UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.
UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.
UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).
“Alla fine quella rabbia la capisco.
Capisco il motivo per cui tu sia
sparito, e anche perché hai deciso di volerti ergere al di sopra della cosa.
Ma davvero, durante tutto questo
tempo, non ti sono mancata?
Davvero non hai sentito la necessità
di vedermi? Di sentire la mia voce?”.
Unima,
Austropoli, Hotel Continental, 12 Maggio 20XX
Carico.
Ma di
rabbia.
Sbatté la
porta con così tanta veemenza che il quadretto appeso accanto allo stipite
destro, che raffigurava un bellissimo golfo tropicale, cadde dal chiodo.
Ruby non
se ne accorse nemmeno, limitandosi a sollevare la valigia e a buttarla di peso
sul letto.
“Cazzo…”
disse, tra le interferenze. “Non ci posso credere…”.
Rimase
poi immobile per un attimo, spaesato.
Cosa
sarebbe successo da quel momento in poi nella sua vita?
Era
rimasto sotto le macerie di un castello ormai crollato, che aveva costruito con
impegno mattone dopo mattone, dal ponte all'ultimo merlo dell'ultima torre.
E si
vedeva inerme, davanti alle mura crollate, con la paura di voltarsi, perché uno
scenario simile lo avrebbe atterrito.
Mezza
giornata in aereo passata a guardare il cielo azzurro diventare nero, a odiare
la vita tra i denti e a ripetere nella mente quelle parole affilate come la
mannaia che aveva reciso il cordone con l’altra metà di lui.
Decise di
mordersi la lingua: doveva smetterla di guardarla in quel modo.
Era la
metà marcia di lui.
Quella
che fino a quel momento l’aveva affossato.
Quella
che aveva impedito alla sua stella di brillare, semmai ne avesse posseduta una.
Sbuffò ma
poi strinse i denti. Volse lo sguardo lontano dalla valigia, che aveva appena
poggiato sul letto.
Lo
sapeva.
Sapeva
che stava per pugnalarsi con le proprie mani, facendo harakiri: quel vestito,
dalla borsa, non voleva proprio prenderlo.
Perché
gli ricordava quanto fosse vicino al paradiso, prima di sprofondare in
quell’inferno così denso e poco nitido.
Ma lo
fece lo stesso, prendendo una stampella e rendendola ossatura per quell’abito,
che strinse tra le mani per un secondo di troppo.
Sarebbe
sembrata una principessa, lì dentro.
La
immaginava, col sorriso calmo e gli occhi che aveva mentre si trovava immersa
nella natura, suo habitat.
Pensò poi
che forse la donna avrebbe sofferto il distacco dalle foreste e dal mare
pulito, e dal profumo dell’erba bagnata in favore di quello dei gas di scarico
delle automobili di Austropoli.
Dal sole
che s’insinuava tra le fronde delle palme e degli alti ebani di Forestopoli, e
dalla jacaranda che fioriva ogni primavera, dove si erano rincontrati per la
prima volta quando si erano rivisti, dopo anni.
Sapphire
non era fatta per quella città. Già a Ciclamipoli le mancava l’aria.
Eppure
quell’abito la mostrava beata.
Passava
le dita attorno al pizzo leggero della scollatura, e immaginava il seno della
ragazza. Il tessuto si stringeva, e avrebbe incontrato i suoi fianchi morbidi.
E sarebbe
stata la donna più bella del mondo. E l’avrebbe reso felice.
Se soltanto non fosse stata così piena di veleno…
La rabbia
sostituì la tristezza, per un breve attimo.
Gli parve
di averla davanti, coi capelli bagnati e le cosce scoperte dalle gambe slargate
dei pantaloncini azzurro e il fuoco negli occhi.
Lo stesso
fuoco che aveva lui, negli occhi. In quegli occhi che ormai l’avevano
proiettata proprio davanti a lui, in quel vestito.
“Perché?!”.
Aveva
urlato con forza. Non lo faceva mai.
La voce
dell’uomo rimbombò nella camera, dove il silenzio era disturbato soltanto dal
lontano vociare in strada, e da qualche clacson in lontananza.
“Perché
hai dovuto rovinare tutto?! Perché?!”.
Gettò il
vestito sul letto, con foga, e poi urlò ancora, coi pugni stretti e col viso
rivolto al soffitto.
Si
sentiva un imperatore deposto, un re senza trono.
Gli
mancava qualcosa che gli spettava di diritto e tutta la colpa veniva addossata
a quell'abito, che prendeva il volto di Sapphire, con gli occhi di Sapphire e
la bocca di Sapphire. Quasi lo sentiva rispondere, inveirgli contro che fosse
uno stupido privilegiato.
Era solo
disperazione, quella che gli fluiva nelle vene, come un fiume in piena.
No.
Disperazione
e rabbia.
Era
furioso con lei, e rivedere il suo volto in quel vestito lo fece sentire ancora
una volta debole, ancora una volta vulnerabile ai fendenti che la sua mente, e
la sua memoria, continuavano a lanciargli contro.
Il suo orgoglio
sanguinava. Il suo cuore languiva.
“Come ti
sei permessa, eh! Tirare in ballo mio padre per avere ragione in una tua
stupidissima discussione!”.
Saltò sul
letto, atterrando con le ginocchia sul morbido tessuto che aveva cucito per
mesi, minuziosamente.
“Mio
padre! Come se già non ci stessi male!” urlò, con le lacrime puntate agli
occhi. “Come se tutta questa faccenda mi avesse fatto soltanto piacere! Meglio
cazzeggiare ed essere felici come me, piuttosto che fare ciò che fa tuo padre,
soltanto per fare piacere a lui! Tu, che sei tutto tranne che una studiosa! Nel
fango, ti ho conosciuta!”.
E poi
colpì l'abito con un pugno, proprio sulla spallina destra, condendo il tutto
con un urlo.
“Nel
fango!” ripeté. Una lacrima cadde, lasciando a malincuore le rime dei suoi
occhi e terminando sul tessuto blu.
“E
puzzavi di merda! Selvaggia che non sei altro! Se non mi avessi mai incontrata
probabilmente saresti finita a vivere a Forestopoli, in mezzo alle scimmie!
Sporca e puzzolente! Ti ho fatta diventare un essere umano, ti ho dato dei
vestiti, ti ho protetta, ti ho amata! Io ti ho amata!”.
E tutta
quella foga, quella rabbia che aveva caricato il suo cuore, lasciando che
battesse come un martello pneumatico, sfumò verso l'alto.
S'accasciò
lentamente sul letto, accanto all'abito. Stringeva la spallina nel pugno mentre
affondava la faccia nel copriletto. Profumava di pulito.
“Io ti ho
amata...” ripeté, mentre le lacrime fluivano rapide. “Ti ho amata con tutto me
stesso, mentre la vita proseguiva e le scelte diventavano difficili... E io mi
ritrovo a piangere come un... un deficiente...”.
La sentì.
Salì di nuovo, rapidamente.
“Come un
deficiente!”.
La sua
voce rimbombò nelle quattro mura di quella prigione dorata. S'inginocchiò di
nuovo, dando ancora una grande manata al materasso, immaginando la faccia di
Sapphire al posto del cuscino.
Lo colpì
due volte, con una violenza che pensava d'esser riuscito ad affogare anni
prima.
“Come un
deficiente mi sono lasciato traviare! E tu mi hai posto davanti a una scelta,
dopo che per anni mi sono dovuto adattare alle scelte di mio padre,
trasferendomi in un posto dove non c'è nulla, tranne che mare, e pazzi! Quando
ho trovato ciò che mi piace hai trovato anche...”.
Altro
colpo.
“Anche!”.
Di nuovo.
“Anche
l'ardire di lamentarti! Io mi sono sempre sentito inadeguato! Solo qui a Unima
sono riuscito ad essere me stesso e adesso vuoi levarmi anche questo?!”.
Afferrò
l'abito per le spalline e lo strinse con rabbia.
Altre due
lacrime attraversarono le ciglia e percorsero rapidamente il viso paonazzo del
razzo.
“Anche
questo, Sapph?! Vuoi levarmi anche questo?! Dopo tutto quello che ho dovuto
subire?! Dopo tutte le volte che ho cercato la luce in quegli occhi?! Perché?!
Cazzo, perché?!”.
E tirò
con forza, strappando il vestito sul petto.
Lo
guardò, rimanendo immobile.
“Ti odio,
brutta stronza egoista! Ti odio!”.
Si alzò
di fretta e appallottolò il vestito, lanciandolo nell’armadio. Poi sbatté le
ante, pieno di rabbia. Avesse avuto la possibilità di spaccarle lo avrebbe
fatto. Corse verso il comodino accanto al letto e spalancò il primo cassetto.
Lo
scatolino di Xanax era lì, e attendeva soltanto che le sue mani lo prendessero.
Lo fece,
strappò con foga la linguetta e staccò tre compresse dal blister.
Ansiolitici.
Sedativi.
Ne staccò
un’altra, poi rivide l’espressione di odio di Sapphire mentre lo aveva
schiaffeggiato.
E ne
staccò un’altra.
“Solo una
stronza egoista…” sussurrò. Guardò le pillole e le buttò giù a fatica. Non ci
volle molto prima che lo sguardo gli si appannasse.
Ebbe il
tempo di muovere qualche passo distratto verso il centro della camera prima che
le forze lo abbandonassero.
S’accasciò
lento per terra, dapprima inginocchiandosi, puntellando le mani sulla moquette
polverosa, ma poi sentì l’energia venire meno.
La spalla
destra non resse più il suo peso, il braccio si piegò e lui rovinò per terra,
con le lacrime sul viso e gli occhi semichiusi.
E si
addormentò.
*
Bam – Bam.
Fu quel
rumore a svegliarlo. Qualcuno bussava alla porta, ripetutamente.
“Ruby! Ouvrir! Je sais que tu es à l’intérieur!”.
La testa
scoppiava ancora. Pulsavano, le tempie.
“Ruby!”.
Batté gli
occhi un paio di volte ma non riusciva bene a mettere a fuoco ciò che vedeva.
Poi si focalizzò lentamente su quegli stucchi intarsiati nella cornice del
controsoffitto, e sul lampadario elegante, le cui luci erano dormienti.
Si
chiedeva da quanto tempo stesse dormendo.
“Ruby! Le voisin de la pièce vous a entendu!
So che sei tornato!”.
Provò con
tutto se stesso a trovare un motivo per non alzarsi da lì. Purtroppo non ne
aveva.
Fece uno
sforzo sovraumano e si piegò in due.
La gran
parte del lavoro era stato fatto.
Bam – Bam.
”Ruby! Butto giù la porta!”.
Si chiese
che intenzione avesse di fare, Yvonne, urlando in quel modo. La sua voce
risuonava come un trapano ai lati della fronte. Avrebbe voluto urlarle di
aspettare un attimo, che si sarebbe alzato da terra non appena avesse trovato
la facoltà di farlo, ma la bocca era troppo impastata.
“So che sei dentro! Il cellulare ha squillato
per ore!”.
“Yv… onn…”
fece, rimestando poi in bocca quel sapore metallico che provava ogni qualvolta
dormisse troppo e male.
Aveva
fame.
“Apri questa dannata porta, Ruby! Per
favore!”.
Aspetta.
Si
accorse poi di non aver parlato.
Cercò di
biascicare qualche parola ma la lingua non funzionava a dovere. Si voltò e
poggiò la schiena all’armadio.
“Ruby, cazzo, aprì questa porta!”.
Fece
forza sulle gambe, ma parvero non funzionare. “N..no…” sussurrò ancora, senza
urlare a sufficienza. Yvonne non lo avrebbe mai sentito in quel modo.
Il suo
cervello mandò molto lentamente il messaggio alle spalle di abbassarsi.
Recepito il messaggio, strisciò per terra a fatica, fino a raggiungere la
porta.
“Sento i rumori, Ruby! Apri, ti prego! Je
crains!”.
Ruby
pensò al significato di quelle parole: aveva paura.
Ma lui
stava bene. Aveva soltanto la testa pesante e la lingua secca e spaccata. E il
sapore di sangue in bocca.
E tutto
pareva muoversi lentamente.
Guardò la
maniglia, mentre Yvonne continuava a battere i pugni sulla porta.
Bam – Bam.
Doveva
solo alzare la mano.
Forza…
Aveva
bisogno di aiuto, anche se stava bene. La sua testa gli mandava segnali
contrastanti. Sapeva che il fatto di non riuscire a stare in piedi fosse un
problema ma in fondo sentiva una sensazione di piacere diffusa a tutti gli
arti.
La sua
mente era al caldo mentre fuori imperversava la tempesta.
La mano
saliva lenta verso l’ottone della maniglia e intanto si chiedeva i motivi di
quella sua condizione, così insolita.
Cosa gli
era successo?
“Ruby!”.
Le dita carezzarono
la maniglia e lentamente la brandirono, fino a quando la serratura non scattò.
Rotolò di
lato, lui, prima che la porta si spalancasse sotto la spinta ricca di foga
della ragazza di Kalos.
Lo
sguardo di quello era ormai annebbiato. Percepì la presenza della ragazza, ne
sentì il profumo, dolce come l’ambrosia.
“Ruby!”.
La sua
voce era terribilmente preoccupata. Fu l’ultima cosa che sentì, prima che gli
occhi si chiudessero e tutto ciò che prima era ovattato diventasse il buio.
Unima, Austropoli, West Memorial Hospital, poche ore dopo
Gli occhi di Ruby si riaprirono
lentamente. Non sapeva da quanto tempo il fastidioso rumore intermittente dei
macchinari del West Memorial stesse convivendo coi suoi pensieri ma voleva che
terminasse. La testa ormai scoppiava.
“ Ruby... si sta svegliando”.
Era Yvonne, la donna che parlava
accanto a lui. Quello girò lentamente il collo, col viso colmo di confusione e
stanchezza, e la vide: gli occhi della donna erano grigi acquitrini pieni di
stanchezza e speranza ritrovata. Le lacrime cadevano lungo il viso stanco ma il
sorriso, quel sorriso limpido, riuscì a donare serenità al ragazzo.
“Fa’ vedere, levati davanti” aveva
risposto qualcun altro, con tono sgarbato e prepotente.
Sapphire, pensò
Ruby. Non voglio stare con lei. Non
voglio che sia qui. Io non la voglio più vedere, Sapphire.
“... in
diretta da Ebanopoli dove la Palestra è stata appena...”.
“E spegnete questa televisione!
Ruby!” aveva urlato White, spostando di peso Yvonne.
Era White.
Non Sapphire. Sapphire non è qui.
Si sistemò e vide la Presidentessa
mentre si sedeva al posto di Yvonne, su di una piccola sedia di plastica
grigia.
“Signor Normanson, devi smetterla di
finire in ospedale”.
White sorrise a sua volta e carezzò
il viso dello stilista, saggiando con le dita la barba di un giorno che era
cresciuta e che non aveva avuto l’opportunità di radere. Gli occhi grandi e blu
erano vispi e i capelli erano perfettamente stirati. “O almeno, non venire sempre
al West Memorial… è dall’altra parte della città”.
“Hai... ragione...” biascicò lui,
parlando con difficoltà.
“Che diamine ti è saltato in mente?!
Ma sai quello che fai?!” urlò ancora White, gesticolando vistosamente. “Io sto
per sposarmi e tu hai intenzione di morire?!”.
Ruby sorrise e chiuse leggermente
gli occhi.
“Auguri” disse, in un sospiro.
Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse cambiato nel suo rapporto, che lei stessa
aveva descritto come parecchio difficoltoso, ma non ne aveva le forze.
“Mi preparerai un bel vestito? Verrà
la creme di Austropoli, tutta gente
con soldi e potere...” sorrise. “Sarà una pubblicità perfetta per l’atelier”.
Yvonne sospirò. “Forse non è il caso
di parlare di lavoro, adesso, White”.
Quella si voltò e annuì.
“È vero, scusami”. E mentre lo
guardava, steso in quel letto d’ospedale cercava in tutti i modi di demonizzare
la paura che aveva provato quando qualche ora prima Yvonne l’aveva chiamata,
terrorizzata.
“White!
Sto portando Ruby all’ospedale!”.
“Di
nuovo?!”.
“Ha
ingoiato non so quante pillole di… di… Xanax”.
“È un
ansiolitico! Lo prendo anche io… Corri lì, potrebbe essere pericolosissimo!”.
“Lo so,
White!”.
E ricordava il terrore nella voce
della sua modella. Quel terrore che in fondo aveva provato anche lei. Il suono
del cellulare la distrasse dai suoi pensieri.
“Con permesso” fece, voltandosi e
immettendosi nel corridoio, sparendo dalla vista di Ruby e Yvonne.
Quella riprese lentamente posto
accanto a lui. Si guardarono in silenzio per quasi venti secondi, prima che il
ragazzo abbassasse gli occhi e li nascondesse dietro la coperta delle palpebre.
“Che hai combinato?” chiese la
donna, con una dolcezza quasi disarmante, in un sussurro.
Quando vide le lacrime attraversare
le ciglia strette intuì che qualcosa nella sua proposta di matrimonio non fosse
andata a dovere.
“Niente… ne parliamo poi…”.
“Ho avuto paura” ribatté subito lei.
Ruby riaprì gli occhi e pulì le lacrime col dorso della mano. La vedeva
nuovamente piccola e fragile, lei, che aveva calcato le passerella ed era
diventata la più forte tra i giganti. “Ti chiamavo, ho sentito che eri tornato
prima e avevo intuito che qualcosa non andava perché ho ascoltato il tuo… il
tuo sfogo, ecco…”.
I suoi occhi si abbassarono. Ruby la
lasciò lì e si sistemò supino, affondando la testa nel cuscino.
“Mi spiace aver urlato quelle
cose…”.
Yvonne sospirò e tornò a puntare
quei fari grigi su di lui. Gli afferrò la mano e abbozzò un mezzo sorriso.
“A me spiace che le cose con lei non
siano andate come dovevano… Non so, ora, cosa sia successo, ma vederti felice
era tutto ciò che volevo…”.
“Non sempre possiamo raggiungere la
felicità, Yvonne…”.
“Lo so. Ma possiamo andarci vicini”
sorrise ancora, portando la mano del ragazzo al cuore. Ruby lo sentiva battere
forte. “Ho avuto paura che potessi morire… Perché hai provato a ucciderti?”.
Ruby tornò a guardarla. “Non ho
provato a uccidermi… Ero un po’… upset, ecco”.
“Hai ingoiato mezzo blister di
pillole, Ruby. Che avevi intenzione di fare?”.
Inizialmente si limitò a star zitto,
lui. Poi parlò.
“Volevo solo stare bene”.
Yvonne sorrise amaramente. “Sono le
persone che hai accanto a farti star bene. Le soddisfazioni sul lavoro, i tuoi
abiti, le tue creazioni. La donna che ti ama. Non gli psicofarmaci”.
“Nessuna donna mi ama”.
Yvonne batté le palpebre due volte.
“Una donna che ti ama c’è…”.
“Mi ha umiliato…” pianse silenzioso.
“Dopo tutto quello che ho fatto per lei… Dopo tutti i sacrifici. Sono morto e
rinato, per vederla sorridere. Giorno dopo giorno il mio unico scopo era fare
di lei la mia regina. E le ho dato il mio cuore. Voleva di più”.
“Cosa voleva, Ruby? Cosa si può
voler di più da un uomo come te?” chiese Yvonne, stringendogli ancora la mano.
“Voleva che lasciassi Unima. Che smettessi di cazzeggiare… perché per lei
questo non è un lavoro serio. E ha tirato in ballo mio padre…”.
“Tuo padre?”.
“Non mi ha mai accettato. Ha sempre
pensato che fossi un disadattato, debosciato… Un poco di buono. Scommetto che
prima che conoscessi Sapphire ha pensato che fossi gay…”.
“Come se ci fosse qualcosa di male”.
“Mio padre è vecchio stampo”.
Yvonne abbassò lo sguardo. “Rimane
tuo padre. E ti ama sicuramente”.
“Sento che non mi stima. Sento che
non lo fa… Vorrebbe un figlio con la testa sulle spalle, più serio e con un
lavoro vero”.
“Il tuo è un lavoro vero. E tu sei
un ragazzo serissimo e pieno di bontà”.
La bionda gli strinse la mano, poi
gli carezzò il volto.
“Io non dimentico che sei stato tu a
convincermi a uscire dalla merda in cui vivevo, con Sergei, e la comune… Non
dimentico che hai preso a schiaffi Marlon Merlin per me, e mi hai difeso ogni
volta che questa città ha provato a sputarmi in faccia. Nonostante fossi
rimasta nuda davanti a te tu non hai mai alzato un dito su di me”.
“Sei il mio lavoro” si giustificò
subito lui. “Altrimenti non avrei potuto resistere”.
Yvonne sorrise, avvampando. “E io
sono onorata di esserlo. Ma tu devi essere fiero di ciò che sei” fece, non
riuscendo a celare quel marcatissimo accento francofono. “Hai lottato per
perseguire i tuoi sogni e superato tutti gli ostacoli. Sei bravo. Sei buono”.
I due si guardarono per un attimo,
lungo e intenso.
E nonostante Sapphire ancora
bruciasse ardentemente nei suoi pensieri, dopo quelle parole a Ruby venne
voglia di baciare Yvonne.
“Sei una delle persone più care che
ho” continuò lei.
“Anche tu. E mi hai salvato la
vita”.
Quella abbassò la testa,
avvicinandosi al volto del ragazzo, e appoggiò la fronte contro la sua. Ruby
riusciva a sentire il profumo della donna, così pungente e dolce. Le sue labbra
erano a pochi centimetri ma i loro occhi ancora continuavano a tenersi per
mano.
Stettero così per un minuto che durò
un’ora. Lui pensava al fatto che forse Yvonne sarebbe stata la scelta migliore
di vita, per lui: viveva ad Austropoli, lavorava nel suo stesso campo, vivevano
nello stesso mondo.
Parlavano la stessa lingua.
Lei indossava una bellezza senza
eguali, e la femminilità che esprimeva con ogni movimento e ogni parola era
pura ispirazione per quell’uomo.
Ed era protettiva, nei suoi
confronti, e la cosa cancellava quasi totalmente la solitudine in cui stava
annegando.
Yvonne ovviamente non era Sapphire;
non era quella scelta di vita presa da ragazzino e continuata a sostenere per
paura di trovare il nulla, oltre il muro.
Sapphire non era certamente la donna
più femminile del mondo, e il suo corpo non era quello delle modelle da
copertina patinata: era bassina, coi fianchi piuttosto larghi, i seni grossi e
un piccolo accenno di cellulite.
Yvonne era il sogno, esteticamente,
mentre Sapphire era la più vera delle donne.
E il fatto che, in quel momento, a
tiro di bacio ci fosse il sogno e non la verità lo confondeva, e
contemporaneamente lo poneva davanti al dubbio.
Merito il
meglio?
Non ebbe il tempo di rispondere a
quel quesito che Yvonne staccò la fronte dalla sua, sorridendo stanca.
“Ti dimetteranno domattina…”.
“Avete telefonato Sapphire?” chiese
lui.
La modella fece cenno di no con la
testa. “Volevo avvertirla ma non ho trovato il tuo telefono e non conosco il
suo numero”.
“Perché l’ho buttato via. Non voglio
più sentirla”.
Yvonne abbassò lo sguardo per un
secondo, per poi risollevarlo. Ruby continuò a parlare.
“Voglio che sparisca dalla mia vita.
Domani cercherò un appartamento più vicino all’Atelier”.
“A-andrai via dall’hotel?” domandò, allungando la e finale.
“Sì. Non voglio che mi trovi”.
Yvonne era confusa ma si limitò a
fare spallucce. “È la tua vita. Io ho bisogno di fare una doccia e di riposare,
ma verrò a prenderti domani”.
“Sei gentile”.
“Ti lascio nelle mani di White”.
“Ti lascio nelle mani di White”.
Si abbassò verso di lui e gli lasciò
un morbido bacio sulle labbra, quindi si voltò e se ne andò.
Unima,
Austropoli, Hotel Continental
Trascinava la testa, Yvonne, da un
lato all’altro del poggiatesta del vecchio taxi con cui stava ritornando in
albergo. Poco dopo esser saltata sulla Ford Crown Victoria, che col suo giallo
acceso tagliava in due il grigiore notturno di Austropoli, qualche goccia di
pioggia cominciò a bussare gentile sul parabrezza, per poi insistere con
tenacia, fino a quando la donna non riuscì più a distinguere l’acqua che cadeva
sul tettuccio della macchina dal rumore dei suoi pensieri.
Era stanca, lei. Aveva voglia di
riempire la vasca della sua camera con acqua calda, stringere tra le mani un calice
da svuotare e mettere sulla faccia la costosissima crema che aveva deciso di
regalarsi il giorno prima.
L’aveva acquistata in una piccola
erboristeria tra la sedicesima e Samuel Oak Street e il commesso, un giovane
ragazzo dai lunghi capelli scuri e dal grembiule verde scuro coi costoni
intrecciati sulle spalline, aveva detto che era un toccasana per le pelli
stressate dai cosmetici.
Come la sua.
Se ne sarebbe spalmata un po’ in
viso e poi si sarebbe immersa in un fine giornata liquido e ristoratore, al
sapore di vino rosso.
“Sono diciotto e settantatré” aveva detto
il tassista, la cui voce non andò oltre il risultare un cupo e timido
sottofondo all’orchestra di quel tempo grigio.
Yvonne aveva aperto la borsetta,
cercato un biglietto da venti e sospirato, stanca. Lo poggiò sul sediolino,
aprendo la porta e uscendo.
“Tenga il resto” disse, prima di
sbattere con forse troppa violenza la portiera.
Il taxi si avviò di fretta verso la
prossima cliente, qualche metro più avanti, e la modella si gettò tranquilla e
bagnata sotto il tendone dell’hotel.
“Buonasera, signorina” fece Alfred,
il facchino appena ventenne che quella sera era di turno fuori la porta
automatica girevole del Continental. Ogni volta che gli passava davanti, Yvonne
percepiva il suo sguardo squadrarle il fondoschiena.
Lo fanno i
sessantenni, non vedo perché non debba farlo lui. Almeno ha la giustifica degli
ormoni in subbuglio, pensava. Ma non quella volta.
Quella volta non gliene importava
nulla del fatto che Alfred le guardasse il derrière,
voleva soltanto tornarsene in camera.
Gli fece un cenno con la mano e
proseguì, arrivando fino all’ascensore senza mai voltare lo sguardo, né a
destra né a sinistra.
Premette il pulsante di chiamata e
rimase lì ad aspettare.
Giocò col bracciale d’argento che
portava attorno al polso. Lo faceva sempre quando non sapeva cosa fare.
Con la testa vagò, fece voli
pindarici indefiniti fino a tornare a quel bacio dato a Ruby, prima di
lasciarlo solo in quel letto d’ospedale. Pensò che forse non avrebbe dovuto
tornare a casa e lasciarlo alle cure un po’ troppo newyorkesi di White.
Forse aveva bisogno di più cure, di
più premura.
Forse avrebbe dovuto tornare
indietro.
A che pro, però?
Stare così vicina all’uomo che amava
e sapere di non poterlo avere non avrebbe fatto altro che male, al suo cuore.
Ma i suoi
occhi...
Nei suoi occhi vedeva il mare. E lì,
in quel momento, poco meno di un’ora prima, sentiva che lui volesse continuare
a tenerla vicina, fronte contro fronte, mentre i loro pensieri fluivano
attraverso gli sguardi e quei respiri, pesanti e trascinati.
Forse anche Ruby si era convinto ad
amarla, dopo aver scoperto la vera faccia di Sapphire.
Una campanella la ridestò.
L’ascensore era arrivato al piano.
Vi entrò e senza neppure controllare
se qualcun altro arrivasse premette il tasto del piano.
Le porte si chiusero davanti ai suoi
occhi e lei si era ritrovata in silenzio, sola.
Ancora
sola.
Forse quei pensieri non erano il
modo migliore per cominciare la fine della sua pesante giornata, in cui il
cuore le era balzato su per la gola più di una volta.
E di certo, quando le port0e si
riaprirono, quello che vide non si poté definire un atterraggio morbido.
“APRI QUESTA PORTA, RUBY! SO CHE SEI
QUI DENTRO!”.
Rumorosa ma piccola, e con la forza
di una mandria di tori, Sapphire era pura dinamite; batteva i pugni contro la
porta della stanza, con tenacia e dedizione.
Il segnale sonoro dell’ascensore
tradì la presenza d’Yvonne: la ragazza di Hoenn si voltò e spalancò gli occhi.
Furono cinque secondi di panico, in
cui due donne sconvolte e palesemente avversarie s’incontravano l’una davanti
all’altra.
“Sapphire...” fece la bionda,
immobile davanti alla porta dell’ascensore.
“Dov’è Ruby?!”.
E cominciò in lei una delle
battaglie più dure che potesse combattere. Impugnava nella mano destra la spada
della verità e in quella sinistra quella degli ideali.
Avrebbe dovuto infierire il colpo
mortale, forse, mentendo ma seguendo il percorso che si era prefissata, i suoi
ideali. Sapphire non avrebbe saputo mai dove cercare Ruby.
Di certo non sarebbe mai andata
all’ospedale.
Alla fine, certo, sarebbe andata in
Atelier o da White, che avrebbe sicuramente indirizzato la bella dagli occhi
blu dal suo ex uomo ma ci sarebbe voluto almeno un giorno.
E in un giorno tutto sarebbe potuto
accadere; per esempio, Ruby avrebbe potuto decidere di stare con Yvonne e di
cancellare la sua vecchia e deludente vita, iniziandone un’altra lì a Unima,
dove avrebbero raggiunto la pace dei sensi.
Oppure avrebbe dovuto dire la
verità, che Sapphire meritava di sapere dato che il ragazzo che stava chiamando
incessantemente era stato SUO per anni e ancora anni. L’avrebbe appena ferita
con qualche colpo inferto da una spada che era sicura non avrebbe potuto
abbatterla. Con ogni probabilità l’avrebbe spintonata via, avrebbe aspettato
senz’alcuna pazienza l’ascensore e una volta in strada avrebbe cominciato a
correre in direzione dell’ospedale senza neppure sapere che questo distasse
quindici minuti di taxi.
Una volta arrivata da Ruby, stanca e
sudata, avrebbe sicuramente fatto in modo di riprendersi il suo uomo. E a
Yvonne non sarebbe rimasto che il rimpianto di un futuro perso, ritrovato e
nuovamente sfuggitole dalle mani, oltre che a una spada che non avrebbe mai
saputo usare.
“Yvonne!”.
La bionda era immobile e in
silenzio, persa nel mondo che aveva tra la fronte e la nuca, ma la rabbia con
cui poi Sapphire le si avventò contro la fece ridestare.
“Dove cazzo è Ruby?!”.
Cosa devo
fare?
“Avete
telefonato Sapphire?”.
“Volevo
avvertirla ma non ho trovato il tuo telefono e non conosco il suo numero”.
“Perché
l’ho buttato via. Non voglio più sentirla”.
“Non lo so, Sapphire. Non lo vedo
dalla sua partenza”.
Alle orecchie della Ricercatrice,
quelle parole risuonarono come l’ultimo rintocco.
Rallentò la sua carica, fermandosi a
un metro o poco più dall’altra. Si voltò, confusa, quasi distrutta. Gli occhi
erano pieni di lacrime.
“Ho... Io ho fatto una stupidaggine,
Yvonne...”.
Lo so.
“Cosa è successo?”
Il suo volto non rivelava la
consapevolezza di una verità che stava negando di conoscere. Rimase granitica a
fissare il viso di Sapphire mutare, cadere in una disperazione calda e liquida.
“I-io non lo so. Eravamo a casa,
abbiamo fatto l’amore e poi... e poi tu!” le urlò contro, puntandola con
l’indice la cui unghia era stata mangiucchiata sulla sommità. “Tu!”.
“Cosa, io?!” esclamò l’altra.
“Tu ti sei messa di mezzo!”.
S’avvicinò minacciosa, Sapphire,
spingendola con forza contro il muro. La borsetta di Yvonne cadde dalla spalla
e rotolò per terra, accanto all’ascensore.
“Non toccarmi! Io non c’ero, lì a
Hoenn!”.
“Lui ti ha difesa! E io... uff... Sono
una stupida!” urlò, perdendosi in un pianto disperato. Le gambe non la
sostennero più, e si piegarono verso l’interno.
Sapphire s’inginocchiò davanti a
lei.
“Era lì per me! Con un anello! Ed
era l’uomo più perfetto che potessi mai trovare!”.
Cosa c’entro
io?
“Sapphire... io... cosa c’entro,
io?”.
La guardava, Yvonne, ripiegata su se
stessa, chiusa nello scudo delle sue braccia e con la testa bassa, in preda
alla crisi di pianto peggiore che una donna innamorata potesse mai avere.
Fissava il trucco sciolto, che dagli
occhi era passato sulle mani, e i capelli che non seguivano alcun ordine
preciso.
Davanti aveva una donna distrutta.
“Io ti temo!” urlò, ancora con la
testa bassa. “E ho paura che tu possa prenderti il mio uomo! E io che sono
lontana non potrò fare nulla per evitare che ciò succeda!”.
Lo sa
anche lei...
“E Ruby... ha litigato con te?”.
“No!” esclamò quella, alzando il
viso e rimettendosi lentamente in piedi. Yvonne aderiva ancora con la schiena
al muro, immobile. “No, Ruby è rimasto in silenzio... Ho fatto tutto io, perché
sono una cretina!”.
“Perché?”.
“Perché l’ho posto davanti a una
scelta”.
“E ha scelto se stesso”.
“No. L’ho costretto io a scegliere
se stesso... Perché sono stata la persona peggiore che avrebbe potuto avere
accanto. Io... i-io non l’ho sostenuto. E l’ho mortificato”.
La
questione di suo padre...
“Sono stata inqualificabile,
imperdonabile e... e... e non contenta, vedendo che se ne stesse andando d-da
m-me, ho c-cominc... ciato a...”.
Pianse di nuovo.
Yvonne la guardava come ipnotizzata.
“A?”.
“L’ho colpito! L’ho preso a schiaffi
e lui è andato via!”.
Cielo...
“E ora non so dov’è! Potrebbe aver
fatto qualche cazzata, Yvonne! Dobbiamo trovarlo!”.
Devo dirle
che so tutto?
Destra o sinistra? Ideali o verità?
“S-se vuoi puoi... puoi aspettarlo
nella mia suite...”.
Gli occhi di Sapphire si riempirono
di luce, per un singolo momento.
“Grazie, Yvonne! Grazie mille!”
pianse, saltandole addosso e stringendola in un abbraccio carico d’ansia.
“Non ringraziarmi...”
No. Non farlo.
Commenti
Posta un commento