho… cioè, avrei pensato a-a dei vestiti e lei… cioè tu, potresti… sì, insomma, fornirmi le modelle e… e magari organizzare l’evento, non so. Non so come si faccia a mettere in piedi una cosa del genere.
- Ovviamente ci penserei io.
- Ho già visionato delle foto di un locale sulla spiaggia più grande di Bluruvia, a Hoenn e…
White aggrottò la fronte.
- Hoenn? – lo interruppe.
Ruby si bloccò, prima annuire, come se la risposta fosse la più ovvia del mondo.
- Sì. Avevo intenzione di portare lì personale e organizzazione e di cominciare…
Il cellulare di White smise di vibrare e la donna lo guardò, senza dargli effettiva attenzione. Rimase in silenzio, limitandosi soltanto a respirare profondamente. Spostò infine lo sguardo verso il pc, allungando la mano verso il mouse.
- Continua pure… - disse lei, distratta.
Il cellulare riprese a vibrare, White non gli dava più attenzione e Ruby stava cominciando a innervosirsi. Respirò profondamente, quindi continuò.
- Sì, avevo pensato a una tematica tropicale… tipo fiaccole, sabbia e… palme. Insomma, Bluruvia è un’isola stupenda, e organizzare una sfilata lì sarebbe una cosa esclusiva e…
- Bluruvia è molto lontana da Austropoli. – ribatté l’altra. Cominciò a scrivere qualcosa sulla tastiera bianca che aveva davanti.
- Sì, questo lo so…
- Hai fatto tredici ore di volo e quasi undicimila chilometri per dirmi che vuoi una decina, o forse, chessò, una ventina delle mie modelle?
Non lo guardava, White, continuava soltanto a scrivere, e intanto il cellulare smise di vibrare.
- A me sembra un’esagerazione… - continuò quella, prendendo un sorso di cognac e chiudendo i grandi occhi blu, prima d’ingoiare. Tossì, si ricompose. - Insomma. Anche a Hoenn ci saranno delle modelle, no?
- Sì, certo. Ma l’organizzazione di un evento è differente. La gestione di certe cose dipende dalle persone giuste… e… e poi…
- E lì non ci sono persone giuste?
Continuava a scrivere qualcosa, distogliendo lo sguardo solo per qualche secondo, prima di sospirare, e la cosa non rincuorava l’altro, che intanto vedeva il sole sparire oltre il profilo del palazzo che aveva di fronte, illuminando d’oro la superfice dell’East River. Ruby decise di non perdersi d’animo ed affrontare di petto la situazione.
- Il fatto è che amo il tuo lavoro, White. Se sono qui è perché voglio che le cose vadano per il meglio.
E forse fu il tono pregno di falsa sicurezza o le parole che aveva deciso di utilizzare, però riuscì ad acciuffare lo sguardo della donna, che s’infranse duro a metà strada contro il suo.
- Parli come se non fossi stata io a scriverti, ma il contrario. In ogni caso, io non lavoro così. Non ci sono i margini di manovra.
Ruby rimase immobile, guardando la donna tornare a guardare verso lo schermo del pc. Seguì con gli occhi il volto e le sue linee morbide, passando poi al collo che affondava nella camicetta, i cui primi tre bottoni erano aperti.
Batté le palpebre un paio di volte, cercando di capire i processi partoriti dalla testa di quella potente donna che beveva liquore, tuttavia non ci riusciva. Sentiva solo l’ansia premergli in petto, rivalutando la sua scelta di non aver accettato il drink, pochi minuti prima.
Il cellulare riprese a vibrare.
- Perdonami. – disse poi la donna, con voce suadente. – A volte le persone possono diventare molto insistenti.
- No tranquilla. Però… ecco, io non capisco. – ribatté Ruby, grattandosi la guancia.
- Cosa?
- Perché dici così? Cioè, se credi che sia un problema di soldi potrei chiedere a qualcuno di aiutarmi e…
- Non è un problema di soldi. Semplicemente non voglio che le mie modelle sfilino a Hoenn. Né voglio che tu lavori lì.
Fu un attimo, la donna prese un altro sorso di cognac e riprese a scrivere qualcosa sul suo pc, lasciando l’interlocutore da solo coi suoi pensieri. Lui, dal canto suo, rimase interdetto.
- Non ho capito.
La voce del ragazzo s’infranse fredda contro la vetrata che la donna aveva alle spalle. Lei, incorporea, si limitò a non reagire, ma batté le palpebre un paio di volte, inarcò le sopracciglia e infine riempì i polmoni. Sembrava tutto un po’ paradossale, mentre la vibrazione del cellulare cessava.
- Cosa?
- In che senso, cosa?
- Cos’è, che non hai capito?
- Non… non ho capito perché io sia qui… Cioè, mi ha chiesto di venire dall’altra parte del mondo quando invece avremmo potuto scriverci delle mail. Avevo già menzionato il progetto della sfilata a Bluruvia e…
- Dammi del tu… Ruby, Bluruvia non è Austropoli. – fece poi.
Prese il bicchiere e sì alzò in piedi. Il ticchettio di un grosso orologio appeso al muro, di ferro battuto, senz’alcun numero e in perfetta comunione con lo stile minimale dell’ufficio, era l’unico rumore che si sovrapponeva ai loro respiri, prima che quella riprendesse parola.
- È qui che devi correre la tua gara. Questa è l’NBA. Qui puoi vedere Dolce e Gabbana passeggiare per strada, e l’entourage di Alexander McQueen litigare con quello di Steve Madden per una location.
Poi il cellulare prese a vibrare di nuovo.
La donna sospirò, prese un ultimo, più lungo sorso dal suo bicchiere e lo poggiò sulla scrivania, proprio accanto alla tastiera. Voltò poi lo schermo del Mac e incrociò le braccia sotto al seno.
- Io avevo pensato a ben altro, per te.
Ruby vide sul monitor una lunga passerella, con la superficie in resina grigia costeggiata da mimose e rami d’acacia in fiore. Un neon a LED, lungo più di dieci metri illuminava Camelia, che sfilava imperiosa con indosso un abito celeste dalla scollatura a fiocco, i cui lembi giravano attorno ai fianchi della modella e finivano per annodarsi sopra l’osso sacro, lasciandole la schiena completamente nuda.
Sui laterali della passerella, sui teloni di copertura ben tesi, il nome di Kate Spade era illuminato dal basso, e si ripeteva per metri e metri.
Ruby era così preso da ciò che vedeva da non accorgersi del fatto che White aveva girato attorno alla scrivania e si fosse fermata alle sue spalle.
- Immagina una cosa del genere. – fece, poggiandogli una mano sulla spalla. La donna sentiva il corpo del ragazzo fremere.
- Lei è… è meravigliosa… - sussurrò il ragazzo. – Ma qui non ho nulla per… e poi tutto sarebbe diverso e…
- Tu non pensarci. Mi occuperò io della prima sfilata. E dell’allestimento… - fece quella, tornando al proprio posto. - Tu penserai alla produzione degli abiti. Qui ad Austropoli.
Il cuore del ragazzo saltò un battito. Cercò gli occhi dell’altra, quasi ad avere una conferma, che arrivò subito, quando White annuì. Il telefono smise di vibrare, lei riprese a digitare qualcosa sulla tastiera.
- Questo però significa che dobbiamo fare le cose per bene. Lì ci sono i tuoi modelli, giusto?
- Sì. Qualcuno… E ci sono anche abiti miei… - ridacchiò lui. – Quelli non li ho confezionati io…
- Fammi vedere. – disse, sgomberando la scrivania e facendo attenzione a non rovesciare il vaso con la rosa nera. Vide l’uomo afferrare la valigia per i manici e sollevarla. La cerniera corse attorno alla sua intera lunghezza e mostrò alla presidentessa gli abiti che aveva selezionato.
- Prego. - disse lui, lasciandole via libera. Quella alzò velocemente il volto, poi lo riabbassò, affondando le mani nella Samsonite e tirando fuori un lungo vestito rosso. Lo guardò silenziosa, quasi attonita, saggiando con le punte dei polpastrelli il tessuto e ogni suo ricamo. Lasciò poi le che le cadesse addosso, appoggiandoselo sul corpo e finendo per inarcare le sopracciglia.
- Incredibile... – sussurrò tra sé e sé, osservando il lavoro minuzioso che c’era dietro ogni punto di ogni cucitura. Lo stile di quel vestito era abbastanza classico, dalla scollatura asimmetrica, a V, dove il lato di sinistra veniva sovrastato da quello di destra. Tutto spariva al di sotto di una fascia, in rilievo, proprio all’altezza dell’addome, da cui partiva poi la lunga gonna. Le spalline erano composte da tanti lembi di tessuto, a ricordare mille farfalle l’una accanto all’altra.
- Io… sono davvero senza parole…
- Grazie… - sorrise modesto Ruby, abbassando lo sguardo, anche se in petto il cuore batteva come il pistone di una Ferrari. Vide la donna ripiegare l’abito con estrema attenzione e poggiarlo sulla propria sedia, prendendone poi un secondo, bianco, le cui spalline imbottite, alte e morbide, finivano per allungarsi nel tessuto delle maniche, lunghe, fino a terminare con sette bottoni neri. La scollatura era regolare, divisa al centro da un lembo d’organza semitrasparente, poggiato su di un fiocco educato, non troppo grande. Era stretto in vita, quell’abito, e avrebbe dato una splendida forma ai fianchi della donna che l’avrebbe indossato.
- Guarda qui… - sussurrò quella, rigirandoselo tra le mani.
- Questo l’ho prodotto ispirandomi a una donna come te, che lavora in contesti formali. Le spalline ricordano quelle…
- Di una giacca, sì… - disse l’altra, guardando incantata il tutto. Ruby aveva difficoltà a credere che la stessa donna che fino a pochi attimi prima neppure lo guardava negli occhi, fosse del tutto concentrata sulle sue creazioni. La gamba tornò a muoversi nervosa, mentre il sorriso entusiasta non accennava ad abbandonare il viso.
- Poi a casa ne avrei anche altri… e se scavi meglio c’è anche qualcosa di diverso.
Prese, White, un abito midi, color zaffiro acceso. Lo spiegò e lo guardò, elegante e morbido, con le spalline che scendevano docili e si fermavano a mezzo braccio. Non era un vestito che lasciava le spalle eccessivamente scoperte, né il seno; la scollatura a V, infatti, seguiva uno stile educato, lasciando visibile la parte alta dell’addome. Lì, sotto un lembo di tessuto sovrapposto, triangolare, partiva la gonna drappeggiata, fin poco oltre il ginocchio. Lo spacco avrebbe lasciato intravedere la coscia della donna che lo avrebbe indossato.
White sorrise, addolcita.
- La questione è che tu non fai alta moda. Questi abiti sono elegantissimi, ma sono perfetti per la grande distribuzione. Questo è un abito da cocktail perfetto. Pensandoci, potrebbe essere proprio l’abito che metterò al prossimo evento di Milani, a Manhattan…
Lei lo guardava, rigirandoselo tra le mani e poggiandoselo addosso.
- Ecco... quest’abito è per una persona speciale... e non è neppure completo. In ogni caso, se vuole abiti particolari e…
- Non voglio nulla di diverso da ciò che vedo. – replicò rapida l’altra. Ripiegò l’abito e lo diede all’uomo.
- Va bene… - sorrise lui. – Sono davvero molto contento che ti siano piaciuti.
White tornò seria e annuì, continuando a tenere in trappola lo sguardo dello stilista. Si sedette, abbandonandosi alla sua comoda poltroncina di pelle nera, intrecciando le dita e puntellando il mento su entrambi gli indici dalle unghie smaltate. Fissava Ruby, e la sua minuziosità nel sistemare nella valigia gli abiti, prima di riabbassarla sul pavimento e sospirare.
Predatrice, lei, pareva quasi potesse riuscire a sentirgli il battito del cuore. Lasciò che il silenzio si sedimentasse per qualche secondo, poi fu proprio quella a parlare.
- Beh? Dove dormi? Hai bisogno di un taxi? Chiedo a Whiteley di chiamartelo.
Ruby non mosse la testa, anzi. Si limitò solo ad abbassare lo sguardo, per fare mente locale.
- Sono… credo si chiami Fortune Hotel… nei pressi di… possibile sia Greenwich?
- Sì. Ma non chiamiamolo hotel… è piuttosto squallido...
E Ruby, che dal canto suo non aveva quegli standard così alti, si limitò soltanto a fare spallucce.
- Diciamo che mi accontento...
- E fai male. Aggiorniamoci… - gli fece, prendendo poi un bigliettino da visita dal cassetto alla sua destra e facendolo scivolare sulla scrivania. Il cellulare cominciò di nuovo a vibrare, lei lo prese e fece cenno all’altro di andare, ammiccando e condendo il tutto con un sorriso sommesso.
"Ora mi chiedo come stai…
È da un po' che non ci sentiamo e la cosa non è semplice da affrontare… sai che non sono molto brava con le parole.
Sto cercando in tutti i modi di non sembrare tragica perché, insomma, per me è più semplice scalare una montagna con una sola mano piuttosto che spiegare ciò che ho nella testa. E ora, credo, di non riuscire neppure a camminare dritta per... la delusione?
Sono delusa, amore mio.
Sono atterrita da quello che ci è successo.
Mi chiedo per quale motivo si cambi in questo modo, nella vita."
12 marzo 20XX
Niente, se non il rumore meccanico della macchina da cucire, cancellava il vuoto del silenzio della stanza 104 dell'Hotel Fortune. Il piede spingeva sul pedale, Ruby seguiva con gli occhi semichiusi una linea dritta, carezzando con le mani l’abito blu e il suo tessuto leggero. Poggiava i punti in maniera inesorabile sulla mussola che legava il busto alla gonna e proseguiva, con precisione certosina.
Non sapeva dire dove fosse nata quella vocazione, quell’amore atavico per gli abiti, fatto stava che ogni volta che si trovasse davanti alla sua Braiton il mondo spariva, portando con sé tutti i problemi, le incongruenze.
Le responsabilità.
Rimaneva solo lui, l’abito, il pedale e i punti, che si susseguivano infiniti come la linea di mezzeria tra le due corsie di una tangenziale extraurbana, di quelle infinite, con soltanto due aree di sosta a diversi chilometri tra loro. Sembrava quasi non interessargli più del fatto che la sua camera era scarna, povera d’arredamento e con una visuale molto differente da quella che aveva White nel suo ufficio, dato che l’albergo che aveva scelto affacciava sulla Tisch School of the Arts, e su suo tetto pieno di condutture, cisterne e depositi di materiale edile. Uno scomodo letto singolo dalle lenzuola consunte, sdrucite ma ben fatte, e un piccolo comodino dalle gambe sottilissime erano piazzati davanti a un piccolo armadietto con un’unica anta. A completare il potenziale d’inquietudine che quel buco poteva dare alla persona che ospitava c’era la moquette beige infeltrita, e sui muri un parato color ocra a fantasia arabesque.
Ruby si era sentito a disagio per diversi istanti, prima di cancellare la realtà e mettere la spina della sua macchina da cucito. Fu poi la vibrazione del suo cellulare a riportarlo alla realtà; trasalì, vide il nome di Sapphire prendere spazio al centro dello schermo, accanto alla fotografia che lui stesso le aveva rubato, perché la sua donna credeva di non essere fotogenica e fuggiva dall’obiettivo a focale fisso della sua reflex, manco fosse una Colt piena di proiettili.
Rispose con un rapido tocco di dita, poi mise il cellulare tra orecchio e spalla.
- Amore mio.
- Ru…
La voce della donna era metallica. Arrivò con qualche secondo di ritardo.
- Come stai? Che mi racconti?
- Tutto nella norma, tutto a posto. Tu?
- Beh… Sono da due giorni in quest’albergo (che chiamarlo albergo è un parolone), che è davvero, davvero squallido. Ma per il momento non posso permettermi altro…
Sentì poi la donna sorridere. – Male male, la tua stanza?
- Male male... – ripeté l’altro, fermando la macchina da cucire. Alzò gli occhi e guardò attraverso la finestra che aveva davanti, immaginando lo skyline e il mare al posto dell’accademia posta al centro del Greenwich Village.
- E com'è, l'arredamento?
- Mhmm... Oserei dire kafkiano... – rispose, alzandosi in piedi e guardandosi nuovamente attorno, assalito dalla voglia di tornare nell’ufficio di White a bere scotch e a sentire musica d’ambiente.
- Giallo e pieno di scarafaggi?
- Devo complimentarmi, Birch. Hai citato una delle maggiori opere letterarie appartenenti al surrealismo.
- Credevi fossi una scimmia, vero?
L’uomo sorrise di nuovo.
- Io e te siamo una cosa sola.
E anche lei sorrise, dolcemente. Ruby la immaginava sola, nella loro casa, seduta sul divano, rannicchiata sotto quel piumone verde che lei si ostinava a non riporre mai.
- Stamattina ho provato a chiamarti…
- Ah, sì, ti ho scritto quando mi sono svegliato. Mi dispiace non aver risposto, è che erano le quattro del mattino, qui e…
- Oh, scusa… Non lo sapevo.
- Non preoccuparti.
- E quando torni?
D'improvviso la ragazza sentì la macchina da cucire ricominciare a battere i punti.
- Con ogni probabilità non a breve. Sto preparando altri vestiti da mostrare a White e...
- White, eh? Hai detto che è molto giovane.
- Sì, È anche molto ricca. Dovresti vedere il suo ufficio... una perla!
- Ed è bella?
- È una donna piacente… Elegante, dal collo lungo. Ha delle belle mani e dei bei capelli...
- Normanson, mi stai facendo ingelosire di proposito?
Ruby ridacchiò.
- No, ho solo risposto alla tua…
- Non ti ho mica chiesto tutti questi particolari. Collo, mani. È elegante… - fece, scimmiottando la voce del ragazzo. Quello, dal canto suo, si limitò a sorridere, stendendo meglio il vestito sullo scrittoio.
- Tranquilla. Al momento non lavoro neppure per lei…
- Ed è strano come la cosa mi faccia stare sia bene che male… ecco… tu sei lì, sei lontano, adesso, e hai una missione…
- Che parole demodé… - sospirò lui, inarcando il sopracciglio. Decise che fosse arrivato il momento di prendersi una pausa da quel vestito, che pareva interminabile. Prese il cellulare con la mano destra e allungò le gambe, rovesciando la testa indietro. I capelli corvini, neri come la notte, gli si poggiarono davanti agli occhi, mostrando la cicatrice che si era procurato da bambino sulla fronte. La sera si stava ormai appropriando di quella giornata e il sole si tuffava nell’oceano, anche se Ruby non poteva vederlo.
Era stanco. Rialzò il volto, specchiandosi nel vetro opaco della finestra, ormai macchiata dal tempo, stentando a riconoscersi nell’uomo dagli occhi rimpiccioliti dal sonno, rossi e pesanti. Pensò che forse avrebbe dovuto tagliare i capelli, e che, come in ogni periodo di freddo secco, le sue labbra fossero screpolate.
Quasi dimenticò di avere Sapphire appesa al cellulare.
- E che parola avrei dovuto utilizzare, scusa?
Cercò di recuperare lucidità, nonostante quel logorio mentale gli stesse suggerendo di fare una bella doccia in quel bagno dalle porcellane beige e dalle mattonelle verdi, e di chiudere la giornata senza cenare, che tanta fame non ne aveva. Poi sospirò, pensando che forse fosse proprio la mancanza di chiarezza verso il suo destino a stancarlo.
Erano due giorni che passava le sue giornate in maniera meccanica, a cucire e ricamare, tagliare stoffe colorate e nere, lavorare su pezzi grandi e piccoli di pizzo merlettato, immaginandoli sulla donna che aveva al telefono e adattandoli poi a un manichino senza volto che si era procurato con venti dollari in un negozio poco lontano da Washington Square Park.
Avrebbe potuto godersi quei giorni da turista, visitare la città più grande del mondo, fare fotografie, assaggiare gli hot dog da marciapiede più famosi che esistevano e mantenere la macchina dell’ispirazione sempre in moto, dissimulando l’angoscia che quel vuoto creava. Avrebbe voluto addormentarsi in quell’istante e svegliarsi quando il suo cellulare avrebbe vibrato su quello scrittoio divorato dai tarli, con la scritta White Trebuchet a riempire il display e a tagliare via l’ansia.
- Oh! Rispondi!
- Obiettivo. La parola è obiettivo.
Pensò che sarebbe stata quella, la soluzione, indipendentemente dall’esito. Anche se White gli avesse detto di prendere i suoi stracci e tornarsene a casa, Ruby l’avrebbe vista come una soluzione a quell’apatica caduta libera.
- Come se cambiasse qualcosa…
- Ogni parola ha la propria importanza, Sapph...
- Uff… Sei pesante.
- No. Sono pedante.
- No, sei stronzo.
Lui sorrise.
- Vado a lavorare… Tu ora ceni? - continuò quella, con la voce compressa.
- Dovrei, sì.
- Non abbuffarti di hamburger e scrivimi prima di andare a dormire. A dopo, principessa… - sfotté lei, interrompendo la comunicazione.
"Eppure, ricordo ogni cosa del nostro essere noi.
Ogni passo che abbiamo fatto assieme ha lasciato un'impronta indelebile sul mio cammino. Ero una ragazzina e mi hai fatto diventare donna. Ero una bambina e mi hai insegnato cosa fosse la vita.
Nonostante il tuo essere così delicato, assai più di me, hai sempre messo la tua vita a protezione della mia, dipingendomi uno scudo d'amore e disponibilità davanti agli occhi, che erano pieni soltanto di te e delle parole che mi hanno fatto sentire protetta.
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