II
Once upon another time
Before I knew which
life was mine
Before I left the child
behind me
I saw myself in summer
nights
And stars lit up like
candle light
I make my wish but
mostly I believed
In yellow lines and
tire marks
Sun-kissed skin and
handle bars
And where I stood was
where I was to be
2005
29/09/05
I caldi raggi
solari irradiavano le pareti di un tenue arancione.
Una lama dorata
tagliava il viso di Red in due parti, correndo dalle sue ciocche castane di
capelli che arruffate cadevano sulla fronte sino al lato destro della sua
guancia.
La sua mano
destra corse lungo il sottile tessuto delle lenzuola, ruvido e soffice allo
stesso tempo, finché non incontro un ostacolo nella sua direzione. Sbatté gli
occhi confuso, e quando li aprì vide una chioma rossa sciolta sul cuscino che
stava accantogli.
«Uh?».
Ritrasse con un
movimento felino la mano a sé e spostò il busto in avanti: non era un sogno.
Blue giaceva davanti a lui, dormendo di respiri lenti e profusi, vestito solo
di una canottiera bianca ed un paio di boxer verdi. Le sue gambe erano raccolte
verso il suo torace in posizione fetale.
Red poggiò i
piedi a terra, disorientato, e si alzò.
Si trascinò verso
la porta ed uscì.
«Buongiorno».
Quando Blue aprì gli
occhi, fu investito da un fascio di luce brillante. Come prima risposta si coprì
gli occhi e piegò su stesso, cercando riparo nel cuscino, per poi spingere la
figura esterna che l’aveva svegliato lontano da sé con le gambe.
«Ehi, Blue…».
«Mpf…».
«Blue…».
Affondò il suo
indice nel soffice lembo di pelle che la sua maglietta lasciava scoperto fino a
toccare l’osso. Premette ancora, ed ancora, finché non innescò nel ragazzo una
risposta.
«Mpf… via…».
«Svegliati…».
Blue aprì le
braccia in una fitta di rabbia ed urlò. «Che cosa c’è?».
La sua voce
giunse alla orecchie di Red così cristallina che per un attimo tentennò.
«Red?».
«Sì?».
Come i suoi occhi
si abituarono alla luce, notò che l’ombra disegnava di fronte a lui una sagoma
molto peculiare, e come fu in grado di vederne i dettagli notò poco a poco che
si trattava dell’amico. In mano reggeva un vassoio di plastica e due tazzine.
«Oh, scusa…» ritrasse
le gambe verso di sé e si raccolse contro il muro, per lasciare spazio a Red
che sedeva sulla stessa sponda del letto. Egli, di suo, si fece avanti, posando
il vassoio tra loro due. «Buongiorno».
«Buongiorno anche
a te».
«Ahem… grazie per
il tè».
«Oh, figurati».
Un sottile sorriso corse sul suo viso.
Entrambi
raccolsero una tazzina ciascuno.
«Quindi… ora che
fai?».
«Al momento
nulla. Pensavo di chiedere a Lance—».
«No, no» rise
Blue «ora, in questo momento. Dopo aver finito il tè».
«Ah. Non so,
andarmene?».
«Nel senso, noi…».
«Noi…—».
«La nostra
relazione».
«Ah…». Red
nascose il suo sguardo dagli occhi inquisitori di Blue.
«“Ah”… e
poi?».
«Non so…».
«Basta!». L’esclamazione
di Blue era un misto di riso e esasperazione. «Non puoi dirmi sempre non so!
Anche se non sai veramente, fai finta di saperlo. Di non avermi fatto perdere
tempo».
Quella frase
strappò un sorriso a Red, pur mascherando dietro del nervosismo.
«Va bene. Voglio
provarci».
«Ottimo!» sorrise
Blue. «Aspetta. È una finta?».
17/10/05
Era da qualche
giorno che Red e Blue avevano concordato di andare ad abitare nell’appartamento
del secondo, giacché l’abitazione era più spaziosa e la posizione più centrale
rispetto alla precedente di Red. Non dovettero fare grandi traslochi e quel
lunedì, dopo due giorni di andata e ritorno (con molta calma da parte dei due),
Red si apprestava a fare ritorno a casa assieme ad una custodia nera di rigida
plastica. La sua base era larga e circolare, per poi restringersi ad imbuto
nella parte superiore e finire con un collo più stretto.
«Cos’è quella?».
Una smorfia piegò
le labbra di Red. «La mia chitarra».
«Suoni la
chitarra?».
Accennò ad un sì mentre
la poggiava a terra e chiudeva la porta dietro di sé.
«Wow… elettrica o
acustica?».
«Classica». Finse
un’offesa dietro quella risposta così secca, che Blue non raccolse – o finse di
non fare.
«Mi suoni
qualcosa?».
«No» sorrise Red.
«Perché?».
«Perché no».
«Dai! Qualcosina.
Poi la smetto».
Red esitò per
qualche secondo, durante il quale il suo sguardo oscillò, come il medaglione di
un pendolo, tra la figura del suo ragazzo e della chitarra. Per amor di scena
prolungò l’attesa ad un buon minuto, gustandosi lo sguardo quasi interrogatorio
che riceveva da Blue.
Raccolse la
custodia e la aprì. Tirò fuori la chitarra e la pose sulle proprie gambe come
si sedette su uno sgabello che stava accanto.
Le sue dita
presero a correre sulle corde, saltando di una in altra, mentre la sua testa
eseguiva dei leggeri movimenti oscillatori avanti e indietro.
«Aspetta, non
canti?».
«Eh?».
«Non… non canti?
Suoni e basta?».
Red rise. «Sì,
perché?».
«Mi aspettavo che
cantassi».
«Perché?» continuò
divertito.
«Be’… una
chitarra…».
«Classica».
«Cioè non canti?».
«In realtà potrei».
«Ma…?».
«Vuoi che canti?».
Blue esibì un
sorriso a trentadue denti. «Sì».
«Per quello…» sogghignò
Red «dovrai pagare un prezzo speciale».
«È un prezzo che
sono disposto a pagare» lo incalzò Blue.
Red sorrise e si
mise a suonare.
Le prime note
erano dolci, gentili, quasi sussurrate. Nel silenzio della mattinata, quei
suoni rimbombavano con tale candore tra le pareti della stanza che il tempo
pareva fermarsi pur di assistere a quella, pur modesta, composizione. Ogni
rumore esterno era ovattato e accantonato, per le orecchie di Blue l’unico
suono erano le note che Red suonava.
«Oh, to see
without my eyes…».
Le parole erano
sussurrate, come un respiro, e si mescolavano con grazia al suono della
chitarra.
«… boundless
by the time I cried, built your walls around me…».
Per Blue era un’esperienza
mai provata prima d’ora. La voce di Red, la persona che, durante quelle
settimane, aveva avuto il piacere di conoscere, nel momento del canto si
trasformava e si elevava a qualcosa di superiore, che tuttavia manteneva un
retrogusto della sua persona. Era come vedere un meraviglioso ritratto che, per
quanto fedele, prendeva le sue licenze artistiche per immortalare il concetto
di qualcosa in un modo diverso da come esso si presentava al mondo.
«… feel my
feet above the ground, hand of god deliver me…».
La melodia, come
un’onda di marea, prese un’improvvisa svolta, cambiando progressione di
accordi.
«Oh, it’s me,
the first time that you touched me. Oh, will wonders ever cease? Blessed be the
mystery of love…».
26/10/05
«Fiamo… mpf… ftati
invitati ad… mpf… una fefta».
Red alzò un
foglio davanti a sé, che si aprì sulla sua colazione come una fisarmonica (per
via delle piegature), mentre con la destra inzuppava un biscotto a forma di Pokéball
all’interno del tè.
«Che?».
Scostò il
biglietto per vedere, dietro di esso, la faccia di Blue che lo fissava curioso.
«Fiamo… ahem,
siamo stati invitati ad una festa. Cioè, io, per cui penso anche tu. È per
tutti i vincitori della Lega».
«Vai avanti».
«Questo alla
fine, niente di più».
«Che festa è?».
«Non so,
beneficienza credo».
Poggiò il foglio
sul tavolo e si alzò per portare la sua tazzina nel lavabo.
«Ci andiamo,
quindi?» riprese Blue.
«Cosa?».
«Ci andiam—».
«Avevo capito.
Perché?».
«Perché è figo?».
25/11/05
Le luci
giallo-ambra, profuse dai fari che circondavano lo specchio, scolpivano sul
corpo di Red, tramite un complesso gioco di ombre, un fisico snello ed
asciutto, ricoperto dal sottile tessuto bianco di una camicia. Più osservava il
suo riflesso muoversi davanti a sé, più era invogliato a continuare, quasi
catturato da come quella superficie potesse riflettere con così tanto zelo
qualcosa di così immensamente bello. Ammiccava, si girava, fletteva i suoi
muscoli.
«Sei un figo» udì
provenire dalla porta.
Quando si voltò,
vide un sorridente Blue che lo fissava quasi divertito dai suoi movimenti. Si
chiese per quanto tempo lo stava fissando.
«Blue?».
«Sei un cazzo di
fig—».
«Smettila» fece,
quasi offeso.
«Al volo!» esclamò,
come un pezzo di stoffa blu finì in faccia al ragazzo.
«Ehi!».
«Ti ho detto “al
volo”!».
Quando si chinò per
raccoglierlo, notò che si trattava di un papillon, sul quale era stampato un
motivo floreale in azzurro chiaro.
«Un papillon?».
«Esatto! Io ne ho
uno bordeaux» gli fece eco sorridente Blue, sistemandosi il farfallino nel
cuneo della camicia. «Perché, sì, tu sei Red, e io sono Blue, e tu hai un
papillon blu…».
Red rise. «Ho
capito, ho capito».
Srotolò le due
estremità dal fiocco ed alzò il bavero della camicia fino alla fine. Con la
destra appoggiò goffamente il papillon sul suo collo, mentre faceva scorrere la
sinistra lungo il suo collo. Quando si trovò dall’altra parte, chiuse alla ben’e
meglio il nodo, abbassando il bavero che risultò, di conseguenza, non privo di
colline e irregolarità.
Blue sorrise a
tanta goffaggine, e corse subito in aiuto del ragazzo. «Lascia fare a me».
Stirò la camicia
con due decise manate verso il basso, alzò completamente il bavero e sciolse il
nodo dal papillon. Lo rimise in posizione e stese bene la striscia di tessuto
blu, accompagnandola con decisione lungo tutto il giro del colletto. Giunto
alla fine annodò con precisione chirurgica i due lembi estremi e ripiegò il
bavero partendo dalla schiena.
«Ora sei perfetto»
concluse, tirandolo per l’estremità del colletto sul suo viso, e schioccò un
bacio.
L’edificio dove
si teneva la cena di gala era un palazzo del quale spiccava, in particolare, la
facciata di dichiarata ispirazione neoclassica. Una scalinata di marmo di pochi
gradini conduceva all’entrata, affiancata su ogni lato da due semicolonne che
terminavano, in alto, nel bassorilievo di un frontone. Un po’ kitsch, pensarono
Blue e Red, ma non poterono che restare rapiti dalla maestosità di quell’entrata,
così semplice e allo stesso tempo intimorente.
Anche i bagni del
palazzo mantenevano il medesimo tenore che la facciata – ed il resto dell’edificio
– presentava. I pavimenti in marmo trasmettevano la stessa sensazione di
opulenza dei lampadari in cristallo che accoglievano gli ospiti. I particolari
dorati (forse eccessivamente kitsch, ragionò Red) che incorniciavano gli
specchi e costituivano la tubatura del lavandino riflettevano come fari la luce
che investiva la stanza. La superficie metallica restituiva un’immagine sbiadita
quanto distorta del viso di Red.
«Casa nostra,
uguale» sorrise.
«A essere onesto
non mi fa impazzire».
«No?».
Blue scosse la
testa. «Mi stuferei già dopo un mese. O forse prima».
«Be’, sì» riconobbe
Red. «Però sarebbe bello».
«Nah».
Come finirono di lavarsi
le mani persi nel loro dorato riflesso che lo specchio ritornava, l’ultimo
stallo si liberò ed un uomo piuttosto anziano in frac uscì.
I due si misero
ad ispezionare nel dettaglio quel luogo. Gli stalli erano di legno laccato di
bianco e le chiusure di ottone. Nonostante la natura del bagno, le pareti
emanavano un pungente odore di pino bianco.
«Ehi» Blue
sussurrò «vieni qua».
«Cosa c’è?».
Red vide Blue
scomparire dietro l’ultima fila dopo gli stalli, nello spazio dove riponevano i
carrelli per la pulizia, e quando lo raggiunse era intento a sciogliersi il
papillon ed a riporlo in tasca.
«Cosa fai?».
«Cosa ti sembra?».
Red lanciò un’occhiata
all’entrata.
«Dai, andiam—».
«Hai paura?» rise
Blue. «Non stiamo facendo niente. E appena sentiamo che entra qualcuno,
stacchiamo».
«No».
«Dai! Quando
ricapiterà l’occasione?».
«No, Blue. E se
ci beccano?».
«Non saremo né i
primi né gl—».
«NO!». L’esclamazione
di Red rimbombò per tutta la stanza.
Blue aprì il
primo bottone partendo dall’alto e continuò, nonostante il parere contrario di
Red. Come la camicia si apriva, il tessuto scopriva il fisico tonico e snello
del ragazzo, sul quale correva una consistente peluria rossa. Finì di
sbottonarsi ed alzò lo sguardo a Red.
«Riabbotton—».
Blue lo colse di
soprassalto e lo spinse contro il muro dall’altra parte dello stallo, in piena
vista. I due si scambiarono un lungo bacio, e Red si decise a lasciarsi andare.
Anche durante l’atto trovò il tempo di sciogliersi il papillon e lo lasciò cadere
a terra, mentre apriva la sua camicia. Gettarono le loro giacche a terra e
cominciarono l’un l’altro a togliere lentamente le camicie.
Le calde mani di
Red scorsero lungo le più fredde braccia dell’altro, trascinando il cotone
bianco della camicia fino al polso, e poi fuori. Fece lo stesso dall’altra
parte, ed anche la camicia scivolò sul pavimento. Blue, al contrario, spinse la
camicia di Red verso l’esterno, e dalla sua schiena cominciò a strapparla via
dal suo corpo, finché anch’essa non andò incontro alla stessa fine.
I loro respiri
erano corti e mozzati, i loro muscoli tesi e l’attenzione reciprocamente
concentrata sull’altro.
Red spinse Blue
verso il muro, dalla parte degli stalli, e per un momento la forza d’attrito
nei confronti del muro eguagliò la gravità.
Le sue mani
corsero sul suo corpo, sulla morbida peluria, e scesero sul cavallo dei
pantaloni. Blue si adoperò per aprire la cerniera e sbottonare la camicia, ed
anche i pantaloni caddero al suolo, rivelando un paio di boxer nero pece.
Un rumore cavo
risuonò per le pareti.
Il corpo di Blue
si irrigidì.
Si chinò per
raccogliere i suoi pantaloni ed indossarli nuovamente, mentre incitava a Red di
fare lo stesso.
Il suono dei
passi si faceva più vicino, e finalmente udirono una persona entrare in uno
stallo.
«Cazzo» mormorò Red
mentre accorreva a prendere le loro camicie. Lanciò a Blue la sua camicia e
riprese subito dopo a riabbottonarla. Per ogni bottone che chiudeva, maledisse
il creatore delle camicie per aver creato un indumento così attraente e tedioso
allo stesso tempo.
Il rumore dello
sciacquone li accompagnò mentre ritornavano verso i lavandini, facendo finta di
lavarsi nuovamente le mani.
Da lì uscì un
uomo sulla cinquantina, che non appena notò la presenza di qualcun altro nel
bagno mormorò un flebile «’sera» come si apprestava a lavarsi anch’egli le
mani. Quando però, mentre la fredda acqua rinfrescava la sua pelle, si fermò a
guardarli meglio, notò come fossero sudati, i loro vestiti scompigliati e
tenessero le loro giacche sul braccio.
Inarcò le
sopracciglia e si congedò, confuso.
«Idiota» rise
Red.
«Red! Blue! Che
piacere rivedervi!».
Lance indossava
un completo nero, nel quale la luce si rifletteva in tenui sfumature di blu, e
la monocromaticità dell’abito era spezzata da un fiore all’occhiello di colore
rosso cremisi.
Non appena vide i
due arrivare, si affrettò ad abbandonare la discussione che stava avendo per
dar loro personalmente il benvenuto.
«Anche per noi» sorrise
Blue come gli strinse la mano.
«Come va?» continuò
Red, adoperandosi anch’egli della stretta di mano.
«Bene, grazie,
tutto bene da me. E voi? Vi vedo bene!».
I suoi capelli
rossi cadevano in sottili ciuffi sulla sua fronte, quasi ad incorniciare il suo
viso squadrato sul quale risaltava una pelle diafana. Due occhi castani erano
scavati al centro del suo volto, sottili e luminosi.
«Siete venuti
assieme?».
«Sì» lo incalzò Blue
«siamo—».
«Siamo rimasti in
contatto dopo la Lega, e ogni tanto ci rivediamo».
«Oh, davvero?».
Il viso di Blue
si rabbuiò.
«Sì, sì, ora
viviamo entrambi qua a Saffron».
«Oh, bene! Così possiamo
vederci più spesso. Cosa avete intenzione di fare, ora?».
«Io non avevo
ancora pensato a niente, in realtà».
«E tu, Blue?».
Blue sforzò un
sorriso sopra le sue labbra ed alzò lo sguardo verso Lance, che il secondo dopo
era già partito ad osservare qualsivoglia dettaglio sul viso dell’uomo,
considerato più interessante che fissarlo negli occhi durante il momento del
parlare.
«Sto studiando
per diventare Professore Pokémon» rispose, con un tono più distaccato di come
aveva condotto prima la discussione.
«Oh, come tuo
zio. Sarà contento».
«Lo è».
Il viso di Lance
dimostrava palese confusione di fronte al comportamento insolito che i due
avevano con lui – e tra di loro –, ma non ci diede troppo peso e li congedò con
un breve saluto e la promessa che si sarebbero rivisti quella sera.
Quando Red si girò,
vide Blue scomparire in una terrazza dall’altra parte della sala.
L’aria quella
sera era tiepida, pur essendo un novembre, mitigata dai venti caldi che
spiravano dal meridione. Non una nuvola sporcava il cielo del suo profondo blu,
illuminato dalle innumerabili stelle che componevano il firmamento. La luna, o
quel quarto calante che ne rimaneva di essa, bagnava un pallido candore attorno
a sé a guisa di aureola.
La terrazza dava
sul giardino dell’edificio, totalmente oscurato, e la zona stessa era
rischiarata da una sola lampada posta sopra la porta. Un tavolo ovale ricopriva
l’intera grandezza della piccola terrazza, e delle piante morte giacevano sulla
balaustra.
«Perché te ne sei
andato?»
Blue si trovava
dall’altra parte del balcone, seduto, intento a rigirarsi una moneta tra le
mani.
«Ehi».
«Che cazzo vuoi?».
Red tentennò.
«Senti—».
«Un cazzo. Senti
un cazzo. Mi sono rotto i coglioni». Si rimise la monetina in tasca e si alzò,
in direzione di Red. «Mi sono rotto i coglioni che in ogni posto dove andiamo
non mi presenti mai come il tuo ragazzo. Neanche davanti a Lance».
«Non volevo—».
«Cosa? Non volevi
cosa?».
«Non volevo che
pregiudicasse i nostri rapporti con lui».
«Però il tempo
per scopare in bag—».
«Hai altro da
dirmi?».
Gli occhi di Blue
si accesero di rabbia. «No! Vaffanculo!». Tirò un calcio ad una sedia, con un
impeto tale che fece indietreggiare Red. «Sono io qua l’offeso, non tu!».
«Blue…».
«Lasciami stare» gridò,
spingendo Red che aveva tentato di avvicinarsi via.
Lo vide
scomparire nella sala e non ebbe il coraggio di seguirlo.
La serata volgeva
al termine, e l’edifcio si vuotava come un balloncino punto da una spina di
rosa.
Red, dopo aver
trascorso un po’ di tempo nella festa, se n’era uscito, e senza trovare Blue
aveva passato un’ora a fissare la luna sulle scale marmoree, nell’attesa che
egli tornasse. La mezzanotte era ormai già scoccata da tempo quando udì sopraggiungere
dalle sue spalle un rumore di passi irregolare e trascinato. Si voltò, come
aveva fatto una ventina di volte prima, e finalmente i suoi desideri furono
avverati.
«È con me!» esclamò
ai due inservienti all’entrata, come si apprestava a risalire le scale «è con
me!».
Blue lo fissava
stralunato, appeso al muro. I suoi occhi erano persi nel vuoto.
Era visibilmente
brillo.
«Nome?».
«Er, io sono Red
Faulkner, e lui è Blue Oak».
«Siete assieme?» proseguì,
mentre si segnava i loro nomi su una lunga lista cartacea.
«Sì» mormorò dopo
un attimo di esitazione «sì, è il mio ragazzo».
L’uomo
inizialmente proseguì a scrivere sul suo taccuino, ma poco dopo le informazioni
arrivarono al suo cervello. Per una frazione di secondo rimase ad osservare l’insolita
coppia, dopodiché riprese a scrivere.
«Volete che vi
chiami un taxi?».
«È possibile?
Sarebbe fantastico».
«… oh, oh, I’m
taking back the words I swore…».
La vettura era
calda ed accogliente, soprattutto in confronto alle temperature che erano scese
da un’ora a quella parte, e questa ventata di calore fu molto apprezzata da
entrambi. Una fioca luce illuminava la parte anteriore, rischiarando il pallido
viso del guidatore, che indossava una felpa nera e dei jeans a quanto Red riuscì
a vedere.
La radio
profondeva una musica allegra ed upbeat.
Blue si gettò sul
sedile e si appese sul poggiatesta di fronte a lui per rimanere seduto, mentre
la sua testa dondolava avanti e indietro.
«Sono stanco…» commentò
«voglio… tornare a casa…».
«… I only
shine for you, a black light tattoo…».
«Anch’io, Blue.
Tra un po’ saremo a casa».
«Ma io sono
stanco…» riprese, e si distese lungo tutti e due i sedili posteriori, le
braccia che cercavano un contatto con l’altro.
«Lo so, tra poco—».
Blue gettò la sua
testa fra le gambe di Red, le sue coscie come un morbido cuscino, e chiuse gli
occhi.
«… oh, oh,
attention that I’ve never felt…».
«Red…».
Si rigirò su sé stesso
ed il suo volto prese a guardare nella direzione del grembo di Blue.
«Sì?».
«Ti… amo».
«… ooh, making
my debut…».
13/12/05
«Alla fine
Sabrina mi ha risposto».
Red fece
scivolare un coltello attraverso il cuore di una Tamato Berry, lasciando un
taglio perpendicolare al tagliere di legno che correva dalla cima al fondo
della bacca. Quando estrasse il coltello, un liquido arancione scivolò da esso.
Incise un secondo taglio ortogonale e spostò i pezzi al lato.
«Che ha detto?».
«Posso allenarmi
in Palestra».
«Wow!». Il corpo
di Blue emerse improvvisamente dal divano e la sua testa ruotò di centottanta
gradi in direzione di Red. «Non sei contento?».
«Certo». Poggiò un’altra
Tamato Berry davanti a sé.
«Non— non sembra».
Red sorrise. «È che…
non so».
«Non sai cosa?».
«Non so se è quello
che voglio veramente». Scrollò le spalle. «Vedo te, che studi per diventare
Professore, e io non ho la minima idea di cosa farò, che so, fra un anno. E che
per quanto sia grato a Sabrina per questa possibilità, non so se sia quello che
voglio veramente».
Gli occhi di Blue
fissarono i muscoli di Red flettersi come la lama del coltello disegnava sagome
rettangolari sulla verdura. Indossava una canottiera bianca a maniche corte che
finivano poco prima di dove cominciava una tiepida abbronzatura.
«Penso sia
normale». Deglutì. «Dopotutto, sei pur sempre il Campione di Kanto».
«Come altre
centinaia di persone…».
«E quindi?».
Quando Red alzò lo sguardo, vide Blue che si avvicinava pericolosamente al
tavolo da cucina. «Siamo in 31 milioni solo a Kanto».
«Lo so».
«E allora?».
Red si voltò dietro
di sé per mantenere il contatto visivo con Blue, che l’aveva raggiunto da
dietro. «Allora…».
«Shh».
Una stretta al
bacino spinse il suo peso leggermente all’indietro. Improvvisamente, vide due
possenti braccia corse da sottili peli corvini che lo cingevano alla vita, e
sentì il calore dell’altro ragazzo che lo permaneva da dietro. La sua voce
continuava, sussurrata nel suo orecchio destro.
«Allora, il
signor Blue Oak è stufo di sentire il signor Red Faulkner lamentarsi». Il peso
del capo di Blue ora gravava sulla spalla destra di Red.
«Cosa pensa di
fare il signor Blue Oak a riguardo?» sussurrò a sua volta.
«Qualcosa di molto
brutto».
Un sorriso inarcò
le labbra di Red.
«Del tipo?».
«Vuoi scoprirlo?»
Blue allentò la
presa come sentì il corpo di Red farsi strada tra le sue braccia e voltarsi di
180 gradi verso di lui. Pochi secondi dopo, i loro nasi sfregavano amabilmente.
«Illuminami» disse,
mentre poggiava il coltello sul piano di cucina.
Red si avventò sulle
labbra di Blue, con la stessa intensità e ricerca di un animale che pulisce
fino all’ultimo osso una carcassa d’animale. Le sue braccia si chiusero attorno
la schiena di Blue e lo spinsero violentemente verso di sé. I loro respiri si
facevano più e corti e mozzati, terminando in acuti come il fiato accennava a
finire.
Le mani
correvano, cingevano il collo e premevano le teste una contro l’altra.
«Aspett—» la voce
di Red morì come il suo fiato venne a mancare.
Si staccò da Blue
e braccia incrociate a cingere la sua vita sollevò la maglietta che stava
indossando. Le sue mani ursero l’altro a fare lo stesso, come Blue procedeva a
sbottonarsi la camicia. Più i bottoni si aprivano e più il tessuto rosso
rivelava dietro una leggera peluria rossa correre lungo l’asse del petto del
ragazzo, dalla quale altri peli, più sottili e radi, si diramavano. Gettò la
camicia per terra e si lanciò di nuovo su Red.
Una luce bluastra
irraggiava la stanza dalla fessura degli scuri della finestra. I raggi, di un
azzurro freddo e privo di sfumature, si erano disposti a raggiera illuminando
via via meno profusamente il soffitto bianco della stanza.
Red giaceva prono
a letto, in boxer e canottiera, mentre osservava Blue infilarsi una maglietta
sulla quale era stata stampata la scritta “Kanto’s Champion”.
«È mia quella
maglietta?».
«Può darsi».
Blue si lanciò sul
letto, oscillando per qualche secondo sulle molle del materasso. «Guarda che
sono stato Campione anch’io» rise.
«Ma io per più tempo»
fece eco Red «e quella maglietta ti sta stretta».
«Ecco perché la
uso».
Scoccò un sottile
bacio in direzione di Red dopodiché si distese anche
lui, raggiungendo sul comodino il telecomando.
«…di notte si
accende di luce e viene riempito di una moltitudine di Pokémon…».
«Vuoi che spengo?».
«No, no, non mi dà
fastidio».
Lo sguardo di Red
correva avanti e indietro il soffitto della stanza.
Prese un grande
respiro e fece per parlare, ma la sua mente lo fermò sul punto di pronunciare
la prima parola. Esalò e tornò in posizione rilassata.
«Uh?».
«Che c’è?».
«Volevi dire qualcosa?».
Corrugò la faccia
in un’espressione di incredulità esagerata, conscio che Blue non potesse
vederlo nel buio pesto della notte.
«No».
Si voltò dall’altra
parte.
Prese un grande
respiro. «Hai mai desiderato che non fosse così?».
«Così come?».
«Così… essere gay».
«Oh». Blue
sorrise. «Come mai?».
«Come mai la
domanda o come mai desiderarlo?».
«Entrambe».
«Be’, prima ci
stavo pensando, e dato che non ne avevamo mai parlato—».
«Pensi ci sia
bisogno di parlarne?» sorrise Blue.
«Sì— be’ no— non
saprei, è per—».
Una risata si
diffuse nella stanza. «Tranquillo, vai avanti».
«Ok. Insomma… Volevo
parlarne con te».
«Be’, onestamente
non so». Blue si girò dall’altra parte, in direzione di Red, e così fece anche
lui poco dopo. Anche immersi nel buio, quel briciolo di luce che filtrava dalle
finestre riusciva ad illuminare flebilmente le loro iridi. «Credo di sì, di
averci pensato, ma non seriamente. Non mi è mai interessato».
«Perché no?».
«Tutte queste
domande?» rise. «Non c’è un motivo. Perché sì, invece?».
«Perché sarebbe
tutto più facile, no?».
«Sì».
«Quindi?».
«Quindi cosa?» fece
eco Blue.
«Perché quindi
non lo vorresti?».
«Non ho detto
questo. Cioè, non lo vorrei, ma è un altro discorso». Lanciò un’occhiata ai
castani occhi di Red, che lo fissavano bramosi di una risposta. Per un attimo
si trovò senza parole, di fronte a cose che per lui erano di una banalità disarmante,
e gli volle qualche secondo per riorganizzare i pensieri. «Ti piacciono le
Grepa Barry?».
«Boh, sì?».
«Ok. Hai mai
desiderato che non ti piacessero? E che ti piacessero, che so, le Hondew Berry?».
«È una questione
diver—».
«Rispondi».
Red scaricò l’imbarazzo
con una risata sommessa. «No, mai».
«Come mai?».
«Senti, non c’entra
nie—».
«Come mai?».
«Non c’è un perché!».
La voce di Red si alzò d’intensità per qualche breve secondo. «Non l’ho mai
pensato e basta».
«Esatto, perché non
c’è bisogno di pensarlo. Perché dovresti desiderare che ti piaccia qualcos’altro?».
«Sì, ma qua è diverso…».
«Perché? Perché è
diverso?».
«Perché se mi
piacessero le cazzo di Hondew Berry non cambierebbe niente!».
«Cambia qualcosa?
Siamo per caso diversi? C’è qualche differenza che nessuno mi ha mai detto?».
«Non noi, ma gli
altri—».
«Gli altri.
Non tu. Non io».
«Blue—».
«Non c’è niente
che non va in te, o di diverso. E non dovresti mai desiderare di essere
qualcosa di diverso se è qualcosa che ti fa star bene. Io ti faccio star bene?».
Red deglutì. «Sì».
«E allora?».
Red non rispose.
«E allora?».
«Non… non so. Non
so come rispondere».
Un sorriso
illuminò il volto di Blue. «Tranquillo. Non serve che tu lo faccia».
I due ritornarono
a fissare il soffitto nell’attesa reciproca che l’altro parlasse ancora.
20/12/05
«Red».
La voce di Blue
spezzò il silenzio notturno.
«Sì?».
Con sua sorpresa,
anche l’altro era sveglio. O, come ragionò successivamente, fu il suo richiamo
a svegliarlo.
«Ti amo».
A sentir quelle
parole, le labbra di Red si piegarono in un debole sorriso.
2008
04/11/08
Dopo un
inaspettato bagno ad alta quota, con come sfondo lo skyline di Saffron City,
Blue si era ritrovato con i vestiti inindossabilmente fradici ed un retrogusto
di cloro ed agenti chimici sulla pelle, al quale lui e Red dovettero ovviare
con una doccia nella camera di quest’ultimo.
Red giaceva sul
letto con addosso il suo pigiama invernale, costituito da una canottiera a
maniche corte bianca ed un paio di pantaloncini in tartan blu, mentre l’amico
era ancora in piedi, gocciolante sul terreno, vestito solo di un asciugamano
attorno alla vita.
«A essere onesto,
ti preferisco così».
«Bagnato?».
«Nudo».
Un sorriso piegò le
labbra di Blue.
«Sfottimi pure».
«Ma no!» esclamò,
a metà tra il riso e l’allerta «sono serio».
«Sarà».
«Pensavi di
restare qua questa sera?».
«E far che?».
«Dormire?».
Blue rise.
«Che c’è? Puoi
stare sul divano, o il contrario…».
«Red—».
«E poi è tardi!
Non ce la farai mai a tornare a casa. Il tempo di tornare a casa e sarà già l’alba».
«Correrò questo
rischio». Blue si avvicinò al bagaglio di Red e si chinò, alla ricerca di
qualche cosa che potesse indossare mentre i suoi abiti si asciugavano. «Cosa
posso usare?».
Gli occhi di Red
si illuminarono. «Quindi rimani?».
«Sì, idiota» continuò,
pescando un paio di boxer ed una maglietta. «Vado a cambiarmi».
«Perché hai
voluto così tanto che rimanessi?».
La stanza era
immersa nel buio.
Red aveva
contemplato di fard finta di dormire, ma preferì continuare quella discussione
per l’ovvio scopo.
«Non si capisce?».
«Sì» lo incalzò Blue.
«Però vorrei sentirtelo dire».
Red sogghignò.
«Touché».
«Allora?».
«Mi sei mancato
questi tre anni».
«E basta?».
«Ok, più che
mancato».
«E perché non mi
hai mai scritto?»
«Non lo so. Mi
vergognavo, credo».
«Ti vergognavi» Blue
rise.
«Mi vergognavo
per com’era finita. E indeciso tra lo scriverti ed il non farlo, non ho preso
una decisione».
«Ma l’hai fatto,
invece».
«Cosa?».
«L’hai fatto. Hai
preso una decisione».
Red era confuso.
«Cosa intendi?».
«Non mi hai
scritto. Volente o nolente, hai preso una decisione».
«Non… non l’ho
fatto apposta.
Un sorriso piegò le
sottili labbra di Blue. «Fa niente. Notte, Red. Parliamo domani».
05/11/08
La luce mattutina
riempiva le stanze del piccolo appartamento d’albergo, brillando di un
assordante bianco attraverso le pareti della cucina.
Un caldo fascio
dorato bagnava la pelle di Blue, immerso nel getto luminoso, mentre sorseggiava
una tazza di tè di fronte alla finestra.
«A che ora hai il
volo?».
Red, dal canto
suo, era disteso sul divano mentre attendeva che il fornelletto finisse di
riscaldare una fetta di torta che aveva messo poco prima.
«Per darmi l’ultimo
addio?».
«Più o meno» sorrise
Blue.
«Ho paura che
dovrai aspettare più del previsto».
«Uh?».
Red sii alzò in
direzione del piano cucina.
«Il volo era ieri».
Afferrò la
padella con la mano sinistra e fece scivolare lentamente il dolce prima sulla
superficie unta e brillante dell’utensile e poi sul freddo piatto di ceramica,
dove si ruppe in due parti. A quella vista, emise uno sbuffo.
«Cosa? E— perché non
l’hai preso?».
Red scosse le
spalle.
«Non volevo
prenderlo».
«E perché l’avevi
prenotato?».
«Ok, forse avevo
intenzione di prenderlo. Ma speravo di non doverlo fare». Posò il piatto sul
tavolo, mentre Blue lo osservava con un misto di curiosità ed interesse. «Speravo
di poterti vedere, e parlare. E se non l’avessi fatto… avrei preso il volo».
«E ora cos’hai in
mente di fare?».
«Speravo che tu
potessi rispondere a questa domanda».
Blue lo fissò interdetto.
Si alzo, dopodiché
poggiò la tazzina dove gli capitò a tiro, e si diresse in direzione del
ragazzo, che lo osservava muoversi per la stanza con un silenzio tombale.
«Cosa vuoi da me,
eh?».
«Non— non lo so».
Un sorriso
nervoso scoprì i denti di Blue.
«Lo sai, invece.
Ma ti aspetti che sia io a dirlo».
«Blue—».
«Ascoltami» proruppe.
Il suo tono fingeva indignazione. «Io ti ho amato. Sul serio. Ma poi è finita,
come accade, e mi hai distrutto. E, ora, non starò qua a dirti di rimanere». Un
sorriso illuminò il suo viso. «Per me, poi. Puoi fare quello che vuoi, e non
sarò certo io a limitarti. Ho di meglio da fare».
«Io—».
«Non sarei mai
dovuto salire. Questo… non voglio rifarlo. Ciao».
Scomparì dietro
la porta.
Lo sguardo di Red
corse verso la tazzina di tè che aveva lasciato imbevuta.
Non sarebbe tornato.
Non sarebbe tornato.
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