Un fischio, soltanto un fischio.
Quando Ruby riprese i sensi, udì soltanto un fischio.
Poi iniziò a percepire il dolore. Digrignò i denti, strinse i pugni, contrasse i muscoli. Lentamente, quell’atroce sofferenza sembrava affievolirsi. O forse era solo lui che ci stava facendo l’abitudine.
Ricordava quello che gli era sembrato l’ultimo istante della sua vita: il ragazzo che aveva tentato di uccidere lui e Sapphire con i suoi Pokémon, come ultima spiaggia, aveva lanciato contro di loro una granata. Una mossa sicuramente poco leale e sportiva, non avevano saputo reagire. Ruby aveva fatto ciò che meglio gli era riuscito, negli ultimi giorni: prendere le bastonate. Quindi aveva coperto Sapphire, sperando che il fattore di rigenerazione delle gemme che aveva dentro il corpo funzionasse a dovere. E, conoscendo bene quella sensazione di bruciore che seguiva la guarigione spontanea delle sue ferite, era sicuro che stesse tutto lavorando più che dignitosamente: si sentiva ardere completamente la parte inferiore del corpo.
Lentamente, il fischiò si fece sempre più flebile, permettendogli di riacquistare l’udito. Non ne fu immediatamente troppo felice. Udì delle grida, grida che purtroppo conosceva molto bene. La ragazza a cui più teneva al mondo stava facendo stridere le sue corde vocali nel modo più atroce che le fosse mai riuscito: strillava come un’aquila, aveva perso ogni minimo controllo.
Ruby riaprì gli occhi. La cercò con lo sguardo, tentando a fatica di rimettere in funzione il suo senso della vista. Quando la trovò, di nuovo, si pentì di essere tornato nel mondo reale.
«Sapphire» gridò.
Quella inclinò appena il collo, cercando di incrociare il suo sguardo. Continuava a gridare e a contorcersi, non sembrò trovare alcuna consolazione negli occhi del suo ragazzo.
Ruby si fece forza, si guardò attorno per verificare che il ragazzo della FACES non fosse ancora nei paraggi, ma pensò che se solo li avesse visti riprendere conoscenza avrebbe immediatamente terminato quel semplice lavoro con le sue mani. Cercò di strisciare, dato che le sue gambe sembravano ancora inutilizzabili, verso la ragazza. Finse di ignorare il dolore atroce che, con il movimento, sembrava crescere a dismisura. Ignorò pure la striscia di sangue che si rese conto di lasciare dietro di sé al passaggio.
Non era importante, la sua priorità era Sapphire.
«Ehi, sono qui» le mormorò a denti serrati, raggiungendola.
Era peggio di quanto pensasse, sembrava essersi beccata l’esplosione in pieno. E lei non aveva le gemme. L’addome della ragazza era completamente ricoperto di sangue e lei, in preda a convulsioni e grida, sembrava provare il dolore più intenso che le fosse mai stato inferto. Ruby cercò di prenderle la mano, ma fallì, quindi le strinse il braccio. Lei sembrava non rendersi conto della sua presenza. Cominciò a respirare affannosamente, vedendo che la chiazza di sangue sotto il proprio corpo espandersi di secondo in secondo. Nel nervosismo generale che sembrava voler miscelare tutte le peggiori emozioni in un solo e unico momento di tortura, Sapphire cominciò pure a piangere.
«Maledizione, calmati» guaì Ruby, in quel pietoso e grottesco scenario.
Lui non riusciva ancora ad utilizzare le proprie gambe e stava cercando di rassicurare Sapphire, che era stata ferita fatalmente nel luogo più isolato dalla civiltà che ci fosse al mondo.
Sotto sotto, gli venne quasi da ridere, di fronte alla loro deprimente situazione. Smise di gridare a Sapphire le prime cazzate che gli venivano in mente, si accasciò a terra, sfiorando il corpo della ragazza e spalmandosi sul pavimento. Sentì la mattonella sulla guancia, non riusciva a capire se il marmo fosse caldo o freddo, percepì soltanto quanto fosse bagnato di sangue.
Anche a lui, venne quasi da piangere. Non aveva più alcuna speranza. Le ferite si stavano rimarginando, ma non era quello il suo problema. Il suo cervello aveva appena realizzato che Sapphire non sarebbe sopravvissuta.
Green e Blue avevano preso una delle stanze del Centro. Si erano fatti una doccia calda, in modo da scrollarsi di dosso tutto il gelo di quell’avventura inutile che avevano vissuto. Erano stanchi, sentivano il bisogno di riposare in un letto vero. Per questa ragione decisero di affittare la camera per l’intero pomeriggio. Si infilarono sotto le coperte, chiusero gli occhi, l’una nelle braccia dell’altro.
«Che ti ha detto, Yellow?» chiese Green, carezzando i capelli della ragazza che si era piazzata nell’incavo della sua spalla.
«Ancora nessuna novità, Silver non si sveglia e Crystal non vuole parlare con nessuno» rispose lei.
«E il resto?» continuò lui, cercando di portarla dove voleva.
«Di che parli?» chiese lei, con una debolissima nota stonata nella voce.
Beccata. Blue era un’ottima bugiarda, ma anche lei tradiva alcuni comportamenti sospetti, piccoli particolari che soltanto qualcuno che la conoscesse da molti anni riusciva a notare.
«Lo sai» affondò Green, con sicurezza.
Blue aveva capito perfettamente a cosa si stesse riferendo il suo ragazzo, ma la sua indole la obbligava a fare la finta tonta fino all’ultimo.
«Aspetta un bambino» rivelò, con un filo di voce.
Dopo quel debole sussurro, rimasero zitti. Le dita di Green continuavano meccanicamente a carezzare la chioma castana della ragazza, ma i loro occhi erano persi nel vuoto siderale.
Red se n’era andato, Yellow era incinta, attorno a loro, il mondo continuava a crollare. Entrambi avevano mille dubbi, mille domande, mille interrogativi a cui cercare una risposta. Tuttavia, erano già abbastanza stremati in seguito alle varie disavventure personali.
Si erano sdraiati su quel letto per recuperare qualche ora di sonno, ma non riuscirono a chiudere occhio. Rimasero immersi nell’oscurità, in una sorta di eterno dormiveglia in cui nessuno riusciva a proferir parola.
«Ruby» mormorò la ragazza.
Il Dexholder alzò lo sguardo.
Sapphire aveva il volto sfigurato dal dolore, i capelli erano bagnati di sangue e le labbra screpolate e ferite. Non sembrava volersi arrendere, ma la sua non era un’ultima, strenua resistenza. Fissava il ragazzo con occhi di supplica, la supplica di chi non è ancora pronto a morire. Sapeva di essere spacciata, ma non riusciva ad accettarlo.
Ruby si sentiva stringere ogni organo interno, per via di quella scena. Aveva condannato Sapphire a quel terribile degrado. Era soltanto colpa sua, non serviva girarvi attorno. Si chiese come avesse fatto a distrarsi, con quale errore avesse condannato la ragazza ad una morte tanto atroce.
Il suo cervello sfiorò l’alone luminoso di un pensiero positivo. L’unico in chilometri e chilometri quadri di oscurità.
Ruby rifletté su ciò che stava accadendo loro prima dell’arrivo dell’agente FACES. Non sapeva ancora cosa fosse esattamente accaduto, ma sentiva di dover manipolare quella sua piccola realizzazione. Percepiva una debole scintilla nella sua mente, come se questa avesse spontaneamente raggiunto una verità.
Si portò più avanti, strisciando con minore difficoltà. Ormai le ferite si erano quasi tutte rimarginate. Sotto di lui, c’era il corpo insanguinato di Sapphire. Lei lo stava guardando, ma aveva gli occhi vuoti di chi ha perso troppo sangue. Forse neanche si stava rendendo conto di ciò che avveniva attorno a lei, forse aveva già mollato, forse stava vedendo quella luce bianca a cui tutti fanno riferimento, nei medical-drama. A Ruby non interessava, il ragazzo cercava solo il contatto fisico.
Le mise la mano sul collo, percependo il debole e lentissimo battito cardiaco. Se ne stava andando. Doveva fare presto.
Si rese conto di star per improvvisare un’azione che era riuscito a compiere solo due volte, sei anni prima. Chiuse gli occhi, focalizzò l’obiettivo.
Qualcosa, nel cuore di Hoenn, si mosse.
La mente di Ruby scomparve, disintegrandosi nell’assoluto per qualche millisecondo. Torno subito a ricomporsi, rientrando nel suo corpo e animandone le membra. Il ragazzo apri le palpebre ed ebbe un brivido che gli corse lungo tutta la schiena, facendogli venire la pelle d’oca. Quello fu buon segno. Sentiva il calore, percepiva la temperatura delle cose attorno a sé, le gambe avevano smesso di bruciare, perdendo la loro capacità di autorigenerarsi, ma non sembrava essercene più il bisogno, a quel punto.
Cercò di guardare Sapphire, ma prima che potesse metterla a fuoco, una debole pulsazione fu avvertita dalle sue dita. Le sue dita che erano state poggiate sul collo della ragazza.
La vide. Dal punto in cui l’aveva toccata, migliaia di linee blu e rosse si dipanavano sulla pelle della ragazza. I tatuaggi che indicavano che il suo organismo aveva accolto le gemme si erano immediatamente diffusi su tutto il corpo e sembravano pulsare di energia pura.
Sapphire, in bilico tra lo svenimento e la morte, emise un grido strozzato. Stava percependo il bruciore, le sue ferite si stavano lentamente rimarginando. Per lei, era una novità. Ruby attese minuti che gli parvero giorni. Sentiva il mugolio soffocato della ragazza, lo sfrigolare della sua carne che riprendeva l’unità originale, il suono nervoso dei suoi denti che battevano per il freddo che percepiva per la prima volta da settimane.
Quando scese il silenzio, Sapphire smise di lamentarsi, cadendo in un profondo e stremato sonno. Il processo di rigenerazione era terminato, anche se i suoi vestiti erano ancora laceri e inzaccherati di sangue. Lei aveva perso conoscenza, ma il suo cuore aveva ripreso a battere. Le linee non brillavano più come prima, ma si erano sempre più diramate su tutta la superficie del suo corpo, un paio avevano pure raggiunto il volto. Ruby tentò di risollevarsi sulle proprie gambe. Quando fu capace di riacquisire la propria posizione eretta, rimase in equilibrio per qualche secondo, verificando che la parte inferiore del suo corpo funzionasse a dovere.
Prese Sapphire tra le braccia soltanto quando ne ebbe la completa certezza. Doveva portarla via da lì: l’avrebbe portata via da lì.
Kalut entrò a Memoride senza che anima viva se ne rendesse conto. Per lui, passare inosservato era quasi alla stregua di un’arte: non si trattava soltanto di camminare tranquillamente, mantenere un comportamento omogeneo alla massa e ammorbidire le sopracciglia, era una disciplina parecchio più ramificata. Al suo seguito, c’era il fedele Xatu. Il ragazzo aveva tolto alcuni degli abiti pesanti che il rigore delle vette del Monte Corona lo avevano costretto ad indossare, nonostante a valle ci fossero ancora quasi due metri di neve.
“Probabilmente Green, Blue, Ruby e Sapphire sono già al Centro” comunicò telepaticamente al pennuto.
“Secondo te riusciranno a presentarsi all’appuntamento” chiese lui.
“Sì, salvo imprevisti, dovrebbero esser tornati giù verso le...”
Il flusso di pensieri del ragazzo si interruppe. Era passato accanto ad un’edicola e la sua mente attenta ad ogni particolare circostante, sempre e comunque, gli aveva fatto notare qualcosa. Tornò indietro di qualche passo, calcando una seconda volta le orme che aveva appena lasciato nella neve. Girò la testa, lesse il titolo delle prime pagine di ogni quotidiano esposto nella mostrina.
«Porca puttana» disse.
“Non te lo aspettavi, vero?” chiese ironicamente Xatu, mentre Kalut attaccava a correre verso il Centro Pokémon, fregandosene di passare inosservato.
Il ragazzo sbuffò, senza rispondere. Certe volte quell’uccello riusciva ad essere davvero fastidioso, soprattutto quando scherzava su fatti che lui, dotato di precognizione, era riuscito a vedere in anticipo, mentre per gli altri avevano costituito un colpo di scena inaspettato.
“E’ evidente che sia tu la persona più indicata per intervenire, in questo caso” lo consigliò.
“Uccidimi se non è così, maledizione” ribatté lui.
“E’ una di quelle rare volte in cui riesco a percepire il tuo nervosismo, voi esseri umani siete davvero interessanti, nascondete quello che più volete gettare fuori e viceversa” commentò il Pokémon Magico.
Kalut giunse al Centro, calmando i bollenti spiriti in un millesimo di secondo. Salutò l’infermiera e le consegnò una delle sue Ball, per non destare sospetti, ma sfruttò l’occasione per lanciare un’occhiata alle sfere che si trovavano già nella macchina curativa. Conteggiò tutti e dodici i Pokémon di Blue e Green, intravedendoli dalla trasparenza, evidentemente Ruby e Sapphire non erano ancora arrivati.
Realizzò che probabilmente i due Dexholder di Kanto si trovavano in una delle camere, comprese di non potervisi introdurre in libertà. Ordinò un caffè nero al bar e sedette su uno dei divanetti. La caffeina non poteva intaccare il suo organismo e rilassarsi lo spingeva soltanto a riflettere su mille diavolerie nel tentativo di arginare i tic nervosi, ma era tutto ciò che poteva fare.
Studiò approfonditamente il tavolino che aveva davanti, riuscendo a individuare con precisione tutti gli snack che vi fossero stati consumati durante la mattinata, nonostante qualcuno fosse passato a pulire. Si rese conto di star sedendo su delle briciole di Pringles.
Osservò l’infermiera e ne decifrò la ridente vita sentimentale, in base al modo in cui osservava lo schermo del suo cellulare e alle volte che lo toccava, quando questo iniziava a vibrare. Ondeggiava giuliva, strusciando le dita sul bancone, ignorando la televisione e guardandosi spesso allo specchio, come se il suo nuovo ragazzo potesse farle visita da un momento all’altro.
Alla fine, accese la televisione, si sarebbe distratto con qualche brutto servizio del telegiornale. Mentre le notizie scorrevano, conteggiava il numero di parole utilizzate dai giornalisti e ne tracciava un profilo psicologico in base alla frequenza di aggettivi possessivi, intercalari e modi di dire utilizzati. Persino le loro voci standardizzate secondo i canoni da notiziario erano facili da decifrare, per lui.
“La situazione è ancora critica ad Austropoli” cominciò a dire la anchorwoman “il gruppo terroristico tiene ancora sotto scacco l’intera popolazione, impedendo l’intervento delle forze dell’ordine. Dopo il crollo del Ponte Freccialuce, gli anarchici hanno colpito e demolito le fognature e i moli, uniche vie di fuga per la popolazione inerme e minacciata. Alle ore quattordici e sei, altri otto morti sono state confermate dagli inviati: degli Allenatori hanno tentato la fuga per via aerea, in groppa ai loro Pokémon, venendo freddati dai cecchini, prima che la polizia potesse intervenire...”
Kalut si coprì il volto con le mani, sospirando profondamente: Celia, Gold e Platinum si erano recati ad Austropoli, cinque giorni prima. Lui e gli altri Dexholder erano spariti dalla circolazione, per la spedizione sul Monte Corona.
Una volta tornato, non si aspettava di certo tutto quel casino.
Ebbe un flash: si ricordò di accendere il cellulare. Trovò due messaggi di Celia:
“Ci sono problemi”
“Ci serve il tuo aiuto”
Celia non chiedeva aiuto, era troppo pigra per farlo. Evidentemente, il problema era più grosso di quanto chiunque si sarebbe mai aspettato, si chiese per quale motivo la ragazza non avesse insistito.
La risposta giunse prontamente dal notiziario, la reporter sottolineò che: “le infrastrutture e i cavi telefonici sono stati attaccati e demoliti, lasciando la popolazione isolata dal mondo esterno”.
«Maledizione» disse Kalut tra sé e sé.
Per quanto ne sapeva, i suoi alleati potevano anche essere già morti. Xatu non proferiva parola. Sostava accanto al ragazzo dai capelli bianchi, al centro del bar, senza che anima viva che non fosse Kalut potesse vederlo. Quest’ultimo, preso da un grigio momento di sconforto, ondeggiava la testa come un metronomo, strofinandosi le tempie e la fronte con le dita, nel tentativo di massaggiare il suo cervello e placare quella bufera di pensieri che vi imperversava. Austropoli era stata presa in ostaggio da dei terroristi, lui era di ritorno dalla scoperta di un impianto che canalizzava l’energia criogenica dei Pokémon verso uno dei nodi con cui sono stati stretti insieme i continenti. La sua vita era normale quanto un agrume meccanizzato.
Era in momenti come quelli che desiderava di ritrovarsi improvvisamente nel Bosco Lira, il luogo in cui si era svegliato, oltre un anno prima, senza il minimo ricordo della propria identità e della propria storia.
Ricordava i primi giorni della sua vita, l’erba fresca, i Pokémon amichevoli, il sonno all’ombra degli alberi, la vita semplice. Poi aveva conosciuto la civiltà, gli immensi agglomerati urbani, le altre persone, l’eterno Xatu e infine la Resistenza, coi suoi piani per fermare la FACES. Lui aveva accettato di aiutarli per gioco, non aveva idea di quale fosse il suo scopo nella vita, ma quelle persone avevano detto di conoscerlo, di conoscere persino un suo simile. Lui era una sorta di dio, l’anello di congiunzione tra l’uomo e i Pokémon, tra l’essere vivente e il complicato organismo della natura. Era stato dotato di capacità incredibili, una mente più potente di qualsiasi altra, un corpo adattabile a qualsiasi cosa... ma era riuscito comunque a conoscere lo sconforto e la paura. Il mondo doveva proprio essere uno schifo.
Diede un sorso al caffè, i suoi sensi riuscirono ad affermare con certezza che la barista che lo aveva preparato utilizzasse una crema mani all’aloe.
“Sei stanco, Kalut?” chiese Xatu, telepaticamente.
“Sto bene” rispose lui.
“Prendi una camera, riposati, puoi concedertelo” gli consigliò.
“Non preoccuparti, ho solo avuto una brutta giornata...” mormorò il ragazzo.
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