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Andy Black - Unravel Me - 17. Diciassette (XVII) pt. 2 + Epilogo


UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).




Unima, Austropoli, Chelsea Market, 17 Ottobre 20XX

“Sono a Chelsea, Whiteley. Sto facendo la spesa”.
Ruby doveva farsi largo tra centinaia di persone, quella mattina, e farlo con le mani occupate e il cellulare tra la spalla e l’orecchio destro non rendeva l’impresa più semplice.
La spesa per quella cosa? Yvonne tornerà direttamente stasera, da quanto so”.
“Sì, mia cara assistente, la spesa per quella cosa. In Atelier fila tutto liscio?”.
“Come l’olio. Oggi cerca di divertirti. Ti meriti un giorno di pausa”.
“Grazie. Se necessiti di qualcosa di pratico chiama me. Altrimenti rompi pure…”.
Rompo le scatole a White, ricevuto…”.
“Bravissima” fece l’altro, attaccando. Lasciò che il cellulare cadesse nella busta con le lunghe baguette profumate, ancora calde di forno, e si guardò intorno.
Doveva cercare la bancarella del pesce, lì, su quel lungo viale alberato e gremito di gente.
Non sapeva, tra quei pioppi ingialliti d’autunno, dove potesse essere.
Si limitava a camminare, coi palazzi a destra e a sinistra il mare che si vedeva tra i vicoli.
Sentiva le persone parlare.

“Non è così che intendevo fare la cosa, Jen…”.
                                             
“Dove cazzo si è cacciato adesso?!”.

“Ciao amore. Ho comprato il profumo che ti…”.

“Hai sentito cosa sta succedendo a Johto?”.

Poi una bella ragazza dai capelli biondi, che camminava con la stessa busta di baguette di Ruby stretta sul petto, gli si avvicinò silenziosamente. Parlava al cellulare ma sul volto mostrava i chiari segni che qualcosa non andasse.
“Ehy… ehy, Chris… Ti prego, scusami. Scusami se ti ho attaccato il telefono in faccia, stamattina, ma… ma ti prego, ora rispondi. Ho sbagliato a non parlare, prima… è che ero arrabbiata. Ti prego. Parliamone… Tu sei la mia persona. Discutiamone, delle cose. Non ha senso così…”.
Ruby la guardò meglio, stretta in quel cappottino azzurro, coi capelli legati in una coda bassa, aurea e gli occhi verdi compressi in un’espressione contratta.
Qualche lentiggine sulle guance, aveva poco più di vent’anni.
“La gente fugge…” sussurrò a se stesso, attraversando poi la strada e andando verso il marciapiede sinistro.
Un uomo vendeva gli hot-dog, lì, con un lungo grembiule sporco di salsa rossa. Probabilmente ketchup, ma Ruby non gli si fermò davanti e continuò nella lenta ma piacevole processione.
Lì c’erano tante, tante persone.
Pensò che qualcuno si potesse perdere soltanto in un luogo del genere, dove a nessuno importava niente del prossimo. Tutti troppo concentrati su se stessi per accorgersi di una ragazza con le lentiggini che aveva imparato dai propri errori.
Le grandi città e i loro lati negativi.
Sentiva l’odore del pesce. Qualcuno si stava allontanando dal marciapiede destro con una busta di plastica che conteneva un San Pietro freschissimo.
Si avvicinò e si mise in fila, dietro a uno stempiato ottantenne. Teneva l’Eco di Austropoli arrotolato sotto al braccio e manteneva una busta con una grossa pigna d’uva verde.
Aspettò circa tre minuti, poco di più forse, che impiegò nel guardare la pescivendola e suo marito servire la gente.
Entrambi belli in carne, lei aveva dei vaporosissimi capelli rossi, ricci. Un doppio paio di occhiali nascondevano lo sguardo luminoso.
Genuina, indossava una salopette di jeans e dei lunghi guanti di gomma. Lily, si chiamava, o almeno così c’era scritto sulla sua targhetta, e sorrideva sempre.
Il marito invece era decisamente più serio, attento ai conti e ai soldi che gli circolavano tra le mani.
Stessa mise della donna, ma pochi capelli sulla testa, e un paio di profondi occhi azzurri che spaccavano in due il suo viso.
Quando toccò a lui prese uno scorfano, una gallinella, un pesce prete, dei pescetti e vari gamberi e cicale. E poi prese un grosso San Pietro da più di un chilo e mezzo.
Ringraziò, pagò, e tornò a casa.

La pioggia aveva ripreso a battere fitta.
Quell’autunno non lasciava tregua.
Yvonne era stretta nel suo cappotto di pelle beige, e correva sui marciapiedi deserti spazzati da quel temporale furibondo che batteva in diagonale, sotto il soffio lamentoso del vento.
Indugiò qualche bagnatissimo secondo davanti alla serratura del portone di casa, cercando d’infilare la chiave nella serratura, riuscendoci solo alla fine.
Il cancello d’ingresso cigolò, quando si aprì. Lei ormai era abituata a quel rumore così fastidioso.
Era stata una giornata molto pesante, quella. I photoshooting con Tracy Meyer erano sempre stati lunghi e tortuosi, dato che sceglieva sistematicamente set naturali impervi ed era mosso da una vena perfezionistica fuori dalla norma.
Aveva scattato più di trecento fotografie, avrebbe dovuto incontrarlo la settimana dopo per selezionarne alcune e fare una prima scrematura.
Aveva indossato Gucci per tutta la giornata e bramava il momento in cui avrebbe infilato i suoi pantaloncini larghi e la canottiera col bordo slabbrato.
Era quasi comica la cosa, ci pensava mentre aspettava l’ascensore.
E poi voleva levare il reggiseno. Anzi, pensandoci lo avrebbe fatto proprio nell’ascensore, e se avesse incontrato qualcuno, beh, pazienza, si sarebbe rifatto gli occhi.
Le porte le si aprirono davanti e la luce la investì; gli occhi bruciarono, all’inizio fu costretta a chiuderli, per poi riaprirli.
La sua figura, sfatta e bagnata, le apparve davanti.
Selezionò il tasto del piano sul tastierino dell’ascensore, senza neppure guardarlo; continuava a fissare il suo sguardo.
Stanco.
Guardò anche le labbra, ed era così provata da non riuscire neppure a serrarle. Erano schiuse, il respiro vi passava galeotto attraverso e fuggiva via, per poi schiantarsi contro gli specchi e appannarli.
Voleva un bagno caldo e voleva che non ci fosse nessuno in casa.
Se ne rese conto quasi con sgomento e tirò fuori un respiro colmo d’ansia, mentre una goccia d’acqua abbandonò i capelli e le cadde sulle spalle.
La situazione con Sapphire, e Ruby che la sognava, non la rendeva molto felice. Cercava di valutare tutte le possibili situazioni, tutte le scappatoie, ma la verità era che non sapeva come affrontare quella cosa.
Il freddo la ricopriva interamente e finì per stringersi nelle spalle prima di potersi rendere conto del fatto che, nonostante Ruby l’avesse rassicurata più e più volte, continuava ad avere dubbi sulla sua parola.
Non era chiaro.
Non era normale.

Ou peut-être, oui...

Rivalutò i suoi pensieri.
Dopo anni e anni passati accanto a una persona non sarebbero di certo bastati poco meno di sei mesi per relegarla nel dimenticatoio.

E poi i sogni funzionano in maniera strana…

Doveva aprirsi di nuovo a quell’uomo, che tanto l’amava. Lui l’aveva percepita quella freddezza e forse non la meritava.

Sans peut-être. Il ne le mérite pas.

Le porte dell’ascensore si aprirono un’eternità di secondi dopo, leggere.
Mosse passi bagnati verso la porta di casa e cercò inutilmente di asciugare le suole, infilando poi la chiave nella serratura.
Ma la porta si aprì da sola.

Ruby è in casa. Il l'ouvrit.

Lo sguardo del ragazzo s’illuminò non appena la vide.
Lui era ben pettinato, chiuso in un elegante abito Armani, grigio, ma aveva levato la giacca. La camicia era azzurra, i polsini erano risvoltati, le maniche alzate fino agli avambracci.
Le scarpe erano lucide.
Lei, a confronto, pareva aver passato un brutto quarto d’ora.
“Amour…” gli disse quella, sorridendo gentilmente. Lui la baciò e le diede una mano a sfilare il soprabito.
“Com’è andata la giornata?” domandò l’altro, sovrastando con la voce il contrabbasso di Charles Mingus, che suonava in diffusione per tutta la casa.
Quella sorrise, riconoscendo il caldo tepore di casa sua. Sfilò i boots dai piedi e tirò indietro i capelli.
Mon Dieu… je suis vexé…”.
Ruby sorrise e la baciò di nuovo. “Ti ho vista, giù, mentre venivi da lontano. Ti ho preparato un bel bagno caldo…”.
Lei spalancò gli occhi.
“Sei l’uomo dei sogni. Vieni con me?”.
Quello sorrise e, lentamente, fece cenno di no. “Sto cucinando, Yv…”.
“E che stai cucinando?” chiese, avanzando verso la cucina, prima che quello la bloccasse.
Na-nna-nna-nnà, ferma lì, piccola baguette… È una sorpresa…”.
Quella sorrise e inalò il dolce profumo che fuoriusciva dalle pentole. “Mhm… Che buono!”.
“Vai a scaldarti un po’. Tra venti minuti è a tavola”.
Quella annuì, sorridente e bagnata, baciò l’uomo e si voltò, sparendo nel corridoio buio.
Aprì la porta del bagno, dove mille piccole candele erano state accese, e dove altrettanti petali di rosa formavano un morbido tappeto.
L’acqua nella vasca era calda, e schiuma bianca e profumata ne ricopriva la superfice.
Si spogliò con dolce lentezza, divisa a metà tra lo stupore e la paura di poter rovinare tutto con un gesto inconsulto.
Via i pantaloni, via le calze fradice. Pensò che probabilmente avesse lasciato le pedate d’acqua, dopo che ebbe levato gli stivaletti.
Levò anche il maglioncino di filo, nero, che aveva indossato per una buona parte della giornata, quindi via gli slip e, finalmente, anche il reggiseno.
Nuda e congelata, lei.
Quando immerse il piede in quell’acqua che emetteva vapore, un brivido la percorse lungo la bianca schiena. Il suo corpo seguì subito dopo.
S’immerse tutta, per pochi secondi, lasciando che il caldo la conquistasse e la facesse sua.
E quando riemerse, rimase vari minuti a fissare le fiammelle delle candele che danzavano sinuose, ognuna la propria danza.

Ruby aveva urlato già un paio di volte che il cibo fosse pronto a tavola, ma Yvonne non era ancora uscita dal bagno.
Dal canto suo, lei s’era addormentata sfinita, immersa nella bellissima vasca da bagno riempita di pace. La voce del suo uomo la ridestò ma rimase comunque in bagno per diversi minuti, cercando di asciugare la lunga chioma.
Non ce la fece, ovviamente, e avvolse un lungo telo blu attorno alla testa, sgambettando in slip fuori, verso la camera.
Già immaginava di vedersi con addosso la lunga felpa col cappuccio e i pantacollant bucati tra le gambe, ma quando accese la luce poté vedere un bellissimo tubino rosso, semitrasparente sul seno e sui fianchi, oltre che sull’ombelico.
Corto quanto bastava.
E accanto un paio di morbide pantofole rosa.
Ruby la sentì ridere. Capì che aveva capito.

Pochi minuti dopo si presentò davanti a lui, stretta nell’elegante abitino, che camminava con le pantofole pelose e l’asciugamano tra i capelli.
Lui la vide e sorrise, portando le mani ai fianchi, poggiato al frigorifero.
Yvonne sorrise, allargando le braccia come per dire guardami, e poi annuì. “Ho dovuto cambiare asciugamani, nei capelli. Non si abbinava…”.
Ruby sorrise e le si avvicinò, stringendola con vigore e affondando le mani nei suoi fianchi.
“Come sempre, riesci a valorizzare qualsiasi cosa produca”.
Lei arrossì, baciandolo.
“Ho fame”.
L’altro sorrise ancora.
“Sì, è tutto pronto. Aspettavo te”.
“Che si mangia?” domandò lei, che fu presa per mano e portata nella sala da pranzo, dove una grande tavole era imbandita con fiori e candele. Sulla sinistra il seau a glace conteneva una bottiglia di Sauvignon, da stappare ancora.
“Qualcosa di buono…” rispose l’altro, spostandole la sedia e facendola accomodare. “E ora attendi un minuto…”.
Sparì, lui, e Yvonne rimase lì, sorridente e felice a guardare il fuoco del camino che riscaldava i cuori e l’ambiente. Ella Fitzgerald e Louis Armstrong cantavano Summertime, mentre i rumori dalla cucina precedettero l’arrivo del suo uomo, con una grossa padella tra le mani e un mestolo che ne spuntava fuori.
“Oh! Cos’è!” fece lei, fremente.
Ruby amava quegli occhi entusiasti.
Bouill… Bou… Bouil… è più facile cucinarlo che dire come si chiami, questo piatto…”.
E l’entusiasmo della bella bionda si trasformò in sorpresa.
Fu strano, perché da socchiusi, i suoi occhi dapprima si spalancarono. Poco dopo però le sopracciglia s’inarcarono, andando sempre più a stringersi.
Anche le iridi, chiare e colorate dal fuoco del camino, s’incupirono, bagnandosi di lacrime calde e salate.
Ma il suo sorriso avrebbe potuto fermare una guerra.
Bouillabaisse…” disse.
“Non la reputavo una parola così commovente…”.
Quella esplose in una risata, fragorosa.
“Tu hai cucinato per me la Bouillabaisse?”.
“Sì. E ti dirò una cosa: non cucinerò mai più nulla di europeo; maki e zuppe per il resto della mia vita. E la pizza di Alfredo alla domenica”.
Altro sorriso.
“Mangiamo?” chiese Ruby, vedendola annuire.
Le piazzò il piatto vuoto davanti, con i croutons e i pescetti. Aggiunse il San Pietro e poi il caldo e saporitissimo guazzetto.
Yvonne lo divorò.

Certo, non era come quello che preparava sua nonna.
Lei non aveva tutti quei soldi per comprare quei pesci così costosi, si arrangiava con quello che il nonno riusciva a pescare.
Ma era lo stesso delizioso. E lo sarebbe stato comunque, dato che le mani che l’avevano preparato appartenevano allo stesso uomo che la guardava con splendida ammirazione, nonostante avesse i capelli bagnati e fosse totalmente struccata.

“Perché?” domandò Yvonne, una volta finito di mangiare.
Ruby si alzò e racimolò piatti e posate da lavare. Lasciò soltanto i grossi calici davanti a lei.
“Perché te lo meriti. Sento che non sto facendo abbastanza per te…”.
Lei rimase in silenzio. Lo spettro di Sapphire s’era diradato, forse, ma sapeva che la reazione di qualche giorno prima, quella freddezza che non riusciva a nascondere, fosse la principale responsabile di quella serata magnifica.
“Tu sei meraviglioso…”.
“E anche tu” ribatté lui, circumnavigando il tavolo e sedendosi accanto a lei. “Ed è proprio per questo che non voglio perderti. Che voglio continuare ad averti tra i piedi per tutta la mia vita, vestita come la più bella delle donne nonostante l’asciugamano e le pantofole…”.
Quella sorrise, divertita. Però arrossì, e la cosa fece sorridere anche Ruby, che non credeva che una donna del genere potesse arrossire ancora.
“Non mi perderai. Io… L’altro giorno…”.
“Lo so, Yv. Mi spiace tantissimo averti fatta preoccupare, credimi. Ma non sarà per colpa di Sapphire, se la nostra magia finirà…”.
L’asciugamano si sfaldò all’improvviso, cadendo per terra e rivelandole la chioma, che coi capelli bagnati sembrava parecchio più scura.
“Il phon sai dov’è. Vai in bagno, prima che ti venga qualche accidente…”.
“Quello che volevo dire è che non importa quello che mi dirai tu, o qualsiasi uomo sulla faccia della Terra… Potranno anche definirmi la donna più bella del mondo, Ruby, ma la verità è che non potrò mai competere con lei, nella tua vita. Non la sostituirò, non riuscirò mai a farlo. Non posso cancellarla dalla tua testa, posso soltanto superarla…”.
“E lo farai”.
Oui… ma tu potresti sempre voltarti indietro, e guardarla. Lei ha sempre fatto parte della tua vita…”.
Il silenzio si sedimentò tra di loro, per un piccolo istante. Il fuoco del camino scoppiettava e Yvonne si alzò in piedi, avvicinandosi di più a lui. Gli carezzò il volto, morbido e rasato da poche ore. Profumava di dopobarba.
“Lei è per te una cicatrice. Non andrà mai via dalla tua vita e tu non potrai mai allontanarla. Riuscirai a non guardare mai indietro?”.
La mano della donna carezzò proprio la cicatrice, che aveva sulla fronte.
Si guardarono, poi, per quasi dieci secondi.

Ruby schiudeva le labbra,
Yvonne pure,
Ruby batteva gli occhi,
Yvonne sospirava,
Ruby si alzò in piedi,
Yvonne lo guardò negli occhi.  
Si baciarono.

E lo fecero così passionalmente da sentire il cuore dell’altro battere nel proprio petto. Forse quella crisi non se la sarebbero mai dovuta meritare, loro, che si cibavano dei rispettivi respiri.
Lui la strinse, lei cinse le braccia attorno al suo collo.
E i cuori continuavano a battere.
Si staccarono giusto per un momento, entrambi sovraccaricati da tutta quella tensione.
Yvonne mordicchiava le labbra di Ruby. Lui ansimava. Voleva prenderla in quel momento.
“Non guarderò indietro, se la strada che devo fare sei tu”.

I vestiti caddero velocemente, lui la stese sul tavolo e i calici pieni caddero, uno si spaccò, riversarono entrambi il vino sulla tovaglia.
Fecero l’amore.
Stettero bene.
Lui le asciugò i capelli e l’accompagnò a letto, stanca e stremata. La raggiunse, poi, dopo aver fumato un’ultima, più che necessaria sigaretta.


Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 20 Ottobre 20XX

Quello era probabilmente l’autunno più piovoso che Unima avesse visto negli ultimi cinquant’anni.
Certo, a Ruby la pioggia non faceva più effetto.
Quella sera aveva lavorato fino a tardi. Da quando l’Atelier era nello stesso palazzo di casa sua non si rendeva più conto del momento in cui il sole si tuffava oltre gli alti palazzi. Poco dopo i lampioni si erano accesi e gli uomini d’affari sui marciapiedi venivano sostituiti mano a mano da giovani troppo poveri per le vetrine e ricchi troppo vecchi per quella città.
Lo stilista teneva la testa bassa sui cataloghi e sui campionari, sui bozzetti, fino a quando Whiteley non salutava e spegneva le luci.
Lui rimaneva lì, a leggere e cucire, e disegnare.
Quando riusciva a entrare in quella spirale di concentrazione e buona musica neppure quel bisogno di fumarsi una sigaretta lo smuoveva dal suo ruolo.
Che poi se lo ripeteva, mentalmente: Ruby Normanson, stilista.
“Con un atelier...” faceva.
Esauriva la voglia, esauriva le idee, forse era la stanchezza eccessiva o la voglia di provare la Camel Light che aveva rubato a Jenny, una delle sue collaboratrici, fatto stava che a fine serata si rendeva conto di essere in orario borderline per la cena, che Yvonne saltava quasi ogni volta, limitandosi a mangiucchiare una dadolata di verdure miste, col buon proposito di lasciare integro il pacco di marshmellow nell’anta in alto dell’ultimo pensile, nascosto dietro i cereali integrali.
Si ritrovava quasi sempre davanti alla grande finestrata, oltre la scrivania del suo ufficio, guardando per strada, prima che l’accendino illuminasse il suo volto e bruciasse la punta della Camel.
Tirava nei polmoni fumo sporco, lo ributtava fuori ma percepiva che qualcosa fosse rimasto lì, nel suo corpo, e bruciava, ma poco importava. Guardava la scrivania, e i manichini vestiti con quei modelli che ore prima erano solo disegni, prima ancora solo idee.
E poi diventavano stoffa. E poi Yvonne li indossava, e li trasformava in qualcosa che tutte le donne volevano.
Spegneva la sigaretta e buttava il mozzicone oltre la finestra, poi camminava lentamente verso l’ascensore e tornava a casa.
E quindi sì, si ritrovava lì, troppo tardi per cenare, troppo presto per andare a dormire, o per prepararsi per uscire. Uscire dove, poi? Con quel tempo così umorale.
Ruby amava l’autunno, ma Yvonne l’odiava. Quando sentì la porta aprirsi alzò leggermente la testa, dal divano sul quale era appollaiata.
L’uomo raggiunse il salotto, buttò le chiavi sul tavolino e la vide lì, coi capelli legati, una scodella con una carota e un sedano a cubetti e un libro nella mano sinistra.
“Cinquanta sfumature di grigio?” domandò quello, sorridendo.
“Buonasera. E no, ho decisamente più buon gusto di quello che credi...”.
Il titolo era in francese. Ruby non riuscì a leggere quale fosse, prima che lei lo poggiasse sul divano.
Era strana.
Mangiò un boccone e rimase a fissarlo, seria.
Lui le si avvicinò e la baciò. Lei si staccò subito.
“Yv...” sussurrò l’altro.
Quella lo fissò, con lo sguardo vuoto.
“Che c’è?”.
“È successo qualcosa?”.
Gli occhi di Yvonne si abbassarono subito.
“Cioè... Sei triste, amore. Cosa stai pensando?”.
Non rispondeva. Rimase col capo chino e riprese il libro, riaprendolo. Passarono pochi secondi, lei voltò pagina e sentì Ruby sospirare. Non lo guardò.
“Yvonne” riprese lui, sedendole accanto. Le poggiò una mano sulla coscia, per poi trascinarla sul braccio e infine sul collo. Quella si ritrasse.
“Yv...”.
Ruby riportò la mano in giù, congiungendola con l’altra sua sorella.
“Va tutto bene” fece quella. Il ragazzo vide una lacrima, una perla luminosa, scivolarle lentamente sul viso.
“Perché menti?” ribatté quello, spostando lo sguardo rubino e tuffandolo nella tempesta che quella aveva in volto.
“Non mento! Ruby, non sto mentendo! Sto bene!”.
La situazione era paradossale.
Il ragazzo cominciò a pensare a tutto ciò che era successo nelle ultime ore, giorni, mesi, che avrebbe potuto scatenare tale reazione nella donna, ma non riusciva a capirne i motivi.
“So che in questi giorni sto facendo piuttosto tardi ma c’è la sfilata, la decima, e vorrei che tutto fosse perfetto…”.
“Non è per quello…” ribatté lei, tra i denti.
“Allora qualcosa c’è”.
“Niente, Ruby…”.
“Pensavo che dopo la cena dell’altra sera fosse tutto a posto…”.
Lei sbuffò, passò una mano tra i capelli e lo guardò, sfatta.
“Lasciami in pace”.
Fu lì che il ragazzo rimase spiazzato, in silenzio.
“Cosa diamine sta succedendo?” domandò, con calma proverbiale. Di fronte però trovò un muro.
Un muro che gli crollò addosso.
“Lasciami in pace!” urlò Yvonne, lanciandogli il libro contro e alzandosi.
Sbatté forte la porta della stanza da letto.


Unima, Austropoli, B&W Agency, Ufficio di White, 21 ottobre 20XX


“Vai, continua… ti ascolto…”.
Pioveva.
“Se vuoi aspetto che finisci”.
“Già, mentivo, non ascolto mai, mentre lavoro. ‘Spetta ‘n momento…” faceva White, che col grosso tablet tra le mani stava selezionando delle fotografie da sottoporre ad alcuni dei suoi collaboratori.
“Questa… questa e… questa. Perfetto. Tyler, sei lì. Tyler?” domandava, guardando il vuoto mentre premeva l’auricolare all’orecchio. “Va bene, non farmi aspettare e fammi sapere. So che non ci dovrebbero essere problemi ma devi fare sessanta telefonate, parlare col comune e con l’hotel”.
Yvonne non faceva altro che guardarsi intorno, quando era nell’ufficio di White. Le piaceva il gusto con cui aveva arredato l’ambiente, coi colori freddi a regnare e i piccoli particolari dalle tinte sgargianti a rapire lo sguardo.
Lì tutto era il meglio: il miglior whiskey era su tavolini di cristallo che costavano quanto delle automobili. Morbidi divani poggiavano su preziosissime moquette.
E la tecnologia era eccelsa. Lì tutto era all’avanguardia, velocissimo.
White si era immersa in un ambiente molto efficiente.
“Sì, lo so che non ci saranno problemi ma questo me lo devono dire gli organi competenti e voglio una carta firmata dal Papa in cui verrà specificato che nessuno mi romperà le palle durante la sfilata. Compris?”.
Yvonne spalancò gli occhi e sorrise.
“Compris, perfetto. Seduta davanti a me ho qui Yvonne Gabena e già l’ho ignorata abbastanza. Chiamami tra dieci minuti”.
Premette un tasto sull’auricolare e lo levò, allontanandolo dalla vista.
“Odio il telefono. Che dicevi?”.
Alzò gli occhi azzurri verso una più che divertita Yvonne, che aspettava a braccia conserte e gambe incrociate sulla poltroncina.
“Non so come fai” fece invece l’altra. “Ci vuole un’organizzazione tremenda per fare questo lavoro”.
White sorrise a mezza bocca e sospirò. “Vuoi un drink?”.
Yvonne guardò l’orologio e inarcò le sopracciglia. “No, non bevo prima di mezzogiorno”.
“E sbagli” ribatté l’altra, alzandosi e prendendo un bicchierino dal mobile. Si avvicinò poi al tavolino col whiskey e se ne versò un po’.
“Forse è così” sorrise l’altra, vedendola tornare al suo posto.
Quella sorseggiò quel liquido ambrato e poggiò il bicchiere di cristallo sulla scrivania. “Comunque non faccio nulla di che… Non serve tutta quest’organizzazione per portare avanti la baracca… Basta incutere paura nei tuoi sottoposti e far capire loro che sai benissimo come farli diventare ricchi, e ti seguiranno per sempre”.
Yvonne rise. “Non ti credo”.
“Infatti, fai bene. Se non ci fossi io questo posto collasserebbe su se stesso”.
Risero entrambe, White buttò giù l’alcol che le era rimasto e quindi sospirò. “Che cosa ti porta qui, piccola baguette?”.
La bionda inarcò le sopracciglia, quindi le aggrottò. “Ruby?”.
“È un soprannome troppo adatto. Bionda, secca e lunga. Ottima per la colazione…”.
Arrossì violentemente, quella di Kalos. “Ti ha detto anche delle madeleine…”.
La Presidentessa annuì. “Cosa vuoi che ti dica… è il mio socio. Mi dice molte cose. Comunque?”.
“Comunque cosa?”.
“Comunque perché sei qui?”.
Yvonne annuì e tirò fuori aria grigiastra d’angoscia dai polmoni, che White non poté vedere.
“Ieri… io e Ruby abbiamo avuto una brutta lite”.
White spalancò gli occhi e schiuse la bocca. Si alzò immediatamente in piedi e poggiò i palmi incandescenti delle mani sulla scrivania.
“Non dirmi che vi siete lasciati, Yvonne! Che diamine ti salta in mente?! Vi avevo avvertito di stare quieti e di non combinare disastri! Come farete a lavorare assieme, adesso?!”.
“Non ci siamo lasciati… e a dire il vero lui ieri non ha detto nulla. Ho fatto tutto io”.
White espirò ansia.
“Che cazzo significa?”.
Yvonne ridacchiò leggermente e portò le mani sulle ginocchia accavallate Tornò subito seria.
“Significa che gli ho urlato contro e me ne sono andata via”.
“Perché?!”.
“Uff, non lo so. E pensare che qualche giorno fa abbiamo passato una serata meravigliosa…”
La Presidentessa rimase a guardarla, confusa. E confusa come lei, si accomodò, prima di prendere tra le mani il cellulare, che vibrò.
“Ah sì?” fece, cominciando a digitare velocemente qualcosa sul tastierino. Le sue unghie smaltate volavano sul Blackberry consumato dal lavoro. Gli occhi celesti rimbalzavano nervosi tra la figura della modella che aveva davanti e il suo lavoro, che stringeva avidamente tra le mani.
E Yvonne lo sapeva. Tuttavia continuava a parlare come se quella fosse realmente interessata.
“Non lo so. Lui è tremendamente dolce, l’altra volta pioveva e…”
 “Piove anche oggi”.
“Ero a fare quel servizio fotografico con Tracy Meyer…”.
White alzò gli occhi. “Sì, lo so. Tra un mese sarai su Vogue. Di nuovo”.
La modella la vide sorridere sorniona. Era come se fosse fiera di averle dato tutta quella notorietà.
“Sì, okay. Mi sono bagnata tutta, ieri, perché il taxi non passa su Main Street e…”.
“È pedonale”.
“Non avevo l’ombrello” ribatté l’altra.
“Male”.
“Sono arrivata… humide… a casa”.
White sorrise. Posò poi il cellulare e la guardò negli occhi. “Continua”.
“Lui…” abbassò lo sguardo, Yvonne. “Mi ha preparato il bagno caldo, e il mio piatto preferito… con i croutons… e poi abbiamo fatto l’amore”. Il sorriso sul suo viso fu tagliato di netto dall’espressione triste che la modella aveva in volto.
“Hai avuto anche il coraggio di urlargli contro?”.
“Lui è perfetto, White… Ma pensa ancora a Sapphire. Può tranquillamente dirmi il contrario ma so che è così…”.
L’altra si bloccò. E forse fu la prima volta, quel giorno, che Yvonne la vide non intenta a fare altro. Abbassò gli occhi sul bicchiere, vuoto, e sospirò. La castana riprese il cellulare e carezzò delicatamente lo schermo.
“Ti ha detto qualcosa?” chiese poi.
“No. Ora lo chiedo io a te: ti ha detto qualcosa?”.
Fece cenno di no.
“Niente di niente…”.
Yvonne sbuffò e passò una mano tra i capelli. White poté vedere lo smarrimento nel suo sguardo, fissandola mentre ripassava con gli occhi tutto ciò che aveva davanti: dalla grande vetrata alla scrivania di cristallo su cui era poggiata la sua borsa, passando per il volto di White, per poi tornarci infine.
“Sei sicura? Cioè, sei davvero sicura che non abbia detto nulla riguardo a Sapphire?”.
La donna al di là della scrivania fece spallucce, quindi sospirò.
“A me non ha detto nulla, ma era qui l’altro giorno… e posso assicurarti che ti ama. Sai bene che ho provato a dissuadervi dall’idea di stare assieme, sono sincera, per me siete prima lavoro e poi persone, e vorrei che per tutti fosse così. Ma non posso impedire a un uomo che ti guarda con quegli occhi di amarti. Sarebbe cattivo”.
Yvonne sorrise, quasi rincuorata da quelle parole.
“Inoltre non ci riusciresti…” fece.
White annuì e poi indicò la porta con lo sguardo.
“Ho un appuntamento, tra cinque minuti. Non sbattere la porta”.
“Va bene...” annuì l’altra.
“E non fare cazzate”.


Unima, Austropoli, Main Street, Casa di Ruby (Appartamento 19-C), 23 ottobre 20XX

Quello era uno di quei giorni in cui l’atelier di Ruby sembrava una stazione ferroviaria. Per ogni persona che varcava la porta dell’ufficio dello stilista vi era un altro che lo lasciava con una precisa mansione da fare.
“Il giorno della sfilata si avvicina! Dobbiamo fare presto e cercare di stare dietro al confezionamento degli abiti!” urlava White, con le maniche della camicetta bianca alzate all’avambraccio e i pantaloni bianchi che le stringevano le cosce.
Si voltava in continuazione, per cercare lo sguardo di Ruby, che era tuttavia sempre impegnato sulle sue modelle, tutte in fila, con gli abiti da indossare.
“Lei è la terza” fece lo stilista, afferrando Kendra, una magrissima ventenne che veniva da Sinnoh, e spingendola con delicatezza avanti, verso Whiteley. Quest’ultima prendeva appunti sulla grossa cartellina che aveva davanti al volto. Aiutò Kendra a svestirsi e poi guardò la porta.
Yvonne era appena entrata, indossando un grosso cappotto di panno nero. Era ben chiusa, lì dentro, si riuscivano a vedere a malapena i grossi stivali neri che battevano sul pavimento, che rifletteva le calde luci dell’atelier.
White le si avvicinò e le baciò la guancia. “Ciao, escargot. Sei in ritardo”.
Il volto di Yvonne era corrucciato.
“Sai che les escargot sono lumache?”.
“Hai fatto tardi, altrimenti ti avrei chiamato tacchinella. Vai a prepararti” fece, dandole una pacca sul sedere.
Quella camminò lentamente, quasi sfilò lungo il piccolo corridoio formato dalle scrivanie, quindi entrò nell’ufficio.
Non vedeva Ruby dalla litigata. Stava dormendo nell’ufficio, probabilmente.
Si erano tuttavia sentiti, tramite messaggi, ma non riusciva a capire se fosse effettivamente nervoso. Fatto stava che la situazione che si era creata tra di loro non si era risolta ancora, e Yvonne ancora vedeva l’immagine di Sapphire riflessa nello sguardo di Ruby.
Ruby invece vedeva una stronza umorale.
Bonjour” fece, levando il grosso cappotto e gettandolo sulla scrivania dello stilista.
“Ciao” le sorrise Whiteley, cordialmente, andando poi a riporlo sull’appendiabiti.
“Sei arrivata...” rispose Ruby, alcalino. “Finalmente”.
“Mi stavano intervistando. Lo avresti saputo se...” levò poi il maglioncino di filo a collo alto. “... se avessi fatto una telefonata...”.
“Whiteley, Faye è la quinta”.
“Apertura e chiusura a Yvonne, giusto?”.
La guardò, che sfilava gli stivali. “Sì. E anche il nono. August non lavora più con noi”.
“Oh, okay...” faceva quella, annotando tutto sul suo foglio.

E provarono tanti vestiti.
Passarono dodici ore, in cui fu stabilita la corretta organizzazione della serata.
Le modelle erano andate via subito dopo gli stilisti.
Poi toccò a Whiteley.
“Ci vediamo domani...” fece Ruby, senza neppure guardarla. Stava ponendo gli ultimi punti sull’abito di chiusura della sfilata. Yvonne era davanti a lui, con le gambe strette e le braccia allargate.
“Sono stanca...” sbuffò lei. “Stai attento con quell’ago...”.
White era seduta alla scrivania, coi gomiti puntellati e le mani ad afferrare le guance. Era in uno di quei rari momenti in cui si preoccupava più della pettinatura che aveva piuttosto che del cellulare.
“Non ti ho mai punta, Yvonne...”.
“Potresti sempre cominciare...”.
White sbuffò. “Smettetela di litigare... sembrate dei ragazzini...”.
“Oh, ma lei lo è...” fece quello, stringendo un punto e tenendo stretta la donna sul fianco destro. Le dita toccavano il tessuto ma il calore della donna lo attraversava.
Crétin”.
Ruby sorrise e la punzecchiò con l’ago sul braccio, quindi la sentì urlare. Scese rapida dal piccolo sgabello e spinse per terra Ruby, che cominciò a ridere divertito.
“Tu me fais mal! Connard!”.
Ti ha chiamato stronzo?” domandò White, alzandosi.
Ruby annuì, sospirò e posò ago e filo sulla scrivania.
“Vai?” domandò poi alla Presidentessa.
“Sì. Domani c’è parecchio da fare. Voi non fate tardi”.
“Tranquilla. Ordiniamo qui e andiamo a dormire”.

E così fecero. Montagne di abiti furono inseriti nei foderi di plastica, pronti per essere stirati prima della sfilata.
Lo fecero nel totale silenzio. Almeno prima che la stanchezza li cogliesse, così, impreparati.
Lui poggiato alla scrivania, davanti, con la mano destra al cellulare e la sinistra nella tasca, mentre Yvonne inseriva uno a uno gli abiti nel grosso guardaroba di legno massiccio alle spalle della scrivania di Whiteley, e mentre lo faceva sentiva lo stilista ridacchiare.
“Cosa ridi?”.
“Chi l’avrebbe mai detto che la grande Yvonne Gabena sarebbe finita per mettere in ordine il mio atelier?”.
E poi successe qualcosa che non sarebbe dovuta succedere: sul volto di Yvonne, sporcato da una smorfia infastidita per la battuta che aveva appena ascoltato, sbocciò una sorpresa mista a curiosità.
Le sopracciglia s’aggrottarono, la mano che era stesa sul fianco si allungò e afferrò un abito.
Ruby sentiva l’aria diventare improvvisamente elettrica; tra le mani di Yvonne c’era il vestito che aveva cucito per Sapphire.
Improvvisamente si chiese per quale motivo non lo avesse buttato via ma, mentre cercava una risposta razionale, capì che non sarebbe mai stato in grado di farlo.
Teneva a quel vestito. Inconsciamente teneva al ricordo che quel tessuto blu gli evocava.
“E questo?” domandò Yvonne, sollevando la gruccia e tirando fuori dal guardaroba l’abito. “Non me l’avevi mai fatto vedere. È per la nuova collezione?”.
E non sapeva neppure, Ruby, perché diamine non fosse stato in grado di dire una bugia, in quella circostanza.
“No. È un abito vecchio”.
Sul volto della donna non vi fu alcuna incrinatura. Levò il vestito dalla protezione di plastica trasparente e lo poggiò addosso, inclinandosi indietro.
“Mi va corto... è forse per qualcun’altra?”.
“Già”.
“Kimberly?” chiese, aprendo poi la zip e levando le scarpe. “Non lascerò che indossi questa meraviglia...”.
“No. Non è Kim”.
Yvonne levò rapidamente anche il maglione, rimanendo in reggiseno.
“Poi è largo sulle coppe. Che forme strane...”.
Ruby sospirò. “Sono le forme di una donna normale”.
“Nessuna di noi potrebbe indoss...”.
Gli occhi di quella si spalancarono. Il respiro aumentava d’intensità, il motore girava più forte ma il silenzio era tagliato a intermittenza soltanto dal ticchettio del Tissot che Ruby portava al polso.
Il volto di Yvonne si spostò lentamente, fino a quando incontrò il suo sguardo.
“Ti prego...” sussurrò lui. “Non lo mettere...”.
Cuori che battevano, il vestito cadde per terra.
“Sapphire?”.
Il ragazzo rimase in silenzio. Guardava l’abito.
“Sapphire...” sorrise poi. “Tu hai conservato un vestito che hai... che hai confezionato per Sapphire...”.
“Non so perché abbia voluto conservarlo...”.
“Lo so io” ribatté l’altra, abbassandosi e riprendendo il maglione. Lo indossò rapida, prese gli stivali tra le mani e fece per uscire, previo fermarsi davanti alla porta dell’ufficio.
Si limitò a voltarsi, con gli occhi colmi di lacrime. Il labbro inferiore era leggermente esposto, l’espressione contrita costrinse quasi con la forza il pianto a scendere.
Fece cenno di no con la testa, lei, finendo per girarsi e camminare lentamente verso l’ascensore.
Sparì oltre quelle porte automatiche di freddo acciaio, pochi secondi dopo, lasciando da solo Ruby nella sua creazione, davanti alla sua creazione.
Come uno stronzo.


Unima, Austropoli,03 Novembre 20XX

Le folate di vento sferzavano le strade eleganti del lungomare di Austropoli. Le persone sui marciapiedi erano strette nei propri cappotti.
C’era chi stringeva guinzagli lunghi e meno lunghi, e chi si limitava a passeggiare col sottofondo del mare arrabbiato sulla destra.
O sulla sinistra. Dipendeva da quale parte della strada camminavano.
Ruby si trovava da quella del mare.
Passeggiava lentamente, e intanto il suo sguardo si perdeva in quel punto indefinito dove il blu marino si fondeva col cielo, diventando un tutt’uno.
Forse era vero.
Forse, quando chi fuggiva camminava sulle onde, poteva raggiungere quel posto magico dove tutto era nulla.
Dove le nuvole erano onde salate.
Si chiedeva, Ruby, perché pensasse quelle cose.
Sul marciapiede dove camminava vi erano ancora carte di caramelle e residui dell’Halloween appena passato. Le sue Trussardi dalle punte lucide calpestavano il cemento, evitando attentamente le intersezioni tra mattonella e mattonella.
Lo faceva sempre.
All’improvviso rivide lo sguardo di Yvonne che lanciava lame infuocate in sua direzione.
Lo ferì, col suo silenzio, ma lui sapeva che fosse soltanto autodifesa.
Era uno stronzo.
Era stato uno stronzo anche dopo, quando raccolse da terra l’abito di Sapphire e si sedette davanti alla macchina da cucire.
Quella notte lo finì. Lo infilò nuovamente nel guardaroba e tornò a casa.
Era vuota, quando aprì la porta.
Yvonne non rispose al cellulare fino al mattino dopo, e donò al suo uomo una notte agitata come il mare di quegli undici giorni dopo. Ricordava di non essersi mai girato tante volte da un lato all’altro del letto.
Da una parte c’era l’armadio, con l’anta mezza aperta e l’angoscia che lo fissava nel buio, dall’altra c’era la paura che il vuoto lasciato da Yvonne quella notte non fosse mai più sostituito dal suo corpo.
La chiamò almeno venti volte. Rispose alle dieci.

“Yv...”.
“...”.
“Yvonne”.
“Ruby”.
“Dove sei?”.
“A Sciroccopoli. Sto lavorando”.
“Lavori?”.
“Sì”.
“Stai bene?”.
“Sì”.
“... Okay...”.
“... Devo andare”.
“Ti prego, ascoltami...”.
“No”.
La telefonata s’interruppe lì.

Non la vide per tre giorni. Lei tornò a casa quando lui era via, prese qualcosa dall’armadio e tornò sui suoi passi. Ruby non si sarebbe mai accorto di lei se solo non avesse riconosciuto il suo odore, una volta che, come sempre a tarda notte, ebbe varcato la soglia della sua abitazione.
Il giorno dopo decise di tornare tre ore prima a casa. Lasciò che fosse Whiteley a chiudere bottega.
Quando infilò le chiavi nella toppa, armeggiando qualche secondo di troppo senza riuscire a trovare il buco della serratura, sentì la maniglia abbassarsi da sola e l’ingranaggio scattare.
Lei era davanti a lui.
Ruby aveva sentito il cuore battere. Accarezzò l’idea di saltarle addosso, sbatterla al muro e baciarla con forza ma dovette scontrarsi con lo sguardo d’acciaio che indossava.
“Vado via subito” fece poi, voltandosi e andando verso il salotto.
“Non ce n’è bisogno”.
Seguì la scia di profumo emanata dai capelli biondi, legati in una coda di cavallo alta. Oltre il tramezzo che li divideva, il camino scoppiettava e illuminava l’ambiente, macchiato di luce qua e là da un paio di lampade al led.
Quando la raggiunse, lei era già seduta sul divano. Infilava le scarpe da ginnastica, senza calzini.
“Non c’è alcun bisogno che tu vada via” riprese il ragazzo, stringendo i pugni.
“Ho da fare” ribatté quella, afferrando il calice che aveva davanti e buttando giù ciò che rimaneva del bicchiere mezzo pieno di Pinot.
O forse era mezzo vuoto.
Si alzò e lo dribblò velocemente, arrivando fin quasi alla porta.
Poi una mano si appoggiò sulla porta e l’altra venne trattenuta. Trattenuta da un’altra mano.
“Non ce n’è bisogno”.
Si voltò, Yvonne, guardandolo negli occhi.
“Devo andare”.
“Non ce n’è bisogno”.
Yvonne strappò la mano dalla presa, abbassò la serratura e sbatté la porta alle sue spalle.
Davanti a lui.

Sentiva ancora il tonfo sordo, Ruby, e invece era davanti al mare.
“Ti sto aspettando da un’ora”.
White scendeva da un taxi in corsa. Poggiò una banconota da dieci sul sediolino e chiuse la porta.
“Sei appena scesa, ti ho vista...”.
La donna sistemò la voluminosa pashmina bordeaux attorno al collo e si esibì in un lieve inchino davanti all’uomo.
Poggiò per un attimo lo sguardo addosso all’uomo dalle mandibole serrate e dallo sguardo spento, quindi portò le mani ai fianchi.
“Tra i due, quello con la vita sentimentale disastrosa pensavo sarei stata sempre io...”.
“Non vuole parlarmi” disse poi, voltandosi e poggiandosi alle balaustre. Il mare ruggiva davanti ai suoi occhi, inghiottito improvvisamente da grosse nuvole nere che si avvicinavano da ovest.
“E perché?”.
“Perché ha trovato un vestito che avevo confezionato per Sapphire”.
White inarcò le sopracciglia, e poi sorrise leggermente.
“E tu le hai detto che era per Sapphire, giusto?”.
“Sono un coglione...”.
“Uno gigante”.
“Un coglione gigante”.
White gli diede una pacca sulla spalla e si avvicinò a lui, affacciandosi sulla distesa furibonda.
“Le ho parlato, stamattina...”.
Lui si voltò immediatamente, fissandola negli occhi.
“Dove?”.
“Da me. Mi è venuta a trovare”.
Ci fu un momento di silenzio tra i due. “Ti ha detto dove sta dormendo?”.
“Da una delle nostre modelle. Non ricordo quale, sinceramente” fece, sbuffando. “Dobbiamo andare”.
Si voltarono e attraversarono la strada. Il Continental era davanti a loro, maestoso nella sua monumentalità.
“Nostalgia?” sorrise White.
“Neanche un po’...”.
La porta scorrevole automatizzata si fermò non appena loro le si pararono davanti. Ruby inalò quell’aria così fresca e profumata che gli aveva dato il bentornato a casa per mesi e mesi, ricordando il numero preciso di passi che lo avrebbero avvicinati all’ascensore.
Otto.
Come i mesi che aveva passato lontano da casa sua.
Sentiva una leggera mano d’angoscia stringergli lo stomaco. Voleva Yvonne, in quel momento, e quell’insana impazienza non faceva altro che impedirgli di concentrarsi su tutto ciò che Yvonne comportava per White.
“Lavoro. Siamo qui per lavoro...” diceva la Presidentessa al concierge. “Avevo un appuntamento per oggi, per la situazione della sfilata sul terrazzo”.
Inarcò il sopracciglio sinistro, Marcel. Era un uomo del tutto rigido e impettito, sempre ben vestito e pettinato. La cravatta era ben annodata al collo e pareva conferirgli quell’espressione perennemente contrita. Poi vide Ruby e cambiò totalmente la fisionomia del volto, cercando di rimanere serio e non distrarsi.
“Io non sono informato su nessuna sfilata per il terrazzo...”.
White ruotò gli occhi e sbuffò, voltandosi verso Ruby. “Vieni qui”.
Lo stilista le si avvicinò e sorrise cordiale, stringendo la mano all’uomo dietro il bancone dalla superficie di marmo.
“Salve, Marcel”.
“Signor Normanson” rispose lui, congiungendo le proprie mani coperte da guanti di velluto bianco attorno a quella del ragazzo dagli occhi rossi. “Sono felice di vederla”.
“Anche io Marcel”.
“Dovrei darle una...”.
“La smettiamo con questi convenevoli?” interruppe White, battendo una mano sul bancone. “La sfilata è di questo signore qui, dopo vi bacerete con trasporto. Posso parlare con Mary?”.
“Uh, mi scusi. Le chiamo subito la direttrice Holloway” rispose quello, voltandosi e sparendo oltre una porta chiusa.
White e Ruby rimasero in silenzio ad ascoltare la gradevole musica d’ambiente davanti all’enorme bacheca delle chiavi, dagl’inserti dorati e la grossa effige centrale con la ci stilizzata al suo centro.
Lo stilista guardò la socia e sospirò.
“Baciarci con trasporto?”.
“Ora che sei su piazza...” fece spallucce la Presidentessa, ridacchiando.
“Non sono su piazza! Chi ti ha detto che sono su piazza?!” esclamò quello, voltandosi verso di lei. “Yvonne ha detto che adesso sono su piazza?!”.
White rise. “Stai calmo...”.
“Che diamine significa stai calmo?! Cosa ti ha detto?!”.
“Ti stavo solo prendendo in giro... calmati, ho detto...” disse infine, prima che Marcel uscisse dalla porta, seguito da Mary Holloway, una minuta donnicciola dal caschetto biondo e le rughe d’espressione fin troppo marcate. Indossava un foulard molto sottile, rosso, annodato al collo.
“Salve, White” fece quella, sorridendo cordiale. “Come ho appena finito di spiegare a Marcel, siamo più che pronti a mostrarvi il terrazzo”.
“Mi perdoni per l’inconveniente” s’inserì il concierge, stringendo tra le mani una busta da lettere. Gli occhi di Ruby si poggiarono sulle sue mani guantate, che la stringevano con gentilezza.
“Andiamo” faceva White, dando una pacca sulla spalla a Ruby e seguendo Mary Holloway verso gli ascensori.
“Sbrighiamoci” fece la direttrice, avanzando rapida. “Tra poco comincerà a piovere”.
E anche Ruby cominciò a camminare, prima che la voce di Marcel lo facesse voltare.
“Signor Normanson...”.
Ruby lo guardò negli occhi mentre, compunto, quello rimaneva in piedi dietro al bancone.
“Da quando è andato via non abbiamo più avuto l’occasione di parlare... Ecco”.
Gli porse poi la busta da lettera. Ruby l’afferrò e la guardò: sulla superficie opaca e candida vi era un’impronta di scarpa da donna.
“È mia?”.
“Era nella sua stanza quando l’abbiamo pulita, dopo che l’ha lasciata...”.
Il cuore di Ruby saltò un battito. La curiosità di aprirla faceva a cazzotti con la voce di White, che lo chiamava.
“Grazie” fece, voltandosi.
“Ruby! Stiamo aspettando te!” urlò invece la Presidentessa, già nell’ascensore assieme alla direttrice dell’albergo.
Le mani fremevano. Con gli occhi guardò il salotto con le poltroncine azzurre, sulla destra, poco lontane dalle due donne.
Doveva lavorare.
“Ehm...”.
“Ruby! Forza!”.
No, la lettera sembrava chiamarlo a voce più alta.
“White... Ti raggiungo tra poco”.
La Presidentessa gli mostrò il dito medio, quindi premette un tasto sul tastierino dell’ascensore e vi sparì oltre le porte.
Era finalmente solo, con la sua lettera.
Mentre avanzava verso i divanetti si sentiva come un ragazzino che aveva appena scoperto la pornografia, e che stava per accingersi in bagno con una vecchia copia di Playboy trovata in uno scatolone.

Era solo.
La musica non lo disturbava e la busta da lettere era tra le sue mani.
La aprì con delicatezza e ne tirò fuori un biglietto, piegato a metà.
Era curioso, lui.
La prima cosa che notò furono le macchie scure di mascara sparse qua e là sulla carta graffiata dalla punta della biro.
La seconda cosa che notò fu che il suo cuore cominciò a battere con una velocità immane non appena riconobbe quella grafia sguaiata e frettolosa.
Gli occhi si spostarono in alto, verso l’apice del foglio, mentre la bocca si asciugò immediatamente.
“Sapphire...”.

E lesse. Lesse tutto.
Lesse di come lei si sentisse affranta, per averlo perso.
Lesse di come si sentisse condotta in quella che sembrava essere una guerra subdola. Ruby non capiva cosa intendesse.
Parlava di quell’altra, Sapphire. Si chiedeva se fosse Yvonne.
L’ansia che prese a colpirlo forte nello stomaco.
Percepiva un vuoto, lui, che non provava da tempo, mentre allontanava per un attimo lo sguardo da quel foglio di carta sporco che pesava tonnellate.
Inconsciamente aveva l’impulso di allontanare quella lettera e uscire fuori, per cominciare a correre, nonostante dovesse ancora scorrere gli occhi su tutta la confessione fatta dalla donna che aveva condiviso la vita con lui per troppo, troppo tempo.
Continuò però a leggere di come lei si fosse pentita, col tempo, di averlo fatto entrare nella sua vita.
Era ancor più pentita però di averlo fatto andare via.
Ce l’aveva con se stessa, ma anche con lui: lo aveva accusato di averla cambiata.
Gli occhi vermigli del ragazzo si poggiarono su di una frase sbiadita da quelle che dovevano essere le sue lacrime.
La ripeté.
“Forse è vero che non sono la persona che ti meriti...”.
Ne era stato così sicuro, fino a un’ora prima. Ma il leggere le sue parole equivaleva di nuovo a starla a sentire, e avrebbe mentito a se stesso se avesse affermato che lei non gli fosse mancata, almeno un po’.
Si chiedeva quando, la ragazza di Hoenn, fosse entrata in quell’albergo, prima che il suo sguardo si poggiasse nuovamente sulla lettera che accarezzava con le dita affusolate.
Lesse delle sue insicurezze, e della consapevolezza che quella non sarebbe mai arrivata ad assomigliare a Yvonne. L’aveva addirittura citata.
Poi lo aveva chiamato per cognome, come faceva quando, per giocare, lei lo provocava.
Subito dopo gli aveva dato dello stronzo.
Neanche sapeva perché ma la sua parte razionale faceva muro e ripercorreva gli ultimi sei mesi della sua vita, chiedendosi per quale motivo lo additasse a quel modo: non aveva mai fatto nulla di scorretto, non si era mai comportato in maniera neppure lontanamente fedifraga.
Anzi.
Agli attacchi d’Yvonne, lui s’era sempre opposto, combattendo anche contro l’impulso di saltarle addosso e possederla.
Ciò che era successo tra lui e la bionda era nato diverse settimane il taglio netto che le loro vite avevano subito.
Si era riscoperto innamorato e aveva colto l’occasione.
Quindi perché era uno stronzo?
Continuò a leggere.
Lei si sentiva incompleta, senza di lui, cercando di fargli capire che neppure fosse interessata a tornare con lui. Tutte le coppie litigavano, chiunque avrebbe potuto prendersi una pausa.
Loro no. Avevano messo un punto, e Sapphire aveva sottolineato che seguirlo a Unima sarebbe stato il più grande errore che avrebbe mai potuto commettere.
La sua vita non era lì.
Sapphire apparteneva alla torrida Hoenn.
E poi ancora parlava di Yvonne, probabilmente. Come se la colpevolizzasse della loro rottura.
Si fermò nuovamente, stanco, lasciando cadere la lettera sulle gambe.
Sentiva l’ansia che White gli stava trasmettendo, dall’ascensore o magari già sulla grossa terrazza, ma la cosa che più gli premeva era continuare.
Però prese un po’ di respiro.
Fremeva.
Avrebbe voluto chiamarla, il suo numero lo conosceva a memoria, anche se non s’arrischiava mai neppure a digitarlo.
Abbassò solo lo sguardo; il foglio, sporco e spiegazzato, risultava lo stesso leggibile, senza che lui lo prendesse con le mani.
“Voglio che tu sappia che ora ho capito che sei un eccesso…” lesse.
Non capiva.
Eccesso in che senso? Eccesso in che modo?
Sapphire continuava a parlare di lui, spiegando più a se stessa che all’interlocutore immaginario davanti a cui era seduta quando piangeva e scriveva quella lettera piena di sbavature di mascara, e cancellature che, se proprio quella cosa sarebbe dovuta succedere, beh, forse era meglio fosse successa in quel momento, e non vent’anni dopo, passati a chiedersi se le scelte fatte fossero state giuste quando, di notte, lui sarebbe diventato un estraneo nel loro stesso letto.
E quindi la domanda che gli pose.
“Sarebbe stata la stessa, la tua vita, con me… con me accanto…” lesse, cercando di grattare via il trucco sciolto.
Fece cenno di no con la testa.
Ancora Yvonne, nella sua mente, a scacciare ogni pensiero inerente a Sapphire. Aveva amato lei, poi aveva imparato a farlo con Yvonne.
Si chiedeva se fosse possibile amare due persone contemporaneamente.
“In stile pizza e lasagna” pensò. “Due cibi, amo entrambi. Ma… con le persone non funziona così…”.
Zittì la sua voce interiore, capendo che le persone, a differenza di ciò che mangiava, provassero emozioni.
Continuò a leggere, dato che voleva finirla lì, e scorse rapidamente lo sguardo su ciò che Sapphire voleva fargli capire: era finita.
Con quella lettera lei si era finalmente convinta a lasciarlo libero, e a fargli vivere la propria vita, tra nastrini e merletti.
Tra il lavoro con Yvonne e le notti passate a cercare il suo calore.
Gli fece capire che la cosa l’aveva uccisa, e il solo pensarlo accanto alla bella di  Kalos non faceva altro che affondare quella lama sempre più in fondo. Però poi gli diceva che conosceva la propria vita e sapeva che, anche quella volta, avrebbe saputo come rialzarsi e trasformarlo, da vecchio demone che imperversava nella sua vita, a una fievole stella lontana in un cielo pieno di opportunità.
Quasi si augurava che lui si pentisse delle sue scelte, mettendo però per iscritto che, in ogni caso, non avrebbe mai più pronunciato il suo nome.

La lettera gli cadde dalle mani.
Il cuore batteva e una grande domanda non riusciva a trovare la via delle parole: quando l’aveva scritta?
Si alzò in piedi e camminò lentamente, molto lentamente, verso il banco dove Marcel attendeva quasi immobile. Quando lo vide indossò un sorriso parecchio cordiale.
“Signor Normanson” annuì con la testa, come a fargli capire che avrebbe ascoltato e accolto qualsiasi sua richiesta.
“Marcel…” ribatté l’altro, visibilmente scosso, poggiando le mani sudaticce sul bancone. Stringevano la lettera.
“Come posso aiutarla?”.
“Quando è venuta qui, la signora Sapphire Birch?”.
Quello cambiò espressione, muovendo rapidamente gli occhi a destra e a sinistra, per fare mente locale. Si spostò verso la destra, dove un grosso monitor illuminava una pila di fogli con luce bianca.
“Controllo subito”.
Ruby lo vide sedersi su di una poltroncina nera, dal rivestimento di pelle appena cambiato, che ancora odorava di nuovo. Spostò il mouse e seguì il cursore con lo sguardo, per poi guardare l’altro.
“Mi ripete il nome?”.
“Birch”.
“Birch” ripeté Marcel.
“Sapphire. Sapphire Birch”.
Le dita digitarono lentamente il nome della donna, per poi premere con vigore il tasto d’invio.
Ruby guardava la sua espressione. Appuntì il viso, concentrato sullo schermo.
“No” fu poi l’esito. “La signora Sapphire Birch non ha mai prenotato una camera a suo nome. Ci sono soltanto dei pernottamenti in camere già piazzate”.
“Sì” annuì l’altro, alzando per un attimo gli occhi, cercando di richiamare alla mente le immagini di sé e di Sapphire che condividevano il letto e un’unione carnale per una delle ultime volte. “È venuta qui nel periodo di aprile, era con me”.
Marcel attese un attimo e si avvicinò leggermente allo schermo, per poi annuire.
“Sì. Ha ragione. Sette aprile, Ruby Normanson. E poi dodici maggio, Yvonne Gabena”.
Gli occhi dello stilista si spalancarono.
Involontariamente le sue dita strinsero con vigore la lettera, accartocciandola.
“C-che cosa?!”.
“Dodici maggio. Ha pernottato con Yvonne Gabena”.
“E non mi ha detto niente?!” domandò.
Lo sguardo di Marcel era confuso.
Rimase confuso anche dopo, quando il ragazzo si voltò agitato, lasciando il Continental alle sue spalle.

Yvonne era stesa sul letto.
I capelli erano sparsi a raggiera sul materasso dalle lenzuola sfatte.
Il silenzio era tale in quella casa vuota che l’orologio nella camera accanto pareva fosse davanti a lei, con quel ticchettio frastornante che scandiva, tra un movimento di lancetta e l’altro, il concetto universale di tempo.
Il tempo era ciò che si creava tra il tic e il tac, un attimo d’infinito, che poi finiva, e la riportava indietro. Poggiò una mano sulla pancia e sospirò.
La sua mente era bloccata in quel loop, in cui i suoi dubbi continuavano a imperniarsi attorno alla figura dell’uomo che le aveva dato un’opportunità.
Si stiracchiò e fece cenno di no con la testa.
Sapeva bene che non si sarebbe risolto nulla, con Ruby, se fosse fuggita in continuazione.
Le mancava averlo accanto e il modo in cui si sentiva quando lui la stringeva.
Forse era davvero arrivato il momento di finirla con quella storia.
Forse era il momento di cominciare a lavorare seriamente per il futuro.
Prese coraggio e si alzò, infilò un paio di pantaloni beige e una felpa nera, col cappuccio. Si guardò allo specchio meno di quello che avrebbe dovuto, coi capelli spettinati e il trucco della sera prima sugli occhi, ormai sbiadito.
Doveva salire in atelier. Si premurò di prendere la borsa, quella era importante, andò in salotto e infilò le scarpe.
Il cuore batteva.
Cercò le chiavi per un minuto, puntualmente le lasciava sempre nelle tasche del cappotto, quindi si avvicinò alla porta, dove stava l’appendiabiti.
Ma quando afferrò le chiavi, nella profonda tasca del soprabito, il meccanismo della porta scattò, facendola aprire.
Ruby era davanti a lei.
Ruby...” sussurrò Yvonne, col cuore che esplodeva. “Devo parlarti...”.
La faccia del ragazzo era granitica, solida come quella di una statua. Le labbra erano serrate e lo sguardo seminascosto dalle palpebre pesanti.
Fece un passo avanti e chiuse la porta, con insolita delicatezza.
L’orologio ticchettava.
Yvonne vide che non lo guardava neppure negli occhi. Stringeva tra le mani un pezzo di carta.
“Anche io”.
Avanzò verso il salotto, dove la luce fioca della piantana riempiva d’ombra tutto ciò che fosse oltre il cono giallo.
La donna lo seguì lentamente, vedendolo andare verso la finestra e fermandosi a guardare la gente che camminava per strada.
“Ecco... io credo che dovremmo fermarci un momento e parlare della cosa... Guardami, per favore”.
Ruby si voltò.
Aveva le lacrime in volto.

“Mi hai mentito”.

Le parole di Ruby le arrivarono dritte sul volto, come un rovescio.
Ruby...”.
“Non parlarmi con quella voce del cazzo! Mi hai riempito di bugie!” urlò lui.
Yvonne spalancò gli occhi, aggrottando le sopracciglia. Aveva il volto dipinto di paura.
“I-io...”.
“Cos’è questo?!” riprese l’uomo, lanciandole contro il foglio di carta appallottolato.
Rimbalzò sul suo petto, ricadendo sul divano.
Yvonne lo guardava, non comprendendo.
“Allora?!” gridò nuovamente. La voce rimbombò nell’intero appartamento, colpendola con aggressività e costringendola a chiudere gli occhi. “Che cos’è questo?!”.
“Non lo so!” rispose Yvonne a tono.
“Non lo sai?!”.
Ruby allargò le braccia e poi le sbatté sui fianchi, incredulo.
“Quello che mi fa più ridere è il coraggio che hai avuto! Ma cosa credevi, che non l’avrei mai scoperto?!”.
“Ma io non so di che stai parlando!”.
Quell’urlo si espanse di contro, raggiungendo Ruby e sedimentandosi lentamente all’interno della sua testa.
La rabbia che gli montava nel corpo esplose, costringendolo a gettarsi contro di lei con furia immane. Yvonne vide come il volto dell’uomo si modificasse, trasformandolo da tranquillo e sorridente fidanzato in una versione troppo simile alle bestie a cui era abituata.
Quelli che l’avevano lasciata coi lividi sul corpo.
Urlò Yvonne, quando lui le afferrò entrambi i polsi.

Durò solo un istante.

Ruby si bloccò, vedendo il volto terrorizzato della donna che aveva avanti. Indossava una maschera di lacrime e trucco sciolto.
Lasciò i polsi della donna, provando pena per lei.
“Non farmi del male…” piangeva lei.
Una stanchezza doppia e solida gli pervase le vene. Aveva voglia di addormentarsi e di risvegliarsi quando quell’incubo sarebbe finito.
“Io non mi sognerei mai di farti del male, Yvonne! Tu invece lo hai fatto!”.
La sua voce rimbombò ancora in tutto l’appartamento. Si sedette sul divano, composto, raccogliendo la lettera da terra.
I loro respiri erano pesanti, si sostituivano alle lancette dell’orologio e si passavano quel globulo d’ansia che nessuno dei due riusciva a trattenere.
Ruby aprì la lettera, tutta spiegazzata, e la buttò tra le mani di Yvonne.
“Lei era qui! È stata da te!”.
Yvonne poggiò gli occhi su quella grafia poco elegante e sporcata da lacrime sporche e disperate. Subito dopo ingoiò una manciata di chiodi e li mandò giù.
Stava succedendo.
“Questa cos’è?” domandò, cercando di calmarsi.
“Leggila!”.

E lo fece. Impiegando forse un po’ troppo tempo, emozionandosi a sua volta e sentendosi colpevole di ciò che aveva fatto, negando a Sapphire d’incontrare l’uomo che amava, che Yvonne amava a sua volta.
Era davvero una persona così cattiva per aver scelto se stessa, per la prima volta nella sua vita?
Finì di leggere quelle parole struggenti. Per quei tre minuti, in cui aveva passato e ripassato con lo sguardo sulla scrittura di Sapphire, immersa nel totale silenzio, distorto soltanto dai rumori del suo pianto.
“Allora?!” ringhiò Ruby. “Mi devi una spiegazione!”.
La vergogna la ricoprì interamente.
“I-io…”.
“Tu cosa?!”.
“Io non volevo perderti!”.
“Tu non mi avevi! Come avresti potuto perdere qualcosa che non ti apparteneva?!”.
Yvonne sospirò, con le mani che tremavano. La lettera cadde per terra, ai loro piedi.
“Tu… non hai idea di quello che ho provato quando, quella sera, venisti da me a dirmi che tra di noi non ci sarebbe mai potuto essere niente…”.
Il silenzio era ripiombato tra di loro.
Yvonne non riusciva a guardarlo negli occhi. Aveva congiunto le mani sulle gambe, abbassando il volto.
“Non hai idea di cosa ha significato per me quel momento… Nessun uomo è mai stato gentile con me come lo eri tu”.
“Io ero gentile con te perché sono sempre gentile, Yvonne. Non è mai stata una mia responsabilità, la gente che frequentavi prima di conoscermi”.
“Ma ti vuoi mettere nei miei panni?!” urlò. “Mi hai vista praticamente nuda dal primo momento e l’unica cosa a cui pensavi era che stessi bene!”.
“Eri il mio lavoro!”.
“E poi cos’è successo?! Hai fatto l’amore con il tuo lavoro, poi?!”.
Ruby annuì, massaggiandosi le tempie, chiudendo gli occhi e sospirando.
“Sei la donna più bella del mondo, Yvonne… Perché non avrei dovuto far l’amore con te?”.
“E allora perché tutti questi problemi?”.
“Perché io sono innamorato di te ma tu mi hai preso in giro dal primo momento!”.
“Io non ti ho mai preso in giro! Io ti ho amato con tutta me stessa!” urlò di contro lei.
La donna stringeva forte i pugni.
Ruby si alzò in piedi, col cuore che batteva. Le dava le spalle, con la grossa finestra davanti al volto. I palazzi di fronte formavano un muro omogeneo che copriva la vista.
“Che cosa è successo?”.
Yvonne piangeva. Gemeva, tirava su col naso, stretta nella grossa felpa.
“Ti prego… Non ti arrabbiare”.
“Dimmi cos’è successo!” si voltò rapido Ruby, con gli occhi spalancati.
“Calmati!” piangeva l’altra.
Sospirò, il ragazzo. Capiva che non fosse il modo migliore per parlare con la donna, quello.
“Scusami. Vai pure…”.
“Non arrabbiarti…”.
“Non mi arrabbio” ribatté lui, guardando il volto mortificato e impaurito. “Ma vai…”.
“È successo quando ti ho… quando ti ho portato in ospedale… per le pillole”.
Lui annuì, portando nuovamente le mani ai fianchi. Sentiva sotto le dita il tessuto del maglioncino e, ancor più sotto, le costole; stava dimagrendo eccessivamente. Sentiva la sua voce rimbombare per l’intero salone, la vedeva piangere.
“Fu una giornata orribile… Ho avuto veramente tanta paura di non vederti mai più. Ho avuto paura che morissi…”.
“Continua…” ringhiò l’altro, cercando di contenere la furia.
“Tornai in albergo quando White riuscì ad arrivare in ospedale, e quando l’ascensore si aprì vidi Sapphire che batteva i pugni sulla tua porta…”.
“E lì decidesti di non dirle nulla”.
Yvonne abbassò gli occhi.
“So che è sbagliato… Mi spiace tanto. Ma non volevo perderti”.
Ruby la fissò con occhi vacui.
“Ma alla fine mi perdi”.
Yvonne spalancò gli occhi e scattò in piedi.
“Che vuoi fare?!”.
Il ragazzo avanzò verso la porta, lentamente e con la testa bassa. Poi si fermò.
Si voltò.
Guardava la donna che aveva di fronte; sembrava minuscola.
“Ti prego…” faceva quella, piangendo.
Lui le stava piantando un coltello nel petto, nella sua mente. Poi le si avvicinò e le strappò la lettera dalle mani.
“Questa non ti appartiene”.
Mise le mani in tasca e prese le chiavi di casa. Tintinnarono sotto il suo tocco.
“E questo posto non appartiene a me…”.
Le lasciò cadere per terra, poi si voltò nuovamente e uscì dalla porta.
“No! Ruby!” corse Yvonne verso di lui, ma era ormai sparito oltre le porte dell’ascensore.
Le lacrime sul volto, la disperazione nel cuore e quella debolezza che le frustava la schiena.
La mano sul ventre.
Il test di gravidanza, positivo, all’interno della borsetta.
Rimase tuttavia immobile, a godersi quell’immensa malinconia.
Ruby…”.


EPILOGO

Hoenn, Albanova, 27 dicembre 20XX

Quando l’aereo atterrò a Ciclamipoli, una strana malinconia gli pervase il corpo.
Lì non avrebbe mai nevicato.
Il cielo sarebbe stato lo stesso coperto da una coltre nera di nubi, ma oltre a una furibonda tempesta della durata di pochi minuti sapeva che lì non avrebbe mai nevicato.
Uscì dall’aeroporto, camminando ad ampi passi verso il parcheggio dei taxi.
Pioveva, ovviamente. Non gli interessava, camminava tra gli sguardi della gente che lo aveva riconosciuto, mentre si stringeva nel soprabito.
Batteva radente, l’acqua.
Pioveva, ma gli mancava la neve, ed era strano, perché aveva combattuto contro tutto e tutti per abbandonare Unima.
Non aveva presenziato all’ultima sfilata, non sapeva neppure come fosse andato.
Non aveva rinnovato il contratto con White.
Non aveva sentito più lei né Yvonne. Del resto aveva gettato, per la seconda volta quell’anno, il cellulare, per rendersi irreperibile.
Non la sentiva da un mese, non aveva voluto avere più nulla a che fare con lei, dopo il loro ultimo incontro.
Bugiarda, lei. Codardo, lui.
Aveva finito per fuggire dalle sue responsabilità, scoprire che la sua nuova casa fosse in realtà piena di demoni. Viaggiò in lungo e in largo, visito luoghi e conobbe persone ma nascose quel dramma che aveva vissuto.
Fino a quando non fu pronto a tornare dove era partito.
Salì sul taxi poco prima che il temporale finisse. Questo era guidato da una donna ben piazzata, dai lunghi capelli ricci, biondi, e dai profondi occhi azzurri. Le grosse guance rendevano le iridi due piccoli puntini.
Mangiava un kebab avvolto nella stagnola. Masticava a bocca aperta.
Genuina, lei.
“Dove la porto?” chiese, con voce baritonale. Continuò a guardare il suo pranzo, con occhi goduriosi.
Non l’aveva riconosciuto. La cosa lo rincuorò.
“Albanova”.
Catturò la sua attenzione; lo fissò dal retrovisore, giusto un secondo, prima di accendere l’auto e spostare lo sguardo verso la strada. Posò il cibo sul sediolino accanto.
“Singolare. Non accompagno molta gente in quel piccolo paesino”.
“Ci vive mia madre”.
Lei annuì e fece manovra. Uscì dal parcheggio e svoltò sulla strada principale di Ciclamipoli.
Gli occhi di Ruby si persero sulla struttura della Palestra di Walter.
“Non vive a Hoenn?” domandò quella.
Ruby lasciò che la domanda si poggiasse delicata nella sua mente, prima di rispondere.
“No. Abito a Kalos”.
“Oh! Parla francese, allora”.
Il ragazzo sbuffò. “Assolutamente. Se permette riposerei un po’...”.
“Oh, ma prego... Volevo solo fare due chiacchiere...”.
“Sono stanco... Il volo è stato lungo...”.
“Certo...”.

E così si addormentò.
Non seppe mai realmente quanto dormì; di tanto in tanto apriva gli occhi, disturbato dalle urla della tassista, pilota aggressiva che aveva la spiccata tendenza a mandare tutti a quel paese.
Sostanzialmente riposò.
Passarono quattro ore prima che la donna lo svegliasse.
“Siamo arrivati... Ho fermato il tassametro...”.
“Duecento Pokédollari?”.
“Facciamo centottanta...”.
Ruby pagò e ringraziò, prima di scendere dall’auto.
Albanova era nuovamente davanti a lui. Poggiò i piedi nell’erba umida.
Aveva piovuto da poco anche lì.
L’odore della natura gli pervadeva i polmoni, e il silenzio era rotto soltanto dai primi cinguettii dei Pokémon dagli alberi.
Le case erano rimaste immobili ai propri posti. Stesse napoletane azzurre, stesse tegole blu, stessi vialetti perfettamente stesi tra tappeti d’erba ben pettinati.
Le siepi delle case erano cresciute tutte alla stessa altezza, educatamente. Due ragazzini in impermeabile saltavano nelle pozzanghere.
Non li conosceva, eppure non mancava da Albanova da così tanto tempo.
Sentì la tassista sgasare e allontanarsi. Si voltò a guardare la grossa nuvola di fumo che la vecchia marmitta di quella Toyota aveva sbuffato via, poi prese a camminare.
Casa sua era davanti a lui.
Percorse il vialetto e vide il giardino ben curato, con grossi alberi da frutto appena piantati carichi di cedri e arance.
Sapphire non amava curarsi delle piante. Era cambiata, nel tempo.
Salì il piccolo scalino davanti alla porta e abbassò il volto; l’ansia lo stava divorando.
Sentì della musica in casa. Sapphire cantava con voce stonata.
Ruby sorrise.
Fu incoraggiato da quella cosa. Batté le nocche sul legno della porta e sospirò.
Passò un minuto.
Ma qualcosa non andava.

No.

La musica non c’era.
Non c’era alcuna donna che cantava, dietro quella porta.
Si voltò: il giardino era pieno d’erbacce e il sentiero era sporco di terreno.
La pubblicità riempiva la cassetta della posta.

Era solo immaginazione.
Aveva bussato a quella porta ma nessuno aveva aperto.
I bambini alle sue spalle non c’erano più.
Quando mise le mani nelle tasche, cercando le chiavi di quella casa, l’alluminio del blister di antidepressivi si accartocciò. Era stanco.
Infilò la chiave nella serratura e girò.

E quello che trovò davanti non era altro che l’espressione di ciò che aveva dentro.

Una casa buia, piena di cose polverose.
Ma vuota.
Nessuno la abitava, nessuno la colorava.

Nessuno era sul divano, coi piedi sullo schienale e la testa sui sedili, le mani a penzoloni dai braccioli e il Nintendo accanto ai calzini, gettati a casaccio sul tappeto.
Nessuno lasciava montagne di vestiti davanti la porta del bagno, né finiva per addormentarsi sul letto seminuda, quando fuori faceva troppo freddo.
E quando faceva troppo, troppo freddo, nessuno rubava più le coperte.

Nessuno urlava.
Nessuno parlava.
Niente e nessuno. Quel posto era inabitato.
Il respiro di Ruby era pesante e frammentato. Gli occhi erano pesanti, le gambe non si muovevano quando la testa dava un ordine.
“Sapphire...”.
Il nome della donna rimbombò per tutto il salone buio.
L’ansia lo colse. Si guardò attorno, cercando di cogliere qualsiasi rumore che rivelasse la sua presenza.
“Sapphire!” urlò poi. “Sapphire! Sapphire! Cazzo, Sapphire!” sbraitava lui, cominciando a colpire il muro che aveva accanto.
L’ansia diventò angoscia.
Non era lì. L’aveva persa davvero?
Si lasciò cadere sul divano, con le lacrime agli occhi e la voglia matta di svegliarsi da quell’incubo. E poi la vide.
Una lettera, piegata a metà, sul tavolino di cristallo che aveva davanti.
Le mani tremanti l’afferrarono con lentezza.
“Sapphire...” sussurrò, aprendo il foglio.
E ne lesse le parole.

“È passato ormai un po’ di tempo da quando hai lasciato Albanova, Ru’… Qui il tempo scorre assai lento. E non è per via di questa pioggia leggera, che non accenna minimamente a finire; sai che è il periodo, questo, in cui passiamo più tempo in casa che fuori. Dicembre a Hoenn è così, ma non te lo devo spiegare, anche se manchi da casa da quasi un anno…”

FIN.
OPPURE  NO?










Benvenuti nel mio angolo autore.
Ho finalmente concluso questa storia. Una long che probabilmente era più una necessità che mera voglia di stendere su di un foglio bianco i miei pensieri.
La mia intera produzione è costellata di storie dal tono decisamente più avventuroso e meno sentimentale.
Unravel Me è stata la prima vera svolta della mia serie; in parte perché ero decisamente stanco di ammazzare e distruggere, in parte perché sto crescendo e certe trame cominciano a starmi un po’ strette.
E quindi siamo arrivati fin qui. Lettore che mi ha seguito per tutto questo tempo, grazie.
Grazie perché non t’interessa se sono un pesaculo esagerato e non riguardo il capitolo.
Non t’interessa se la regolarità con il quale ho cominciato i miei lavori è soltanto un ricordo relegato a tempi migliori.
Non t’interessa niente se non cosa succede nei capitoli. Gli ultimi sono un po’ più lunghetti.
Non dovrebbe interessarti neppure questo. Anzi.
Grazie.

E ora?
E ora nulla.
The Sinner’s Recall deve vedere una fine.
Dopodiché sarà l’ora dei fantomatici filler di fine serie e infine andremo avanti con Courage.
Furor, l’ho annunciata tipo nel 1986.
Giuro che ci sto lavorando.
E poi mi chiederete... perché hai scritto OPPURE NO?
Perché Unravel Me è finita, ma le vicende narrate in questo universo non lo sono affatto.
Inoltre ho lasciato dei personaggi a metà, e questo non è da me. Yvonne è incinta e White e furibonda.
E Sapphire... Beh, Sapphire non saprete dov’è andata finché non uscirà Fallin’, il continuo di questa storia.
Chissà quando.
Avevate capito, vero, che le parti in corsivo all’inizio di ogni capitolo compongono la lettera che scrive Sapphire alla fine? Vero?
Leggete, che vi fa bene.

Sempre vostro (quando voglio)

Andy Black.

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