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John Hancock - Bloodborne - 2. Orchidea




2. Orchidea
  
Era più di un’ora ormai che aspettava lì fuori. Non ricordava di aver mai assistito a un intervento tanto tempestivo da parte della Polizia Internazionale; Alakazam, però, era un vero portento quando si parlava di dover essere rapidi.
In meno di mezz’ora, avevano ripulito e catalogato ogni cosa in quel sito, rimuovendo anche i resti dagli alberi di guardia alla tana.
Bellocchio si stava rigirando fra le mani il piccolo strumento elettronico che aveva trovato sulla carcassa di quel Delibird, mentre all’interno il reparto della scientifica faceva tutte le rivelazioni necessarie.
- “Orchidea” sembrerebbe chiamarsi.
Ritornando sul pianeta terra dai suoi viaggi mentali, Bellocchio alzò gli occhi verso l’origine della voce che, ormai, conosceva bene quanto la sua. Alberta, il suo capo e partner in diverse occasioni, si trovava in piedi, a pochi passi da lui.
- Sul lato destro, in bassorilievo, è stato inciso da qualcuno – continuò lei.
- Ci sono stati riscontri nei nostri registri? – chiese lui.
- No, nessuna corrispondenza con le calligrafie a nostra disposizione. Hai qualche idea? Non hai voluto parlare con nessuno da quando siamo arrivati qui con Alakazam.
- Nessuna. Non ho trovato la minima traccia di indizio che possa condurci da qualche parte. Il Pokémon sembrava muoversi per volontà propria.
- È così: quella che hai fra le mani è semplicemente un segnalatore di posizione. E non sembra c’entrare nulla con gli Ultravarchi del Tempio di Regigigas.
- Di quelli me ne sono già occupato e non è mai capitato nulla di simile. Potrebbe essere uno dei Pokémon monitorati da qualche ricercatore? Magari ha contratto qualche malattia come la rabbia.
- Ci stiamo lavorando – Alberta tirò su il cappuccio del suo giaccone, coprendosi buona parte del volto. Una ciocca ribelle divenne preda del vento e lei lottò per inserirla nuovamente all’interno.
Si andò a sedere nella nuda terra, sulla neve, alla destra di Bellocchio. I suoi occhi lilla andarono a spaziare sul manto bianco che copriva ogni cosa.
- Perché non mi dici come ti senti? Croagunk come si è comportato?
- Benissimo per essere la sua prima missione sul campo, anche se quel Delibird si muoveva in modo innaturale. Non ho mai visto tanta foga.
Bellocchio sentì la mano di Alberta poggiarsi sulla sua. Il gesto inaspettato lo prese contropiede e dovette fare uno sforzo immane per evitare di saltare sul posto.
Lei strinse dolcemente, senza esercitare troppa pressione. Sorrise, e il calore della sua mano andò a riscaldare quella di Bellocchio, resa fredda dal vento gelido.
- Non deve essere stato facile uccidere un Pokémon. Soprattutto per te. Hai fatto quel che andava fatto e non devi vergognartene. Intesi?
- Sì signora.
- Non c’è bisogno di questa formalità, lo sai. Puoi benissimo chiamarmi Alberta, sono tua amica. E se hai voglia di parlare, io sono qui. Intesi? – sottolineò l’ultima parola con un nuovo sorriso.
Calore andò a investire le membra di Bellocchio, riscaldato dall’affetto della donna.
- Intesi – sorrise lui, di rimando.
Alberta capì che non avrebbe dovuto insistere oltre e lasciò che il silenzio scendesse fra di loro. Gli cinse il braccio e appoggiò leggermente la testa sulla sua spalla. Chiuse gli occhi e si abbandonò al sonno mentre i minuti passavano.
Bellocchio la lascò riposare tranquilla, conoscendo i ritmi serrati che la sua posizione all’interno della Polizia Internazionale le imponeva. Nonostante questo, non appena al quartier generale era arrivato il video del suo combattimento, Alberta aveva scelto i migliori in campo e si era precipitata lì di persona. Il caso le era sembrato fin da subito troppo strano, cosa che non era sfuggita neanche a Bellocchio, per non dover essere presenziato.
Il cappuccio del giubbotto di lei continuava a svolazzare all’indietro, lasciandole la testa vulnerabile al gelido vento. Dopo averlo rialzato un paio di volte, Bellocchio si arrese e frugò nelle tasche del suo cappotto. Ne estrasse un colbacco con i paraorecchie particolarmente lunghi e lo infilò in testa ad Alberta, coprendola fin sopra al naso.
Tremava per il freddo, lei.
Bellocchio quindi aprì il suo cappotto e ne usò una parte per coprirla, cingendole le spalle col suo braccio e scaldandola col calore del suo corpo.
I minuti passavano, e la neve continuava a cadere.

Bellocchio stava per assopirsi quando una voce risuonò dall’interno del covo di Delibird. Anche se attutito dal vento, riconobbe Plutarch che li stava chiamando e li incoraggiava a entrare. Con una debole scrollata sulle spalle, risvegliò Augusta.
- Hanno finito, andiamo a dare un’occhiata.
Insieme percorsero la galleria, stavolta illuminata a giorno grazie ai riflettori portatili. Una volta raggiunta la stanza in fondo, misero le protezioni alle scarpe e i guanti per poi entrare. L’odore di decomposizione era adesso meno forte rispetto a qualche ora prima, quando Bellocchio vi era entrato per la prima volta: la rimozione dei cadaveri e tutte le interiora lì ritrovate, unito al continuo funzionamento dei grossi ventilatori che vi avevano installato, aveva contribuito parecchio a ripulire l’aria, altrimenti irrespirabile a causa del tanfo.
La caverna era quasi completamente vuota, tranne per un grosso tavolo di legno massiccio posizionato in un angolo affiancato da un paio di sedie e una grossa ascia a due mani, conficcata in un ceppo di legno.
Plutarch li stava aspettando proprio lì vicino, in piedi, occupato col suo tablet.
- Ah, eccovi qui. Volete prima la notizia brutta o quella cattiva?
- Cattiva – risposero all’unisono, Bellocchio e Alberta.
- Beh… abbiamo analizzato quel componente che ha rinvenuto Bellocchio nel cadavere di quel Delibird. È a tutti gli effetti un trasmettitore di posizione ma non siamo stati in grado di trovare il luogo dove inviava i dati. E non è dei nostri: abbiamo chiesto a qualsiasi ricercatore e chiunque nel settore, non appartiene a nessuno di loro.
- Quindi qualcun altro stava seguendo i suoi movimenti – disse Bellocchio.
- Pensi ci sia qualcuno dietro alle azioni di Delibird? – chiese Alberta.
- Ne sono sicuro. Non c’è mai stato un episodio di tale violenza in un Pokémon. Avete ricevuto i dati da Ellie?
- Sì, e il DNA di quel Delibird era completamente diverso da quello tipico della sua razza. I nostri esperti stanno ora lavorando per cercare di capire se abbia contratto qualche tipo di malattia.
-… Comunque – s’intromise Plutarch – La seconda notizia è che c’era così tanto sangue, qui dentro, che è stato praticamente impossibile risalire alle vittime. Questo tavolo, per esempio, ne è così saturo che ormai il legno né è impregnato.
Bellocchio si avvicinò al tavolo e provò a far scorrere l’indice sulla sua superficie; il sangue si era coagulato così tante volte da risultare ormai una pozza di liquido appiccicoso.
- Per finire, abbiamo trovato dei fiori dietro una stalattite, vi stavamo aspettando prima di analizzarli.
- Dei fiori? In una caverna priva di luce? – chiese Alberta.
- Sì, sono raccolti in un piccolo bouquet. Ve li faccio vedere.
Plutarch s’incammino. Dalle sue spalle, Bellocchio notò quanto ormai i capelli brizzolati stavano vertendo verso il bianco completo. Sebbene sulla cinquantina, Plutarch aveva avuto il dono di una capigliatura folta e resistente. Conscio di ciò, era solito portare i suoi lunghi capelli, lisci e luminosi, sciolti, liberi di vagare al di là delle sue spalle, fino a circa metà della sua schiena. Nonostante l’età, Plutarch era abituato ad allenarsi con gli attrezzi nella palestra della loro sede, ottenendo così un tono muscolare più volte approvato da Furio.
Però, come sempre, Plutarch restava un ragazzino: Bellocchio aveva ormai assistito a fin troppi dei suoi scherzi in ufficio per poterlo vedere come una persona con molti anni sulle spalle. Sempre sorridente, pronto alla risata e allo sfottò, non dava per nulla l’impressione del genio che si nascondeva dietro i suoi vispi occhi verdi.
Bellocchio ritornò alla realtà, non appena Plutarch smise di camminare.
- Eccoli qui – fece il capo della scientifica.
Indicò per terra, dove si trovava una piccola zona di terreno spoglio fra le pietre, dal diametro non più grande di venti centimetri. Al suo interno c’erano una decina di orchidee; alcune delle quali, fra le più piccole, ancora dovevano sbocciare. Il profumo che ne veniva emanato fece scomparire immediatamente i residui del tanfo di morte dalle loro menti.
Bellocchio s’inginocchio e, tolto il guanto, v’infilò una mano fra gli steli, andando poi a penetrare nel terreno. Scavò per un po’, ritirando poi il pugno serrato. Si rialzò e, una volta in piedi, mostrò il contenuto nel suo palmo.
- Umido, molto umido. Ed è terreno fresco – disse ad alta voce.
Plutarch quasi gli strappò il braccio quando lo afferrò con una mano e lo avvicinò al viso. Vi piazzò sopra una fin troppo tecnologica lente d’ingrandimento e la fece scorrere sul piccolo cumulo di terreno raccolto, osservandolo molto attentamente.
- Questo terreno è così tanto ricco di elementi nutritivi da poter far crescere praticamente qualsiasi cosa al suo interno. Non ne avevo mai visto uno così fertile. Sembra quasi una cosa soprannaturale.
- E per la luce solare? Senza quella non potrebbe crescere nulla– chiese Alberta.
- Non ne ho la più pallida idea.
Plutarch esitò per un istante, osservando le orchidee.
- Prenderò dei campioni in più da questo lato della grotta e li analizzerò meglio alla base.
- Ottima idea, Plutarch. Quando avete finito qui, chiamatemi, farò teletrasportare tutti da Alakazam. Bellocchio, tu invece mi servi qui.
Lui sorrise in quel modo bizzarro a cui ormai lei si era ormai abituata, a metà fra il divertito e il voler dire “sai già che lo avrei fatto senza il tuo permesso”.
- Perfetto, avevo proprio intenzione di andare a cercare Bianca, potrebbe essermi utile. Andrò alla Palestra.
- Ottimo. E, mi raccomando, tienimi aggiornata.
- Certo, Alberta.
- E non correre rischi inutili, ci sei più utile da vivo.
- Ai tuoi ordini, capo – disse lui, irritandola per averla di nuovo chiamata in quel modo.
Nonostante lei abbia ripetuto più volte a chiunque, all’interno della Polizia Internazionale, di chiamarla semplicemente col suo nome, lui insisteva nel rivolgersi a lei col suo grado, quando aveva intenzione di farla innervosire.
In quel momento Alberta non capì se lo odiava di più per averlo fatto di nuovo, o per il suo sorrisetto sulle labbra, mentre si allontanava verso l’uscita.
Una volta fuori dalla grotta, Bellocchio indossò nuovamente cappello e guanti e si diresse verso di Nevepoli.

Ritornato in città, Bellocchio non perse tempo e si diresse immediatamente verso la Palestra, nonostante il brontolio nello stomaco gli ricordasse che erano ormai quasi dieci ore che non toccava né cibo né acqua.
La neve aveva smesso di cadere, e ormai il vento s’era acquietato. La calma era assoluta, non una sola persona si vedeva fra le strade innevate. In questa quiete innaturale, solo un suono, antico e possente, si propagava nell’aria.
Regigigas.
Dal Tempio s’innalzava il suo basso, cupo e vibrante respiro costante. La città intera n’era pregna.
Come una canzone in filodiffusione a basso volume, il suo rombare si espandeva in ogni angolo di Nevepoli, facendo vibrare le membra e, quando diventava più insistente, anche i vetri delle finestre delle abitazioni più vicine alla sua dimora.
Gli abitanti del luogo ci avevano ormai fatto l’abitudine ma, alle orecchie di Bellocchio, quel suono diventava opprimente e intimidatorio. A metà fra il motore di uno spazzaneve e il continuo percuotersi di una grancassa, quel suono stava rischiando di farlo impazzire.
Avanzò il passo. Mano a mano che si avvicinava alla Palestra, il brontolio di Regigigas aumentava d’intensità, così come l’altezza della neve, quasi come se la natura si stesse ribellando al suo moto.
Finalmente arrivò in prossimità delle porte. Si avvicinò e, notando che mancava l’apertura automatica, alzò un braccio per poter bussare. In quel preciso istante le porte si spalancarono e una ragazza fuoriuscì dalla sala d’accettazione.
- Salve, sto cercando la Capopalestra, è qui?
- La Palestra è chiusa, se vuole sfidare Bianca torni domani – rispose lei, facendo scattare la serratura alle sue spalle. Il suo lungo giubbotto da neve, bianco, arrivava quasi fin sotto le ginocchia.
- Mi scusi, non mi sono presentato. Sono Bellocchio, della Polizia Internazionale. Avrei urgente bisogno di parlare con Bianca, ci sono degli sviluppi sull’omicidio di stamattina – allungò la mano, in cerca di quella di lei.
La ragazza si girò e gli sorrise. I suoi occhi nocciola parvero risplendere di luce propria.
- Come ho già detto, la Palestra è chiusa. Può venire a casa mia a prendere un tè caldo, se vuole. È proprio qui vicino – rispose lei, stringendogli la mano.
- Signorina forse lei…
- Vogliamo darci del tu? Molto meno freddo. C’è già la neve qui, che congela tutto – sorrise di nuovo, lei.
- Avanti Bellocchio non essere timido, non ti mangio mica – s’incamminò per una strada laterale.
La ragazza fece pochi passi e poi si voltò, dopo aver notato che non la stava seguendo. Lo invitò ad avanzare.
- E chiamami Bianca, non mi piace essere chiamata “Capopalestra” – sorrise di nuovo lei.
Solo allora Bellocchio capì di avere davanti la persona che stava cercando.
- Scusami, non ti credevo così giovane. Pensavo di star parlando con una tua assistente – divenne improvvisamente viola, lui, per colpa del suo comportamento di poco prima.
- Non fa niente, basta che muovi il sedere che mi sto congelando – lei gli afferrò un braccio e lo tirò verso di sé.
I due incominciarono a camminare nella neve. Passarono un paio di minuti in silenzio dopo che Bianca respinse tutti i tentativi di parlare, obbligandolo a rimandare tutto a dopo il tè.

Arrivarono nei pressi della casa di Bianca, situata sulla strada che dalla Palestra portava al Tempio. Lì la presenza umana lasciava rapidamente il passo alla natura: lontano dal centro cittadino e dal porto, le poche strutture lì presenti erano tutte case, bungalow e magazzini. Data la maggior presenza di Pokémon selvatici, gli abitanti avevano dovuto costruire recinti e muretti per evitare danni. L’unica eccezione, era la casa di Bianca.
Il vialetto che dalla strada principale portava alla porta d’ingresso era costituito semplicemente da diversi massi incastonati nel terreno a intervalli regolari, con ciocche di erba che ci crescevano attorno. A destra e a sinistra si apriva il giardinetto, completamente ricoperto di neve. Dal manto nevoso s’innalzavano fiori montani di tutti i colori. Una coppia per tipo di alberi di Baccafrago, Baccamela e Baccalampon, costellavano il perimetro del giardino, sotto i quali scorrazzavano i Pokémon selvatici, liberi di mangiarne i frutti.
Un paio di Snover si trovavano ai piedi di una panchina in legno, rivolta verso ovest, occupati nel cercare di afferrare la coda penzolante di un Glaceon acciambellato sullo schienale.
Bianca s’incamminò per il vialetto, fermandosi per accarezzare ogni Pokémon che le si avvicinava.
- Tutto bene, piccola? – grattò distrattamente dietro l’orecchio della sua Glaceon.
Lei rispose con un miagolio, agitando più velocemente la coda quando uno degli Snover riuscì ad afferrarla.
Bellocchio la seguì sul portico e aspettò che lei aprisse la porta. Una volta dentro, venne salutato da un’ondata di calore rinvigorente. Subito dopo il piccolo ingresso, all’interno del quale erano sistemati un paio di appendiabiti, una scarpiera e un porta ombrelli, si apriva un ampio salone con cucina annessa.
Il pavimento era rivestito di morbidi e soffici tappeti che ne occupavano la gran parte, messi uno di fianco all’altro, con una minuzia particolare nella scelta dei colori: a destra, dove c’erano i divanetti, un piccolo tavolo per il tè, il camino e vari mobili, tendevano alle tonalità del rosso scuro; a destra, dove si trovava la cucina, il bancone in marmo e un grande finestrone che dava sul retro del giardino, prevaleva il verde dei freschi prati montani; mentre fra i due, si potevano trovare tappeti dai colori misti, che sfumavano da una tonalità all’altra.
- Non fare complimenti, siediti pure sul divano. Io arrivo fra un attimo.
Bianca si liberò di giubbotto, guanti, sciarpa e scarpe, lasciandoli scivolare sul pavimento, per poi dirigersi verso le dispense della cucina.
- Bella casa. Piccola ed essenziale. Non credevo ti piacessero così tanto i tappeti.
- Sono morbidi e caldi, è ovvio che siano belli. Vediamo… - iniziò a scavare fra diverse confezioni.
- Ho: arancia e cannella, limone, vaniglia, frutti di bosco, e fragola. Quale preferisci?
- Limone, grazie.
- Perfetto, metto a riscaldare l’acqua. Zucchero?
- Due cucchiaini.
- Cinque minuti e sono da te.
Bianca si voltò e, vedendo Bellocchio ancora in piedi, si precipitò verso di lui. In un attimo gli fu addosso e l’obbligo a togliersi il cappotto.
- Che stai facendo? – chiese lui, mentre veniva sballottolato dalle mani di lei che andarono a sfilargli guanti e cappello.
- Ho detto di metterti comodo sul divano e riposati. So che non ti sei fermato un attimo da stamattina, sarai stremato.
Lei gli mise le mani sulle spalle e, delicatamente, lo spinse verso il divano, per poi farlo sedere.
- Va bene, ma solo cinque minuti.
Bianca sorrise e annuì. Tornò a occuparsi del tè, prese due tazze e le riempì con l’acqua che ormai si era scaldata sui fornelli.
- Nel frattempo potresti accendere il camino? È già tutto pronto, basta dar fuoco alla carta. L’accendino è nella scatoletta di legno a sinistra.
Infuse le due confezioni di tè e aggiunse lo zucchero. Aprì il forno ed estrasse una teiera con dei biscotti fatti in casa.
Intanto Bellocchio era alle prese con il fuoco. Era bastato un attimo e la fiamma era divampata, facendo però rischiare di far cadere un paio di pezzi di legno, una volta che il cartone che faceva da sostegno s’era completamente consumato nel fuoco. Con un paio di rapidi movimenti con la molla forgiata riportò l’ordine e sistemò il tutto in modo da evitare altri crolli.
- Eccomi qui. I biscotti non sono proprio freschi, li avevo fatti stamattina.
Posò sul tavolino il vassoio contenente il tutto e si accomodò sul secondo divano, di fronte al suo ospite.
Bellocchio assaggiò il tè e diede un morso a un biscotto. Dopodiché lo ripose nel piccolo piatto davanti a sé.
- Sono ottimi.
Bianca arrossì. Si schiarì la voce e bevve un sorso della sua bevanda calda.
- Allora, di cosa volevi parlarmi? Avete scoperto qualcosa su quello che è successo ai Parker?
- Abbastanza. Ho seguito delle tracce fin dentro la foresta qui intorno. Lì ho trovato il nido di un Delibird, non ho mai visto una cosa così tanto macabra. Crediamo sia stato lui a uccidere i due bambini.
- Un Pokémon che uccide degli umani? È una cosa più unica che rara, soprattutto se si pensa alla natura dei Delibird. Forse era intenzione dell’assassino far perdere lì le tracce.
Bellocchio scosse lentamente la testa. Raccolse la sua tazza con entrambe le mani e lasciò che il suo torpore donasse nuova forza alle sue membra, prima di poter continuare.
- Ne siamo sicuri, ho lottato personalmente contro quel Delibird e, credimi, abbiamo le prove di quanto ho detto.
- Quali prove?
- Bianca, non è affatto una cosa facile da digerire. Sicura di volerlo sapere? Se sei debole di stomaco potresti vomitare.
- Sono la Capopalestra di Nevepoli. È mio diritto e dovere aiutare la mia gente. Se posso aiutare, devo fare tutto quello che posso.
Bellocchio iniziò quindi a raccontarle tutto ciò che aveva scoperto da quella mattina, facendosi aiutare da ciò che Ellie aveva registrato. Una volta conclusa la riproduzione della sua battaglia con Delibird, Bellocchio ripose gli occhiali e bevve un altro sorso di tè, ormai freddo dopo l’ora abbondante in cui aveva parlato.
Bianca era diventata pallida, quasi cadaverica. Le mani le tremavano, facendo tintinnare la sua tazza.
- È… è davvero così, dentro quella grotta?
- Sì.
- Tutti quei Pokémon… morti – Bianca iniziò a respirare a stento.
- Avete già qualche idea sul chi possa aver attivato quel segnalatore?
- Non ancora, i miei colleghi alla scientifica ci stanno lavorando, mi faranno sapere qualcosa il prima possibile. Hai mai visto episodi di aggressività insensata, fra i Pokémon selvatici di questa zona?
- No, nulla di simile. Passeggio frequentemente fra i boschi e non c’è mai stato segno di violenza tra i Pokémon. Hai visto tu stesso quanti di loro vengono a giocare e mangiare nel mio giardino.
- Sì, ho visto. È fin troppo strano.
- Già…
Lo sguardo di Bianca si perse nel vuoto per qualche istante.
- Penso sia ora di togliere il disturbo, si sta facendo tardi – disse Bellocchio.
- Scusa, stavo metabolizzando la cosa – Bianca si scusò per il breve momento di assenza.
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori: la neve vorticava, sospinta da violente raffiche di vento. La sola cosa che la vista era in grado di cogliere era il bianco candido. Non riuscì neanche a scorgere il corrimano del portico sul lato destro della casa.
- Hai dove stare, qui a Nevepoli? – gli chiese Bianca.
- L’albergo “Stardust”.
- Beh, credo tu non possa tornare lì stasera. C’è una bufera.
- Un po’ di neve non può fare male – commentò lui.
Bianca indicò la finestra e gli fece segno di avvicinarsi. Bellocchio la raggiunse e guardò fuori. Osservò per qualche momento la neve, trasportata dal vento ululante.
- Beh, non mi sembra così violen… - le parole gli si mozzarono in gola quando vide un piccolo cartello volare via ad alta velocità, altezza d’uomo.
Bianca, che nel frattempo si era avvicinata al piano cucina, rise mentre l’osservava.
- Pasta zucchine e gamberetti? – gli chiese.
- Sì grazie. Aspetta, fatti aiutare.
- Sai addirittura cucinare?
- Potrei stupirti – rispose Bellocchio, alzandosi le maniche del maglione.

Circa quaranta minuti più tardi, i due erano intenti a ripulire i piatti.
Una volta finito il tutto e riposto le stoviglie, l’orologio da parete di Bianca segnava le undici passate.
- La bufera imperversa ancora. Vado a prepararti la stanza, dammi cinque minuti – gli disse Bianca.
Bellocchio l’afferrò per il braccio.
- Non voglio abusare della tua ospitalità, basta camminare piano e posso tranquillamente tornare in albergo.
- È dall’altra parte della città, ci arriveresti morto congelato. Non era un invito, ma un ordine.
Lei sorrise nuovamente e poi scomparve, chiudendosi alle spalle la porta della stanza degli ospiti.
Bellocchio aspettò una decina di minuti, passati a osservare le tante fotografie dei Pokémon di Bianca, appesi lì dove le pareti erano libere dai mobili.
La porta della stanza degli ospiti si aprì e lei ne fuoriuscì.
Reggeva fra le mani una pila di vestiti. Si avvicinò a Bellocchio che si era sistemato sul divano e gliela lasciò scivolare in grembo.
- La mia amica Gardenia viene spesso a trovarmi, qualche volta con lei viene anche Pedro. Qui ci sono un paio dei suoi pigiami, li lascia da me per comodità, ho preso quelli che penso possano andarti. Vedi un po’ quale preferisci.
- Non so come ringraziarti, sei troppo gentile.
- Non c’è di che. Hai il bagno in camera, il letto è pronto e se vuoi c’è una stufa nell’angolo della stanza. Basta che non la imposti sul livello massimo, altrimenti si inceppa. E se hai bisogno di qualcosa, io sono nella camera affianco, bussa pure.
Gli diede un leggero bacio sulla guancia e andò in camera sua, chiudendosi la porta alle spalle.
Bellocchio aspettò qualche istante per alzarsi dal divano, dopodiché si diresse nella sua stanza e, dopo essersi cambiato e lavato, si distese sul letto, scivolando in un sonno buio e senza sogni.



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