..Blue Christmas.
Quando le cose dovrebbero
essere diverse.
Una storia dei
Couragers.
Prologo
(a cura di Andy Black)
La
sveglia gridava sadica.
Marcel
trasalì da quel sonno sporco di fuliggine e aprì gli occhi. Li stropicciò,
sbadigliò e stiracchiò ogni muscolo, chiedendosi quando quella giornata, appena
cominciata, sarebbe finita.
Desiderava
con ardore il potere di riuscire a tagliare via tutta la porzione di tempo che
lo divideva dal momento in cui, nel letto in cui si trovava in quel momento, ci
sarebbe tornato.
Ovvero
il mattino seguente.
Allungò
lo sguardo oltre le tende, cercando di capire se quel giorno il sole bagnasse i
marciapiedi della Rue du Bac, o se a
farlo fosse uno di quei frequenti temporali che in quei giorni aveva colpito
Luminopoli.
Sembrava
bel tempo. Sembrava soleggiato.
Sentiva
per strada il vociare, e i motori dei taxi che s’inseguivano lungo le strade
dall’asfalto ben pettinato.
La
sveglia continuava a urlare. La colpì con una manata, cadde dal comodino e si
zittì.
-
Porco demonio...
Si
sporse dalle coperte e la raccolse; le lancette segnavano già le sedici e un minuto. Impanicato, si alzò rapido e risoluto,
gettandosi nel bagno ed entrando sotto la doccia.
Fredda,
più o meno fino alla fine. Poi qualche goccia d’acqua calda lo rinfrancò quando
ormai era tutto inutile.
-
La vigilia di Natale... – sussurrò, tra sé e sé. Tanto viveva da solo, nessuno
avrebbe potuto sentirlo, dentro quelle quattro mura che puzzavano di stantio.
Uscì
dal bagno già asciutto, saltò nella divisa da concierge e s’affrettò in strada.
La
prima cosa che pensò quando mise piede fuori dal portone del palazzo dove
viveva fu che avesse fatto un grosso errore di valutazione.
Non
c’era il sole. Non pioveva.
Aveva
da poco cominciato a nevicare.
Di
male in peggio.
Si
strinse nel cappotto di ciniglia e sospirò, affondando le scarpe nella neve
bianca e fredda.
Sentiva
i calzini bagnarsi, lentamente, mentre allungava la vista oltre la fiumana di
persone che sorridenti entravano e uscivano dai negozi. Aspettò pazientemente un
taxi e sospirò, incrociando le braccia. Riusciva a vedere il proprio volto
riflesso a intermittenza sui finestrini delle auto che sfrecciavano davanti a
lui.
Era
stanco ma quello poteva dipendere dal sonno. Aveva staccato dal turno di notte
alle otto del mattino e a mezzogiorno era stato telefonato dal suo responsabile
che gli aveva freddamente comunicato che il Primo Concierge aveva deciso di
prendersi qualche giorno di ferie.
Lui
fu costretto ad annuire ma Monsieur
Rubignon, dall’altra parte della cornetta, non poté vederlo.
-
Bene… - gli aveva risposto. – Alle quattro sarò in postazione…
Attaccò,
ricaricò la sveglia e stracciò i biglietti del bus che l’avrebbe riportato a
Petroglifari, per festeggiare con la sua famiglia.
E
invece no. Del resto lavorava all’Hôtel le Crésus, non nel primo ostello di
Luminopoli. Calpestava marmo tutti i giorni, parlava tre lingue frequentemente,
guadagnava qualche soldino che si metteva da parte per visitare, un giorno,
Austropoli.
Sogni,
sogni, sogni.
Pensava
ai sogni ma alla fine si ritrovava sempre coi calzini bagnati.
Quando
vide un taxi alzò la mano. Lo vide accostarsi placido davanti a lui.
Aprì
la portiera, vi si sedette e per un attimo quell’immenso trambusto scomparve,
sbattendo contro i finestrini.
-
Buon pomeriggio. Dove la porto? – chiese asettico il tassista, scrutandolo (ma
giusto per un attimo) attraverso lo specchietto retrovisore pieno d’impronte di
dita.
-
Al le Crésus, per favore… e anche
prima possibile – sbuffò. – Sono sempre in ritardo…
Lo
vide sorridere sommessamente, per poi accendere il tassametro e mettere in moto
la vecchia Renault, che tossì per qualche secondo prima di muoversi.
Marcel
vide il suo palazzo allontanarsi e una marea di persone, i loro volti felici,
tristi, impressionati, neutri, susseguirsi uno dietro l’altro, totalmente
ignari del fatto di essere osservati da lui, protetto dai vetri scuri di quella
Scenic bianca. Sarebbe arrivato sul posto di lavoro con due minuti di anticipo,
avrebbe pagato con una banconota da venti e avrebbe detto di tenere il resto a
quell’uomo consumato dal proprio lavoro.
Quello
lo ringraziò e ripartì, amici come prima.
Capitolo 1:
Pedro (a cura di Lily di komadoriZ71;)
«Ehi,
ragazzino, dove credi di andare?!».
Erano
le cinque del pomeriggio quando Pedro varcò la soglia dell'Hôtel le Crésus, non
aveva avuto il tempo di sciogliere il primo bottone della giacca, che un
dipendente gli si era avvicinato con un'aria minacciosa e dallo sguardo
schifato.
Il
ragazzo sussultò a quell'incontro improvviso, l'uomo non aveva l'aria pacifica
dei minatori che incontrava ogni giorno. Si schiarì la voce e si sistemò la
montatura leggera che gli era scivolata sul naso.
«Scusi...?»
esclamò con fare incerto.
«Hai
idea del casino che stai combinando?!» continuò l'uomo, portando l'attenzione
del giovane Capopalestra sul pavimento. Pedro arrossì quando si rese conto di
ciò che aveva provocato, era entrato nella hall con gli stivali sporchi di
fango e neve e aveva lasciato una scia di sporco lungo il percorso.
Non
era il migliore dei modi per cominciare, assolutamente.
«M-mi
perdoni...Io...» cercò di giustificarsi, ma lo sconosciuto ricominciò a parlare
e non gli donò il tempo necessario per dare qualche spiegazione.
«Quante
volte devo dirlo? Gli addetti alla manutenzione devono accedere dall'entrata
posteriore. Non ci vuole molto per imparare la strada!».
Pedro
aggrottò le sopracciglia e sospirò, cercando di rimanere serio per evitare di
urtare la sensibilità dell'interlocutore. Quella frase riuscì a far realizzare
il motivo che aveva spronato il dipendente a sbottargli addosso, ma non poteva
biasimarlo o sentirsi offeso. Si era presentato con addosso la divisa che
utilizzava per scavare nella miniera, un completo che lo differenziava dai
personaggi che affollavano il salone attorno alla reception. Pedro non
conosceva il significato del lusso o dell'agio, non sapeva come si doveva
comportare in mezzo a persone raffinate e con la puzza sotto al naso.
«Non
credo che sia il caso di mettersi a urlare» esclamò alla fine, infilando la
mano nella tasca del pantalone per recuperare l'invito. «Ma non sono qui per la
manutenzione… mi chiamo Pedro e provengo da Sinnoh… sono il Capopalestra di
Mineropoli».
A
quella frase il dipendente gli strappò il foglio dalle mani e, dopo una breve
lettura, cominciò a cambiare i modi di fare. Il giovane restò in silenzio a
osservarlo, iniziò a sorridere quando notò l'estraneo sgranare gli occhi dallo
stupore.
«Io
non...Non era mia intenzione riceverla così, Signorino, mi scusi!».
Pedro
scrollò le spalle e si passò una mano nei capelli, senza riuscire a trattenere
una risata divertita. Sperava di non aver attirato troppo l'attenzione, la hall
bazzicava di persone e il dipendente non aveva esitato ad alzare la voce per
rimproverarlo. «Non si preoccupi, non volevo sporcarle il pavimento»
«Non
ci badi, qualcuno verrà a pulire, è già successo poco fa con un Capopalestra
che proviene dalla sua stessa regione. Adesso la porto da Marcel, così le
donerà la chiave della sua stanza. Lasci qui il bagaglio, ci penserà il nostro facchino
a portarla al piano superiore!»
Marcel
si era dimostrato un individuo molto paziente e responsabile, sembrava l'unico
essere umano in mezzo a una marea di fantocci. Pedro aveva ascoltato le
informazioni che uscivano dalla bocca di quest'ultimo, sostando davanti al
bancone per lasciare una firma sul registro e riscattare la chiave della
propria stanza.
«La
ringrazio» esclamò il giovane Capopalestra con una cordialità un po'
impacciata, rivolgendo un sorriso mite al lavoratore dal vestiario elegante. A
primo impatto Marcel sembrava un individuo come tanti, dalla criniera scura ben
pettinata e gli zigomi alti. Dietro al bancone della hall sembrava possedere
un'ottima posizione, ma il sorriso dall'aria spenta dava un'impressione
leggermente diversa di lui. Pedro schioccò la lingua contro al palato, incerto
sul da farsi. «Buon Natale, quindi».
«Buon
Natale anche a lei, Signorino».
Pedro
scrollò le spalle e si congedò con un movimento leggero della testa, afferrò
gli scarponcini che aveva posato a terra per avanzare in direzione
dell'ascensore. Entrò e sospirò dal sollievo, premendo il bottone per
raggiungere il piano in cui si trovava la camera da letto. Durante la salita
continuava a riflettere sul saluto sbrigativo che aveva dato a Marcel, nessuno
gli aveva mai dedicato un augurio dai tratti finti e privo di sentimenti. Il
Capopalestra non se la sentiva di giudicare quel ragazzo, non conosceva la
mentalità delle persone che vivevano in città immense come Luminopoli, aveva
trascorso l'esistenza in un piccolo paesino circondato dalle montagne e solo
allora si era reso conto di quanto fosse fortunato. Non poteva lamentarsi di
Mineropoli, luogo in cui possedeva un lavoro che mandava avanti con una
passione innata. La posizione del Capopalestra gli concedeva un vantaggio
enorme, le persone lo consideravano come un punto di riferimento e lo
interpellavano nei momenti più assurdi della giornata. Ma gli volevano bene e
questo era un sentimento fondato su basi solide, non era un caso se la mamma lo
rimproverava per le condizioni in cui teneva la propria camera da letto, piena
di cianfrusaglie e dolciumi vari che aveva ricevuto in dono dai vicini.
Pedro
mostrò un sorriso divertito e arricciò la punta del naso davanti, varcò la
porta metallica dell'ascensore per avviarsi lungo l'immenso corridoio. Non badò
all'allestimento elegante e raffinato dell'albergo, aveva la mente occupata a
identificare lo stesso numero scritto sulla targhetta delle chiavi. Si fermò
solo quando riuscì nell'impresa, si affrettò ad aprire la porta per accedere
nella camera. Aveva bisogno di rilassarsi, di scrollarsi di dosso la stanchezza
del viaggio con un bagno caldo e mettersi a riposo fino la mattina successiva.
Trovava
deludente l'idea di trascorrere la viglia di Natale in completa solitudine, ma
cercò di evitare pensieri negativi per aprire la valigia ed estrarre il
contenuto. Posò i panni puliti sul materasso del letto, sospirò e si levò di
dosso i vestiti ricoperti di fango e residui di ghiaccio.
La
solitudine faceva da padrona, Pedro non poteva fare altro se non soccombere
sotto ai pensieri che si ripetevano nella propria mente. Aveva riflettuto
tantissimo sugli episodi che aveva vissuto nella metropoli francese,
l'esperienza l'aveva aiutato a capire che non doveva mai fermarsi davanti alle
apparenze. Aveva ricevuto un'ottima immagine di Luminopoli, questa aveva
dimostrato di possedere le sembianze di un grosso pacchetto natalizio, ma
l'interno era diverso da come se l'era immaginato e i volti delle persone
parlavano chiaro. La gente non si preoccupava di soffocare il proprio egoismo,
i lavoratori assumevano le sembianze di marionette che soffocavano sotto al
lato economico di una festività nata con l'intento di unire le famiglie, in cui
le buone azioni venivano premiate con enormi tavolate piene di cibarie e regali
dalle varie dimensioni.
Sospirò
per dimenticare ogni idea malinconica e si abbandonò sul materasso, cominciando
a strizzare i capelli con l'asciugamano per asciugarli. Erano quelli gli attimi
in cui sentiva nostalgia di casa, di come la presenza della madre rendeva viva
e accogliente la casa in cui era nato e cresciuto. Pedro non poteva fare altro
se non immaginare il proprio appartamento, cercava di vedere la figura esile di
quella donna intenta a cucinare qualcosa di sfizioso per cena, il tutto con la
televisione accesa su un canale qualsiasi. La fantasia del ragazzo era andata
ben oltre, era così convinto di quel quadretto fittizio da sentire i profumi
deliziosi emanati dalle pentole e le risate che provenivano dall'apparecchio elettronico.
Scrollò le spalle, tornando in movimento per indossare il cambio.
Non
mancava molto all'apertura della sala da pranzo, Pedro doveva rispettare i suoi
obblighi da Capopalestra e presentarsi a cena. Non conosceva l'ambiente in cui
stava per gettarsi, ma aveva compreso che doveva indossare un abbigliamento
decente per uscire indenne dalla situazione. Aveva rischiato grosso quando
aveva messo piede nell'albergo, non voleva commettere un secondo errore e
trovarsi al centro dell'ennesima scena imbarazzante. Doveva adattarsi, era
l'unico modo per sopravvivere.
Il
Capopalestra era ad allacciarsi gli scarponcini quando lo sguardo finì sul
foglietto presente sul comodino lì vicino. Non l'aveva notato. Terminò di
prendersi cura delle scarpe e lo afferrò, srotolando la carta per leggere il
contenuto. Era una lista degli invitati alla premiazione, gli addetti
all'evento si erano preoccupati di riunirli in uno dei tanti saloni presenti
nell'albergo. I posti erano stati divisi a seconda del tipo allenato da ciascun
Capopalestra.
Pedro
sentì una stretta al cuore quando gli occhi passarono su un nome che conosceva
fin troppo bene: “ Ferruccio ”
Non
si immaginava di avere a che fare con il padre, non in un'occasione del genere.
Il fiato cominciò a farsi pesante, le mani gli tremavano dall'emozione. Non lo
sentiva da anni e non aveva avuto modo di vederlo dopo il suo trasferimento a
Canalipoli, forse non ricordava nemmeno più le fattezze del suo viso.
Pedro
cominciò a deglutire, era nel panico.
Era
restio all'idea di scendere al piano di sotto, uscì dalla stanza solo perché lo
stomaco aveva iniziato a brontolare. Non aveva il coraggio di incontrare il
genitore, non dopo il torto che aveva fatto a sua madre. Aveva dieci anni
quando aveva visto Ferruccio andarsene di casa, Pedro non aveva dei ricordi
netti di quei periodi, ma non aveva mai dimenticato i pianti notturni della
madre e il vuoto lasciato dalla sua assenza. Anche il primo Natale senza di lui
si era dimostrato un disastro, in cui la malinconia aveva riempito le mura
della cucina. Pedro era piccolo per comprendere la situazione, ma aveva capito
di essere stato abbandonato e che doveva crescere senza l'aiuto forte e vigile
del padre.
Capitolo
2: Valerie (a cura di Lila May)
La
si sarebbe potuta quasi definire felice, a guardarle di sfuggita il sorriso
turgido di rossetto color pesca.
Le
illuminava il viso nonostante le luci dei lampadari dell'immensa sala
ricevimenti dell'hotel fossero stati attenuati al minimo, la faceva apparire
felice anche se aveva perso; vi era un apparente trionfo, in lei, nei suoi modi
diretti, nella sua voce ferma e delicata, che gli spettatori, pur sicuri di
aver votato per il Capopalestra giusto, non riuscirono a staccarle gli occhi di
dosso nemmeno quando, dopo un breve discorso solenne, la bella Capopalestra di
tipo Folletto si fu ritirata dalla scena.
Valerie
aveva accettato la sconfitta con un inchino sui tacchi alti, senza neanche
barcollare, ed era scesa dal piedistallo lasciando al suo posto rimasto vuoto
una nuvola di vapore al profumo di Baccafragola e champagne. Anche quell'anno,
il titolo di miglior Capopalestra era stato affidato ad un collega che non era
lei, proprio come l'anno prima, e l'anno prima ancora. Dal giorno in cui aveva
deciso, trasferendosi a Kalos, di intraprendere la carriera di maestra dei
Folletti, la gente aveva iniziato a storcere il naso dinanzi al suo kimono di
quindici chili, i suoi vertiginosi Lady Peep dalla suola color caramella, i
suoi capelli neri lunghi sino alle caviglie. C'era qualcosa, in lei, che non
aveva mai convinto le giurie di Kalos. Gli occhi erano troppo languidi,
l'espressione estremamente assorta, il suo comportarsi da Pokémon da ritenersi
osceno.
Valerie
non capiva come potesse essere “osceno” parlare la lingua di quelle creature, atteggiarsi
come loro. Capire esseri tanto mistici non era certo prestanza da tutti. Eppure
gli altri non riuscivano a vederci qualcosa di utile, di bello. Ciò che per lei
era armonia, in realtà era disordine. Ciò che per lei era essenziale, per il
resto del mondo era inutile.
E
allora mai avrebbe vinto quel concorso.
Ma
anche così, si sentiva felice. Sì, Valerie era felice. Era felice perché dopo
la pioggia torna sempre il sole, e perché la vera bellezza si cela dietro un
pianto, e non dietro un falso sorriso.
Di
questo si convinse la gente quando la bella Capopalestra scomparve nel lungo
corridoio che portava alle stanze.
Ma
in realtà Valerie non era felice.
Il
sorriso svanì dal suo bel viso smagrito non appena ebbe che svoltato l'angolo,
e colta da un'insana ansia di arrivare alla sua stanza, iniziò a camminare più
veloce di quanto le potesse permettere lo stretto gonnellino di falpalà
tricolore. Aveva bisogno di andare via da quell'agglomerato di flash, i sospiri
concitati della gente, la calca di teste e microfoni puntati contro il patio.
Aveva bisogno di respirare, o un malore l'avrebbe colta e stesa per il troppo
dolore. Salì le scale gemendo, e arrivò all'ultimo piano che il respiro le si
era accumulato nel petto, con la conseguente formazione di noduli e singhiozzi.
Dalla borsetta intarsiata di paillettes estrasse il pass, che fece strisciare
lungo la serratura della porta.
Quest'ultima
si aprì con un clic che la fece sussultare.
Vi
si gettò aldilà senza guardarsi indietro.
Non
accese la luce, non fece uscire dalle sfere i suoi Pokémon, come era sua solita
abitudine quando finalmente tornava a casa dopo una serie di lunghe sfide in
palestra, e l'unica cosa di cui necessitava per sorridere era una tazza calda
di tè Roserade, un po' di musica
classica e i versetti dei suoi dolci compagni di vita in sottofondo.
Gettò
la borsetta sul materasso e in un impeto di rabbia si liberò dei tacchi, che
lanciò contro il muro. Doveva respirare. Calmarsi. Erano mesi che continuava a
soffrire così, per colpa... c'era qualcuno che avesse colpa? Un giudice tanto
severo, intorno a lei, che non fosse solo ed esclusivamente... lei? Lei, che
predicava bene, ma razionava male.
Lei,
che parlava sempre di bellezza, di non lasciarsi scalfire da nessun commento,
di proteggersi dietro il classico velo anti-invidia di bon ton, lei, che aveva
una scuola di Kimono-Girl, che le rendeva ragazze forti, invincibili. Poi, da
sola, come una bambola di porcellana crollava e permetteva alle sue paure di
impossessarsi persino della più piccola parte lucida di sé. Era il terrore di
sbagliare, il terrore di non andare bene, a nessuno, che avevano trasformato la
corazza di Valerie in uno scudo difettoso dalla nascita; oltre quei fori, di
tutto passava, tutto le rizzava i peli sulle braccia, tutto le sfasava il fard
di lacrime.
Un
soffio di vento, una risatina.
Erano
i tacchi a renderla alta, non il coraggio. Non l'albagia, non la bellezza.
Erano fattori esterni, quelli, fattori che usavano tutti, per proteggersi,
nascondere il dolore dietro una facciata di apparente felicità data secondo il
toner di un fondotinta, o lo spessore della matita sull'occhio stanco.
E
Valerie era stanca. Stanca, stanca si sedette dinanzi alla toilette, si passò
le mani sul viso, increspandone la pelle tirata di trucco mentre ritirava i
piedi nudi sulla moquette bordeaux della camera. Voleva togliersi tutto di
dosso. Tutto, rimanere nuda, alle prese con i suoi capelli troppo lunghi, le
sue orecchie allungate, e imparare a vederci del bello, in quei dettagli tanto
criticati dalla gente. Imparare ad apprezzarsi, a trovare anche in sé un
barlume di splendore. Ma la strada era lunga.
Lei
sapeva come andava fatta. Sapeva come funzionava il suo cervello. Eppure non ci
riusciva; lottava, ma tutte le volte era come prendersela con un riflesso
sbiadito di sé, una brutta copia della sua vera essenza. Si perdeva, in quei
gridi, in quegli sguardi truci.
E
così aveva di nuovo perso. Perso, per colpa dell'ennesimo Natale del cazzo, in
cui aveva sperato, creduto, pregato che qualcosa in lei durante la vigilia si
sarebbe sciolto, come la neve che circondava il sagrato dell'hotel, e che il
sole aveva già iniziato a trasformare in solido ghiaccio destinato a divenire
acqua per Mudkip. Non era servito fingersi ottimisti, dunque, annusare l'aria fredda
e trovarla piena di aromi nuovi.
L'odore
era sempre lo stesso.
E
lei, sempre la stessa.
Guardò
il suo riflesso allo specchio, al buio della stanza, e si trovò orribile così
conciata, devastata e masticata di rimorsi. Perché non ci riusciva? Cosa le mancava,
per sentirsi bella come un fiore? Per sentirsi all'altezza degli altri,
vincente anche quando non era il suo momento di sguainare la medaglia?
-
Valerie...
Le
girò la testa nel vedere che il riflesso, il suo riflesso, l'aveva appena
chiamata. Era arrabbiato, adirato, con i capelli neri che la puntavano come
Arbok nervosi. Valerie si spaventò tanto da tirare la schiena all'indietro,
stridere i talloni contro la moquette. Le bruciarono, e fu un bruciore
imbarazzante, che la colse alla gola, al cuore, e la fece quasi piangere.
-Valerie.
Ancora,
il riflesso. Era nudo, era perfetto, ma conteneva un odio nello sguardo, capace
di far tremare chiunque alla sola vista. La Capopalestra si sentì crocifissa
dal dolore. Iniziò a mugolare, terrorizzata da una se stessa che non riusciva,
in quel momento, a riconoscere nemmeno sforzandosi. -Sono patetica...- mugugnò,
e gli occhi grigi divennero dello stesso colore del carbone mentre lacrime di
puro vittimismo spietato brillavano come stelle immerse in quel nero denso e
coagulante. -Sono misera...
-Valerie.
Scosse
il capo così forte da farsi venire il mal di testa, e quando le ciocche lunghe
dei capelli le si sparpagliarono lungo il petto, il loro gelo le ferì la pelle
di deplorevole vergogna.
-Valerie!-
urlò il riflesso, e lei gli rispose a tono, urlando e prendendosi il capo tra
le mani, mentre quello se la prendeva con lei senza che potesse far nulla per
fermarlo. Era come le critiche che riceveva sempre, come l'odio insensato che
la gente provava per la sua pelle bianca, il suo viso troppo affusolato.
Anzi,
era peggio, di tutto quello.
Era
lei, che se la prendeva con se stessa. Non poteva esistere margine più sfasato
di quello.
E
la lotta continuò, continuò fino a che lo specchio non si ruppe in mille
frammenti di vetro, e il tetto della stanza non crollò dietro le sue spalle,
sollevando polvere volta solo allo scopo di soffocarla di dolore. Valerie
sollevò il capo spaventata, e nell'illusione di vedersi le schegge strapparle
la pelle dal viso, la sua assistente entrò dalla porta.
-
Valerie? -, fece, in piedi e immobile. E come la notò immersa nel buio subito
accese la luce.
La
donna ne approfittò dell'istante di confusione per asciugarsi le lacrime, ma
quando si toccò il viso, si rese conto di avere le gote perfettamente asciutte.
La
cosa la lasciò senza respiro.
Senza
fiato. Si guardò le mani, dapprima tremanti, ma ora erano calme. Cercò il suo
riflesso, lo trovò dinanzi allo specchio intatto e lucido come tutto
all'interno di quella stanza. Anche lui era calmo. Le corrispondeva alla
perfezione. Ogni suo centimetro di pelle combaciava con quello riprodotto sulla
superficie trasparente del vetro.
Si
accasciò, sfinita. Senza parole, mozzicate dal terrore.
-
Valerie… - l'assistente si chinò per spostare i tacchi dall'ingresso, prima che
potessero intralciarle il cammino, e venne verso la Capopalestra accompagnata
da due truccatrici. - Ho bussato diverse volte, ma non rispondevi.
Valerie
capì di essersi lasciata sopraffare dall'ennesimo incubo, le ennesime paure
senza senso. Si sistemò i lunghi capelli dietro l'orecchio, e si guardò le
gambe nascoste dietro un semitrasparente strato di collant nero pece. Quegli
attacchi di panico non sarebbero mai finiti.
Mai
i suoi terrori l'avrebbero lasciata andare.
Avrebbe
continuato a vagare alla ricerca della felicità, senza trovarla. -Ti senti
bene?- domandò la sua assistente, e le porse un bicchiere d'acqua, che Valerie
accettò bevendolo tutto d'un fiato.
Guardò
di nuovo il suo riflesso.
Era
spaventata a morte, terrificata, e morse il bicchiere di plastica nel vano
tentativo di calmarsi anche dentro.
Le
truccatrici la circondarono sorridendo, e posarono i loro beauty-case sul
comodino della toletta bianca, pronte a spennellarla e cacciare via qualsiasi
impurità sul suo viso, dalla prima
all'ultima.
-
Grazie… - mormorò semplicemente, e sorrise.
Non
capì bene se a se stessa, al suo riflesso, all'assistente, alle due truccatrici
o se per caso a quel Natale in cui nulla sarebbe cambiato, dentro di lei.
Capitolo
3: Green (a cura di John Hancock)
Non succede mai nulla
di buono dopo le due di notte
Le luci della
televisione, impostata su “muto”, continuavano a danzare sulle pareti
tutt’intorno a lui.
Green decise
finalmente di alzarsi, non riuscendo più a stare lì, fermo e immobile nel suo
letto. Un brivido lo percorse lungo tutto il corpo non appena i suoi piedi,
scalzi, incontrarono il freddo pavimento. Si avvicinò alla finestra che si
trovava in camera da letto e aprì le tende, rendendo il suo sguardo libero di
spaziare al di fuori di quelle mura. La neve stava cadendo, lenta e delicata,
sospinta di quanto in quanto da qualche brezza di vento. Giù, per le strade di
Luminopoli, la gente era immersa negli ultimi sprazzi di festeggiamenti. Molti
erano già sulla via di casa. Ancora altri invece avevano preferito restarci, a
casa, e passare una notte in compagnia della propria famiglia.
Green invece, come
ogni anno, si era ritrovato solo a Natale. Quest’anno, per di più, era dovuto
arrivare a Luminopoli. Ancora più solo, anche se lì c’erano molti dei suoi
colleghi e amici più vicini. Molti di loro, amici di vecchia data ormai persi
di vista, avevano approfittato di quell’occasione per festeggiare tutti
insieme, giù nel ristorante dell’albergo.
Spalancò la finestra, lasciando entrare l’aria
gelida della notte. Rimase lì, a scrutare il cielo notturno. Chiuse gli occhi.
Una debole brezza gli accarezzò una guancia, mentre piccoli fiocchi di neve
iniziavano a turbinare dentro la sua camera d’albergo. Non seppe dire per
quanto tempo rimase lì, con la pelle del nudo petto che s’intorpidiva sempre di
più. Si riscosse quando iniziò a perdere sensibilità all’estremità degli arti.
Gli vennero in mente i
suoi genitori, scomparsi da molti anni. Sua sorella, suo nonno, i suoi amici
più stretti, Red, Blue. Tutte persone che, puntualmente, a Natale finivano con
lo sparire, assorti nei loro doveri e mansioni. Lasciandolo solo nel suo
laboratorio, senza un posto dove andare.
Aveva bisogno di una
doccia per scrosciare via tutti i pensieri che stavano accalcandosi sulla
soglia della sua mente. Il calore dell’acqua per un po’ gli tenne compagnia,
come il caloroso abbraccio di una madre al figlio. Green sentì che quei
pensieri, che lo attanagliavano sempre in modo così ossessivo quanto più ci si
avvicinava alle feste natalizie, ormai stavano per sopraffarlo.
Chiuse l’acqua. Si
asciugò in fretta e si rivestì. Camicia, giacca e cravatta. Il solito ormai,
quando non si trovava in laboratorio, col suo camice.
Prese le chiavi della
stanza e scese giù, diretto verso il bar dell’albergo.
La sala era molto più
simile a un club privato che a un bar vero e proprio: tutto era in stile
pomposo, dai finissimi marmi del pavimento ai tavoli, alcuni con sedie molto
eleganti, altri con attorno delle grandi poltrone di pelle che avevano l’aria
di essere le più comode del mondo. Da un lato si apriva una grande serie di
vetrate che si affacciavano su di un balcone, dove si trovavano altri tavoli
con altrettante sedie, coperti dalla neve che era caduta in giornata. Sul lato
opposto, si trovava un pianoforte nero lucido, e poco lontano un grande camino,
attorno al quale erano riunite una serie di poltrone, ognuna con il proprio
tavolino personale.
Di fronte
all’ingresso, invece, si trovava il bar, dietro il quale erano esposte le bottiglie
di liquori più pregiate. Green si avvicinò e prese posto su di uno degli
sgabelli che si trovavano vicino al bancone. Il barista gli si approcciò quasi
immediatamente.
- Buonanotte. Cosa
posso servirle?
- Quali whiskey avete?
- Oh, lei è il signor
Green. Monsieur Rubignon mi aveva
detto che sarebbe potuto venire e ha
dato direttive di mettere da parte una bottiglia di “Macallan Fine & Rare del 1926”. Ci ha detto che gradisce i
buoni whiskey.
- Quel Macallan non costa circa diecimila euro
alla bottiglia?
- Esattamente – Linus
posizionò un bicchiere di vetro davanti a Green, per poi girarsi e prendere la
bottiglia di Macallan prima nominata.
- Non si preoccupi,
sarà tutto a spese dell’albergo – gli versò il whiskey.
Si accinse a riporre
la bottiglia, quando Green lo fermò, toccandogli la spalla.
- Ho un patto da
proporle. Le va’ di guadagnare qualcosa extra?
Il barista tornò a
girarsi verso di lui, visivamente interessato.
- Mi dica pure.
- Qui ci sono
cinquemila dollari. Avrei dovuto utilizzarli per il Natale con la mia famiglia.
Ma, come può vedere, sono stato costretto ad annullare i miei piani. Sono suoi,
se lei mi riempie il bicchiere non appena lo svuoto. Ovviamente s’intende con
quella bottiglia di Macallan.
Green assaggiò il
liquore, assaporandolo quanto meglio poté.
- Non c’è bisogno di
pagarmi, signore. Come le ho detto, la bottiglia è già designata per il vostro
gruppo. Nessuno però mi ha detto in che modo suddividerla fra i vari
Capopalestra, signore.
- Mi piace il suo modo
di pensare. Diciamo che i soldi sono un mio regalo di Natale, in cambio deve
diventare il mio barista personale per una notte. E mi chiami Green.
- Ne è proprio sicuro,
Green?
- Certo. Prenda i
soldi, sono suoi.
- Non me lo faccio
certo ripetere due volte –quello prese la busta col denaro e la mise nella
tasca interna del suo gilet – Vuole parlare dei suoi problemi familiari? Le si
legge in faccia che ha qualche difficoltà.
- No, grazie. Basta la
sua collaborazione col whiskey.
- Sarà un onore.
I due si strinsero la
mano.
- Grazie... com’è che
ti chiami?
- Linus.
Qualche ora più tardi,
Green era con la testa appoggiata sul marmo del bancone. In una mano il
bicchiere mezzo vuoto, nell’altra la bottiglia di Macallan.
- Green, signore. È
ancora sveglio?
Il Capopalestra si
alzò a fatica, con la testa che gli vorticava.
- Sì, ci sono ancora…
- Vuole che
l’accompagni in camera? Fra poco sarà l’alba, credo sia meglio che dorma un
po’. Domani ci sarà la premiazione ed è meglio che lei sia ben riposato.
Ovviamente, porterò la bottiglia con lei.
- Grazie… Linus…
Capitolo 4: Sabrina,
(a cura di Myzat)
Una delle cose che Sabrina
apprezzava erano i viaggi. Le piaceva quell'idea di esplorare regioni
sconosciute, soprattutto una come Kalos che l'aveva sempre affascinata, con
quell'aria elegante che emanavano le strade, gli indirizzi, le fermate. Avrebbe
affermato che quello scenario fosse perfetto: una premiazione di cui le
importava poco e niente le aveva porto su un piatto d'argento una vacanza
davvero piacevole, che l'avrebbe risollevata dalla monotona routine di tutti i
giorni in quella palestra sempre più soffocante, a Kanto.
Era notte fonda, lei in
hotel, nella sua stanza. Aveva gettato le valige in un angolo e si era legata i
lunghi capelli viola in una treccia laterale, morbida come le sue labbra rosee,
mentre una semplice vestaglia rosa la ricopriva fino alle ginocchia, lasciando
libere le cosce bianche. Non le importava di fare ordine, di rilassarsi,
dormire e prepararsi per il giorno dopo e magari andare in un qualche negozio nel
tempo libero.
Sì, quel soggiorno a Kalos
sarebbe stato perfetto, in un altro momento.
Sabrina non aveva mai
sopportato la calda stagione estiva, l'afa ed il sudore che le appiccicava i
capelli al collo; aveva sempre preferito l'inverno, il candore della neve sui
tetti, quel freddo che si dissipava seduta davanti al camino con un libro
posato sulle ginocchia, con le pagine dall'odore del fuoco. Magari un uomo le
avrebbe reso quell'inverno più caldo, se soltanto di tutti gli ex che si era
lasciata alle spalle ce ne fosse stato uno che avesse amato davvero. Non le
dispiaceva, in effetti, quella solitudine onnipresente, non le provocava
fastidio, anzi la faceva sentire libera a tutti gli effetti.
Ma allora, Sabrina perché
non riusciva a fare ordine nemmeno nella sua testa?
Ci sono un giro immenso di pensieri, parole, versi e modi di fare che può farti capire tutto di una persona, se solo riponi attenzione in essa. Ma se non lo fai, quella persona diventa improvvisamente incomprensibile, e resta raccolta nella sua sofferenza sperando sempre di più che prima o poi sparisca come la puzza di fumo dalle dita. Quella donna combatteva contro se stessa una battaglia per evitare che quel flusso di emozioni negative diventassero così evidenti, ed in effetti aveva cominciato a parlare sempre di meno, a fare semplici cenni con la testa per far capire agli altri se era d'accordo o meno durante le conversazioni, e l'unica cosa che pensava era voglio tornare a casa, dove nessuno può vedermi.
Ci sono un giro immenso di pensieri, parole, versi e modi di fare che può farti capire tutto di una persona, se solo riponi attenzione in essa. Ma se non lo fai, quella persona diventa improvvisamente incomprensibile, e resta raccolta nella sua sofferenza sperando sempre di più che prima o poi sparisca come la puzza di fumo dalle dita. Quella donna combatteva contro se stessa una battaglia per evitare che quel flusso di emozioni negative diventassero così evidenti, ed in effetti aveva cominciato a parlare sempre di meno, a fare semplici cenni con la testa per far capire agli altri se era d'accordo o meno durante le conversazioni, e l'unica cosa che pensava era voglio tornare a casa, dove nessuno può vedermi.
Ed infatti non aveva fatto
altro che arrivare a Kalos, non spiccicare parola con nessuno dei presenti,
evitare la cena e rinchiudersi in stanza.
Aveva preso dalla borsetta
nera di velluto, lasciata sulla scrivania, un pacco di sigarette appena
comprato. Una volta aveva provato a togliersi il vizio, riuscendoci anche,
tuttavia il corso degli eventi l'avevano riportata sui suoi stessi passi e
vizi. Mise il cappotto sulle spalle e spalancò la finestra per affacciarsi sul
balcone.
Luminopoli era
incredibilmente bella alle due di notte, con la neve che non aveva intenzione
di fermarsi nemmeno per un secondo e si distendeva sulle strade, sui tetti e
sui lampioni, di cui nascondeva la luce, e mano a mano diveniva sempre più
fioca. Kanto non le aveva mai regalato uno spettacolo del genere, per quanto la
tenesse stretta al cuore la sua regione era diventata noiosa.
Erano diventate grigie le
sue giornate, i passanti e gli sfidanti, e l'unico colore che avrebbe
desiderato vedere le era stato portato via, quel viola chiaro e dolce che ogni
mattina le capitava di vedere svegliandosi. Sabrina non aveva mai temuto la
morte, ancor meno la morte dei suoi Pokémon; non ci aveva mai pensato, non gli
aveva mai dato importanza. Era dell'idea che angosciarsi per avvenimenti futuri
fosse inutile, per cui quando quella mattina il cuore del suo Espeon aveva
smesso di battere non riuscì a trovare nemmeno le lacrime per potersi lasciare
andare, come le onde che si infrangono e sbattono prepotentemente sugli scogli.
Era stata una botta di vento tra le ossa, e quel Natale sarebbe stato il primo
dopo sei anni senza di lui.
Solo in quel momento davvero si era accorta di quanto amasse i suoi Pokémon, e quanto la morte fosse spaventosa. Sabrina si era trovata tra le braccia il suo Espeon senza vita il nove Dicembre, ed ancora non aveva superato quella perdita.
Solo in quel momento davvero si era accorta di quanto amasse i suoi Pokémon, e quanto la morte fosse spaventosa. Sabrina si era trovata tra le braccia il suo Espeon senza vita il nove Dicembre, ed ancora non aveva superato quella perdita.
Davanti ai suoi occhi
stanchi quelle luci non avevano il minimo impatto, e forse fu in quel momento
che le sue emozioni si fecero più forti e strariparono completamente,
riversandosi come lacrime silenti e salate. Scendevano lungo le guance e
seguivano la curva delle labbra che socchiuse stringendo il filtro della
sigaretta tra i denti.
Mr. Mime intanto guardava la
sua allenatrice dall'interno della Pokéball, ed evidentemente non era il solo.
Era sicura che prima o poi
anche quella sensazione terribile di mancanza sarebbe scomparsa col tempo,
tuttavia in quel momento voleva lasciare che le lacrime continuassero a
riversarsi una dopo l'altra, che i singhiozzi venissero emessi, in uno scenario
in cui solo lei poteva darsi conforto.
Perché non voleva essere
forte, per una volta; voleva sentire sulla sua pelle quel brivido fastidioso
che veniva assieme al pianto, quella voce che la supplicava di lasciarla urlare
e le martellava in gola, voleva sentire la testa dolere per quante volte aveva
sforzato il suo cervello a pensare ad Espeon, il suo Espeon. A quello che era
successo giorni prima, a quelle zampe che la svegliavano dal sonno quando si
poggiavano sulle sue guance.
Perché probabilmente l'unica
cosa che Sabrina non sarebbe mai riuscita a digerire, a lasciarsi alle spalle,
era che Espeon fosse morto, e lei non era neanche sveglia per poterlo vedere
nei suoi ultimi minuti.
Quel Natale non aveva
colore, tuttavia aveva delle emozioni che la Capopalestra di Zafferanopoli non
aveva mai provato in tutta la sua vita, e forse in fondo era quasi felice di
averle provate.
Perché finalmente non si era
sentita una bambola di porcellana, ma un essere umano, e non c'era bisogno che
qualcun altro la vedesse durante quella notte, se non il suo stesso riflesso.
Capitolo
5: Misty & Corrado (a cura di Levyan, Doppiakappa e Andy Black)
La mano carezzava il vetro della finestra, freddo,
sul quale il suo respiro era diventato condensa. Misty guardava in basso, oltre
la balaustra del balcone che non osava aprire, per via della neve che copiosa
riempiva le strade di Luminopoli, e riusciva a richiamare per strada i bambini
festanti e le famiglie felici.
Piccoli cumuli si ammassavano agli angoli di ogni
marciapiede. Avrebbero finito per sciogliersi quando, l’indomani, qualcuno li
avrebbe ricoperti di sale.
Eppure era strano.
Nonostante amasse il Natale, concettualmente
parlando, quell’anno non si sentiva immersa in quell’atmosfera che tanto la
faceva sorridere. Eppure gli addobbi erano appesi ovunque, per le strade, e
anche l’albergo in cui pernottava aveva ricoperto le grosse vetrate di luci
dorate.
Era fissa a guardare una coppia di giovani ragazzi
fermi davanti alle vetrine, che tentavano i passanti con l’ennesima offerta
speciale in occasione delle festività.
Non sapeva dare un nome a quella sensazione che le
stava vorticando nello stomaco da un po’ di tempo. Forse era tristezza.
O inadeguatezza.
Guardava tutte quelle persone felici e non riusciva
a capire il motivo per cui anche lei non stesse sorridendo, prigioniera dietro
il vetro di quella finestra.
Forse era quello il problema.
Forse doveva uscire.
Forse doveva andare a fare una nuotata nella piscina
dell’hotel.
Annuì, voltandosi e sospirando. Con gli occhi bassi
aprì la valigia, ancora sulle lenzuola ben tirate, quindi tirò fuori il
monokini blu, lo indossò e scese giù in accappatoio e ciabatte, con le braccia
strette sotto ai seni.
Si sentiva a disagio.
Tutto intorno a lei l’arredamento era pomposo,
dorato e illuminato da caldi faretti a incandescenza.
Il futuro doveva ancora venire a soggiornare al Le Crésus, pensò, in attesa che le porte
dell’ascensore si aprissero davanti ai suoi occhi stanchi; il volo era stato
tutt’altro che breve, con due scali e una voglia pazzesca di prendere una delle
bottigline di scotch che la compagnia aerea aveva nel carrello.
Ma non poteva: lei era una Capopalestra, stava per
partecipare a una premiazione importante, sarebbe stato fuori luogo. Entrò
nell’ascensore e vi uscì sei piani più giù, camminando stancamente verso la conciergerie dove un timido ragazzino
dal volto pallido le sorrise educato.
- Buonasera, mademoiselle
– fece, chinando leggermente il capo.
Calzava un’elegante divisa blu, ornata da cordicelle
dorate poste sulle spalle. Un cappello del medesimo colore copriva la chioma
castana, lasciando spuntare due piccoli ciuffi davanti alle orecchie.
- Buonasera… - rispose Misty, cercando con lo
sguardo la targhetta col nome sul suo petto.
Quello se ne accorse e si ricompose, facendo
apparire la placchetta di metallo che precedentemente si era nascosta tra le
pieghe della divisa.
- Marcel, mademoiselle.
Al suo servizio.
- Sì, Marcel, grazie. Mi puoi indicare dov’è la
piscina dell’hotel?
- Bien sûr,
attraversi la hall e scenda oltre l’arco.
Lui sorrise, lei fece altrettanto. Era molto giovane
ma estremamente cordiale.
- Grazie mille.
- Per qualsiasi necessità può domandare a me o
qualsiasi altro elemento del personale; siamo a sua completa disposizione.
Misty annuì. Fini note di piano crearono una
versione soft di Jingle Bells Rock, dagli
altoparlanti.
Fu quando raggiunse il centro della sala che sentì
chiamare il suo nome.
- Signorina Misty!
Qualcuno l’aveva riconosciuta.
Si bloccò immediatamente, lei, con l’accappatoio
stretto sulla vita, vedendo avvicinarsi un uomo anziano, dai lunghi baffi
bianchi, ben curati, che nascondevano un paio di labbra sottili. Un po’ più
sopra, delle doppie lenti d’occhiale si ponevano davanti a due modesti occhi
azzurri, rimpiccioliti dal tempo ma ancora lucidi.
- Signorina Misty… l’ho riconosciuta subito! – fece,
con un forte accento francofono.
Gli si parò davanti, trapelato, poggiato a un grosso
bastone di legno dal manico dorato. Misty lo guardò.
Forse è solo
placcato. Ma chi è?
La giacchetta svolazzava sotto i suoi lenti passi;
lo vide bloccarsi, davanti a lei.
Era elegante.
- Io invece no. Lei chi è? – domandò la rossa, falsa
e cortese.
Lo vide sorridere.
- Chiedo scusa, davo per scontato che ricordasse di
me. Mi chiamo Alphonse De Gignac, ero molto amico di suo nonno…
- Oh… - sorrise poi, leggermente. Quell’omino, basso
e curvo su se stesso, le esprimeva fiducia.
- Era un brav’uomo. Ci conoscemmo qui, al Le Crésus, un’estate di quarant’anni fa.
Io poi ti ho seguita nel tempo, sei una Capopalestra bravissima…
- E mi ha riconosciuta.
- Hai gli stessi occhi di tua nonna, pace all’anima
sua. E di tua madre.
La donna abbassò lo sguardo, fissando le punte
lucide delle sue scarpe di pelle marrone.
- È la prima volta che viene a Luminopoli?
- Sì – ribatté. - È una città meravigliosa… così diversa
dalle metropoli di Kanto…
Lo vide annuire convinto.
- Il suo fascino mi incanta ogni mattina, nonostante
io viva qui da ormai sessant’anni.
- Dev’essere complicato, non è così, Monsieur Alphonse?
Quello sorrise e annuì. - La vita qui è molto frenetica,
tutti pensano al lavoro, alla carriera, ai soldi… Da quando poi la mia Pauline
è volata tra gli angeli è difficile passare tra le stanze di casa mia,
soprattutto in un periodo di gioia come il Natale.
- Mi spiace molto.
- Non dispiacerti, mademoiselle! Vivo la… come si dice? Coda? Della vita che mi sono
costruito: per fortuna non ho mai avuto problemi a mettere il piatto sulla
tavola, e la domenica tornavo a casa dalla passeggiata sempre con una bottiglia
di pinot, ma ora è come se nulla avesse senso…
Misty rimase ferma. Non sapeva perché quello gli
stesse dicendo quelle cose.
- Come mai è qui? – domandò.
Lo vide illuminarsi, spalancare gli occhi e
allargare il sorriso sotto i lunghi baffi.
- Pauline amava quest’albergo. Ogni volta che
eravamo qui, a festeggiare qualcosa d’importante, lei era sempre felice. Amava
la sala coi quadri, giù. E ora… ora che ho bisogno di sentirla qui vicino, ora
che è Natale… vorrei ricordarla sempre come quando eravamo qui. Per questo
passo tutte le feste qui. Lei è qui con me.
Misty annuì, riuscendo anche a capirlo nonostante
non avesse provato quel dolore sulla pelle.
- Beh, ma non voglio di certo tediarla! È qui per la
premiazione?
- Sì, Alphonse.
Si sentiva a disagio, Misty. Strinse la spalla
sinistra con la mano destra.
- Vincerà sicuramente. Buon sangue non mente…
- La ringrazio, Alphonse – sorrise ancora quella,
arrossendo leggermente.
- Grazie a Lei per la chiacchierata, mademoiselle. Le auguro di passare una
buona vigilia e un buon Natale.
- Altrettanto. Arrivederci.
E lo vide sfilare via, sparendo oltre i lunghi
corridoi dell’albergo. Mosse qualche piccolo passo verso l’ingresso alla
piscina, finendo per fissare passivamente
una serie di piante in vaso addobbate, disposte lungo la passerella
d’entrata; sovrastavano un lungo tappeto rosso che arrivava fin sul
marciapiede, inumidito della leggera pioggia che aveva cominciato a cadere
dall’oceano grigio che sovrastava la città.
Si scrollò a fatica l’angoscia da dosso e procedette
verso la piscina. Nuotò, distese i muscoli, congelò i pensieri.
Avrebbe fatto presto ritorno alla sua routine.
Finì un’ora dopo, il corpo era stanco e la mente
leggermente più distesa, e la cosa le consentì di prendere l’ascensore senza
problemi, cosa alquanto rara data la sua claustrofobia ma sapeva di non essere
in grado di fare quattro piani di scale a piedi. Arrivata di fronte alla porta,
passò la scheda elettronica nella fessura a lato ed entrò in camera.
Tolse le scarpe e il cappotto e si gettò poi a peso
morto sul grande letto dall’enorme materasso. La luce del lampadario in
cristallo rifletteva radiale la luce per tutto il locale.
Stava tornando, quella sensazione strana. Forse era
perché era il primo Natale che avrebbe passato lontana da casa ma neppure.
Semplicemente faticava a farsi investire dalla gioia, quell’anno.
Non voleva dare la responsabilità a quella
premiazione, era l’evento più atteso dell’anno, ma non riusciva a nascondere a
se stessa un fastidio viscerale.
Chi cazzo organizza
una premiazione dall’altra parte del mondo?
Sbuffò, il cellulare sul comodino vibrò.
Pazienza… Domani a
quest’ora sarà tutto finito.
Afferrò il telefono e trascinò il dito sullo
schermo; c’erano quattro chiamate perse;
Mamma (4)
|
E nonostante la voglia di sentirla l’unica cosa che
riuscì a fare fu chiudere gli occhi, lasciando cadere il cellulare sul e
sprofondando in preda alla stanchezza.
*
Il treno Northlines-614
era approdato alla Stazione Centrale di Luminopoli con trentacinque minuti di
ritardo. Non sapeva perché ricordasse quei particolari così infimi e poi
dimenticasse le cose importanti.
Seduto sul letto, coi boots ancora ai piedi perché
aveva freddo ma soltanto la maglietta a maniche corte a coprirlo.
Si rigirava la Camel tra le mani e quasi ne sentiva
il sapore sotto al palato, intanto pensava che odiava Luminopoli.
Kalos, più in generale. Troppo piena di turisti e
donne poco depilate.
Lui era forse l’unico, tra quei turisti, che non
rimaneva a guardare le architetture della stazione tra alte arcate gotiche e
statue che rappresentavano le personificazioni delle principali mete
ferroviarie estere: Zafferanopoli, Fiordoropoli e Sciroccopoli. Stretto nel suo
giaccone blu, si era limitata a trascinarsi avanti tenendo una piccola borsa
come un peso morto sulla spalla destra.
Giocava con lo sportello dell’accendino windproof,
aprendolo e chiudendolo ritmicamente. Riguardò la sigaretta, la stessa che il
tassista non gli aveva fatto fumare nell’auto, col risultato che dovette fare
un paio di passi indietro, accenderla, fare tre tiri e gettarla a metà, sul
marciapiede.
Mise la sigaretta tra le labbra, non poteva
bruciarle il capo.
Spostò lo sguardo oltre il vetro della finestra,
osservando le luci colorate che si alternavano davanti ai suoi occhi socchiusi.
Le luci.
Quella era, per antonomasia, la città delle luci. Pensandoci, Corrado si rese conto che anche la
sua fosse un po’ la città della luce: il faro di Arenipoli dava orientamento a
tutti i navigatori del mare a est di Sinnoh. In un certo senso, pensava di non
dover essere affatto stupito da un’altra città
delle luci, non era poi niente di speciale.
Eppure, steso sul suo letto, con la fiamma
dell’accendino che gli illuminava il volto, gli sembrava di tornare bambino.
Seduto nel taxi aveva guardato i negozi decorati e addobbati apparire per brevi
istanti, come se tutto il mondo fosse in movimento tranne lui, e i turisti
popolare i marciapiedi. Aveva poggiato lo sguardo sulle coppie sedute ai tavoli
dei caffè, e sulle famiglie che giravano con buste di regali tra le braccia.
Il piacevole vociare che arrivava alle sue orecchie
quando l’auto si fermava ad uno stop o ad un semaforo gli aveva fatto correre
dei deboli brividi lungo la schiena. Avrebbe voluto essere lì, in mezzo a
quelle persone, ma contemporaneamente ringraziava il cielo di essere distante
da tutte loro. Separato da quel sottile pannello di vetro laminato.
Doveva fumare. Si alzò, si grattò la testa e infilò
il giubbino, pensando di aver lasciato troppa mancia al tassista; lo aveva
fatto più per educazione che per dovere, tecnicamente era pagato dal comitato
di organizzazione. Raccolse la chiave della camera, che poi era una card, la
infilò in tasca e uscì fuori, con ancora la sigaretta tra le labbra.
Incrociò due signore impellicciate che diedero cenno
di conoscerlo, fermandosi a scrutarlo con i loro occhi impiastrati di mascara.
Una di loro lo guardava come se fosse stato un terrorista con in mano un chilo
di esplosivo al plastico, mentre aspettava l’ascensore.
- È solo una sigaretta… - sbuffò, quasi come se
quella non potesse sentirla.
Premette il tasto che lo avrebbe portato al piano
terra e quando le porte si aprirono si ritrovò immerso in una folla di
giornalisti e fan. Alcuni Capipalestra, altri Capipalestra, stavano facendo il
loro ingresso nell’hotel.
Sgattaiolò da dietro e uscì all’esterno, qualcuno
fece delle foto, un tizio gli chiese
addirittura un autografo. Lo rimbalzò, passandogli attraverso con lo sguardo.
S’immise sulla via principale. L’aria fredda
trasformava il suo respiro in fumo, e pochi secondi dopo avvicinò l’accendino
alla sigaretta e l’accese. La fiamma puzzolente dello Zippo avvolse la carta e
il tabacco, che arsero con entusiasmo non appena dall’altro capo le sue labbra
si contrassero per tirare aria dentro.
Da lì poteva osservare quasi tutto il quartiere. A
quell’ora, era come guardare un cielo stellato, ma ancora più luminoso e pieno
di particolari. Alberi di natale e stelle stilizzate a cinque punte comparivano
qua e là, rendendo la città più viva. Persino la Torre Prisma era più
splendente del solito.
Gettò la cicca ormai esaurita, accese un’altra
sigaretta.
Quella sera avrebbe camminato senza meta.
*
La Capopalestra di Celestopoli strinse il cuscino
col braccio destro, sembrava fin troppo scomodo per essere parte
dell’arredamento di un hotel tanto lussuoso, e si rigirò nelle coperte per
l’ennesima volta. Poi aprì gli occhi e controllò l’orario sul cellulare
attaccato allo spinotto.
04:26
Era la quarta volta che si svegliava senza alcun
motivo. Percepiva il peso delle palpebre, come se fossero fatte di piombo. Gli
occhi le bruciavano dopo l’intera giornata passata davanti ai flash dei
paparazzi.
- Maledizione… - imprecò, sfuggendo al caldo piumino
che l’avvolgeva. Si precipitò giù dal letto.
La morbidezza della moquette sotti ai piedi le
suggerì che le ciabatte sarebbero potute essere soltanto un optional.
Andò in bagnò, sciacquò la faccia e si prese un
minuto per analizzare ogni dettaglio di quel volto stanco. Piccole gocce
d’acqua partivano dalla fronte, le baciavano le guance e cadevano rapide fino
al mento, prima tuffarsi nel lavabo di porcellana candida.
I capelli, di quel rosso che si tuffava nel biondo,
erano arruffati sulla fronte. Cercò di sistemarli ma poi si rese conto che non
avesse alcun senso rendersi presentabile a quell’ora.
Forse doveva solo rilassarsi.
Non sapeva per quale motivo si sentiva così
inquieta. I suoi occhi azzurri si chiusero un paio di volte, poi si riaprirono.
Sì, forse doveva solo rilassarsi.
Tornò sui suoi passi, sedendosi sul letto e
prendendo la cornetta del telefono nero. Chiamò la conciergerie, premendo il
tasto 0.
Un paio di squilli dopo rispose Marcel.
- Buonanotte,
signorina Misty. Come posso aiutarla?
- Come sapevi che fossi io? – aggrottò la fronte
lei.
- Oh… dal… dal
computer. Si vede dal computer da quale stanza arriva la chiamata e…
- Va bene, va bene.
- È successo
qualcosa?
- No, no, è che non riesco a dormire. Potreste
portarmi un po’ di camomilla?
- Ma certo,
mademoiselle! Tra pochi minuti sarà da lei!
E pochi minuti dopo fu lì. Il giovane le lasciò un
vassoio con una grossa teiera piena d’acqua bollente, una tazza di porcellana,
un cucchiaino d’argento dal manico intarsiato, una zuccheriera, un piattino con
tre fettine di limone, una bustina con del miele e, ovviamente, la camomilla,
essiccata e chiusa in piccoli sacchetti di cotone.
Era profumatissima.
Gli lasciò dieci dollari di mancia e andò verso la
poltrona davanti alla finestra, quindi si sedette. Mentre preparava la bevanda
guardò la Torre Prisma. Era spenta e appariva come uno spettro scuro nel buio
della notte. Intanto pensò che fosse ufficialmente Natale.
- Auguri, Misty... – sussurrò, versandosi la
camomilla nella tazza.
L’ansia prese ad attanagliarla dall’interno dello
stomaco. Prese un sorso e si chiese per quale motivo dovesse sentirsi in quel
modo.
Analizzò: professionalmente non aveva nulla da
rimproverarsi, era una persona dai valori sani e precisi ed era accerchiata di
persone simili a lei.
Non capiva.
Si sentiva bene, con se stessa.
Prese un altro sorso.
Si sentiva bene con se stessa?
Sì, ovviamente.
Oppure no?
Forse era troppo sola per esserlo?
L’ansia la colpì ancora. Aveva toccato il nervo
scoperto.
Bevve ancora e terminò la tazza.
Si alzò lentamente e raggiunse il comodino. Il
cellulare gli disse l’ora.
04:38
Non aveva sonno.
Guardò il letto, guardò fuori alla finestra, guardò
i suoi vestiti.
- Come facevo a dormire nei sacchi a pelo? – chiese
infine, maledettamente contrariata.
*
Al tavolo verde, quattro signori tirati a lucido
come una macchina nuova stavano progressivamente alzando le puntate di quello
che sembrava un texas hold’em giocato
da ricchi ubriachi. Le loro signore si erano già ritirate da ore.
Un’adolescente troppo ben vestita per la sua età sedeva su una poltrona con il
cellulare in mano e lo sguardo basso
Una figlia d’arte, pensò Misty. Credeva fosse una
di quelle che nella vita non avrebbe mai lavorato. Davanti a lei, il barman,
vestito con un panciotto di raso nero, stava shakerando il Long Island che la Capopalestra aveva ordinato poco prima. Uno dei
signori al tavolo l’aveva guardata con sufficienza, spostando poi lo sguardo
sul suo fondoschiena.
- A lei, mademoiselle
– la servì il barman.
L’adolescente la guardò, mentre afferrava il
bicchiere da cocktail dal gambo e lo buttava lentamente giù. Quasi come fosse
partita una sfida, la giovane raggiunse il bancone e alzò l’indice smaltato,
ordinando un Manhattan.
Misty era annoiata. Sbuffò e scese dallo sgabello,
andandosene. Si mise a girare per la hall di quel palazzo regale senza alcuna
meta, nel tentativo di perdere tempo e farsi venire sonno.
Osservava l’arredamento eccessivo e sgargiante; non
era mai stata una grande fan dell’interior design, le erano sempre bastati
soltanto un trampolino e una piscina da cinquanta metri, con un mg di cloro per
litro d’acqua. Passava davanti alle teche in cui erano esposti gioielli o
reliquie di personaggi famosi che avevano alloggiato al le Crésus, senza
minimamente interessarsi. Sui muri, dove la sala non era arredata da piante
fatte crescere al buio e adornate da lucine natalizie quasi invisibili,
compariva sporadica qualche opera d’arte moderna.
Misty non riusciva a dedurre nessuna immagine da
quelle forme geometriche che sembravano finite lì per caso. Si fermò a
osservare soltanto un’opera vaporwave
in cui alcuni sprite di Windows XP erano stati sovrapposti a una riproduzione
di “The Fighting Temeraire”. Era come
se qualcuno avesse rovinato con Paint
l’olio su tela che raffigurava le due navi sulla superficie del mare.
Le luci evocate dai colori le fecero pensare
all’estate. Era da un po’ che non si concedeva una vacanza, una vera, dopo gli
ultimi anni passati a lavorare senza sosta.
La verità era che mirava al titolo di miglior
Capopalestra già da tempo.
La sua città le aveva dato l’opportunità di crescere
e tuffarsi nella vita sociale delle persone fin da giovane; era stata una
ragazzina scalmanata che abbandonava la propria Palestra per vedersi con i
ragazzi più carini della piscina sul promontorio a Est di Celestopoli, poi
aveva deciso di prendersi le sue responsabilità. Vita nuova, casa nuova,
mentalità nuova e l’obbiettivo di essere una Capopalestra più diligente. Aveva
addestrato delle giovani Allenatrici, aveva partecipato a tornei e incontri
ufficiali, aveva dato il proprio contributo alla valorizzazione del territorio,
specie dopo gli eventi legati al Team Rocket.
Quella premiazione sarebbe stata soltanto l’ovvia
conseguenza del suo lavoro.
Dagli altoparlanti cominciò Let it Snow, di Dean Martin.
Aveva dimenticato che fosse Natale. Era Natale e lei
pensava all’estate.
Ridacchiò.
Non vedeva una spiaggia da mesi, ormai.
Rimirò l’opera per un altro minuto e poi sbadigliò.
Forse era arrivato il momento di andare.
Si voltò sospirando e fece per avanzare, quando si
trovò faccia a faccia con un tizio che sembrava esserle apparso alle spalle
improvvisamente.
- Oh… scusa… - ciondolò lui.
Aveva gli occhi socchiusi e teneva le mani nella
tasca del suo giubbino blu. Se non fosse stato biondo, sarebbe potuto sembrare
un punk appena sveglio: i suoi
capelli avevano una forma che non apparteneva al mondo reale. Sembrava
guardasse il vuoto, con quello sguardo triste e rassegnato che si adattava al
tramonto rossastro del quadro che avevano davanti.
- Corrado…? – mormorò Misty.
- Ehi… anche tu qui? – aveva un tono di voce
incredibilmente basso.
- Sì, ci siamo tutti… - rispose la rossa, come se
fosse la cosa più ovvia del mondo.
- Cosa ci fai in piedi a quest’ora? – le chiese lui,
guardando il quadro.
- Non riesco a dormire, ho bevuto una camomilla e un
Long Island e ora sono qui a guardare questo quadro… ma non lo capisco.
- Non riesci a dormire?
- Ho dormito in aereo…
- Sei agitata per la cerimonia di domani. – affermò
quello.
Misty sbuffò, scrollando le spalle. - Non lo siamo
tutti?
- Io no. Non dovrei nemmeno essere qui. – rispose
Corrado, nascondendo un sorriso. Misty non riuscì a decifrare il suo tono.
- È successo qualcosa? – chiese, senza aver
veramente voglia di starlo a sentire.
- Sono solo spettacoli di burattini... Ogni anno
siamo qui a prendere gli applausi dagli sponsor, passiamo una notte in alta
società prima di tornare a sgobbare come animali. E credono anche di farci un
piacere. – mormorò lui, sempre con un filo di voce.
- La premiazione è soltanto un evento sociale, non
siamo delle celebrità. Poi l’anno scorso hai vinto tu, non dovresti esserne
felice?
- I soldi sono andati alla Lega di Sinnoh, per
quanto ne so li hanno spesi comprando un’isola e stanno al sole alla faccia
mia. Questo è l’ultimo, voglio ritirarmi…
Misty lo guardò fisso. – Ma hai fumato? – chiese,
ispezionandolo.
Corrado alzò le sopracciglia, voltandole le spalle e
ridacchiando. – Continua a divertirti, sirenetta.
- Ma guarda te! – esclamò Misty, inseguendolo e
fermandosi davanti a lui. – Come diavolo hai fatto a non farti ancora
licenziare, con quest’atteggiamento?! – lo aggredì.
- Lascia stare – sussurrò, e la oltrepassò di nuovo.
- Guarda che… - gli tagliò la strada una seconda
volta - …non sono qui né per gli sponsor, né per lo champagne!
- Buon per te. Allora nemmeno tu dovresti essere
qui.
- Sai una cosa, Capopalestra
di Arenipoli? Gli uomini che si piangono addosso sono patetici. – stilettò
lei velenosa.
Corrado si voltò, la squadrò dalla testa ai piedi:
Misty teneva le braccia conserte e il mento in alto, ma non riusciva a
nascondere il rossore sul suo viso.
- Dovresti tenertene lontana, allora… - mormorò lui,
estraendo una sigaretta dal giaccone e dirigendosi verso l’uscita.
*
Camminò avanti e indietro nervosa, prima di tornare
nella sua stanza. Pensava alle parole di Corrado e a quanto quell’atteggiamento
di indifferenza le avesse dato fastidio. Aprì nervosamente la porta, rischiando
di spezzare la scheda elettronica mentre la estraeva.
Si gettò di peso sul materasso, affondando la faccia
sul cuscino e urlando.
- Vaffanculo! – imprecò.
Guardava il soffitto, perdendosi nei complicati
mosaici arzigogolati. Aveva faticato mesi per sentirsi dire che era un
burattino. Chi diavolo era Corrado per permettersi di trattarla così male? E
pensare che un tempo lo aveva anche ammirato. Lei non era lì per gli sponsor,
lei era lì perché era una ragazza cazzuta e determinata. Nessuno avrebbe potuto
convincerla del contrario.
Pensava questo e senza accorgersene le sue palpebre
si chiusero. Si dormentò sul letto sfatto, coi vestiti addosso e il cuscino
stretto fra le unghie.
*
Era stata tutto il pomeriggio a stringere mani e a
sorridere ai fotografi. Le avevano presentato il Presidente della Federazione
Pokémon, il Sindaco di Luminopoli e persino qualche principe dell’Est. Non
ricordava un solo nome, ma era sicura di aver fatto una figura quantomeno
decente.
Quando mancava mezz’ora alle venti Misty si presentò
all’esterno della sala conferenze dell’hotel, designata per la premiazione del
miglior Capopalestra dell’anno.
Sorrideva, di fronte al muro di telecamere e
obbiettivi che tentava di immortalarla nell’elegante vestito che aveva
indossato per il pre-serata. Alle sue spalle, un pannello con impressi i loghi
di marchi importanti aveva fatto da sfondo a ogni scatto che la ritraeva.
I giornalisti le si avvicinarono famelici.
- Misty, pensa di riuscire a salire sul podio
quest’anno? – domandò una di loro.
Un leggero mormorio sostituì il vociare fastidioso e
diffuso.
Si leccò le labbra e tirò aria calda nei polmoni.
- Con l’inaugurazione della nuova Palestra penso di
aver dato un grande contributo alla mia città e ai suoi Allenatori, spero che
un impegno di questo calibro venga preso in considerazione dalla giuria. –
rispose lei, senza smettere di sorridere.
- Chi la veste per la cerimonia di questa sera? –
gridò un altro giornalista, spiccando nel brusio della folla.
- P-prego…? – mormorò lei.
- Sono vere le voci sulla sua relazione con Red, il
famoso Allenatore di Biancavilla?
-Misty, Misty! Preferisce Chanel o Dior?
La Capopalestra rimase immobile per qualche istante,
mentre l’intera folla sembrava attendere con ansia una risposta tanto
importante. Provvidenzialmente, uno dei bodyguard assegnati dal comitato si
fece avanti e si avvicinò al suo orecchio.
- La chiamano dalla Giuria, mi hanno detto di dirle
che devono parlarle. – le sussurrò, salvandola.
Misty annuì e sospirò, poi sul suo volto ricomparve
una bozza di sorriso.
- Risponderò più tardi alle vostre domande…
- C’è Camelia! – esclamò qualcuno dalla folla di
reporter, e in pochi millesimi di secondo quel cumulo di microfoni e flash
venne attratto come una calamita dalla modella che aveva appena messo piede
nella sala.
Misty seguì il bodyguard, cercando di evitare
d’inciampare sui tacchi. Si aiutava con le mani, strisciandole sui tavoli su
cui era stato imbandito l’aperitivo più costoso che avesse mai visto. Salì
delle scalette ed entrò dietro le quinte, dove diverse persone erano intente a
parlare. Sulla sinistra c’era anche Alice, che annuiva col volto serio a una
donna dal tailleur color crema e i capelli biondi, tinti, legati in una coda di
cavallo molto elegante.
Il bodyguard la condusse fino a un signore in
smoking, proprio accanto alla porta dei bagni.
- Che succede? – chiese la Capopalestra.
- Buonasera, signorina – replicò l’altro,
guardandole la mano sprovvista d’anello. – Sono Jean Pavard, e ha ricevuto da
me l’invito a questa serata.
- Buonasera…
I suoi occhi si poggiarono sulle sue mani: in una
aveva dei documenti firmati, in un’altra c’era una coppa di champagne. Si tenne
i primi per sé e consegnò a Misty la seconda.
- Sono felice di vederla prima della cerimonia, mademoiselle. – fece quello, sorridendo
a dentatura completa.
- Perché tanta urgenza? – chiese lei, incuriosita.
- Cavilli organizzativi, dobbiamo assicurarci che la
nostra medaglia d’argento non lasci
trapelare troppe informazioni ai giornalisti. – rispose l’uomo.
Misty lo fissò imbambolata, non era sicura di aver
capito bene. Aggrottò la fronte, poi spalancò gli occhi.
- M-mi scusi… cos’ha detto? – chiese, balbettando e
poi sorridendo nervosamente.
- Sa come sono i giornalisti, mademoiselle: dai loro una mano e si prenderanno tutto il braccio.
- No. Ha detto medaglia
d’argento. Che significa? – insisté lei.
- Non le è stato comunicato nulla sulla decisione
del Comitato?
- No… vuole spiegarmi cosa sta succedendo?!
- Sì, mi scusi. All’inizio avevano pensato di
conferire il secondo posto ad Aristide, ma data la sua giovane età e tutta la
vicenda riguardo la nuova Palestra, che aiuterà sicuramente le generazione di
Allenatori a venire, il Comitato he preferito un’immagine più fresca e ricca di
potenziale, mi capisce? – continuava a sorridere l’uomo.
Misty non rispose. Rimase a fissare il vuoto,
provando solo l’irresistibile bisogno di levarsi i tacchi e uscire da quel
posto.
*
- Io non lo capisco proprio…
La voce di Misty s’infranse contro la tela stampata
del The Fighting Temeraire/Windows XP. Continuava
a fissare il quadro, con una mano sul manico del trolley e l’altra chiusa nel
pugno, avvolta nella tasca di raso del suo cappotto celeste.
Sentiva le persone applaudire, nella sala conferenze
poco lontana da lì, dove stavano tenendo la premiazione. Qualche reporter
dell’ultima ora era passato alle sue spalle, qualche minuto prima, trafelato,
fissandola come se avesse visto uno spettro.
- Cosa non capisci?
Corrado era accanto a lei, stringeva i manici del
borsone che reggeva sulla spalla destra.
- Non capisco questo tipo d’arte.
- È vaporwave.
Roba di oggi.
Misty lo guardò, quindi sospirò. Un’altra serie di
applausi scrosciò alla fine del corridoio.
- Forse non serve che io la capisca. È lì.
L’uomo si voltò, coi suoi profondi occhi blu, e in
un impeto di lucidità, forse l’unico che la donna riuscì a riconoscere da
quando aveva fatto la sua conoscenza, fece cenno di no con la testa.
- Oh, ma il senso ce l’ha. L’opera ha un senso già
di per sé…
- Quella sotto, dici?
- Sì, quella sotto.
Misty, dal suo canto, si occupava di altro e non si
svagava mai. Non conosceva quella propensione all’arte del Capopalestra di
Arenipoli.
- La Temeraire
fu una delle più grandi navi da guerra. E questo dipinto la vede…
- La vede trainata… - ragionò Misty.
- Tutto ha una fine, Misty. Anche le cose più
importanti, le più gloriose, le più potenti, alla fine finiranno per farsi
trainare da qualcuno.
La donna annuì, pronunciando le labbra. – E XP?
Corrado ridacchiò, poi lasciò il lembo sinistro
delle labbra sollevato, in quello che doveva essere un sorriso a mezza bocca
malriuscito.
- Vaporwave.
La donna lasciò la presa dalla valigia ed estrasse
la mano dalla tasca. – E quindi?! Non ha senso! – esclamò, gesticolando
sguaiatamente.
L’uomo sbuffò, facendo segno di no con la testa. Si
voltò e s’incamminò verso la fine del corridoio.
- Sto perdendo l’aereo. Buon Natale, Misty.
- Vaffanculo, Corrado… - sussurrò tra i denti. Ma
tanto non servì: un applauso seppellì le sue parole.
Epilogo (a cura
di Andy Black)
- Spero tu abbia passato buone feste, Marcel…
- Certo Monsieur
Rubignon. Assolutamente. La notte è stata tranquilla. Più o meno…
Le sopracciglia del Capo Concierge, pelose e
grigiastre com’erano, si piegarono verso il basso, e con esso l’intera fronte
prese ad aggrottarsi.
- Più o meno cosa, Marcel? – tuonò minaccioso
quell’omino basso e sottile, dall’evidente sindrome
di Napoleone. Indossava sempre costosissime scarpe col tacco rialzato, che
nonostante lo slancio di sei centimetri lo costringevano a essere un piccolo
uomo.
La sua divisa sarebbe potuta entrare a qualsiasi
ragazzino di dodici anni, e lui stesso sarebbe potuto apparire un dodicenne, se
non fosse stato per la calvizie e la voce roca.
- Non è successo niente, Monsieur Rubignon... È che alcuni Capipalestra non hanno dormito
bene e altri hanno appena lasciato l’hotel…
- Prima dei festeggiamenti?
Marcel annuì. – Sembravano turbati.
L’omino incrociò le braccia e fece cenno di no con
la testa.
- Cosa? – riprese il giovane. – Che ho fatto?
- Avresti dovuto convincerli a rimanere.
E fu allora che Marcel spalancò gli occhi. – I-io?
-. Rivide l’immagine di Misty e Corrado che si allontanavano dal marciapiede,
col volto scocciato e l’aria di chi non voleva problemi perché in grado di dare
problemi.
- Sì, Marcel, tu! Questo è il tuo lavoro, sacrebleu! Mi allontano per un paio di
giorni e qui cade tutto!
- Ma veramente…
- Vai in sala conferenze, che sta cominciando la
premiazione, e aiuta a portare lo champagne…
Il ragazzo abbassò lo sguardo, fissando la punta
delle scarpe. Sospirò.
- Avevi intenzione di andare a casa, Marcel? –
domandò arcigno il suo capo.
- No, Monsieur
Rubignon…
Il vecchio annuì. – Rapide! – esclamò, battendo le mani. Lo vide scattare via,
recuperare un vassoio con lo champagne ed entrare nel lungo corridoio coi
dipinti.
- Baise… - sussurrò
quello. Vide Pedro uscire dalla porta della sala conferenze.
Tuttavia la voce del presentatore della serata
squarciò l’atmosfera creata dalla musica natalizia in diffusione in tutto
l’albergo.
BUONASERA A TUTTI!
E BENVENUTI ALLA QUINDICESIMA EDIZIONE DEL GYM LEADER AWARD!
- Sta cominciando… - sussurrò tra sé e sé,
allungando il passo e facendo il suo ingresso all’evento.
La grande stanza era interamente addobbata a festa,
con lunghe ghirlande bianche e rosse e qui e lì spuntavano grossi tavoli
circolari, come funghi, coperti con tovaglie rosse e tovaglioli bianchi.
Le luci erano basse, tutte puntate sul palco, dove
il direttore dell’hotel stringeva il microfono avidamente. Era un uomo alto e
magro, sempre perfettamente sbarbato e dal parrucchino castano ben pettinato.
La cravatta rossa spiccava come la luna piena, se il cielo fosse un abito
bianco.
Camminava nella schiera, Adriano prese due flûte, uno lo consegnò a Fannie.
- Grazie – disse poi. Marcel tornò a guardare il
palco.
- COME LO
SCORSO ANNO, ANCHE IN QUEST’EDIZIONE VERRÀ PREMIATO IL MIGLIOR CAPOPALESTRA,
DISTINTOSI PER IL MIGLIOR SERVIZIO OFFERTO ALLA PROPRIA CITTÀ E, IN GENERALE, PER
L’IMPEGNO NEL TRASMETTERE IL MESSAGGIO ETICO DELLA FEDERAZIONE, E NEL
PROMUOVERE UN’IMMAGINE PULITA E CONCRETA DELLE LOTTE…
Il vociare cominciò ad aumentare. Tutti sembravano
fremere.
Marcel si fermò, guardando il vuoto nel tavolo che
aveva accanto, dove il cartellino con su scritto MISTY – CELESTOPOLI,
stazionava immobile sul piatto dell’antipasto, già servito a tutti.
- E QUINDI
COMINCIAMO. VOGLIAMO DARE UNA MENZIONE SPECIALE A PETRA, DI FERRUGGIPOLI! PER
IL PROGETTO SCUOLA PULITA, IN CUI I RAGAZZI DELLA SCUOLA POKÉMON HANNO
CONTRIBUITO ALLA PULIZIA DELLA ZONA COSTIERA A NORD DELLA CITTÀ.
La Capopalestra venne illuminata da un grosso fascio
di luce che accecò chiunque fosse alle sue spalle. Nessuno poté vederla
arrossire, ma riuscirono a percepire la sua sagoma alzarsi e raggiungere il
palco. Ringraziò il presentatore, ritirò la targa e si mise in posa per un paio
di foto, quindi scese.
Marcel la vide poi mentre tornava al suo posto, col
volto totalmente granitico.
Un po’ falsa, pensò. Rimase immobile e continuò
ad ascoltare.
- VOGLIAMO ANCHE
RINGRAZIARE IL VINCITORE DELLA SCORSA EDIZIONE, CORRADO!
Il faro illuminò il suo posto vuoto, di spalle
accanto a Gardenia, nell’ultimo tavolo sulla destra, accanto all’ingresso della
sala.
Tutti applaudirono, prima di rendersi conto che lo
stavano facendo inutilmente.
- MI… MI
STANNO AVVISANDO IN QUESTO MOMENTO… - faceva il presentatore, guardando
dietro le quinte – CHE CORRADO È DOVUTO
SCAPPARE VIA PER DEGLI IMPEGNI IMPROROGABILI, MA MANDA I SUOI SALUTI E AUGURA
IL MEGLIO AL NUOVO VINCITORE…
Marcel sbuffò e diede a Blaine l’ultimo calice di
champagne, per poi infilare il vassoio sotto al braccio. Avrebbe dovuto
lavorare ma percepiva la pesantezza nell’aria.
- QUINDI
PARTIAMO CON LA PREMIAZIONE!
Un rullo di tamburi anticipò il piatto di una
batteria, che rimbombò greve nella sala.
- IL TERZO
CLASSIFICATO… DEL GYM LEADER AWARDS… È…
Una ragazza dal vestito rosso stretto e i lunghi
capelli castani andò a consegnare la busta al presentatore; sfilava sotto gli
occhi di Marcel, che ne rimase affascinato.
- UN ATTIMO… -
sorrideva l’uomo sul palco, in difficoltà nel tentativo di scollare i lembi
della carta. Poi ci riuscì, Marcel vide Walter ridacchiare sommessamente.
- E IL TERZO
CLASSIFICATO DEL GYM LEADER AWARDS VA A…
In sala calò il silenzio, prima che un lieve rullo
di tamburi s’alzasse nell’aria.
- ALICE! DELLA
PALESTRA DI FORESTOPOLI, LEGA DI HOENN!
Il fascio di luce bianca la illuminò in pieno. Tutti
presero ad applaudire e la donna si alzò dalla sedia, con Adriano che, seduto
accanto a lei, applaudiva soddisfatto.
Quella camminò lentamente fino al palco, salì le
scale, stando attenta a non inciampare nel lungo vestito azzurro.
Ritirò una piccola statuina, ringraziò tutti e tornò
al proprio posto, con un mezzo sorriso sul volto. Marcel rimase a fissare la
donna, che annuiva verso Fiammetta, consapevole di qualcosa.
- E AVANZIAMO
RAPIDI ALLA SECONDA POSIZIONE. VIENI, LENA…
La soubrette sgambettò fino a lui, gli aprì la busta
e gliela consegnò.
- GRAZIE LENA…
MA VOGLIAMO FARE UN APPLAUSO ALLA BELLISSIMA LENA?! – urlò il presentatore,
mostrando l’intera dentatura e indicandola con la mano. Quella si esibì in un
lieve inchino, mentre, come radiocomandati, tutti applaudirono all’unisono.
- RIPRENDIAMO!
IL SECONDO CLASSIFICATO… DEL GYM LEADER… AWARDS… È…
Marcel riuscì a leggere le labbra di Alice.
Dicevano Misty.
- MISTY! DELLA
PALESTRA DI CELESTOPOLI, LEGA DI KANTO E JOHTO!
Tutti applaudirono, e il faro si spostò dal centro
del palco al posto, vuoto, di Misty.
Il clamore scemò mano a mano, fin quando il
chiacchiericcio stupito sostituì ogni cosa.
- MISTY? – domandò
il presentatore, fermo.
- Non c’è – ribatté qualcuno dalla platea.
Il presentatore si voltò verso Lena, poi allungò lo
sguardo verso le quinte.
Marcel si guardò attorno.
- MI INFORMANO…
MI INFORMANO CHE, PURTROPPO, ANCHE MISTY È DOVUTA ANDARE VIA PER UN PROBLEMA IN
PALESTRA, HA GIÀ PRESO L’AEREO… BEH UN APPLAUSO LO STESSO PER LA SIRENETTA DI
CELESTOPOLI! BEH, QUINDI PASSIAMO DIRETTAMENTE AL PRIMO PREMIO!
E poi Artemisio gli tirò la giacca.
Lo guardò, lui, sistemandosi il cappello della
divisa. Si abbassò verso di lui e annuì.
- Prego?
- La sta chiamando quell’uomo.
Monsieur Rubignon era fermo, in piedi, davanti la
porta d’ingresso della sala.
- Grazie – rispose, avvicinandosi al suo capo.
Sembrava furioso.
- Ti pago per guardare lo spettacolo, Marcel?
- No… anche se, veramente, lei non mi paga. Il mio
turno sarebbe finito tre ore fa, è venuto anche in ritardo…
- Riempi di nuovo il vassoio e torna subito qui! Tra
poco c’è la premiazione!
Marcel sbuffò. – Oui,
Monsieur Rubignon. Buon Natale…
Lo passò in quel modo, il Natale, lui.
Uscendo dalla sala grande del Le Crésus, senza neppure sapere chi avesse vinto il primo premio.
Andy Black: e così si conclude questo special natalizio.
Voglio come al solito ringraziare chiunque ci abbia supportato lungo il 2018 e
continuerà a farlo per l’anno nuovo. Con gli altri autori abbiamo stabilito che
la tematica del pezzo di Natale, quest’anno, dovesse essere malinconica. Ci
abbiamo provato, tramite il timido Marcel e gli altri, insoddisfattissimi
personaggi. Auguri a tutti, belli e brutti.
Komadoriz71;: auguri di felice Natale a tutti i
lettori del blog e della pagina Facebook Pokémon
Courage! Continuate a supportarci!
Lila May: auguri di buon Natale a tutti i lettori di
Courage, che possiate passarlo in armonia e felicità.
John Hancock: è passato un altro anno e sono ancora
qui, a importunarvi con le mie storie strane e ambigue. Nonostante stia
scrivendo di meno, causa lavoro e studio (e ogni tanto un po’ di tempo per la
pausa cacca) sono comunque felice per il piccolo seguito che continuo ad avere,
qui con voi. Anche ora, sto mandando gli auguri ad Andy tramite WhatsApp,
mentre con una mano mangio e l’altra servo un cliente.
Ho tre mani.
Gli auguri di Natale sono un cliché, quindi non li
avrete da me.
Però buona giornata del Krampus a tutti.
(Andy, controlla su internet come si scrive Krampus,
non posso vedere ora).
Myzat: questo periodo purtroppo ha coinciso con una
serie di eventi che non mi hanno proprio tenuta su di morale, tuttavia questa
storia mi è servita molto come sfogo dopo la perdita di qualcuno a me
carissimo; in sintesi trovo che la scrittura sia un mezzo per liberare tutto
ciò che tieni dentro e non riesci in alcun modo ad espellere.
Con questa storia molto breve su Sabrina ho
abbandonato tutti i pensieri negativi che mi circondavano assieme al 2018, che
è stato un anno pessimo. Mi auguro che il 2019 mi dia qualche gioia in più, a
me e a voi, che siete passati a leggere o che avete skippato la lettura per
passare agli altri. Rinnovo i miei più sentiti auguri a tutti voi e alle vostre
famiglie, che possiate passare un natale sereno e un Capodanno a cazzeggiare
con gli amici!
Levyan: ci siamo quasi.
Non parlo del Natale, parlo di ciò che sta per
succedere in pagina.
Ma anche del Natale dai, godiamoci questo periodo di
festività in attesa di un prossimo anno in cui qualche tizio famoso negli anni
'80 morirà, qualche nuova moda ridicola prenderà il posto di quella precedente
e usciranno altre millemila novità in ambito Pokémon/nerd/videoludico (perché è
l'ambito che la maggior parte di noi frequenta).
Vogliamo accompagnare dignitosamente questa occasione,
per cui presto uscirà un mio primo capitolo in anteprima (giusto per aumentare
l’hype). Asciugatevi il moccio dal naso e togliete la brina dai vostri
parabrezza, tra poco riprendiamo a pieno ritmo.
Noi siamo sempre qua e saremo sempre qua, stiamo
lavorando tanto per darvi il meglio possibile e anche il PIÙ possibile, almeno
fin quando le nostre occhiaie rimarranno sopra la barba.
Vogliamo fare tante cose... ne stiamo parlando in
redazione (luogo che in realtà non esiste) e quindi aspettatevi grandi novità
anche da noi, per questo 2019.
Intanto, tornando al punto della questione,
auguri... cercate di essere persone decenti e di porvi dei buoni propositi per
il futuro. E rilassatevi, soprattutto voi che avete passato i 20, altrimenti si
arriva all'esaurimento. Buon Natale a tutti, dal team di Courage, da me e dai
vostri personaggi preferiti (che tanto fanno quello che gli diciamo noi... a
volte almeno).
Doppiakappa: che dire su questo pezzo? Tante cose.
Come ben sapete sono il più fresco in pagina, sono
il bocia, come si direbbe dalle mie
parti e quindi lavorare assieme a chi ha più esperienza di me non può che farmi
bene. Scrivere questo pezzo assieme a Lev e Andy mi ha portato al confronto di
tre punti di vista totalmente differenti, anche se questo è il mio secondo
pezzo scritto in gruppo, io mi sono sentito come se fosse stata la prima volta
che scrivevo un pezzo a più mani.
Inoltre come spesso sostengo, in me risiede ancora
la fangirl che leggeva le storie di Courage sbavando ogni volta che usciva un
nuovo capitolo, vi lascio immaginare cosa sia stato per me il poter scrivere
assieme ai due autori che mi hanno fatto appassionare alle fan fiction, facendomi
venire lo schizzo di volerlo fare a mia volta.
Il tema del pezzo era il Natale, festività che
detesto, il periodo dell’anno dove tutti sono più buoni mentre io divento un
Grinch nazista. Mandare a puttane il Natale di Misty mi è piaciuto veramente
tanto, soprattutto per il miscuglio di idee che io e Lev abbiamo tirato fuori
alle due di notte.
Spero che il pezzo vi sia almeno garbato un
pochetto, io e Lev ci siamo messi d’impegno e anche Andy ha fatto un lavorone.
Solitamente dico “Buon Natale un cazzo” ma per voi e
solo per voi dirò “Buon Natale”.
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