In fondo avevo accantonato la mia vecchia me da tempo ormai, e con
essa anche gli amici e i parenti che ne conseguivano. Non ero più
nessuno. Zero.
Bianco
Sottile e affusolata.
“Come il braccio di una ragazza…” con le lenzuola tirate a coprirmi il mento e parte delle labbra mimavo le parole, inconsapevole se le stessi dicendo veramente o meno. Con gli occhi e una mano invisibile tracciavo dei contorni invisibili disegnando ora le linee delle cinque dita, trasformando la crepa in una figura quasi umana, addolcendone i tratti più aspri finché non potevo ancora vederli.
Era un lavoro incredibilmente rilassante il mio, svolto nella penombra che precede il mattino.
Prima che la luce dorata raggiungesse il mio letto filtrando tra gli spiragli di una tendina polverosa e sporca.
Non che mancasse molto ormai.
Chiusi gli occhi e scivolai con tutta la testa sotto le coperte, al sicuro.
“Odio la mia vita.” E più di tutto odiavo quello che ero diventata.
Quello che avevo osato lasciar avvenire.
Con il Sole non avrei più potuto nascondermi, questa era la mia più grande punizione: essere costretta ad alzarmi, ogni dannatissimo giorno, e a vedermi allo specchio, vedermi agire, vivere, quando invece avrei solamente voluto che tutto questo sparisse, che fosse soltanto un brutto sogno … ma nell’oscurità ci si può ingannare, alla luce no.
“Golbat.” Avevo smesso di dare un soprannome ai Pokemon da quando, da quando … “Golbat! Svegliati pigrone!” Nessuna risposta. Sospirando, mi vidi costretta ad uscire dal letto, il mio scomodo e inclinato letto, e andare a troneggiare sulla grossa figura blu scuro che dominava gran parte del mio assolutamente antigenico pavimento. Gli diedi un calcio al fianco, spostandolo anche leggermente verso destra, solo allora il Pokémon sembrò dare segni di vita.
Sussultò e poi, sbarrando gli occhietti, iniziò a fissarmi come se non mi avesse mai visto prima.
“Forza, dobbiamo prepararci: le nuove reclute non staranno a servire la colazione in eterno, no?” Mi voltai, esponendomi alla piena potenza di un raggio solare che a quanto pare aveva avuto tutte le intenzioni di colpirmi proprio negli occhi. Socchiudendoli, imprecando e coprendomi alla bene e meglio con il palmo di una mano aperta verso la finestra, passai a cambiarmi.
Questione di pochi minuti e entrambi le parti del pigiama erano state lanciate via, abbandonate a se stesse ovunque fossero capitate.
Al loro posto vi erano indumenti di tutt’altra fattura: neri, decisamente troppo larghi per la mia figura ma stretti sui fianchi da una cintura porta-pokèball grigio chiaro che riprendeva i lunghi ma lucidi stivali e i guanti anche quelli simili alle scarpe.
Non avevo mai potuto sopportare le gonne, così avevo insistito per una divisa maschile.
Non mi donava ma mi faceva sentire piccola e insignificante e non avrei proprio potuto chiedere di meglio.
Osservai per un secondo l’immagine della ragazza (a patto di essere abbastanza svegli da riconoscere in me forme femminili) riflessa nel piccolo specchio chiazzato appeso a un lato della stanza.
Lo sguardo era catturato da poche cose: la grossa “R” rossa stampata sul petto, due magnetici occhi grigi slavati e spenti ma che avevo presto imparato a rendere glaciali e… i capelli.
Lisci ma crespi, andavano in qualsiasi direzione desiderassero meno che quella suggerita dal pettine.
Una confusa massa bianca.
Non c’era alcuna possibilità di domarli.
“Sono pronta.” Afferrai il berretto, nero anche quello ovviamente, e me lo calai sulla fronte precedendo il Golbat alla porta.
Una volta uscita però, prima di chiudermi la mia angusta stanzetta alle spalle, non potei fare a meno di far vagare il mio sguardo fin sul soffitto.
Adesso vedevo bene, fin troppo.
Righe spezzate, unite ad un’unica grande anima, sconnessa a sua volta.
Un stupidissima e semplicissima crepa che s’ingrandiva sempre più ad ogni anno che passava.
“Spero che prima o poi mi faccia crollare il tetto sulla testa mentre dormo.” Grugnii, andandomene.
Tanto a chi sarebbe mai potuto interessare?
In fondo avevo accantonato la mia vecchia me da tempo ormai, e con essa anche gli amici e i parenti che ne conseguivano.
Non ero più nessuno.
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