Il signor Johnson aveva sessantacinque anni. Il signor Johnson era un impiegato delle poste. Il signor Johnson non si receva a lavoro da alcuni giorni, l’ufficio era chiuso a causa delle avverse condizioni meteorologiche: erano rimasti solo pochi impiegati, necessari per lo smistamento di alcune missive burocratiche. Tipo bollette, acconti o simili. In realtà, sapeva di non essere comunque utile, in ufficio.
“Nessuno manda più lettere, al giorno d’oggi” diceva sempre il signor Johnson.
E aveva ragione, nessuno mandava più quelle maledette lettere, il web aveva completamente scardinato il traffico postale, le e-mail si erano rivelate più rapide, efficaci, ecologiche, economiche, comode e altri duecentomila aggettivi dall’accezione positiva. Ma tutto questo era avvenuto anni e anni fa, le lettere non le utilizzava più nessuno da anni, il mercato dei francobolli campava solo di collezionismo, le compagnie postali stavano fallendo, non era possibile comprare una busta delle lettere, poiché non le vendeva più nessuno, eccezion fatta per quelle di papiro elegante nelle quali vengono messi i biglietti di auguri di nozze.
Tuttavia, il signor Johnson continuava a dire “nessuno manda più lettere, al giorno d’oggi”. Maledizione, ormai era diventato il suo mantra, da quando aveva scoperto l’esistenza della posta elettronica. Quando poi erano stati inventati anche SMS, social network e WhatsApp, il signor Johnson neanche aveva voluto sentirne parlare. Non era interessato, era anziano, queste cose non facevano per lui.
Il signor Johnson continuava a dire “nessuno manda più lettere, al giorno d’oggi”. Ed effettivamente, nessuna dei sette miliardi di persone sulla faccia della terra mandava più quelle cazzo di lettere.
Ma questa è tutta un’altra storia.
Insomma, quel giorno, il signor Johnson era uscito per controllare se la sua vecchia cassetta delle lettere contenesse o no qualcosa che non fosse pubblicità, bollette del gas o vecchie multe non pagate. Non aveva neanche fatto in tempo a raggiungerla, navigando nei suoi scarponi lungo il vialetto di casa, che una scena lo aveva distratto.
Un ragazzo con la pelle violacea, i vestiti logori e i capelli pieni di ghiaccioli era appena entrato a Memoride, barcollando lungo la stradina che dava ad ovest, proprio di fronte alla villetta del signor Johnson. Aveva qualcosa tra le braccia: una sorta di grosso fagotto avvolto in un panno insanguinato, lo stringeva con le mani tremando per la fatica e per il freddo. Arrancava, ormai, sembrava a pezzi. Aveva lo sguardo perso, fisso nel vuoto più totale. Il signor Johnson gli vide fare gli ultimi tre passi, affondando i suoi piedi incerti nella neve, tentando di avanzare. Poi passò a scrutarlo attentamente mentre si fermava, chiedeva aiuto e cadeva a terra, perdendo i sensi sopra al suo fagotto.
Il signor Johnson capì di dover muovere il culo.
«Due pazienti, un maschio e una femmina, entrambi sui vent’anni» spiegava il medico del pronto soccorso a velocità supersonica, correndo insieme ai chirurghi d’urgenza e alle barelle lungo la corsia «lui ha riportato gravi lesioni alle gambe ed è in ipotermia, lei è priva di sensi, ha l’addome gonfio, potrebbe trattarsi di un’emorragia interna» le sale operatorie furono allestite con la massima rapidità, i due ragazzi furono immediatamente catapultati all’interno.
Dall’altra parte della città, Kalut sedeva ancora al bar del centro Pokémon. Tentava di distrarsi guardando tv spazzatura e bevendo una bevanda dopo l’altra, ma la cosa sembrava non funzionare. Stava aspettando da troppo tempo, Blue e Green non sarebbero usciti presto da quella stanza e lui aveva urgente bisogno di parlare con loro. Iniziava ad innervosirsi.
Due ragazzini entrarono nel centro, dirigendosi verso il bancone. Erano giovani e portavano delle pesanti tute da sci, probabilmente erano usciti a giocare con la neve. Kalut non poté fare a meno di origliare le loro chiacchiere: i suoi sensi lo costringevano a percepire e immagazzinare tutto ciò che orbitava attorno a lui.
«E’ successo quasi due ore fa» diceva il primo, la sua era la voce acuta di un ragazzino ancora non entrato nella pubertà.
«Ed è stato il signor Johnson a trovarli?» chiedeva l’altro, probabilmente erano coetanei.
«Sì, non hai visto l’elicottero diretto verso Rupepoli?»
Kalut aguzzò le orecchie, si trattava di qualcosa di grave, dal modo in cui ne stavano discutendo.
«Un ragazzo e una ragazza, uno dei due sembrava ferito gravemente, secondo mia madre erano due teppisti, lei era tutta piena di tatuaggi...»
Kalut smise di ascoltare, balzò in piedi e lasciò i soldi del conto sul tavolo. Si diresse verso le cuccette, quello era un piccolo Centro Pokémon, non sarebbe stato certamente dotato di molti posti letto. Svoltò nel corridoio, ne contò dieci. Cercò qualche suono, ma percepì soltanto la voce di un uomo adulto che parlava al telefono, le chiacchiere di due Pokémon Ranger che discutevano di alcune faccende a proposito della Federazione di Almia e il suono dell’asciugacapelli di qualcuno. Quest’ultimo non apparteneva di certo a Green o a Blue: loro erano lì dentro da ore e la doccia sarebbe stata la loro priorità. Non era riuscito a localizzare i Dexholder, poiché i loro Pokémon erano stati presi in custodia dall’infermiera, altrimenti sarebbe stato facile percepire i loro pensieri per trovarne la stanza. Non aveva idee, era pure abbastanza infastidito. Decise di provare il tutto per tutto.
«Dammi una mano» sussurrò al suo Arcanine, estraendolo dalla Ball.
Quello neanche attese un ordine, nella sua mente sapeva già cosa fare. Sbuffò, facendo scoppiettare delle fiamme tra le fauci possenti, una consistente nuvoletta di fumo si librò nell’aria, raggiungendo il soffitto.
«Ottimo lavoro» si complimentò Kalut, facendolo rientrare.
Il fumo sembrò scomparire, disperdendosi nell’aria e raggiungendo il rilevatore antincendio. L’allarme si attivò, la sirena cominciò a gridare, le porte si sbloccarono e le fontanelle iniziarono a gettare acqua in tutto il corridoio e all’interno delle camere. Kalut vide i due Ranger precipitarsi fuori per primi, seguiti dalla donna che aveva ancora i capelli bagnati e infine dall’uomo, che stava riattaccando il telefono in faccia a sua moglie. Per il ragazzo dai capelli bianchi non fu difficile non dare nell’occhio, nel caos generale. Finalmente, per ultimi, uscirono pure i due Dexholder.
«Eccovi, maledizione» li intercettò Kalut.
«Che diavolo succede?» chiese Green, infastidito dall’allarme e dalla pioggerellina artificiale.
«Dobbiamo raggiungere Rupepoli, datevi una mossa e recuperate le vostre cose» li pressò il ragazzo.
«Aspetta, che cos’è questa fretta? E Ruby e Sapphire?» domandò Blue.
«Appunto, sbrigatevi!» li spinse.
I due Dexholder di Kanto tornarono in stanza e ne uscirono qualche secondo dopo con le giacche e le valigie. Corsero tutti fuori dall’area riposo, insieme agli altri Allenatori. Nella sala principale del Centro, si era ammassato un gruppo di curiosi e i tre ragazzi furono costretti a muoversi tra la calca. Fortunatamente, l’infermiera aveva lasciato il bancone per tentare di calmare la clientela e l’addetto alla sicurezza stava combattendo con la sicura di un estintore, quindi Green e Blue riuscirono a riprendere le loro Ball dal banco attesa senza essere visti. Quando corsero fuori dal centro, tutti furono investiti dal terribile freddo esterno: avevano i vestiti fradici e la temperatura percepita era di parecchi gradi inferiore rispetto a quella effettiva.
«Puoi spiegarci che succede?» fece Green, battendo i denti.
«Ho aspettato per ore, ma Ruby e Sapphire non si sono presentati: ho appena saputo che si trovano a Rupepoli» spiegò.
«Che diavolo ci sono andati a fa...» fece Blue.
«In ospedale» aggiunse Kalut, facendo scendere il buio sui loro volti.
I tre Allenatori si diressero verso est, lottando contro le avverse condizioni meteorologiche. Kalut li guidava, a passo spedito. Il ragazzo dai capelli bianchi aveva quasi dimenticato di chieder loro se sapessero del caos che aveva investito Unima, dove si trovavano Gold, Celia e Platinum, ma la situazione critica lo costrinse ad affrontare un problema alla volta: prima Ruby e Sapphire, poi Austropoli.
«E’ stabile» affermò stancamente il chirurgo, togliendosi la mascherina.
«Hai dovuto amputare?» chiese uno dei medici.
«E’ tutto sulla cartella, comunque no, sono riuscito a salvargli entrambe la gambe, ha un organismo stranamente forte» sotto i loro occhi, il paziente veniva trasportato dalla sala operatoria ad una normale camera, seguito dalla flebo di morfina e dall’ECG.
«Incredibile... il Campione della Lega di Hoenn comparso misteriosamente a Sinnoh, in fin di vita e mezzo congelato» commentò il secondo medico «chi se la scorda, questa?»
«E la ragazza?» chiese il chirurgo, cominciando a camminare lungo il corridoio.
«Oh, lei è Sapphire, anche lei tra i pezzi grossi del World Tournament, era anche lei tra gli eroi che ha salvato Vivalet».
«Intendevo dire: come sta?» precisò il chirurgo.
«Non ci crederai mai» rispose il collega.
«Che cosa intendi dire?»
I due, intanto, avevano raggiunto la stanza in cui Sapphire stava riposando, ancora sotto l’effetto dell’anestesia.
«Il dottor Gordon ha inciso, per verificare l’entità dell’emorragia. Nel suo addome aveva delle schegge di metallo, secondo gli esperti sono i frammenti di una granata M67» spiegò il medico.
«Una bomba a mano?» chiese stupito il chirurgo.
«Aspetta, non è questa la parte più assurda, lo sai cos’è successo alla ragazza un istante dopo?»
«Cosa?»
«L’incisione si è rimarginata da sola» rispose il medico.
Il chirurgo tentò per qualche secondo di comprendere se il collega lo stesse prendendo in giro o fosse solo stremato dai turni di lavoro disumani.
«Stai scherzando» realizzò.
«No, è successo sotto gli occhi di tre medici, due infermiere e un anestesista. E in più ci sono i video dell’operazione» continuò il medico, serissimo.
Sapphire aprì gli occhi.
Si trovava in una stanza sconosciuta, non riusciva a ricordare come vi fosse arrivata. Ripercorse i nastri della sua memoria, guardandosi attorno spaesata. Ricordava la neve, i giorni trascorsi al gelo sulle vette del Monte Corona. Pian piano, qualcosa riaffiorava. Ricordava la Vetta Lancia, la lotta, il nemico.
Da lì, tutto diventava fumoso.
Si rese conto di essere sdraiata su un letto, ma di non essere affatto stanca. Portò le gambe fuori dal letto, facendo attenzione a non rimanere mezza nuda, considerata la consistenza di quel camice da paziente che stava indossando. Staccò la flebo, si tolse i sensori dell’elettrocardiogramma, che smise di emettere quel fastidioso bip a intermittenza, e balzò in piedi. Raggiunse il bagno, poiché sentiva il bisogno di sciacquarsi la bocca e il viso. Si ritrovò davanti alla sua immagine riflessa nello specchio che si trovava sopra il lavandino.
Sussultò.
Aveva dei segni sul collo, sulle braccia, sulle gambe: delle linee blu e rosse, pulsanti, quasi luminose. Seguendone il tracciato con lo sguardo, tolse il camice e si rese conto di essere quasi del tutto coperta da quei disegni. Erano gli stessi che aveva visto sul corpo di Ruby: quelli generati dall’assorbimento delle gemme di Groudon e Kyogre.
Improvvisamente, ricordò. La granata, l’esplosione, il dolore, le grida, il mondo che diventava nero, scuro, le sue palpebre che si facevano pesanti: tutto tornò a galla, riportandole alla mente i brividi di quell’esperienza orribile. Poi, il suo ippocampo riportò alla luce un istante particolare, quello in cui il suo corpo, ormai cedevole di fronte alla morte imminente, aveva percepito e imbrigliato un’energia esterna talmente forte da riportarla quasi ad uno stato di coscienza. Era stranissimo, paradossale: le sembrava di riuscire a ricordare il momento in cui era nata. Aveva provato quella sensazione, quando Ruby le aveva ceduto le gemme.
Ricostruendo la sua memoria pezzo dopo pezzo, Sapphire studiava il suo nuovo corpo: incapace di percepire la temperatura esterna e ricoperto di tatuaggi colorati, linee geometriche e cicatrici sbiadite, irretito di una forza che sembrava provenire dall’universo circostante, come se il mondo stesso fosse collegato al suo sistema nervoso e scambiasse costantemente impulsi con il suo cervello.
Poi giunse ad una realizzazione terribile: se le gemme erano nel suo corpo, Ruby era rimasto senza. Fu terrorizzata da tale prospettiva: detestava essere aiutata dagli altri, ma soprattutto non sopportava l’idea di aver portato al sacrificio il ragazzo di cui era innamorata.
Rimise il camice e si precipitò fuori dal bagno: trovò due medici e un’infermiera che erano balenati nella sua stanza non appena l’ECG scollegato aveva mandato loro un segnale di allarme. Sapphire scrutò uno per uno i loro sguardi, allibiti dalla sua perfetta forma fisica e mentale.
«Dove si trova il ragazzo che era con me?» chiese.
Trascorsero venti minuti infernali: i medici insistevano affinché lei continuasse ad assumere gli antidolorifici e si sottoponesse ad un intero pomeriggio di esami e verifiche, le infermiere tentavano in tutti i modi di riportarla sul lettino e di farla calmare. Sapphire non voleva saperne: lottava con le unghie e con i denti per liberarsi da quel nugolo di dottori e uscire a cercare Ruby. Alla fine, una delle infermiere fu costretta a pungerla a tradimento con una siringa di morfina che la stese immediatamente, lasciandola inerte sulle lenzuola che sapevano di disinfettante.
Kalut, Green e Blue giunsero a Rupepoli a tarda sera. Dovettero chiudersi nel primo Centro Pokémon per riacquisire una temperatura corporea accettabile e far riprendere colorito alla pelle. Erano ormai abituati alla lunghe scarpinate in montagna, erano reduci da cinque giorni di escursione privi di pause, ma ogni volta sembrava che il freddo avesse perfezionato il suo metodo di tortura. Ordinarono dei caffè bollenti che Kalut, avendone già fatto il pieno a Mentania, rifiutò educatamente e poi ripartirono in fretta alla volta dell’ospedale, che si trovava nel quartiere nord della città. I tre ragazzi avevano appena messo piede sull’asfalto dopo aver attraversato il Percorso 215, intricato labirinto di alberi e ponteggi, e rimasero impressionati dal volto che Rupepoli mostrava loro in quella situazione così invernale: i gradoni regolari e perfetti su cui era stata edificata erano stati ricoperti da mantelli di neve a loro volta geometrici e paralleli l’uno all’altro; il panorama cittadino appariva armonioso e preciso, come una grande architettura razionalistica. Passarono per il centro, dove le strade erano state liberate dagli spazzaneve, ma il traffico era ancora precluso alle automobili, passeggiando tra quei piani bianchi e perfetti giunsero finalmente alla facciata della metropoli che dava sul mare: la zona meno congelata della città.
Si resero conto che, nonostante le condizioni surreali, la popolazione sembrava essersi svegliata dal torpore. Nei primi giorni di gelo, Sinnoh sembrava morta, soffocata sotto il peso della neve; passato del tempo, per fortuna, qualcuno aveva ritrovato il coraggio di uscire di casa: alcune attività avevano riaperto, i servizi erano tornati attivi, le persone avevano ripreso ad uscire. La vita sembrava rinascere, dopo quel gelido inferno, soprattutto dopo i tragici resoconti a proposito di un numero di morti che raggiungeva le cinquecento persone in tutta Sinnoh.
I tre Allenatori entrarono nella sala d’attesa dell’ospedale e chiesero informazioni all’infermiera del banco ricezioni. Vennero guidati in un corridoio nel reparto riabilitazione e raggiunti da un medico dalla carnagione scura e l’accento del sud, probabilmente non originario di Sinnoh.
«Siete gli amici di Sapphire Birch e Rubin Harmonia?» domandò l’uomo in camice.
«Stanno bene?» chiese Blue, preoccupata.
«Sapphire è stabile, le sue condizioni non erano critiche, ma stiamo facendo ancora alcuni esami, a breve dovrebbe svegliarsi... il suo è stato un caso veramente particolare» esordì lui, indicando la stanza in cui riposava la Dexholder di Hoenn «Ruby ha rischiato di più, era ferito alle gambe e ha veramente sfiorato la morte per ipotermia e dissanguamento, è stato in sala operatoria per parecchie ore, ma anche lui si riprenderà, si trova in terapia intensiva» concluse il medico.
«Che cosa avevano, di preciso?» chiese Kalut.
«Non siamo ancora sicuri, è difficile identificare le cause delle loro ferite, ma durante l’operazione di Sapphire, i chirurghi hanno rinvenuto nel suo corpo alcune schegge metalliche probabilmente provenienti da una granata» rispose quello.
«Una granata?» ripeté, incredula, Blue.
«Sì» il medico si fece più cupo «proprio per questo devo chiedervi di attendere, prima di parlare con i due pazienti, probabilmente dovremmo chiamare la polizia e fare degli accertamenti» concluse.
«Non possiamo neanche vederli?» chiese Green.
«Vi consiglio di attendere in sala d’aspetto, riceverete degli aggiornamenti» si congedò il medico, passando alla terza cartella che aveva in mano.
I tre ragazzi furono condotti nuovamente sui divanetti, dove sedettero controvoglia e scomodamente. Che diavolo era successo a Ruby e Sapphire? Non era il momento di infilarsi in altri guai da dover strecciare, avevano bisogno di muoversi.
«Hai trovato qualcosa?» chiese Green a Kalut, rompendo il silenzio imbarazzante.
«Sì, adesso entrerò nella stanza di Sapphire, ho bisogno di tutti al più presto possibile» rispose lui.
«No, parlavo del Monte Corona...»
«Oh» ricordò Kalut, elaborando tutte le dodicimila informazioni che avrebbe comunicato loro se non si fosse presentato questo ulteriore inconveniente «sì, ma aspetterò che sarete tutti per spiegare».
Il responso positivo risollevò il morale di Green e Blue, che avevano viaggiato nella neve per cinque giorni senza ottenere niente, ma l’attesa li infastidì parecchio.
«Mentre recupero Sapphire, guardatevi un notiziario» disse loro Kalut, lasciando la sala d’attesa.
Green e Blue non capirono, ma seguirono il suo ordine: Kalut non parlava mai a sproposito e faceva sempre le cose per una precisa ragione. Strapparono ad un bambino il telecomando della tv che si trovava in quella saletta e rimpiazzarono Spongebob con un telegiornale, scatenandone le ire. Ma non c’era tempo per guardare cartoni animati e compresero immediatamente perché.
«La situazione è ancora critica ad Austropoli, il gruppo terroristico tiene ancora la città in ostaggio» diceva il presentatore «non è più possibile accedervi o uscirne e resta difficile mettersi in contatto con i cittadini. Le ultime comunicazioni dei criminali non fanno accenno ad alcuna condizione di resa, attualmente, non si conoscono le motivazioni che li hanno spinti a prendere il controllo della metropoli e, mentre le forze dell’ordine cercano una mediazione, la situazione resta ancora paralizzata da giorni...»
Blue e Green rimasero senza parole. Le foto che i reporter in elicottero stavano mandando in diretta erano apocalittiche: Austropoli, la città più grande di tutte le regioni, sembrava un inferno: il Ponte Freccialuce era stato abbattuto e allo stesso modo i cinque moli che davano sulla costa, da numerose zone della metropoli si alzavano verso l’alto delle scure colonne di fumo, sui tetti dei palazzi si erano appostati dei tipi armati di fucili di precisione e per le strade non sembrava esserci anima viva, soltanto qualche cadavere lasciato sul marciapiede e qualche auto abbandonata in mezzo alla strada.
Blue strinse il braccio del suo ragazzo «Dobbiamo contattare Gold, Platinum e Celia» disse «loro si trovavano là».
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