In fondo avevo accantonato la mia vecchia me da tempo ormai, e con
essa anche gli amici e i parenti che ne conseguivano. Non ero più
nessuno. Zero.
Rosso
“No, di nuovo. Prova ancora.” Un tono che non
ammetteva repliche di alcun tipo.
Il Rattata ansimava, stanco morto e si voltò a
guardarmi con gli occhi grandi e imploranti.
Dovetti mordermi il labbro per non dargli subito una
delle Pozioni, il “premio” per i Pokémon che hanno svolto con diligenza il
proprio lavoro quotidiano.
E con “diligenza” s’intende un terribile allenamento
di diverse ore, intervallato solo dalla pausa pranzo e cena. Una giornata
“fruttuosa e ben spesa” era l’espressione usata dai Caporali quando un Pokémon,
a fronte di tutto, si evolveva.
Il topolino non sembrava avere nessuna intenzione di
muoversi, era ancora lì.
Mi sentivo i suoi occhi puntati addosso.
Scossi la testa.
“Ho detto, ancora.” Un ringhio quasi il mio, stavolta
il piccoletto non poté proprio evitare di ripetere il percorso, sbuffando e
gridando disperatamente.
Deve avere i muscoli in fiamme…
Lo vidi saettare in mezzo ai lunghi pali di ferro che
venivano usati come ostacoli. Non che fossero pali comuni, questo è ovvio.
Niente di ciò che si poteva trovare all’interno della “Sala Allenamenti” era
comune. Questi in particolare: bastava fregarsi e subito un dolore lancinante
ti pervadeva la zona colpita. Erano infatti ricoperti di aghi, sottili e quasi
invisibili a occhio nudo.
A rendere veramente scattanti i Pokémon però era il
movimento continuo delle sette sbarre che cambiavano posizione ogni manciata di
secondi.
Il resto, dicevano i miei superiori, serviva solo a
velocizzare l’apprendimento.
Successe tutto in attimo: una zampa messa male (forse
era scivolata) e il Rattata, dopo essere riuscito a superare il fossato con un
balzo, si ritrovò a rotolare per il circuito.
Poi, non si mosse più.
“Oh no, Pat!”.
Già, Pat, il primo grave errore di quella giornata. Un
nomignolo scemo con il quale avevo iniziato a chiamare quel piccolo ed esile
Pokemon che a differenza di tutti i membri della sua specie, a causa di un
difetto ai denti, non era capace di dire la “R” correttamente.
In pratica il soprannome era nato spontaneo,come fuori
dal mio controllo.
Mi inginocchiai accanto a lui, prendendolo in collo
mentre una vocina nella mia testa teneva il conto di tutte le azioni sbagliate
che stavo facendo in fila.
Zero non aiuta. Zero non dà soprannomi ai Pokemon.
Zero allena e basta.
Non c’erano poi tante regole da rispettare.
Il topolino aprì appena gli occhi, gemendo. Non
serviva un dottore per rendersi conto che la zampa era ridotta male, forse
perfino rotta.
Mi morsi il labbro inferiore e mi guardai
freneticamente intorno, controllando di non essere osservata. Altrimenti Pat
non sarebbe stato l’unico ad essere punito per “inettitudine”.
“Accidenti e ora che faccio?” Guardai il mio Golbat
appeso a testa ingiù ad una sbarra poco lontana ma l’unica cosa che si degnò di
fare fu spalancare le ali come un umano avrebbe potuto fare con delle braccia.
Era ovvio che da lui non avrei ricevuto nessun consiglio decente.
Zero non aiuta. Zero non dà soprannomi ai Pokemon.
Zero allena e basta.
Non che la mia litania fosse molto più utile, ma avevo
solo quella a guidarmi.
Fissai il Rattata glacialmente.
Fissai il Rattata glacialmente.
“Se dovessi seguire il protocollo dovrei buttarti
fuori a calci dalla struttura poiché indegno di far parte del Team… ” Spiegai
nel modo più fermo possibile “… e forse da una parte per te non sarebbe che un
miglioramento.” Ma non potevo abbandonarlo, non in quello stato.
Senza pensarci due volte presi la Pozione e la
spruzzai sull’arto ferito.
Il secondo grave errore.
Quindi lo appoggiai delicatamente a terra,
rialzandomi.
“Domani cerca di essere in grado di correre o fuori ti
ci butto per davvero. E ti assicuro che non sarà piacevole. ”
Sentii lo sguardo ricolmo di gratitudine di Pat
appiccicarsi addosso alla mia faccia.
Il solo pensiero mi dava fastidio: non doveva
cominciare a vedermi come un’amica. In fondo io ero solo poco più di una
recluta, un’addetta agli allenamenti dei Pokémon del Team. Ero quella che
sfruttava i Pokemon fino a fargli sputare sangue, che li trasformava da
innocenti e socievoli creature in irremovibili macchine da guerra, ricoperte di
cicatrici e pressoché incapaci di provare dolore.
No, ero tutto fuor che sua amica.
Ero la sua dannazione, invece.
Ogni mia azione era una piccola spinta in più verso un
destino fatto unicamente di lotte, lotte e lotte fino a quando la creatura,
sfinita, non ne poteva più e allora si lasciava silenziosamente morire di
stenti.
Stavo per comunicare tutto questo al Rattata con
un’occhiata severa quando la luce improvvisamente virò dal freddo bianco
abbagliante a un avvolgente colore rosso vivo.
Una sirena iniziò a strillare, rischiando quasi di
assordarmi con i suoi acuti.
“Dannazione, e ora che succede?!” ringhiai tra me e me
mentre correvo verso l’ingresso, spalancandolo e protendendo metà busto nel
corridoio. Individuai Gerard che correva da una parte all’altra, gridando
qualcosa ad alcune persone mentre si teneva il berretto perché non cadesse.
Un fiume di reclute si precipitò fuori dalle proprie
stanze, diretti verso la sala principale, quella di Giovanni.
Temetti di aver perso definitivamente ogni possibilità
di parlare con il collega quando improvvisamente me lo vidi sbucare davanti,
ansimante e spettinato.
“Intrusi.” Disse solamente, riprendendo fiato. “Ci…
sono… degli intrusi… nella base.”
“Si, si ho capito… chi è? Si sa?” Scrollò le spalle.
“Una ragazzina, molto giovane. Paul mi ha detto che è
bionda e con lei c’è un tremendo…” Un ruggito squarciò l’aria, rischiando quasi
di far tremare le pareti.
Un suono inconfondibile.
Familiare.
“Salamence.” Finii per lui, seria. Mi guardò stupito,
con la sua solita aria da cretino imbambolato che vede per la prima volta il
mare.
“Come fai a saperlo?”
“Non sono affari tuoi e adesso vattene, ho del lavoro
da fare.”
“Ma il Boss… Giovanni ha detto che… tutte le reclute
devono andare nella…” Gli sbattei la pesante porta d’acciaio in faccia,
coprendo le sue ultime patetiche parole. Quando mi voltai mi sentivo come se
tutta la forza mi avesse improvvisamente abbandonato; mi lasciai scivolare
piano piano, con la schiena a contatto con il freddo metallo, verso terra dove
mi sedetti abbracciandomi le ginocchia.
Ormai era solo questione di tempo.
“E’ venuta a cercarmi, perfino qui.” La mia voce non
era altro che un flebile sussurro.
Perché il passato continua a tormentarmi? Perché si
rifiuta di lasciarmi in pace?
Percepii distintamente un battito di ali prima che
l’ombra apparisse: Golbat era venuto ad appollaiarsi vicino a me, sentii una
sua ala membranosa sfiorarmi, a mo’ di conforto.
M’irrigidii al tatto e cercai di scansarmi.
Non volevo nessuno io.
Zero è forte, Zero è fredda, Zero è sola.
Fu tutto inutile, dove mi spostavo e dove il pipistrello
troppo cresciuto mi seguiva.
Non mi rimase che abbandonarmi alle sue attenzioni, in
attesa che il passato mi raggiungesse e si decidesse a sconvolgere una volta
per tutte il mio futuro.
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