VIII
Nel palmo della mia mano
Nel palmo della mia mano
«Fammi spazio, ho bisogno del tuo calore» sussurrò Sapphire, infilandosi a forza all’interno del sacco a pelo di Ruby.
«Sta’ attenta, così lo strappi» la ammonì il ragazzo.
«E’ incredibile come possa essere questa la tua priorità...» commentò lei.
I due Dexholder di Hoenn si accingevano a riposare, all’interno di una piccola baita di montagna che avevano trovato tra due crepacci. Con l’aiuto di Blaziken e Gallade avevano acceso un grosso falò con dei ciocchi di legna, ma la temperatura rimaneva terribilmente bassa e Sapphire, per non morire assiderata, era costretta a stringersi al corpo di Ruby, che aveva ancora la capacità di mantenere il calore, grazie alle gemme. Si stavano sistemando all’interno di un sacco a pelo, a pochi centimetri di distanza dal caminetto: in quel modo, era possibile superare la notte. Lo avevano imparato a loro spese: stavano vagando sulle montagne da quasi cinque giorni, in cerca di qualcosa che probabilmente si trovava altrove. Tuttavia, il tempo limite era quasi terminato, il giorno seguente sarebbero scesi a valle per incontrare nuovamente i loro amici e sapere se almeno le loro ricerche erano state fruttuose.
«Stringimi» disse Sapphire, arrossendo un po’.
Ruby sorrise, portando lentamente le braccia attorno al corpo della ragazza.
«Non fare lo splendido, sto crepando di freddo!» si lamentò lei bruscamente.
Sapphire sapeva di dover essere coerente con se stessa, ma non poteva ignorare le sensazioni che il caldo respiro di Ruby sul suo collo e le sue dita che scorrevano sulla sua pelle le davano, secondo dopo secondo. Sarebbe rimasta lì per sempre, con il naso arrossato e il fiato condensato in un’effimera nuvoletta bianca.
Inarcò lievemente il collo. Ruby percepì il segnale e si protrasse in avanti, per baciarla. Ormai conosceva bene il loro linguaggio in codice, lei non dava baci, doveva solo riceverli. Quando le loro lingue si separarono, Sapphire trattenne il ragazzo, mordendogli il labbro inferiore.
«Non vedo l’ora di tornare a dormire in un letto decente» sussurrò lei.
«Hai proprio ragione...» approvò il ragazzo.
«Hai la barba che pizzica».
«Zitta» le disse lui, con dolcezza, passandole le dita tra i capelli.
Sapphire fece le fusa, cercando di non darlo a vedere. In quella calda stretta, si addormentarono lentamente, ignorando il gelo esterno, la bufera, il ghiaccio.
«Abbiamo raggiunto il confine?» chiese Blue.
«A quanto pare...» confermò Green.
I due Dexholder di Kanto stavano camminando da giorni. Avevano attraversato tutta la zona sud della catena montuosa del Monte Corona, che nella parte meridionale era un insieme di ampi altopiani. La neve aveva raggiunto anche quelle zone, anche se in maniera molto più rada. Man mano che la latitudine andava abbassandosi, i loro scarponi pesanti divenivano sempre più superflui e il morbido pavimento candido lasciava sempre più spazio a un ruvido terreno roccioso, intervallato qua e là da zone di erba luccicante per la rugiada. Non avevano trovato ciò che stavano cercando, ma erano riusciti a raggiungere una zona abbastanza lontana dal centro focale da non avere il cielo coperto dalle nubi.
«Quella è Sidera?» domandò Blue.
«Sì, quello è il Monte Orologio» rispose il ragazzo, indicando un grosso massiccio che svettava proprio di fronte a loro, coprendo parzialmente la visuale dell’ampia pianura urbanizzata.
Erano giunti al limitare dell’ultimo altopiano, che dava a strapiombo su una fitta foresta di conifere. In lontananza, scorgevano alcune città, alla loro destra e alla loro sinistra c’era il mare. Stavano immobili a godersi il primo raggio di sole dopo una settimana di gelido grigiore.
«Forse dovremmo scendere da questo versante e poi andare a Memoride in volo» propose il Capopalestra di Smeraldopoli.
«Non intendo rifarmi tutta questa strada a piedi» approvò Blue, gettando un occhio al bianco piattume che avevano dovuto attraversare. Era quasi in pena, al pensiero di dover tornare a Sinnoh, ma sapeva che lì c’era davvero bisogno di lei.
«Arriveremo in anticipo, ma non possiamo fare nient’altro, qui» fece Green «possiamo iniziare a scendere» sentenziò, avviandosi verso il sentiero che portava verso la vallata.
Xatu scuoteva le ali e arruffava le penne, cercando di liberarsi dalla neve. La bufera imperversava crudelmente, sulle creste nord del Monte Corona. Per le persone normali, l’area che superava i duemila metri di altitudine era completamente impraticabile, mentre quella sottostante era riservata solo ai più preparati. Per Kalut, girare su quella montagna era stato quasi come farsi una passeggiatina al parco. Camminava quasi senza sosta da ben cinque giorni, la sera stessa avrebbe disceso il versante est, per raggiungere Memoride e incontrarsi con gli altri Dexholder. Anche lui, sarebbe tornato dagli altri a mani vuote, privo di una pista e di qualcosa di interessante a proposito della FACES. Essendo giunta la sera, si accingeva a riposare all’interno di una sorta di piccola grotta naturale abitata solo da Geodude e Roggenrola, era un luogo troppo freddo persino per i Zubat. Kalut si depositò sul terreno, avvolgendosi strettamente nel suo cappotto. Ammetteva di star sentendo freddo, ma sapeva che sarebbe sopravvissuto e che ogni sofferenza fosse temporanea, quindi non aveva di che preoccuparsi. Si fece accendere un fuoco dal suo Arcanine con dei pezzi di legna fradicia che impiegarono un bel po’ per asciugarsi, ma alla fine gli sforzi furono ripagati, anche se con il contro di una fitta cappa di fumo. In ogni caso, dopo qualche minuto Kalut cominciò a prendere sonno, mentre l’entità di Xatu vegliava su di lui come ogni notte. Il Pokémon Magico non aveva bisogno di dormire, lui era un eterno, un essere a metà tra il mondo empirico e quello trascendentale. Evidentemente, rifletteva Kalut nel dormiveglia, essere delle entità metafisiche impediva di provare freddo, stanchezza e probabilmente anche emozioni.
“Stai dormendo sulla terra nuda, è la prima volta da giorni” sussurrava telepaticamente Xatu.
“Non saranno certo alcune notti su un materasso a rammollirmi” rispose il ragazzo, sempre con la mente.
“Non intendevo questo”.
“Stai parlando di...”
Kalut balzò in piedi, scrollandosi di dosso tutto il suo bisogno di riposo. Xatu aveva ragione, non aveva riflettuto su qualcosa di importantissimo. Prese uno dei tizzoni ardenti del fuoco e lo utilizzò in quanto torcia, strisciando come un segugio in ogni angolo di quella piccola grotta. Scrutava il terreno, studiava ciò che aveva attorno, raccogliendo le informazioni.
E nella sua mente, i pezzi del puzzle cominciavano a ricongiungersi: della cenere, un angolino riparato dal quale erano stati rimossi tutti i sassolini e tutti i detriti naturali, un’impronta quasi cancellata e finalmente, del cellophane, probabilmente l’incarto di una barretta energetica.
Resoconto, qualcuno era già stato in quella grotta, e anche recentemente. E soprattutto, qualcuno che non voleva lasciare tracce, visto e considerato che i resti carbonizzati del fuoco che aveva acceso erano stati spostati o nascosti, così come ogni altra traccia del suo passaggio.
“Siamo vicini a qualcosa” pensò Kalut.
Il ragazzo dai capelli bianchi, tenendo in mano quella pellicola di plastica come fosse il Sacro Graal, prese dalla sua borsa la mappa fornitagli dalla sua compagnia, verificando l’esatta posizione del luogo in cui si trovava. Si segnò le coordinate applicando una puntina sulla cartina del GPS.
“Non dovrei aspettare fino a domani” pensò, in comunicazione con Xatu.
“Sei stanco, dovresti invece...” gli consigliò il saggio Pokémon.
“Dovessi trovare qualcuno o qualcosa, non avrei tempo di intervenire, dovrò scendere dalla montagna per arrivare a Memoride”.
“Poco male, saprai dove tornare con l’intera squadra” ribatté lui.
Controvoglia, il ragazzo si rimise a riposo, chiudendo gli occhi quasi immediatamente e in maniera meccanica, come un computer mandato in standby. Si sarebbe svegliato dopo poche ore, quando il forte vociare della tempesta si era ormai chetato. Pochi secondi dopo la levataccia, Xatu lo vide catapultarsi fuori dalla grotta, affondando faticosamente gli scarponi nella neve. Dopo tutto quel tempo, aveva ormai imparato a capire l’impazienza di Kalut. Lo seguiva svolazzando, per riscaldare i muscoli e sorvolare lo scenario dall’alto, per tutto il giorno precedente aveva dovuto tenere le zampe a terra per via della bufera. Kalut non stava seguendo una strada precisa, ma sembrava ragionare, spremendo i complicati meccanismi del suo cervello. Il Pokémon eterno non finiva mai di stupirsi, di fronte al chiaro esempio di evoluzione dell’umanità che era Kalut.
«Ci impiegheremo l’intera mattinata» disse il ragazzo dai capelli bianchi «se la loro meta fosse stata più vicina, non si sarebbero accampati in una grotta».
Camminarono in una direzione incerta per qualche ora, oscillando tra alcuni dislivelli che spezzavano l’omogeneità di quel candido paesaggio. Kalut verificava che non ci fossero altri indizi: una roccia segnata, un cartello, qualche traccia lasciata involontariamente. Tuttavia, non trovarono nulla che lasciasse presagire il passaggio di anima viva in quei luoghi. Sembrava di girare per il polo sud, di camminare per lande sconfinate e mai calpestate dall’uomo. Evidentemente, chi aveva avuto degli interessi in quel luogo, si era impegnato per conservare tutto nel massimo segreto.
«Ho sentito qualcosa» sussurrò il ragazzo ad un certo punto.
Fece due passi, Xatu atterrò, i due avvertirono chiaramente il suono di due scarponi da neve muoversi in maniera ritmata, appena dietro un grosso massiccio che sembrava esser stato piazzato lì appositamente per occultare la vista. Kalut cominciò a muoversi, stringendo la propria silhouette contro la roccia e facendo attenzione a non emettere rumori.
“Dovresti aspettare e tornarci con gli altri” gli suggerì Xatu, entrando nella sua mente.
“Voglio dare solo un’occhiata” protestò lui.
Il rumore dei passi si fece sempre più lontano, fino a sparire. Kalut cominciò ad aggirare quel luogo, tentando di raggiungere un luogo alto da cui osservare. Scavalcò qualche roccia, oltrepassò due alberi completamente coperti di neve, si inerpicò lungo una ripida parete ghiacciata, poi giunse finalmente ad una sorta di piano rialzato, che dava direttamente sul luogo che gli era stato nascosto dal massiccio.
“Li senti?” chiese a Xatu.
Il volatile fece sì con la testa.
“Sono centinaia... forse migliaia di Pokémon” mormorò, scioccato, il ragazzo.
Xatu non ribatté, lui vedeva simultaneamente presente, passato e futuro, sapeva a che cosa sarebbero andati incontro.
“C’è un buco nel terreno, lì” notò Kalut “è l’entrata di... qualcosa”.
«Questo posto è assurdo» commentò Sapphire, muovendosi tra le rovine, zigzagando tra il colonnato distrutto.
«Dicono che sia il luogo in cui ebbe origine il mondo» ribatté Ruby.
I due ragazzi vedevano le proprie ombre proiettate verso ovest sul pavimento in marmo bianco del tempio della Vetta Lancia. Attorno a loro, c’erano le rovine dell’antico edificio sacro, il luogo in cui alcuni anni prima era avvenuto l’exploit del conflitto tra i Dexholder di Sinnoh e il Team Galassia. In quel momento, tutto sembrava fermo nello scorrere del tempo, come se quel luogo esistesse fuori dal continuum spazio-temporale del loro mondo. Un sottile strato di neve si era depositato sulla roccia circostante, ma la Vetta Lancia sembrava immune alle condizioni atmosferiche, come se pulsasse di vita propria, immobile ma in continuo movimento. Rimaneva fissa in una sorta di limbo: né troppo calda, né troppo fredda, priva di forme di vita, ma vibrante di energia.
«Sembra simile alla Torre Cielo» aggiunse Sapphire, con un filo di voce.
«Difficile, sono luoghi costruiti da popoli del tutto differenti» la contrastò razionalmente Ruby.
«Eppure c’è qualcosa...» mormorava lei.
Il Campione di Hoenn la seguiva con lo sguardo: Sapphire si muoveva lentamente, sfiorando il marmo con la punta delle dita, come se le rovine stessero comunicando con lei. Sembrava star vivendo un’esperienza extrasensoriale e Ruby era certo di non averla mai vista in quello stato.
«Tutto bene?» le domandò.
Lei parve non sentirlo. Ruby non insistette, la curiosità morse la lingua della ragione. Forse Sapphire riusciva veramente a percepire qualcosa che a lui era occulto, forse era davvero capace di incanalare quella strana energia che aleggiava in quel santuario. Dopotutto, aveva visto sfere capaci di controllare delle creature millenarie entrare all’interno di corpi umani, Pokémon realizzare desideri impossibili, gemme alterare la realtà.
Imitò il movimento della ragazza e toccò una delle colonne, sfiorandola come fosse il velluto pregiato di una giacca elegante. Non avvertì nulla, inizialmente. Nell’attesa di un qualche avvenimento, si distrasse guardando le imperfezioni della pietra su cui aveva poggiato la mano: i piccoli pori invisibili dalla distanza, le impercettibili striature del colore disomogeneo, l’imprecisa smussatura di alcuni angoli e le croste strappate dal tempo trascorso all’aria aperta. Non si rese conto di star quasi perdendo la cognizione del mondo reale, finché non riuscì a recuperare un minimo di coscienza.
Per un millisecondo, o qualcosa del genere, fu incapace di muoversi. Vedeva il marmo, ma non distingueva più i contorni della sua mano o del resto del suo corpo, come fosse lui stesso parte di quel tutto. Quella breve esperienza terminò in fretta, lasciando Ruby ansimante e tremante, con la mano ancora alzata verso la colonna e le gambe paralizzate.
Sapphire era lontana, sembrava non essersi accorta di nulla. A quel punto, Ruby protrasse nuovamente il palmo della mano, senza neanche dar voce al più banale buon senso che aleggiava nella sua mente. Questa volta, all’immediato tocco della colonna, avvertì il suo corpo implodere. Sentì una fortissima pressione lungo tutto il petto, le spalle, il ventre, il collo. Capì che, a pulsare in quel modo, erano le linee lasciate dalla presenza delle Gemme nel suo organismo.
Fu un istante, puff.
Ruby si sentì come fatto di etere, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, fuori dall’ordine naturale delle cose. Sentiva come una sorta di brivido lungo tutta la sua... forma? Non sapeva neanche come autodefinirsi, non avvertiva più la propria presenza fisica nel mondo reale.
Alcune immagini scorsero davanti ai suoi occhi: le riconobbe bene. Sapeva in che sequenza temporale queste si sarebbero piazzate. Poi un fremito e, questa volta, fu una sua scelta personale. L’aria di cui era composto si fece più pesante, la sua mente divenne un cervello e la sua anima ricompose il proprio corpo. Ruby tornò nel mondo reale.
«Sapphire!» esclamò.
Questa volta, la ragazza parve sentirlo e si voltò lentamente. In volto, aveva un’espressione completamente priva di ogni emozionalità, all’apice dell’atarassia.
«Vieni qui, sbrigati!» le ordinò.
Quella sembrò risvegliarsi da un profondo stato di sonno. All’improvviso, una luce si dipanò nell’area, accecando entrambi.
«Uccideteli» sussurrò qualcuno.
Kalut scese dal rilievo, arrancando nella neve. Si stava indirizzando all’interno di quel buco nel terreno che somigliava ad un cenote innevato: una grotta circolare il cui fondo era troppo lontano per essere scorto. Gli operatori FACES avevano costruito una sorta di impalcatura che spiraleggiava lungo le pareti di roccia e ghiaccio, in modo da poter scendere e salire in libertà. Kalut avvertiva la presenza di molti Pokémon, tuttavia, non vi erano rumori nell’aria, il che stava a significare che gli esseri umani erano in numero ristretto.
“Fortunato” pensava “sarà più facile passare inosservati”.
Aveva già previsto la presenza di qualche telecamera, quindi si era mappato nel cervello un ipotetico tracciato da seguire lungo i punti ciechi, tanto per evitare gli obiettivi. Riuscì a navigare la prima parte di impalcature senza alcun problema. Man mano che si addentrava all’interno del budello roccioso, la luce del sole cominciava a farsi sempre più lontana e debole. Trovò la prima lampada a neon dopo qualche minuto, ormai il buio si faceva preoccupante, stava scendendo parecchio. I luoghi chiusi non lo facevano sentire a disagio, ma quelle strette pareti rocciose sembravano chiudersi su di lui in maniera sempre più minacciosa.
«Non vedo l’ora che Lawrence mi dia il cambio, sono qua da una settimana ormai...» disse qualcuno in lontananza, anticipando il rumore di due paia di stivali.
Kalut non ebbe il minimo indugio. Stava per incrociare le prime guardie, avrebbe affrontato la situazione con freddezza. Si guardò attorno: l’impalcatura era troppo stretta per potervi rimanere sopra restando invisibili, ma forse il buio lo avrebbe aiutato, fece un rapido calcolo: le guardie venivano da un cunicolo che si trovava a destra, nei pressi di quella zona vi erano solo due lampade ed entrambe illuminavano solo in orizzontale e verso l’alto. Sintetizzò le informazioni.
Balzando con passo felino, si gettò fuori dalla passerella di metallo, appendendosi al suo bordo, a pochi centimetri di distanza dal fondo roccioso. Si appese e si mise in sicurezza, trattenendo il respiro per un po’. Aveva emesso un singolo rumore a causa dello sfregamento dell’ingombrante piumino, ma quei due stavano parlando di qualche partita di pallacanestro avvenuta alcuni giorni prima, non avevano sentito nulla.
«Dovrei sostituire lo scaldabagno con una normale caldaia... certo che acquistare una villa in montagna è proprio una trappola per turisti, al giorno d’oggi» si lamentava uno dei due, ignorando la presenza ospite che era appesa alla passerella su cui stavano camminando.
Kalut li scrutò dall’oscurità, vedendoli passare accanto ad uno Xatu che risultava invisibile ai loro occhi. Quando furono lontani, tornò agilmente sull’impalcatura, scavalcando il corrimano con un forte lavoro di tricipiti.
Continuò a viaggiare. Più avanti, fu costretto a eludere in modo simile altri tre gruppetti di guardie, alcune erano a riposo e si godevano del caffè caldo, stillandolo da un thermos, altre passeggiavano chiacchierando del più e del meno. In ogni caso, il ragazzo dai capelli bianchi, tra casse, luci spente e punti ciechi, giunse al termine di quel lungo tunnel che si insinuava nelle viscere del Monte Corona. Scendendo sempre più giù, la temperatura si abbassava drasticamente.
«Guarda che roba...» commentò Kalut, giungendo ad una fessura nella roccia dalla quale si dipanava una tagliente aria gelida.
Si inserì nella strettoia, tanto nessuna guardia era così stupida da rimanere in quella stanza frigorifera. Si guardò attorno, perdendo ogni entusiasmo nel giro di un secondo. Si trovava in una stanza particolarmente ampia, una camera probabilmente scavata in mesi di duro lavoro.
Attorno a lui, c’era un sistema di cavi lungo chilometri e chilometri, intervallato da un numero immenso di grosse capsule. Queste ultime, composte da poli metallici e da un corpo centrale in vetro spessissimo, contenevano centinaia e centinaia di Pokémon. Erano tutti di tipo ghiaccio: Cryogonal, Glalie, Ninetales, Froslass, Abomasnow e molti altri. Sembravano addormentati, in una sorta di catalessi indotta artificialmente. Erano bucherellati da numerosi cavi che si immettevano, capsula dopo capsula, in quel complesso sistema di tubi e collegamenti che copriva il pavimento dell’intera grotta. Kalut rimase a vagare tra quei poveri esseri ingabbiati, contandone uno dopo l’altro, sembravano non finire mai, la grotta era ampia più o meno come un campo da calcio e non vi era un solo metro quadro privo di uno di quei grossi contenitori per Pokémon Ghiaccio.
Lentamente, il ragazzo seguì il corso dei cavi, spingendosi verso il centro della stanza. Si rese conto di non riuscire a percepire i pensieri di quei Pokémon, né tantomeno i loro sogni. Non erano svenuti, non erano addormentati, sembravano in coma.
Giunto al fulcro di tutto quel sistema di tubi, Kalut si trovò sul bordo di una nicchia scavata nel pavimento che dava su un piano sottostante: i numerosi cavi si univano a gruppetti, convogliandosi fino a divenire due unici cavi del diametro di uno scivolo e scendevano nella nicchia come due grossi serpenti costrittori. Intuibilmente, sottraevano un qualche tipo di energia a quei Pokémon che erano nelle capsule e la incanalavano tutta in due elettrodi grossi come scogli di mare. Kalut si affacciò, per vedere meglio, si rese conto di non capire. Impiegò qualche secondo per arrivare ad una conclusione e, quando ciò avvenne, il suo cuore perse qualche colpo.
Tra i due elettrodi, adagiato in quella profonda nicchia e illuminato da led biancastri, c’era un enorme nodo. Univa due funi larghe ognuna quanto tre dei cavi più grossi, fatte di un materiale indefinibile, probabilmente ancora sconosciuto all’uomo. Questo nodo, di colore nero opaco, sembrava sotto l’effetto di quegli elettrodi, era infatti ricoperto da una spessa patina di ghiaccio.
“E’ quello che pensi” rivelò Xatu, entrando nella mente di Kalut.
“E’ così che hanno causato la glaciazione” realizzò lui.
“Già... il nodo di Regigigas” sussurrò il volatile.
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