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Andy Black - Unravel Me - 13: (Tredici) XIII

UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).



“Alla fine quella rabbia la capisco.
Capisco il motivo per cui tu sia sparito, e anche perché hai deciso di volerti ergere al di sopra della cosa.
Ma davvero, durante tutto questo tempo, non ti sono mancata?
Davvero non hai sentito la necessità di vedermi? Di sentire la mia voce?”.


Unima, Austropoli, Hotel Continental, 12 Maggio 20XX

Carico.
Ma di rabbia.

Sbatté la porta con così tanta veemenza che il quadretto appeso accanto allo stipite destro, che raffigurava un bellissimo golfo tropicale, cadde dal chiodo.
Ruby non se ne accorse nemmeno, limitandosi a sollevare la valigia e a buttarla di peso sul letto.
“Cazzo…” disse, tra le interferenze. “Non ci posso credere…”.
Rimase poi immobile per un attimo, spaesato.
Cosa sarebbe successo da quel momento in poi nella sua vita?
Era rimasto sotto le macerie di un castello ormai crollato, che aveva costruito con impegno mattone dopo mattone, dal ponte all'ultimo merlo dell'ultima torre.
E si vedeva inerme, davanti alle mura crollate, con la paura di voltarsi, perché uno scenario simile lo avrebbe atterrito.
Mezza giornata in aereo passata a guardare il cielo azzurro diventare nero, a odiare la vita tra i denti e a ripetere nella mente quelle parole affilate come la mannaia che aveva reciso il cordone con l’altra metà di lui.
Decise di mordersi la lingua: doveva smetterla di guardarla in quel modo.
Era la metà marcia di lui.
Quella che fino a quel momento l’aveva affossato.
Quella che aveva impedito alla sua stella di brillare, semmai ne avesse posseduta una.
Sbuffò ma poi strinse i denti. Volse lo sguardo lontano dalla valigia, che aveva appena poggiato sul letto.

Lo sapeva.

Sapeva che stava per pugnalarsi con le proprie mani, facendo harakiri: quel vestito, dalla borsa, non voleva proprio prenderlo.
Perché gli ricordava quanto fosse vicino al paradiso, prima di sprofondare in quell’inferno così denso e poco nitido.
Ma lo fece lo stesso, prendendo una stampella e rendendola ossatura per quell’abito, che strinse tra le mani per un secondo di troppo.

Sarebbe sembrata una principessa, lì dentro.
La immaginava, col sorriso calmo e gli occhi che aveva mentre si trovava immersa nella natura, suo habitat.
Pensò poi che forse la donna avrebbe sofferto il distacco dalle foreste e dal mare pulito, e dal profumo dell’erba bagnata in favore di quello dei gas di scarico delle automobili di Austropoli.
Dal sole che s’insinuava tra le fronde delle palme e degli alti ebani di Forestopoli, e dalla jacaranda che fioriva ogni primavera, dove si erano rincontrati per la prima volta quando si erano rivisti, dopo anni.
Sapphire non era fatta per quella città. Già a Ciclamipoli le mancava l’aria.
Eppure quell’abito la mostrava beata.
Passava le dita attorno al pizzo leggero della scollatura, e immaginava il seno della ragazza. Il tessuto si stringeva, e avrebbe incontrato i suoi fianchi morbidi.
E sarebbe stata la donna più bella del mondo. E l’avrebbe reso felice.

Se soltanto non fosse stata così piena di veleno…

La rabbia sostituì la tristezza, per un breve attimo.
Gli parve di averla davanti, coi capelli bagnati e le cosce scoperte dalle gambe slargate dei pantaloncini azzurro e il fuoco negli occhi.
Lo stesso fuoco che aveva lui, negli occhi. In quegli occhi che ormai l’avevano proiettata proprio davanti a lui, in quel vestito.

“Perché?!”.

Aveva urlato con forza. Non lo faceva mai.
La voce dell’uomo rimbombò nella camera, dove il silenzio era disturbato soltanto dal lontano vociare in strada, e da qualche clacson in lontananza.

“Perché hai dovuto rovinare tutto?! Perché?!”.

Gettò il vestito sul letto, con foga, e poi urlò ancora, coi pugni stretti e col viso rivolto al soffitto.
Si sentiva un imperatore deposto, un re senza trono.
Gli mancava qualcosa che gli spettava di diritto e tutta la colpa veniva addossata a quell'abito, che prendeva il volto di Sapphire, con gli occhi di Sapphire e la bocca di Sapphire. Quasi lo sentiva rispondere, inveirgli contro che fosse uno stupido privilegiato.

Era solo disperazione, quella che gli fluiva nelle vene, come un fiume in piena.
No.
Disperazione e rabbia.
Era furioso con lei, e rivedere il suo volto in quel vestito lo fece sentire ancora una volta debole, ancora una volta vulnerabile ai fendenti che la sua mente, e la sua memoria, continuavano a lanciargli contro.
Il suo orgoglio sanguinava. Il suo cuore languiva.

“Come ti sei permessa, eh! Tirare in ballo mio padre per avere ragione in una tua stupidissima discussione!”.
Saltò sul letto, atterrando con le ginocchia sul morbido tessuto che aveva cucito per mesi, minuziosamente.
“Mio padre! Come se già non ci stessi male!” urlò, con le lacrime puntate agli occhi. “Come se tutta questa faccenda mi avesse fatto soltanto piacere! Meglio cazzeggiare ed essere felici come me, piuttosto che fare ciò che fa tuo padre, soltanto per fare piacere a lui! Tu, che sei tutto tranne che una studiosa! Nel fango, ti ho conosciuta!”.
E poi colpì l'abito con un pugno, proprio sulla spallina destra, condendo il tutto con un urlo.
“Nel fango!” ripeté. Una lacrima cadde, lasciando a malincuore le rime dei suoi occhi e terminando sul tessuto blu.
“E puzzavi di merda! Selvaggia che non sei altro! Se non mi avessi mai incontrata probabilmente saresti finita a vivere a Forestopoli, in mezzo alle scimmie! Sporca e puzzolente! Ti ho fatta diventare un essere umano, ti ho dato dei vestiti, ti ho protetta, ti ho amata! Io ti ho amata!”.
E tutta quella foga, quella rabbia che aveva caricato il suo cuore, lasciando che battesse come un martello pneumatico, sfumò verso l'alto.
S'accasciò lentamente sul letto, accanto all'abito. Stringeva la spallina nel pugno mentre affondava la faccia nel copriletto. Profumava di pulito.
“Io ti ho amata...” ripeté, mentre le lacrime fluivano rapide. “Ti ho amata con tutto me stesso, mentre la vita proseguiva e le scelte diventavano difficili... E io mi ritrovo a piangere come un... un deficiente...”.
La sentì. Salì di nuovo, rapidamente.
“Come un deficiente!”.
La sua voce rimbombò nelle quattro mura di quella prigione dorata. S'inginocchiò di nuovo, dando ancora una grande manata al materasso, immaginando la faccia di Sapphire al posto del cuscino.
Lo colpì due volte, con una violenza che pensava d'esser riuscito ad affogare anni prima.
“Come un deficiente mi sono lasciato traviare! E tu mi hai posto davanti a una scelta, dopo che per anni mi sono dovuto adattare alle scelte di mio padre, trasferendomi in un posto dove non c'è nulla, tranne che mare, e pazzi! Quando ho trovato ciò che mi piace hai trovato anche...”.
Altro colpo.
“Anche!”.
Di nuovo.
“Anche l'ardire di lamentarti! Io mi sono sempre sentito inadeguato! Solo qui a Unima sono riuscito ad essere me stesso e adesso vuoi levarmi anche questo?!”.
Afferrò l'abito per le spalline e lo strinse con rabbia.
Altre due lacrime attraversarono le ciglia e percorsero rapidamente il viso paonazzo del razzo.
“Anche questo, Sapph?! Vuoi levarmi anche questo?! Dopo tutto quello che ho dovuto subire?! Dopo tutte le volte che ho cercato la luce in quegli occhi?! Perché?! Cazzo, perché?!”.
E tirò con forza, strappando il vestito sul petto.
Lo guardò, rimanendo immobile.
“Ti odio, brutta stronza egoista! Ti odio!”.
Si alzò di fretta e appallottolò il vestito, lanciandolo nell’armadio. Poi sbatté le ante, pieno di rabbia. Avesse avuto la possibilità di spaccarle lo avrebbe fatto. Corse verso il comodino accanto al letto e spalancò il primo cassetto.
Lo scatolino di Xanax era lì, e attendeva soltanto che le sue mani lo prendessero.
Lo fece, strappò con foga la linguetta e staccò tre compresse dal blister.
Ansiolitici. Sedativi.
Ne staccò un’altra, poi rivide l’espressione di odio di Sapphire mentre lo aveva schiaffeggiato.
E ne staccò un’altra.
“Solo una stronza egoista…” sussurrò. Guardò le pillole e le buttò giù a fatica. Non ci volle molto prima che lo sguardo gli si appannasse.
Ebbe il tempo di muovere qualche passo distratto verso il centro della camera prima che le forze lo abbandonassero.
S’accasciò lento per terra, dapprima inginocchiandosi, puntellando le mani sulla moquette polverosa, ma poi sentì l’energia venire meno.
La spalla destra non resse più il suo peso, il braccio si piegò e lui rovinò per terra, con le lacrime sul viso e gli occhi semichiusi.

E si addormentò.

*

Bam – Bam.

Fu quel rumore a svegliarlo. Qualcuno bussava alla porta, ripetutamente.
“Ruby! Ouvrir! Je sais que tu es à l’intérieur!”.
La testa scoppiava ancora. Pulsavano, le tempie.
“Ruby!”.
Batté gli occhi un paio di volte ma non riusciva bene a mettere a fuoco ciò che vedeva. Poi si focalizzò lentamente su quegli stucchi intarsiati nella cornice del controsoffitto, e sul lampadario elegante, le cui luci erano dormienti.
Si chiedeva da quanto tempo stesse dormendo.
Ruby! Le voisin de la pièce vous a entendu! So che sei tornato!”.
Provò con tutto se stesso a trovare un motivo per non alzarsi da lì. Purtroppo non ne aveva.
Fece uno sforzo sovraumano e si piegò in due.
La gran parte del lavoro era stato fatto.

Bam – Bam.

”Ruby! Butto giù la porta!”.
Si chiese che intenzione avesse di fare, Yvonne, urlando in quel modo. La sua voce risuonava come un trapano ai lati della fronte. Avrebbe voluto urlarle di aspettare un attimo, che si sarebbe alzato da terra non appena avesse trovato la facoltà di farlo, ma la bocca era troppo impastata.
So che sei dentro! Il cellulare ha squillato per ore!”.
“Yv… onn…” fece, rimestando poi in bocca quel sapore metallico che provava ogni qualvolta dormisse troppo e male.
Aveva fame.
Apri questa dannata porta, Ruby! Per favore!”.

Aspetta.

Si accorse poi di non aver parlato.
Cercò di biascicare qualche parola ma la lingua non funzionava a dovere. Si voltò e poggiò la schiena all’armadio.
“Ruby, cazzo, aprì questa porta!”.
Fece forza sulle gambe, ma parvero non funzionare. “N..no…” sussurrò ancora, senza urlare a sufficienza. Yvonne non lo avrebbe mai sentito in quel modo.
Il suo cervello mandò molto lentamente il messaggio alle spalle di abbassarsi. Recepito il messaggio, strisciò per terra a fatica, fino a raggiungere la porta.
Sento i rumori, Ruby! Apri, ti prego! Je crains!”.
Ruby pensò al significato di quelle parole: aveva paura.
Ma lui stava bene. Aveva soltanto la testa pesante e la lingua secca e spaccata. E il sapore di sangue in bocca.
E tutto pareva muoversi lentamente.
Guardò la maniglia, mentre Yvonne continuava a battere i pugni sulla porta.

Bam – Bam.

Doveva solo alzare la mano.

Forza…

Aveva bisogno di aiuto, anche se stava bene. La sua testa gli mandava segnali contrastanti. Sapeva che il fatto di non riuscire a stare in piedi fosse un problema ma in fondo sentiva una sensazione di piacere diffusa a tutti gli arti.
La sua mente era al caldo mentre fuori imperversava la tempesta.
La mano saliva lenta verso l’ottone della maniglia e intanto si chiedeva i motivi di quella sua condizione, così insolita.
Cosa gli era successo?
“Ruby!”.
Le dita carezzarono la maniglia e lentamente la brandirono, fino a quando la serratura non scattò.
Rotolò di lato, lui, prima che la porta si spalancasse sotto la spinta ricca di foga della ragazza di Kalos.
Lo sguardo di quello era ormai annebbiato. Percepì la presenza della ragazza, ne sentì il profumo, dolce come l’ambrosia.
“Ruby!”.
La sua voce era terribilmente preoccupata. Fu l’ultima cosa che sentì, prima che gli occhi si chiudessero e tutto ciò che prima era ovattato diventasse il buio.


Unima, Austropoli, West Memorial Hospital, poche ore dopo

Gli occhi di Ruby si riaprirono lentamente. Non sapeva da quanto tempo il fastidioso rumore intermittente dei macchinari del West Memorial stesse convivendo coi suoi pensieri ma voleva che terminasse. La testa ormai scoppiava.
“ Ruby... si sta svegliando”.
Era Yvonne, la donna che parlava accanto a lui. Quello girò lentamente il collo, col viso colmo di confusione e stanchezza, e la vide: gli occhi della donna erano grigi acquitrini pieni di stanchezza e speranza ritrovata. Le lacrime cadevano lungo il viso stanco ma il sorriso, quel sorriso limpido, riuscì a donare serenità al ragazzo.
“Fa’ vedere, levati davanti” aveva risposto qualcun altro, con tono sgarbato e prepotente.

Sapphire, pensò Ruby. Non voglio stare con lei. Non voglio che sia qui. Io non la voglio più vedere, Sapphire.

“... in diretta da Ebanopoli dove la Palestra è stata appena...”.

“E spegnete questa televisione! Ruby!” aveva urlato White, spostando di peso Yvonne.

Era White. Non Sapphire. Sapphire non è qui.  

Si sistemò e vide la Presidentessa mentre si sedeva al posto di Yvonne, su di una piccola sedia di plastica grigia.
“Signor Normanson, devi smetterla di finire in ospedale”.
White sorrise a sua volta e carezzò il viso dello stilista, saggiando con le dita la barba di un giorno che era cresciuta e che non aveva avuto l’opportunità di radere. Gli occhi grandi e blu erano vispi e i capelli erano perfettamente stirati. “O almeno, non venire sempre al West Memorial… è dall’altra parte della città”.
“Hai... ragione...” biascicò lui, parlando con difficoltà.
“Che diamine ti è saltato in mente?! Ma sai quello che fai?!” urlò ancora White, gesticolando vistosamente. “Io sto per sposarmi e tu hai intenzione di morire?!”.
Ruby sorrise e chiuse leggermente gli occhi.
“Auguri” disse, in un sospiro. Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse cambiato nel suo rapporto, che lei stessa aveva descritto come parecchio difficoltoso, ma non ne aveva le forze.
“Mi preparerai un bel vestito? Verrà la creme di Austropoli, tutta gente con soldi e potere...” sorrise. “Sarà una pubblicità perfetta per l’atelier”.
Yvonne sospirò. “Forse non è il caso di parlare di lavoro, adesso, White”.
Quella si voltò e annuì.
“È vero, scusami”. E mentre lo guardava, steso in quel letto d’ospedale cercava in tutti i modi di demonizzare la paura che aveva provato quando qualche ora prima Yvonne l’aveva chiamata, terrorizzata.

“White! Sto portando Ruby all’ospedale!”.
“Di nuovo?!”.
“Ha ingoiato non so quante pillole di… di… Xanax”.
“È un ansiolitico! Lo prendo anche io… Corri lì, potrebbe essere pericolosissimo!”.
“Lo so, White!”.

E ricordava il terrore nella voce della sua modella. Quel terrore che in fondo aveva provato anche lei. Il suono del cellulare la distrasse dai suoi pensieri.
“Con permesso” fece, voltandosi e immettendosi nel corridoio, sparendo dalla vista di Ruby e Yvonne.
Quella riprese lentamente posto accanto a lui. Si guardarono in silenzio per quasi venti secondi, prima che il ragazzo abbassasse gli occhi e li nascondesse dietro la coperta delle palpebre.
“Che hai combinato?” chiese la donna, con una dolcezza quasi disarmante, in un sussurro.
Quando vide le lacrime attraversare le ciglia strette intuì che qualcosa nella sua proposta di matrimonio non fosse andata a dovere.
“Niente… ne parliamo poi…”.
“Ho avuto paura” ribatté subito lei. Ruby riaprì gli occhi e pulì le lacrime col dorso della mano. La vedeva nuovamente piccola e fragile, lei, che aveva calcato le passerella ed era diventata la più forte tra i giganti. “Ti chiamavo, ho sentito che eri tornato prima e avevo intuito che qualcosa non andava perché ho ascoltato il tuo… il tuo sfogo, ecco…”.
I suoi occhi si abbassarono. Ruby la lasciò lì e si sistemò supino, affondando la testa nel cuscino.
“Mi spiace aver urlato quelle cose…”.
Yvonne sospirò e tornò a puntare quei fari grigi su di lui. Gli afferrò la mano e abbozzò un mezzo sorriso.
“A me spiace che le cose con lei non siano andate come dovevano… Non so, ora, cosa sia successo, ma vederti felice era tutto ciò che volevo…”.
“Non sempre possiamo raggiungere la felicità, Yvonne…”.
“Lo so. Ma possiamo andarci vicini” sorrise ancora, portando la mano del ragazzo al cuore. Ruby lo sentiva battere forte. “Ho avuto paura che potessi morire… Perché hai provato a ucciderti?”.
Ruby tornò a guardarla. “Non ho provato a uccidermi… Ero un po’… upset, ecco”.
“Hai ingoiato mezzo blister di pillole, Ruby. Che avevi intenzione di fare?”.
Inizialmente si limitò a star zitto, lui. Poi parlò.
“Volevo solo stare bene”.
Yvonne sorrise amaramente. “Sono le persone che hai accanto a farti star bene. Le soddisfazioni sul lavoro, i tuoi abiti, le tue creazioni. La donna che ti ama. Non gli psicofarmaci”.
“Nessuna donna mi ama”.
Yvonne batté le palpebre due volte. “Una donna che ti ama c’è…”.
“Mi ha umiliato…” pianse silenzioso. “Dopo tutto quello che ho fatto per lei… Dopo tutti i sacrifici. Sono morto e rinato, per vederla sorridere. Giorno dopo giorno il mio unico scopo era fare di lei la mia regina. E le ho dato il mio cuore. Voleva di più”.
“Cosa voleva, Ruby? Cosa si può voler di più da un uomo come te?” chiese Yvonne, stringendogli ancora la mano.
“Voleva che lasciassi Unima. Che smettessi di cazzeggiare… perché per lei questo non è un lavoro serio. E ha tirato in ballo mio padre…”.
“Tuo padre?”.
“Non mi ha mai accettato. Ha sempre pensato che fossi un disadattato, debosciato… Un poco di buono. Scommetto che prima che conoscessi Sapphire ha pensato che fossi gay…”.
“Come se ci fosse qualcosa di male”.
“Mio padre è vecchio stampo”.
Yvonne abbassò lo sguardo. “Rimane tuo padre. E ti ama sicuramente”.
“Sento che non mi stima. Sento che non lo fa… Vorrebbe un figlio con la testa sulle spalle, più serio e con un lavoro vero”.
“Il tuo è un lavoro vero. E tu sei un ragazzo serissimo e pieno di bontà”.
La bionda gli strinse la mano, poi gli carezzò il volto.
“Io non dimentico che sei stato tu a convincermi a uscire dalla merda in cui vivevo, con Sergei, e la comune… Non dimentico che hai preso a schiaffi Marlon Merlin per me, e mi hai difeso ogni volta che questa città ha provato a sputarmi in faccia. Nonostante fossi rimasta nuda davanti a te tu non hai mai alzato un dito su di me”.
“Sei il mio lavoro” si giustificò subito lui. “Altrimenti non avrei potuto resistere”.
Yvonne sorrise, avvampando. “E io sono onorata di esserlo. Ma tu devi essere fiero di ciò che sei” fece, non riuscendo a celare quel marcatissimo accento francofono. “Hai lottato per perseguire i tuoi sogni e superato tutti gli ostacoli. Sei bravo. Sei buono”.
I due si guardarono per un attimo, lungo e intenso.
E nonostante Sapphire ancora bruciasse ardentemente nei suoi pensieri, dopo quelle parole a Ruby venne voglia di baciare Yvonne.
“Sei una delle persone più care che ho” continuò lei.
“Anche tu. E mi hai salvato la vita”.
Quella abbassò la testa, avvicinandosi al volto del ragazzo, e appoggiò la fronte contro la sua. Ruby riusciva a sentire il profumo della donna, così pungente e dolce. Le sue labbra erano a pochi centimetri ma i loro occhi ancora continuavano a tenersi per mano.
Stettero così per un minuto che durò un’ora. Lui pensava al fatto che forse Yvonne sarebbe stata la scelta migliore di vita, per lui: viveva ad Austropoli, lavorava nel suo stesso campo, vivevano nello stesso mondo.
Parlavano la stessa lingua.
Lei indossava una bellezza senza eguali, e la femminilità che esprimeva con ogni movimento e ogni parola era pura ispirazione per quell’uomo.
Ed era protettiva, nei suoi confronti, e la cosa cancellava quasi totalmente la solitudine in cui stava annegando.
Yvonne ovviamente non era Sapphire; non era quella scelta di vita presa da ragazzino e continuata a sostenere per paura di trovare il nulla, oltre il muro.
Sapphire non era certamente la donna più femminile del mondo, e il suo corpo non era quello delle modelle da copertina patinata: era bassina, coi fianchi piuttosto larghi, i seni grossi e un piccolo accenno di cellulite.
Yvonne era il sogno, esteticamente, mentre Sapphire era la più vera delle donne.
E il fatto che, in quel momento, a tiro di bacio ci fosse il sogno e non la verità lo confondeva, e contemporaneamente lo poneva davanti al dubbio.

Merito il meglio?

Non ebbe il tempo di rispondere a quel quesito che Yvonne staccò la fronte dalla sua, sorridendo stanca.
“Ti dimetteranno domattina…”.
“Avete telefonato Sapphire?” chiese lui.
La modella fece cenno di no con la testa. “Volevo avvertirla ma non ho trovato il tuo telefono e non conosco il suo numero”.
“Perché l’ho buttato via. Non voglio più sentirla”.
Yvonne abbassò lo sguardo per un secondo, per poi risollevarlo. Ruby continuò a parlare.
“Voglio che sparisca dalla mia vita. Domani cercherò un appartamento più vicino all’Atelier”.
“A-andrai via dall’hotel?” domandò, allungando la e finale.
“Sì. Non voglio che mi trovi”.
Yvonne era confusa ma si limitò a fare spallucce. “È la tua vita. Io ho bisogno di fare una doccia e di riposare, ma verrò a prenderti domani”.
“Sei gentile”.
“Ti lascio nelle mani di White”.
Si abbassò verso di lui e gli lasciò un morbido bacio sulle labbra, quindi si voltò e se ne andò.


Unima, Austropoli, Hotel Continental

Trascinava la testa, Yvonne, da un lato all’altro del poggiatesta del vecchio taxi con cui stava ritornando in albergo. Poco dopo esser saltata sulla Ford Crown Victoria, che col suo giallo acceso tagliava in due il grigiore notturno di Austropoli, qualche goccia di pioggia cominciò a bussare gentile sul parabrezza, per poi insistere con tenacia, fino a quando la donna non riuscì più a distinguere l’acqua che cadeva sul tettuccio della macchina dal rumore dei suoi pensieri.
Era stanca, lei. Aveva voglia di riempire la vasca della sua camera con acqua calda, stringere tra le mani un calice da svuotare e mettere sulla faccia la costosissima crema che aveva deciso di regalarsi il giorno prima.
L’aveva acquistata in una piccola erboristeria tra la sedicesima e Samuel Oak Street e il commesso, un giovane ragazzo dai lunghi capelli scuri e dal grembiule verde scuro coi costoni intrecciati sulle spalline, aveva detto che era un toccasana per le pelli stressate dai cosmetici.
Come la sua.
Se ne sarebbe spalmata un po’ in viso e poi si sarebbe immersa in un fine giornata liquido e ristoratore, al sapore di vino rosso.
“Sono diciotto e settantatré” aveva detto il tassista, la cui voce non andò oltre il risultare un cupo e timido sottofondo all’orchestra di quel tempo grigio.
Yvonne aveva aperto la borsetta, cercato un biglietto da venti e sospirato, stanca. Lo poggiò sul sediolino, aprendo la porta e uscendo.
“Tenga il resto” disse, prima di sbattere con forse troppa violenza la portiera.
Il taxi si avviò di fretta verso la prossima cliente, qualche metro più avanti, e la modella si gettò tranquilla e bagnata sotto il tendone dell’hotel.
“Buonasera, signorina” fece Alfred, il facchino appena ventenne che quella sera era di turno fuori la porta automatica girevole del Continental. Ogni volta che gli passava davanti, Yvonne percepiva il suo sguardo squadrarle il fondoschiena.
Lo fanno i sessantenni, non vedo perché non debba farlo lui. Almeno ha la giustifica degli ormoni in subbuglio, pensava. Ma non quella volta.
Quella volta non gliene importava nulla del fatto che Alfred le guardasse il derrière, voleva soltanto tornarsene in camera.
Gli fece un cenno con la mano e proseguì, arrivando fino all’ascensore senza mai voltare lo sguardo, né a destra né a sinistra.
Premette il pulsante di chiamata e rimase lì ad aspettare.
Giocò col bracciale d’argento che portava attorno al polso. Lo faceva sempre quando non sapeva cosa fare.
Con la testa vagò, fece voli pindarici indefiniti fino a tornare a quel bacio dato a Ruby, prima di lasciarlo solo in quel letto d’ospedale. Pensò che forse non avrebbe dovuto tornare a casa e lasciarlo alle cure un po’ troppo newyorkesi di White.
Forse aveva bisogno di più cure, di più premura.
Forse avrebbe dovuto tornare indietro.

A che pro, però?

Stare così vicina all’uomo che amava e sapere di non poterlo avere non avrebbe fatto altro che male, al suo cuore.

Ma i suoi occhi...

Nei suoi occhi vedeva il mare. E lì, in quel momento, poco meno di un’ora prima, sentiva che lui volesse continuare a tenerla vicina, fronte contro fronte, mentre i loro pensieri fluivano attraverso gli sguardi e quei respiri, pesanti e trascinati.
Forse anche Ruby si era convinto ad amarla, dopo aver scoperto la vera faccia di Sapphire.
Una campanella la ridestò. L’ascensore era arrivato al piano.
Vi entrò e senza neppure controllare se qualcun altro arrivasse premette il tasto del piano.
Le porte si chiusero davanti ai suoi occhi e lei si era ritrovata in silenzio, sola.

Ancora sola.

Forse quei pensieri non erano il modo migliore per cominciare la fine della sua pesante giornata, in cui il cuore le era balzato su per la gola più di una volta.
E di certo, quando le port0e si riaprirono, quello che vide non si poté definire un atterraggio morbido.

“APRI QUESTA PORTA, RUBY! SO CHE SEI QUI DENTRO!”.

Rumorosa ma piccola, e con la forza di una mandria di tori, Sapphire era pura dinamite; batteva i pugni contro la porta della stanza, con tenacia e dedizione.
Il segnale sonoro dell’ascensore tradì la presenza d’Yvonne: la ragazza di Hoenn si voltò e spalancò gli occhi.
Furono cinque secondi di panico, in cui due donne sconvolte e palesemente avversarie s’incontravano l’una davanti all’altra.
“Sapphire...” fece la bionda, immobile davanti alla porta dell’ascensore.
“Dov’è Ruby?!”.
E cominciò in lei una delle battaglie più dure che potesse combattere. Impugnava nella mano destra la spada della verità e in quella sinistra quella degli ideali.
Avrebbe dovuto infierire il colpo mortale, forse, mentendo ma seguendo il percorso che si era prefissata, i suoi ideali. Sapphire non avrebbe saputo mai dove cercare Ruby.
Di certo non sarebbe mai andata all’ospedale.
Alla fine, certo, sarebbe andata in Atelier o da White, che avrebbe sicuramente indirizzato la bella dagli occhi blu dal suo ex uomo ma ci sarebbe voluto almeno un giorno.
E in un giorno tutto sarebbe potuto accadere; per esempio, Ruby avrebbe potuto decidere di stare con Yvonne e di cancellare la sua vecchia e deludente vita, iniziandone un’altra lì a Unima, dove avrebbero raggiunto la pace dei sensi.
Oppure avrebbe dovuto dire la verità, che Sapphire meritava di sapere dato che il ragazzo che stava chiamando incessantemente era stato SUO per anni e ancora anni. L’avrebbe appena ferita con qualche colpo inferto da una spada che era sicura non avrebbe potuto abbatterla. Con ogni probabilità l’avrebbe spintonata via, avrebbe aspettato senz’alcuna pazienza l’ascensore e una volta in strada avrebbe cominciato a correre in direzione dell’ospedale senza neppure sapere che questo distasse quindici minuti di taxi.
Una volta arrivata da Ruby, stanca e sudata, avrebbe sicuramente fatto in modo di riprendersi il suo uomo. E a Yvonne non sarebbe rimasto che il rimpianto di un futuro perso, ritrovato e nuovamente sfuggitole dalle mani, oltre che a una spada che non avrebbe mai saputo usare.
“Yvonne!”.
La bionda era immobile e in silenzio, persa nel mondo che aveva tra la fronte e la nuca, ma la rabbia con cui poi Sapphire le si avventò contro la fece ridestare.
“Dove cazzo è Ruby?!”.

Cosa devo fare?

“Avete telefonato Sapphire?”.
“Volevo avvertirla ma non ho trovato il tuo telefono e non conosco il suo numero”.
“Perché l’ho buttato via. Non voglio più sentirla”.

“Non lo so, Sapphire. Non lo vedo dalla sua partenza”.
Alle orecchie della Ricercatrice, quelle parole risuonarono come l’ultimo rintocco.
Rallentò la sua carica, fermandosi a un metro o poco più dall’altra. Si voltò, confusa, quasi distrutta. Gli occhi erano pieni di lacrime.
“Ho... Io ho fatto una stupidaggine, Yvonne...”.

Lo so.

“Cosa è successo?”
Il suo volto non rivelava la consapevolezza di una verità che stava negando di conoscere. Rimase granitica a fissare il viso di Sapphire mutare, cadere in una disperazione calda e liquida.
“I-io non lo so. Eravamo a casa, abbiamo fatto l’amore e poi... e poi tu!” le urlò contro, puntandola con l’indice la cui unghia era stata mangiucchiata sulla sommità. “Tu!”.
“Cosa, io?!” esclamò l’altra.
“Tu ti sei messa di mezzo!”.
S’avvicinò minacciosa, Sapphire, spingendola con forza contro il muro. La borsetta di Yvonne cadde dalla spalla e rotolò per terra, accanto all’ascensore.
“Non toccarmi! Io non c’ero, lì a Hoenn!”.
“Lui ti ha difesa! E io... uff... Sono una stupida!” urlò, perdendosi in un pianto disperato. Le gambe non la sostennero più, e si piegarono verso l’interno.
Sapphire s’inginocchiò davanti a lei.
“Era lì per me! Con un anello! Ed era l’uomo più perfetto che potessi mai trovare!”.

Cosa c’entro io?

“Sapphire... io... cosa c’entro, io?”.
La guardava, Yvonne, ripiegata su se stessa, chiusa nello scudo delle sue braccia e con la testa bassa, in preda alla crisi di pianto peggiore che una donna innamorata potesse mai avere.
Fissava il trucco sciolto, che dagli occhi era passato sulle mani, e i capelli che non seguivano alcun ordine preciso.
Davanti aveva una donna distrutta.
“Io ti temo!” urlò, ancora con la testa bassa. “E ho paura che tu possa prenderti il mio uomo! E io che sono lontana non potrò fare nulla per evitare che ciò succeda!”.

Lo sa anche lei...

“E Ruby... ha litigato con te?”.
“No!” esclamò quella, alzando il viso e rimettendosi lentamente in piedi. Yvonne aderiva ancora con la schiena al muro, immobile. “No, Ruby è rimasto in silenzio... Ho fatto tutto io, perché sono una cretina!”.
“Perché?”.
“Perché l’ho posto davanti a una scelta”.
“E ha scelto se stesso”.
“No. L’ho costretto io a scegliere se stesso... Perché sono stata la persona peggiore che avrebbe potuto avere accanto. Io... i-io non l’ho sostenuto. E l’ho mortificato”.

La questione di suo padre...

“Sono stata inqualificabile, imperdonabile e... e... e non contenta, vedendo che se ne stesse andando d-da m-me, ho c-cominc... ciato a...”.
Pianse di nuovo.
Yvonne la guardava come ipnotizzata.
“A?”.
“L’ho colpito! L’ho preso a schiaffi e lui è andato via!”.

Cielo...

“E ora non so dov’è! Potrebbe aver fatto qualche cazzata, Yvonne! Dobbiamo trovarlo!”.

Devo dirle che so tutto?

Destra o sinistra? Ideali o verità?
“S-se vuoi puoi... puoi aspettarlo nella mia suite...”.
Gli occhi di Sapphire si riempirono di luce, per un singolo momento.
“Grazie, Yvonne! Grazie mille!” pianse, saltandole addosso e stringendola in un abbraccio carico d’ansia.
“Non ringraziarmi...”

No. Non farlo.

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