DITCHING CARDS
Ho tolto la kitsch divisione in parti á la Black Mirror, ora c'è un 𐌳 che rappresenta un lieve cambio d'atmosfera (divisione in paragrafi) mentre tre 𐌳𐌳𐌳 che rappresentano un cambio di scena più forte (come la fine di una parte). Attenzione: in questo capitolo vi sono due storyline, un flashback ed una presente. Alla fine, tuttavia, si uniscono.
CAPITOLO 3
By a Dead Man Interred
Lost in the fog, these hollow hills
Blood running hot, night chills
Without your love I'll be
So long and lost, are you missing me?
Is it too late to come on home,
are all those bridges now old stone?
Is it too late to come on home,
can the city forgive I hear its sad song?
(Florence + The Machine; Long & Lost)
Blood running hot, night chills
Without your love I'll be
So long and lost, are you missing me?
Is it too late to come on home,
are all those bridges now old stone?
Is it too late to come on home,
can the city forgive I hear its sad song?
(Florence + The Machine; Long & Lost)
presente – Nimbasa City – 13/02/13
Il buio avvolgeva Erika.
Una corrente fredda soffiava sul suo collo e diffondeva scariche di brividi attraverso il suo corpo. Le sue mani tremavano, la sua mascella tremava, le sue gambe tremavano.
Oltre i suoi occhi solo il nero, una macchia che perforava lo spazio.
« Mi stai ascoltando, Hilda? ».
Un viso scavato e diafano apparve di fronte a lei. I suoi occhi, castani, erano così vicini da poter scorgervi all’interno il proprio riflesso; le sue labbra abbastanza lontane da rendere le parole che pronunciava impercettibili. Della sua voce, un eco.
I contorni della sua testa, come finiva la carne, si fondevano con il nero e quasi macchiavano l’aria, tale da emanare un alone roseo attorno a sé.
« Non hai prestato attenzione ad una parola che ho detto ».
Erika ritrasse gli occhi.
Una luce profusa e candida aveva aperto uno squarcio alle spalle dell’uomo, lasciando intravedere oltre a sé delle figure strette e squadrate slanciarsi verso l’alto. Mano a mano che la luce s’insediava nella stanza, tutt’attorno si fece più chiaro: apparve una scrivania color mogano, una moquette verdastra e delle pareti bianche a circondarla.
Lentamente, schiuse le palpebre.
« Cosa ho detto? ».
Ora che osservava meglio, erano dei grattacieli le figure grigie che si stagliavano dalla finestra. Ogni occhiata che lanciava, tuttavia, richiedeva che entrasse in contatto prima con l’uomo che le sedeva davanti, e ciò cominciò a metterla a disagio.
Era come se fosse intrappolata nel suo corpo, senza che potesse parlare o muoversi: le era concessa solo la vista.
« Come pensavo, e ti risparmio la fatica di chiedermelo — che evidentemente ti sei già presa. Sei licenziata ».
Prima che potesse accorgersene, era uscita dalla stanza. Guardò indietro a sé, alla porta dalla quale credeva di esser passata. Cos’è successo?
« Dove sono? » balbettò, come il suo sguardo perlustrava il corridoio davanti.
Fece un passo avanti.
« C’è qualcuno? ». La sua voce risuonò nella cavità. « C’è qualcuno? ».
A quel primo passo ne seguì un altro ed un altro ancora. Poteva percepire lo spazio dilatarsi e restringersi attorno a lei, le pareti del corridoio allontanarsi sempre di più per poi scattare indietro come una molla e soffocarla.
« Dove sono? » urlò, ma non ottene come risposta che il suo eco. « Dove sono? Aiutatemi! ».
« Dove sono? Aiutatemi! ».
Con la mano tirò su il lenzuolo a nascondere le labbra.
Mugugnò, come affondava il viso nel cuscino. Le estremità si piegavano come ripide montagne costrette sotto il peso del suo capo.
Un lamento anticipò il suo risveglio.
Aprì gli occhi nell’oscurità.
La sua fronte era imperlata di sudore e i suoi respiri si susseguivano brevi e veloci, uno dopo l’altro, come se si fosse fermata a recuperare il fiato dopo una lunga corsa. In verità, pensò, ciò non era troppo lontano dalla realtà.
All’inizio fece fatica a capire a cosa era dovuto, finché nella sua mente non prese di nuovo vita quella strana immagine di cui aveva avuto esperienza fino a prima.
« Mi stai ascoltando, Hilda? ».
Quelle parole rimbombavano nel silenzio della notte. Nella sua testa non era capace di cancellare quella strana visione. Quei palazzi, quell’uomo, quella sensazione.
Si alzò dal letto, portando le mani in avanscoperta per eventuali oggetti affilati od ostacoli, ed in punta di piedi, nell’assoluta calma, raggiunse la finestra. Appese il suo braccio alla tenda e lo fece scivolare alla sua destra, rivelando dietro di esso lo skyline di Nimbasa City che illuminava la città a giorno; una cascata di luce si riversò silenziosamente nella stanza.
« Uh? ».
Nella sua mente fece combaciare i grattacieli del suo sogno al paesaggio cittadino che si presentava davanti a lei; sorrprendentemente, le due immagini differivano per non pochi particolari. Non era Nimbasa la città del suo sogno. Che posto era?. E chi era dunque, quell’uomo? Pareva ricordare le sue caratteristiche a memoria, l’immagine del suo viso era impressa nitidamente nei suoi ricordi, ma non riusciva a completare il quadro.
Al solo pensiero, un brivido corse lungo la sua schiena.
Hilda Baskerville: per la prima volta, in quei giorni, il pensiero che vi fosse un fondo di verità alle parole di Ethan le sfiorò la mente.
Una corrente fredda soffiava sul suo collo e diffondeva scariche di brividi attraverso il suo corpo. Le sue mani tremavano, la sua mascella tremava, le sue gambe tremavano.
Oltre i suoi occhi solo il nero, una macchia che perforava lo spazio.
« Mi stai ascoltando, Hilda? ».
Un viso scavato e diafano apparve di fronte a lei. I suoi occhi, castani, erano così vicini da poter scorgervi all’interno il proprio riflesso; le sue labbra abbastanza lontane da rendere le parole che pronunciava impercettibili. Della sua voce, un eco.
I contorni della sua testa, come finiva la carne, si fondevano con il nero e quasi macchiavano l’aria, tale da emanare un alone roseo attorno a sé.
« Non hai prestato attenzione ad una parola che ho detto ».
Erika ritrasse gli occhi.
Una luce profusa e candida aveva aperto uno squarcio alle spalle dell’uomo, lasciando intravedere oltre a sé delle figure strette e squadrate slanciarsi verso l’alto. Mano a mano che la luce s’insediava nella stanza, tutt’attorno si fece più chiaro: apparve una scrivania color mogano, una moquette verdastra e delle pareti bianche a circondarla.
Lentamente, schiuse le palpebre.
« Cosa ho detto? ».
Ora che osservava meglio, erano dei grattacieli le figure grigie che si stagliavano dalla finestra. Ogni occhiata che lanciava, tuttavia, richiedeva che entrasse in contatto prima con l’uomo che le sedeva davanti, e ciò cominciò a metterla a disagio.
Era come se fosse intrappolata nel suo corpo, senza che potesse parlare o muoversi: le era concessa solo la vista.
« Come pensavo, e ti risparmio la fatica di chiedermelo — che evidentemente ti sei già presa. Sei licenziata ».
Prima che potesse accorgersene, era uscita dalla stanza. Guardò indietro a sé, alla porta dalla quale credeva di esser passata. Cos’è successo?
« Dove sono? » balbettò, come il suo sguardo perlustrava il corridoio davanti.
Fece un passo avanti.
« C’è qualcuno? ». La sua voce risuonò nella cavità. « C’è qualcuno? ».
A quel primo passo ne seguì un altro ed un altro ancora. Poteva percepire lo spazio dilatarsi e restringersi attorno a lei, le pareti del corridoio allontanarsi sempre di più per poi scattare indietro come una molla e soffocarla.
« Dove sono? » urlò, ma non ottene come risposta che il suo eco. « Dove sono? Aiutatemi! ».
« Dove sono? Aiutatemi! ».
Con la mano tirò su il lenzuolo a nascondere le labbra.
Mugugnò, come affondava il viso nel cuscino. Le estremità si piegavano come ripide montagne costrette sotto il peso del suo capo.
Un lamento anticipò il suo risveglio.
Aprì gli occhi nell’oscurità.
La sua fronte era imperlata di sudore e i suoi respiri si susseguivano brevi e veloci, uno dopo l’altro, come se si fosse fermata a recuperare il fiato dopo una lunga corsa. In verità, pensò, ciò non era troppo lontano dalla realtà.
All’inizio fece fatica a capire a cosa era dovuto, finché nella sua mente non prese di nuovo vita quella strana immagine di cui aveva avuto esperienza fino a prima.
« Mi stai ascoltando, Hilda? ».
Quelle parole rimbombavano nel silenzio della notte. Nella sua testa non era capace di cancellare quella strana visione. Quei palazzi, quell’uomo, quella sensazione.
Si alzò dal letto, portando le mani in avanscoperta per eventuali oggetti affilati od ostacoli, ed in punta di piedi, nell’assoluta calma, raggiunse la finestra. Appese il suo braccio alla tenda e lo fece scivolare alla sua destra, rivelando dietro di esso lo skyline di Nimbasa City che illuminava la città a giorno; una cascata di luce si riversò silenziosamente nella stanza.
« Uh? ».
Nella sua mente fece combaciare i grattacieli del suo sogno al paesaggio cittadino che si presentava davanti a lei; sorrprendentemente, le due immagini differivano per non pochi particolari. Non era Nimbasa la città del suo sogno. Che posto era?. E chi era dunque, quell’uomo? Pareva ricordare le sue caratteristiche a memoria, l’immagine del suo viso era impressa nitidamente nei suoi ricordi, ma non riusciva a completare il quadro.
Al solo pensiero, un brivido corse lungo la sua schiena.
Hilda Baskerville: per la prima volta, in quei giorni, il pensiero che vi fosse un fondo di verità alle parole di Ethan le sfiorò la mente.
𐌳 𐌳 𐌳
flashback – Anville Town – 10/02/13
Un nuovo giorno era sorto ad Anville Town.
Le luci del mattino filtravano attraverso la finestra di Louis silenziose, arrampicandosi sulle pareti ed insinuandosi nelle fessure del suo appartamento. Non un passo poteva rompere il silenzio che aleggiava tra le stanze, degno di un processione religiosa. E forse c’era qualcosa di religioso, nel modo in cui aveva disposto le foto ed i ricordi legati ad Erika tutt’attorno la sua tavola. Al centro, un mazzo di calle bianche, le sue preferite, ed una busta sul quale era scritto il suo nome a caratteri cubitali. X ERIKA.
Una camicia bianca e dei pantaloni beige erano stati piegati accuratamente e poggiati a cavallo sullo schienale di una sedia, mentre un paio di scarpe bianche sfavillanti di lucido giacevano per terra.
Louis, invece, era ancora a dormire.
Dlin dlin.
Le luci del mattino filtravano attraverso la finestra di Louis silenziose, arrampicandosi sulle pareti ed insinuandosi nelle fessure del suo appartamento. Non un passo poteva rompere il silenzio che aleggiava tra le stanze, degno di un processione religiosa. E forse c’era qualcosa di religioso, nel modo in cui aveva disposto le foto ed i ricordi legati ad Erika tutt’attorno la sua tavola. Al centro, un mazzo di calle bianche, le sue preferite, ed una busta sul quale era scritto il suo nome a caratteri cubitali. X ERIKA.
Una camicia bianca e dei pantaloni beige erano stati piegati accuratamente e poggiati a cavallo sullo schienale di una sedia, mentre un paio di scarpe bianche sfavillanti di lucido giacevano per terra.
Louis, invece, era ancora a dormire.
Dlin dlin.
10 Febbraio 2013
8:30
RICORDATI DI ANDARE DA ERIKA
8:30
RICORDATI DI ANDARE DA ERIKA
Un bagliore luminoso zampillò sullo schermo del cellulare di Louis, sul suo comodino.
Il ragazzo lo ignorò, nascondendo il viso sotto le coperte, e grugnì.
Dlin din.
10 Febbraio 2013
8:40
RICORDATI DI ANDARE DA ERIKA!!
8:40
RICORDATI DI ANDARE DA ERIKA!!
Dlin dlin.
10 Febbraio 2013
9:00
RICORDATI DI ANDARE DA ERIKA!!!!!!!!
9:00
RICORDATI DI ANDARE DA ERIKA!!!!!!!!
Al terzo memo che spezzava la quiete mattutina si degnò di alzar la testa, osservando con rancore l’oggetto del suo disturbo. Non appena, oltre il corridoio, intravide i vestiti che aveva piegato la sera prima, una lampadina si accese dentro di lui. Erika.
𐌳
L’appartamento di Erika Joy si trovava nell’esatto posto in cui, giorni prima, Louis l’aveva lasciato. Alzò gli occhi: Kimberly, West, Pratt, Walsh, Joy… Joy! Erika Joy. Con grande e alquanto strana sorpresa, anche la targhetta del suo appartamento, il numero 11, si trovava dove l’aveva lasciato quel giorno.
Poteva ancora sentire le urla, i passi pesanti, ed il suo viso. Un’espressione di rabbia che piegava le labbra del suo volto, corrompeva ogni sua ruga d’espressione.
Scacciò dalla testa quel pensiero e premtte il pulsante.
Un ronzio aleggiò nell’aria.
« Ehi, Key… ero venuto—».
Staccò il dito dal suo nome. Un’impronta di grasso e sudore luccicava sulla plastica.
Sbuffò.
Ripremette.
« Key, senti… dopo tutto quello che è successo… io… ». Guardò in basso, come ad evitare lo sguardo inquisitore della telecamera. « Io…—».
Lasciò nuovamente la presa.
Premette.
« Buongiorno » gracchiò una voce metallica.
« Buongiorno signora Pratt, potrebbe farmi entrare? Ho perso le chiavi di casa ».
« Louis? ».
« Sì, signora Pratt ».
« Oh, certamente! ».
La porta si aprì con un cingolio e Louis si fece avanti, il suo cuore che batteva a mille.
Ora si trovava di fronte alla sua porta.
Nella mano destra, un mazzo di rose, sopra il quale culminava una busta bianca.
La mano sinistra, poggiata sulla scritta ERIKA JOY, mentre nell’aria risuonava un campanellino.
𐌳 𐌳 𐌳
« Cosa significa che vuoi tornare a casa? ».
« Voglio semplicemente tornare ad Anville, Ethan ».
« Ma è questa casa tua! Non lo capisci? ».
Se non lo avesse conosciuto, avrebbe detto che quel comportamento le faceva paura. Il suo viso emanava tutto fuorché la minima sensazione di bontà e nella sua voce, roca, udiva un profondo rancore ribollire. Ma poteva dire di conoscerlo? Chi era veramente il ragazzo di fronte a lei? Ethan Shepard, un nome, un foglio bianco. Forse non lo conosceva affatto.
« No, non lo capisco » proruppe, la voce atona. « Non capisco un cazzo! » urlò dunque.
« Posso aiutar—».
« Non ho bisogno di aiuto. Non mi serve qualcuno che mi prenda per mano e mi dica cosa fare ».
Erika abbassò lo sguardo. Per un attimo, seppur impercettibile, le parve di riconoscere il ragazzo: scacciò il pensiero dalla testa.
« Voglio… voglio tornare a casa » concluse « con, o senza di te ».
« Hil—».
« Erika » lo corresse « con o senza di te ».
𐌳 𐌳 𐌳
« Key, sei dentro? ».
I colpi alla porta rimombavano sordi.
« Key? Non è divertente! ».
« Key?».
« Key! Rispondimi, cazzo! ».
Louis distese la sua schiena sulla porta e lentamente lasciò la presa sulle gambe, scivolando accovacciato sul suo zerbino. Recitava a scritta: “No place like home”. Le rose erano ammaccate ed avevano perso il loro volume, schiacciate sul terreno e sporche di fango.
Il pensiero che Erika evitasse ogni suo contatto non era plausibile, non a quel punto per lo meno. Non era da lei.
Estrasse il telefono dalla tasca e fissò lo schermo: da spento, il suo riflesso vi baluginava in tuta la sua tristezza e pateticità. Patetico, era questo ciò che vedeva all’interno dell’apparecchio.
Lo accese, scorse la rubrica e cliccò su “Keyra”.
…
« Love is like starlight… »
Il silenzio venne interrotto da uno squillo.
« … even when a star dies, it continues to shine ».
« Key? ».
Poteva giurarlo, era la suoneria del cellulare di Erika.
Si girò e prese a bussare più forte sul legno, nella speranza che Erika rispondesse.
Che il vuoto rispose.
« Key! Key! ».
Fece dei passi all’indietro, portò le braccia all’altezza del torace e si gettò a capofitto sulla porta, cui serratura non resistette l’impeto di 80 kili di peso in movimento contro di essa. Si spalancò ed urtò violentemente contro la parete, risultando in un sordo eco attraverso tutto l’appartamento.
Lo spettacolo che si presentava ai suoi occhi era terrificante: la casa pareva esser stata sconquassata da un terremoto.
Sul comò, all’entrata, il telefono: perfettamente integro e squillante.
𐌳 𐌳 𐌳
« Un’altra giornata persa in autostrada ».
« Non ti ho chiesto di venire, Ethan ».
« Ti aspettavi che rimanessi a Nimbasa? ».
« Sì ».
Ethan guardò fuori dal finestrino, sperando di uscire da quella discussione.
« Be’, ormai sono qu—»
« Allora stai zitto. Sarà un lungo viaggio ».
Erika aumentò la pressione sul pedale e la macchina impennò.
𐌳 𐌳 𐌳
Le lacrime scorrevano sul viso di Louis.
Disteso sul divano di Erika, la porta ancora spalancata, il soqquadro tutt’attorno, il suo sguardo era fisso sulla parete. Seguiva con gli occhi le macchie di luce che le macchine proiettavano sulla parete, filtrate attraverso la finestra e deformate dalla tappezzeria. Striscie, corpi sferici, righe mistilinee che si susseguivano come danzatrici una dietro l’altra, e ne catturavano in pieno l’attenzione. Osservandole, nel silenzio, poteva udire la voce di Erika nei suoi occhi.
E ora lei era scomparsa, svanita nel vuoto, senza neanche un saluto.
Forse se lo meritava, pensò, mentre si apprestava a cadere nelle braccia di Morfeo.
𐌳 𐌳 𐌳
presente – Anville Town – 14/02/13
« I said maybe, you’re gonna be the one that saves me… »
Sulle note di Wonderwall, la macchina si apprestava a rientrare silenziosamente in città. Era l’una, pressapoco, quando Erika, uscendo dall’autostrada, aveva imboccato la statale in direzione dell’uscita sud di Anville Town. Avevano oltrepassato il ponte e le sue migliaia di luci colorate che pendevano da esso, riflettendosi nell’acqua in altrettanti scherzi luminosi, ed il solo pensiero le ricordava di Louis.
Viaggiare in macchina le ricordava di Louis.
Che fine avevano fatto i suoi progetti?
« you’re my wonderwall… »
Che fine aveva fatto la sua vita?
Un sorriso inarcò le labbra di Erika. La sua vita. Che ridere.
Poteva dire di avere una vita?
Non sapeva più la risposta a quella domanda. Quella che credeva essere la sua vita non si era rivelata altro che una bugia, sotto il peso delle parole di uno sconosciuto. Non era sicura di crederci, no di certo, si rifiutava di credere a quella possibilità aggrappandosi alla speranza che lo fosse. Aveva bisogno di sapere che quel vuoto che sentiva dentro di sè, quella costante sensazione di inadeguatezza, di mancanza, era giustificata.
La macchina imboccò la discesa per il garage e si immerse nel buio.
Come le porte automatiche si chiudevano, la luce veniva risucchiata dalla grande sala sotterannea e Erika, dall’interno della vettura, si stava lasciando per qualche secondo cullare dal calore dell’oscurità. Il getto di aria calda che partiva dal cruscotto irradiava la macchina e lambiva la sua pelle, trasmettendole una sensazione di casa che da tempo non provava su di lei. Ed ora, in quel momento, mentre i suoi occhi si erano persi in una macchia d’inchiostro ed il silenzio perforava le sue orecchie, poteva quasi sentirlo.
Louis.
Sulle note di Wonderwall, la macchina si apprestava a rientrare silenziosamente in città. Era l’una, pressapoco, quando Erika, uscendo dall’autostrada, aveva imboccato la statale in direzione dell’uscita sud di Anville Town. Avevano oltrepassato il ponte e le sue migliaia di luci colorate che pendevano da esso, riflettendosi nell’acqua in altrettanti scherzi luminosi, ed il solo pensiero le ricordava di Louis.
Viaggiare in macchina le ricordava di Louis.
Che fine avevano fatto i suoi progetti?
« you’re my wonderwall… »
Che fine aveva fatto la sua vita?
Un sorriso inarcò le labbra di Erika. La sua vita. Che ridere.
Poteva dire di avere una vita?
Non sapeva più la risposta a quella domanda. Quella che credeva essere la sua vita non si era rivelata altro che una bugia, sotto il peso delle parole di uno sconosciuto. Non era sicura di crederci, no di certo, si rifiutava di credere a quella possibilità aggrappandosi alla speranza che lo fosse. Aveva bisogno di sapere che quel vuoto che sentiva dentro di sè, quella costante sensazione di inadeguatezza, di mancanza, era giustificata.
La macchina imboccò la discesa per il garage e si immerse nel buio.
Come le porte automatiche si chiudevano, la luce veniva risucchiata dalla grande sala sotterannea e Erika, dall’interno della vettura, si stava lasciando per qualche secondo cullare dal calore dell’oscurità. Il getto di aria calda che partiva dal cruscotto irradiava la macchina e lambiva la sua pelle, trasmettendole una sensazione di casa che da tempo non provava su di lei. Ed ora, in quel momento, mentre i suoi occhi si erano persi in una macchia d’inchiostro ed il silenzio perforava le sue orecchie, poteva quasi sentirlo.
Louis.
𐌳𐌳𐌳
« Ti vedo scioccata. Ottimo ».
Sussultò sul sedile.
Come fece per muoversi, notò di trovarsi su una poltrona foderata in pelle color bordeaux. La moquette verde smeraldo tradiva la natura della sua posizione; e come muoveva lo sguardo plasmava lo spazio circostante, dando vita all’ufficio nel quale si trovava poco prima. Be’, relativamente. Tuttavia, in quel momento poteva dire di non aver mai lasciato il maledetto luogo.
Tutto sembrava così… reale.
È quello che sono i sogni di solito, pensò. Ne era certa: stava sognando. In qualche modo, aveva ripreso coscienza del sogno della sera prima.
« Hai smesso di s—ere per il C— ».
« Dove sono? ».
L’uomo rimase impassibile di fronte alla sua richiesta. A giudicare dalla sua espressione, non pareva aver udito una parola.
« Hilda, i tuoi ———— fanno schifo. Fa schifo ogni cosa che scrivi, non mi capacito di come ti ————— per più di un anno ».
« Hilda? Conosci Hilda? ». La sua voce era muta.
Tentò di alzarsi dalla sedia, ma ogni sforzo che compiva finiva per riportarla dov’era poco prima. Ogni movimento che avanzava era vano, rimaneva immobile, costretta di fronte a quell’uomo. Prigioniera di un’illusione.
Un rumore cavo rimbombò lungo le pareti.
« Scusate, ho interrotto qualcosa? ». Una terza voce s’insinuò nella testa di Erika. « Ho aspettato un po’ prima di entrare, ma è abbastanza urgente ».
Come Erika si girò vide un’altra donna, pressapoco qualche anno in più rispetto a lei, muoversi attraverso la stanza, oltrepassare il suo corpo paralizzato e giungere dall’altra parte, dal misterioso uomo.
« Non preoccuparti, Natalie » continuò il vecchio « io e la signorina Baskerville non abbiamo più nulla da dirci ».
« Erika? ».
Le loro bocche si mossero simultaneamente. Una voce roca usciva dalle loro labbra, diversa dalle precedenti.
« Erika, cosa stai facendo? ».
« Erika! ».
Erika aprì gli occhi.
12 febbraio. Ore 01:34, l’insegna a neon che scintillava davanti a sé, poco sotto il volante.
La luce del cruscotto illuminava i sedili anteriori, rischiarando la via di fronte a sé, seppur di poco. Tanto era flebile da non riconoscere il colore della maglietta che indossava né da vedere, nitidamente, il contorno delle sue mani. Il parcheggio interno era celato nell’oscurità, irragiungibile dalla fioca luminosità.
« Dove siamo? ».
Una scarica di freddo partì dal collo, irradiando la colonna vertebrale e le braccia.
« Stavi dormendo? ».
Annuì.
Ethan allungò la mano per la radio « Dove siamo, allora? ».
« Ad Anville Town ».
« Di già? ». Non trovò il pulsante d’accensione. « Dove? ».
« A casa mia ».
Ethan non rispose.
« Nel parcheggio di casa mia ».
« Oh. Pensavi di uscire dalla macchina? ».
« Io… mi sono addormentata, scusa ».
« Tranqui—».
« Se non ti dispiace vorrei salire. Da sola ».
« Da sola? Perché—»
« Da sola » lo interruppe. « Troverai… troveremo una posto per la notte, per te, se vuoi puoi dormire in macchina ».
Il rumore delle molle della portiera che si contraevano risuonò nell’aria. Ethan poté solo sentirlo, non vederlo, tanto era debole la luce.
« Tornerò presto ».
Ritrasse il collo dalla macchina e svanì nell’oscurità, accompagnata dal clangore della portiera che si richiudeva.
𐌳 𐌳 𐌳
Il corpo di Louis giaceva, privo di coscienza, sul divano, le braccia che pendevano a filo di piombo verso il pavimento ed il viso catturato in una bonaria espressione di beautitudine. Era perso, perso fra le braccia di Morfeo, nell’oscurità dell’appartamento di Erika, senza che alcun rumore potesse disturbare il suo sonno.
Non era raro che delle fugaci ombre luminose, ombre, data la loro natura di macchie su uno sfondo oscuro, svettassero lungo le pareti bianche della stanza, anticipate e proseguite, una volta spentesi, dal rombo delle macchine che sfrecciavano davanti all’appartamento.
Così Louis, cullato dai rumori del traffico, dormiva.
Nell’aria stridette un rumore metallico.
Le braccia di Louis si torsero.
Il suo viso, disteso, si contrasse.
Era il rumore dell’ascensore.
Sbattè, le palpebre, guardandosi attorno: nulla era cambiato rispetto a quando, poche ore prima, si era assopito.
Guardò avanti, in direzione del corridoio del condominio: la porta, ancora spalancata, dava una visuale completa sul tunnel che, decine di metri e qualche appartamento più avanti, finiva con l’entrata dell’ascensore. In cima culminava il numero 2, scintillante.
L’ascensore era diretto a quel piano.
Si rialzò, muovendo dei passi in direzione della soglia.
Come le porte dell’ascensore si aprivano, una silhouette femminile apparve, illuminata dalla cabina dello stesso.
« Erika! Sono io, Louis! ».
Corse in avanti, uscì dall’appartamento e si gettò verso l’ascensore.
𐌳 𐌳 𐌳
In ascensore, Erika non faceva che pensare a Louis.
Ritornare al suo appartamento, più che prima, aveva riportato a lei memorie e ricordi dei quali aveva rimosso l’esistenza: come se ogni singolo attimo passato con lui fosse giunto a galla, con il solo obbiettivo di confonderle di più la mente. Sopra ciò, il sogno che dal giorno prima la perseguiva non pareva avere una soluzione.
Quella spiacevole situazione aveva avuto un solo scopo in lei: quello di insinuare, definitivamente, il tarlo di Hilda Baskerville: era certa che vi fosse un fondo di verità alla faccenda.
Giunse al secondo piano, accese le luci e percorse il corridoio, come una qualsiasi altra giornata. La sua porta, il numero 11 in fondo al corridoio, appariva come l’aveva lasciato qualche giorno prima. Nulla che facesse pensare come la sua vita fosse stata ribaltata, almeno dentro la sua testa.
𐌳 𐌳 𐌳
« Louis? Cosa ci fa qua, a quest’ora? ».
Le luci si accensero.
Davanti a lui si stagliava una figura ben diversa da quella di Erika: una signora di mezza età, dai capelli castano chiaro, che stringeva tra le mani una ventiquattr’ora ed una giacca beige.
La voce di Louis si spezzò. « Signora… signora Pratt? ».
I suoi occhi, stremati, guardavano risucchiati della vita la donna, che gli restituì uno sguardo confuso. Le sue labbra tremavano, ancora umide di saliva, e la sua espressione facciale era courrugata nel disappunto. Quella che pensava essere Erika non si era rivelato che un miraggio: tempo e fatica persi.
« Sono io, Louis. Cos’è successo? ».
« Io… io… pensavo che fosse Erika… ».
« Erika? ».
La donna guardò oltre: la porta dell’appartamento di Erika era spalancata, e da quanto le luci del corridoio illuminavano all’interno, la situazione era nel chaos.
Il che rifletteva l’atteggiamento di Louis: perso e caotico.
« Cos’è successo? ».
Megan, questo era il suo nome, versò del tè caldo nella tazza di Louis. Tè verde, come il colore dei suoi capelli.
« E ti sei addormentato? ».
Louis era ancora scosso.
« Sì… credo di sì ».
« Finché non sono arrivata io…? ».
Annuì. « Esatto ».
« Avevi intenzione di restare là fino a che non fosse tornata? ».
Louis deglutì un sorso di tè, rimanendo in silenzio. Era solo una scusa, tuttavia, una blanda scusante nella speranza di rimandare una risposta di cui si vergognava.
« Sì » mormorò, ritraendo la vista dagli occhi di Megan.
« Oh ».
La donna cercò il suo sguardo, cosa che abilmente evitava.
« Se vuoi… se vuoi posso avvisarti, non appena la sento, della sua posizione ».
La voce di Louis si alzò di un’ottava. « Davvero? ».
« Sì » sorrise. « Finisco sempre lavoro tardi, se per caso un giorno dovessi vedere che è rientrata posso dirtelo. Sempre se— sempre se non si fa viva prima ».
« Sarebbe molto gentile, grazie. E posso chiederle un altro favore? ».
𐌳 𐌳 𐌳
Quando Erika portò la mano alla maniglia della porta e fece per aprirla, girate le chiavi, scivolò lungo il suo perno come una sfera sul pavimento. La presa era strana, stranamente labile, ma non vi fece troppo caso. L’idea che qualcuno avesse potuto scassinare il suo apparamento le sembrava ridicola.
Fino a quando non mise piede dentro.
Il disastro che aveva lasciato, pur se leggermente messo in ordine da Ethan, era completamente scomparso: non v’era un segno degli avvenimenti dei giorni prima.
Una sola era fuori posto; o meglio, apparsa dal nulla: uno strano foglio, piegato accuratamente in tre, giaceva sul tavolino in entrata.
Ciao Keyra, sono Lou.
Non so quando leggerai questo messaggio, forse mai.
Volevo chiamarti, ma poi ho pensato che fosse meglio lasciar passare un po’ di tempo prima di risentirci.
Oggi 10 febbraio (in reatà adesso sono le 2.00 del 11, ma mentalmente sono ancora nel 10) sono venuto a casa tua e non ti ho trovato. Ho dovuto forzare la porta, scusami (era rotta comunque).
Mi sono addormentato sul tuo divano e mi ha svegliato la signora Pratt (lo sapevi che si chiamava Megan?), che mi ha anche aiutato a sistemarti un po’ casa (pensavo ti avesse potuto far piacere — ho controllato che non fregasse niente).
Il tuo telefono è ancora qua e non so tu dove sia, però spero tu stia bene (anche se quando leggerai questa lettera sarai già a casa. Magari
Non so quando leggerai questo messaggio, forse mai.
Volevo chiamarti, ma poi ho pensato che fosse meglio lasciar passare un po’ di tempo prima di risentirci.
Oggi 10 febbraio (in reatà adesso sono le 2.00 del 11, ma mentalmente sono ancora nel 10) sono venuto a casa tua e non ti ho trovato. Ho dovuto forzare la porta, scusami (era rotta comunque).
Mi sono addormentato sul tuo divano e mi ha svegliato la signora Pratt (lo sapevi che si chiamava Megan?), che mi ha anche aiutato a sistemarti un po’ casa (pensavo ti avesse potuto far piacere — ho controllato che non fregasse niente).
Il tuo telefono è ancora qua e non so tu dove sia, però spero tu stia bene (anche se quando leggerai questa lettera sarai già a casa. Magari
« la staremo leggendo assieme, chissà). Nel frattempo, spero tu stia bene. Ti amo, Louis ».
Le sue mani tremavano come impugnava il foglio in mano.
Una lacrima scese lungo la guancia, giungendo a toccare la superficie di cellulosa. La goccia si poi disperdse lungo le fibre, formando una forma rudimentale di infiorescenza lungo la carta.
Accese le luci.
Il suo appartamento, come aveva potuto notare prima, era più ordinato di quanto non lo fosse mai stato per tutto l’anno che aveva vissuto ad Anville Town.
Si gettò sul divano, appoggiando la lettera in parte a lei.
Per un attimo, pur fosse breve, fece finta di esser tornata da una lunga giornata di lavoro.
Allargò le braccia lungo tutta l’estensione del sofà, si levò le scarpe a scalciate e accavallò le gambe sul tavolino. Portò la testa in alto, a guardare il soffitto.
Era la pace dei sensi.
𐌳
presente – Nimbasa City – 14/02/13
«
Cara Natalie, ho appena trovato un sostituto ! Natalie, questa è Hilda
Baskerville, Hilda, questa è Natalie ———, sono sicuro farete ottima
amicizia ».
Un brivido corse lungo la sua schiena.
Si guardò attorno con orrore, per scoprire che era ricaduta nello stesso sogno.
Lo stesso ufficio.
Le stesse persone.
La stessa… Hilda?
« Non capis—» » commentò la donna « oh ».
« Un po’ di entusiasmo! ».
Erika non si capacitava di cosa stessero parlando.
Da quello che poteva osservare, tuttavia, la donna non doveva essere molto simpatica.
« Se è così è bene che tu ti faccia trovare nella mia postazione nel giro di un quarto d’ora, devo spiegarti mesi di arretrati ».
« Posizione? » bofonchiò Erika « quale posizione? Qual—».
Di punto in bianco, la scena era cambiata.
« … e quindi, da quando Grimsley ha preso il posto dell’altro Elite 4 tipo Buio… mi stai ascoltando, Hilda? ».
Ora si trovava in un ufficio, grande pressapoco come quello precedente, di fronte ad una parete finestrata che dava sui palazzi di una città. Come aveva ragionato il giorno prima, tuttavia, non era di Nimbasa che si trattava: e allora di che cosa?
Di fronte a lei, la medesima donna di prima, e tutto ciò che sapeva di lei, un nome: Natalie.
« Hilda, mi ascolti? ».
Erika scosse la testa, ma ritrasse successivamente lo sguardo. Aveva smesso di interagire con un miraggio, frutto della sua immaginazione, il quale unico scopo era farla sentire inutile.
« Cazzo, Hilda, è importante! Non puoi non sapermele ste cose! ».
Qualcosa era cambiato.
« Come scusa? » prorubbe Erika « mi puoi sentire? ».
« C’è qualche problema? Certo che ti sento, cosa sta—».
Gli occhi di Erika si illuminarono. « Mi puoi sentire! ».
Natalie, d’altro canto, la fissava come un medico fissa un paziente affetto da pazzia.
« Dove siamo? ».
« Come dove siamo? Dovresti saperlo, Hilda ».
Erika si guardò attorno, euforica di potersi muovere all’interno di quel sogno. Osservò le pareti, cercò aiuto nei calendari e nelle foto, ma ogni straccio di fonte a cui poteva aggrapparsi finiva per risultare bianco o sbadito: come se la sua mente, volutamente, occultasse le informazioni utili e nascondesse ciò che le serviva sapere. O forse, al contrario, era occultato proprio perché non esisteva.
« Hilda, cosa stai facendo? ».
Natalie si alzò dalla sedia, muovendosi verso di lei.
Le sue mani erano alzate, come a voler difendersi o mostrare arrendevolezza.
« Dove siamo, Natalie? Che posto è questo? Dove mi trovo? ».
« Dovresti saperlo, Hilda » sorrise Natalie, come si muoveva verso di lei ed Erika retrocedeva. « Ora, se mi lasci aiutarti… ».
Natalie le prese le mani e, fissandola negli occhi, la spinse all’esterno, contro la parete. Il vetro non resse il peso dell’impatto e si frantumò in migliaia di scheggie, mentre lei precipitava in caduta libera per le strade di una città a lei sconosciuta.
La caduta, al contrario di quello che poteva immaginare, era molto più simile ad un volo che ad una vera e propria caduta, poiché sembra eterna e lasciava la possibilità ad Erika di osservarsi attorno con calma e addirittura cercare, con lo sguardo informazioni sul luogo.
La caduta continuava, mentre l’aria fredda accarezzava la sua pelle, sino a che non avvenne l’impatto con il suolo, col cemento, a terminare l’agonia.
Lo scontro fu indolore.
Si guardò attorno, come un bambino che cade sopra dei lego, e vide una piccola scritta scintillare sopra la sua testa, sopra l’edificio dal quale era caduta.
Un brivido corse lungo la sua schiena.
Si guardò attorno con orrore, per scoprire che era ricaduta nello stesso sogno.
Lo stesso ufficio.
Le stesse persone.
La stessa… Hilda?
« Non capis—» » commentò la donna « oh ».
« Un po’ di entusiasmo! ».
Erika non si capacitava di cosa stessero parlando.
Da quello che poteva osservare, tuttavia, la donna non doveva essere molto simpatica.
« Se è così è bene che tu ti faccia trovare nella mia postazione nel giro di un quarto d’ora, devo spiegarti mesi di arretrati ».
« Posizione? » bofonchiò Erika « quale posizione? Qual—».
Di punto in bianco, la scena era cambiata.
« … e quindi, da quando Grimsley ha preso il posto dell’altro Elite 4 tipo Buio… mi stai ascoltando, Hilda? ».
Ora si trovava in un ufficio, grande pressapoco come quello precedente, di fronte ad una parete finestrata che dava sui palazzi di una città. Come aveva ragionato il giorno prima, tuttavia, non era di Nimbasa che si trattava: e allora di che cosa?
Di fronte a lei, la medesima donna di prima, e tutto ciò che sapeva di lei, un nome: Natalie.
« Hilda, mi ascolti? ».
Erika scosse la testa, ma ritrasse successivamente lo sguardo. Aveva smesso di interagire con un miraggio, frutto della sua immaginazione, il quale unico scopo era farla sentire inutile.
« Cazzo, Hilda, è importante! Non puoi non sapermele ste cose! ».
Qualcosa era cambiato.
« Come scusa? » prorubbe Erika « mi puoi sentire? ».
« C’è qualche problema? Certo che ti sento, cosa sta—».
Gli occhi di Erika si illuminarono. « Mi puoi sentire! ».
Natalie, d’altro canto, la fissava come un medico fissa un paziente affetto da pazzia.
« Dove siamo? ».
« Come dove siamo? Dovresti saperlo, Hilda ».
Erika si guardò attorno, euforica di potersi muovere all’interno di quel sogno. Osservò le pareti, cercò aiuto nei calendari e nelle foto, ma ogni straccio di fonte a cui poteva aggrapparsi finiva per risultare bianco o sbadito: come se la sua mente, volutamente, occultasse le informazioni utili e nascondesse ciò che le serviva sapere. O forse, al contrario, era occultato proprio perché non esisteva.
« Hilda, cosa stai facendo? ».
Natalie si alzò dalla sedia, muovendosi verso di lei.
Le sue mani erano alzate, come a voler difendersi o mostrare arrendevolezza.
« Dove siamo, Natalie? Che posto è questo? Dove mi trovo? ».
« Dovresti saperlo, Hilda » sorrise Natalie, come si muoveva verso di lei ed Erika retrocedeva. « Ora, se mi lasci aiutarti… ».
Natalie le prese le mani e, fissandola negli occhi, la spinse all’esterno, contro la parete. Il vetro non resse il peso dell’impatto e si frantumò in migliaia di scheggie, mentre lei precipitava in caduta libera per le strade di una città a lei sconosciuta.
La caduta, al contrario di quello che poteva immaginare, era molto più simile ad un volo che ad una vera e propria caduta, poiché sembra eterna e lasciava la possibilità ad Erika di osservarsi attorno con calma e addirittura cercare, con lo sguardo informazioni sul luogo.
La caduta continuava, mentre l’aria fredda accarezzava la sua pelle, sino a che non avvenne l’impatto con il suolo, col cemento, a terminare l’agonia.
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« Castelia… City? ».
Il sogno svanì, nel fumo, ed ella fu prepotentemente riportata alla realtà.
Sbattè le palpebre, facendosi comoda nel divano, ed aprì gli occhi.
« Erika? ». Lousi si stagliava di fronte a lei, sul ciglio della porta, il telefono in mano. « La porta… era aperta ».
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