I Love Castelia City
I
Independence
Day
4
luglio, Oceano Atlantico
La cabina del jet privato di Ruby era estremamente
silenziosa. Una volta prese le distanze da Sinnoh, il cielo era tornato limpido
e il volo era proseguito senza alcuna turbolenza. La lunga traversata oceanica
stava per giungere al termine e tutto era filato liscio. Il che era quasi
un’eccezione, negli ultimi tempi.
«AxeCorp, che cos’hai detto che fanno?» chiese
Celia, con la fronte premuta sul finestrino e i piedi poggiati sul sedile che
aveva di fronte.
«Possiedono diverse aziende» rispose Platinum «ma
essenzialmente producono armi e altri dispositivi bellici, sono tra i
principali fornitori dell’esercito» continuò, leggendo i dati che il tablet le
stava mostrando.
«Wow, di bene in meglio» commentò Celia, con
sarcasmo.
I tre Allenatori stavano facendo rotta verso Unima
per seguire una delle possibili piste che avrebbe dovuto condurli alla Faces o
almeno aiutarli a comprendere i loro piani. Platinum Berlitz, giovane Dexholder
originaria di Sinnoh, aveva scoperto che una compagnia appartenente
all’organizzazione della sua famiglia era stata sovvenzionata proprio dalla
Faces. La loro sede era ad Austropoli e, mentre il resto del gruppo cercava di
comprendere come mai a Sinnoh fosse iniziata una glaciazione in piena estate,
Celia, Gold e Platinum si erano fatti carico della missione di indagare su
questo piccolo bagliore sospetto.
«Potrebbe essere un buco nell’acqua, tecnicamente la
Faces si occupa di sicurezza, magari hanno solo acquistato
dell’equipaggiamento» ipotizzò Celia, accavallando le gambe.
«Non abbiamo molto altro su cui basarci, devono aver
lasciato qualche indizio, dopo aver alzato tutta questa polvere. Riusciremo a
fermarli» ribatté Platinum.
Celia la osservò attentamente «tu vivi nelle favole,
principessa» borbottò.
«Sei tu il membro della Resistenza, qui».
«Infatti sono l’unica che conosce chi e che cosa
stiamo combattendo».
«Ero a Vivalet quando Rayquaza ha attaccato, so di
che cosa sono capaci» fece Platinum, gettandole un’occhiata gelida.
«Vorrei che fosse tutto così facile, sanno fare cose
di gran lunga peggiori».
«E allora perché continui a combatterli?»
Celia non rispose. Trasse un sospiro e guardò la
superficie increspata del mare che scorreva oltre diecimila metri sotto di
loro.
«Questo carpaccio è crudo...» si lamentò Gold,
ingurgitando controvoglia le sottili fette di carne che aveva nel piatto.
«Ehm... posso portarle altro, signore?» chiese la
hostess, visibilmente interdetta.
«Sì, avete del succo d’uva?»
«No, siamo spiacenti, ma c’è alla mela verde, al mirt...»
«Ma come, servite pesce e non c’è neanche un po’ di
vino bianco?»
La hostess esitò un istante «oh certo, le porto
subito dell’Auxerrois Blanc» si corresse lei, con un’espressione sempre più
confusa.
«Quanto manca?» chiese Gold alle due compagne di
viaggio.
Celia sorrideva divertita, Platinum era
esterrefatta.
«Torre di controllo Austropoli, qui è Hoenn Air
Alpha 110, richiediamo permesso di atterrare, passo».
«Hoenn Air Alpha 110, permesso di atterrare
accordato, utilizzate la pista 4, passo» rispose il controllore alla radio,
tenendo premuto il pulsante.
«Non è il jet del Campione Ruby?» domandò il collega
che sedeva accanto, una volta interrotto il collegamento.
«Sì, che diavolo ci fa ad Austropoli? Era a Vivalet
quando c’è stato l’attacco».
«Sì, hai visto che roba? Viviamo in tempi pazzi...»
«E’ per questo che hanno raddoppiato la sicurezza,
specialmente qui in aeroporto» ribatté l’altro.
«Già, i nuovi agenti della sorveglianza, quelli
vestiti di nero... sono inquietanti».
«Sono di un’altra pasta rispetto a quelli della
municipale, pare siano dei professionisti. Sono della Facis... Feces... com’è
che si chiama?»
“Annuncio per i passeggeri del volo Sinnoh Airways
447 diretto a Rupepoli delle 20:35, la partenza è annullata a causa del
maltempo, ci scusiamo per il disagio” disse una voce robotica preregistrata.
«Mi mancava l’occidente, ho proprio voglia di un Big
Mac» esordì Gold, attraversando il gate
«Già, qui è possibile ordinarne uno e dire di aver
mangiato un piatto tipico locale» ribatté Celia, ironica.
«Cos’è un Big Mac?» domandò Platinum.
I tre completarono i protocolli per l’accettazione.
Dopo aver sopportato diverse file e numerosi passaggi di bagagli e documenti,
riuscirono a tirarsi fuori da quel groviglio di mani, valigie, chiacchiere e
batteri. L’aeroporto di Austropoli era un formicaio, ma non si aspettavano
altro dalla più grande metropoli della nazione. Diverse decine di persone erano
bloccate con il loro gruppo nei pressi delle serpentine sovraffollate. Sembrava
che stessero annullando praticamente tutti i voli diretti a Sinnoh, viste le
condizioni meteorologiche, ma nessuno riusciva a capirne il motivo. I notiziari
parlavano di un’improvvisa bufera di neve che stava causando disagi a tutta la
regione, ma erano i primi di luglio e in pochi decidevano di credere ad una
notizia simile.
«Non prendete le scale mobili» disse ad un certo
punto Celia, costringendo i due compagni a cambiare direzione con uno spintone.
«Ehi, che ti salta in mente?» chiese Gold.
«C’è un agente Faces – non guardarlo – ci hanno
seguito anche qui» rispose la bionda con un filo di voce e abbassando la testa.
«Ce n’è un altro anche lì, se è per questo» ribatté
il ragazzo guardandone uno e indicando l’altro «e sono tre» continuò a puntare
il dito.
Celia gli artigliò la mano con le unghie «smettila,
idiota».
«Che facciamo?» chiese Platinum.
«Non lo so, cercate di non attirare l’attenzione»
ordinò Celia, fulminando Gold con lo sguardo.
Celando la tensione, raggiunsero l’uscita più
vicina. Avevano individuato dieci o dodici guardie e neanche si erano guardati
troppo attorno. Nessuno di questi si era interessato a loro. Quegli agenti
vestiti di nero erano ovunque, erano in tutto e per tutto simili a quelli che
li avevano pedinati a Sinnoh o a Holon, a quelli che avevano sparato loro nella
villa di Axel, a quelli che Kalut aveva messo fuori combattimento a Evopoli.
«Non sono qui per noi» dedusse Celia, con un pizzico
di sollievo «ma dobbiamo mantenere alta l’attenzione» ammonì gli altri.
«Farai così per tutto il viaggio o posso anche
respirare qualche volta?»
«Vai a parlare direttamente con loro, magari ci
aiutano ad indagare, se non ti sparano» lo provocò lei, facendo nascere un
sorriso sornione sul suo volto.
«Troviamo un luogo dove passare la notte» propose
Platinum, osservando il sole già nascosto dietro lo skyline della metropoli.
«Celia, tu abitavi qui, no?» la delegò Gold.
«Vi guido io, ma se la principessa vuole pagarci l’hotel...»
disse lei, estraendo una Marlboro rossa e accendendosela tra le labbra.
Platinum fece una smorfia ma evitò di commentare. I
tre salirono su una navetta che li condusse nei pressi della Midtown, poco
lontani dal centro. Scelsero un alloggio a caso dalla mappa della città, un Courtyard
quattro stelle abbastanza anonimo nei pressi della trentaduesima avenue, una
larga strada che percorreva quasi tutta la città da nord a sud. Da lì avrebbero
potuto prendere facilmente qualsiasi mezzo pubblico. Alla reception fu Gold a
dover fornire i documenti: era l’unico che avesse la maggiore età tra loro.
«Una suite matrimoniale con la jacuzzi, se...» tentò
il Dexholder di Johto.
«Tre camere singole, per favore» si intromise Celia.
«...comunicanti» aggiunse Gold, strizzando l’occhio.
La receptionist era imbarazzata, ma lo fu ancor di
più quando alla fine fu Platinum a fornire la propria American Express per
saldare il conto.
«Non sono abbastanza educato da rifiutare» le
sussurrò Gold.
Celia annuì distrattamente, come segno di
gratitudine.
Presero l’ascensore e raggiunsero il terzo piano: le
loro stanze erano la 322, la 323 e la 324. Ognuno si ritirò nella propria per
farsi una doccia e sistemarsi. Mezz’ora dopo, le ragazze bussarono alla porta
della camera di Gold.
«E’ stato troppo facile» commentò lui,
accogliendole.
«Come fa a puzzare già di sudore? Sei appena
arrivato» si lamentò Celia.
La valigia era stata gettata a terra come un cadavere
sventrato, il proprietario indossava un paio di boxer rossi e una casacca della
NBA, altri vestiti erano sparsi tra scrivania, sedia e comodino. La porta del
bagno era spalancata e in tutta la stanza si era diffusa una fitta nebbia di
vapore acqueo dal pungente aroma di colonia. Il frigobar era già stato
assaltato e quasi svuotato.
Platinum si sedette sulla poltroncina che era
all’angolo della camera e mostrò ai due compagni il display del suo tablet su
cui era aperto Google Maps.
«E’ la sede della AxeCorp» chiarì, indicando il
luogo evidenziato sulla mappa.
«E?» chiese Gold.
«Elaboriamo un piano d’azione» rispose lei,
spiegando l’ovvio.
«Non possiamo suonare il campanello e chiedere
informazioni private» aggiunse Celia.
«Parlate di intrufolarci di nascosto?» domandò Gold.
«E’ un grattacielo di ventitré piani nel quartiere d’affari
di Austropoli, non supereremmo il secondo piano» lo stroncò la Berlitz.
«E che siamo venuti a fare?» ribatté lui.
«Magari l’idea migliore è entrare a volto
scoperto...»
Celia ebbe un sussulto, Gold sembrava interessato.
«Ipotizziamo che mio padre chieda di rinegoziare il
contratto che lega la AxeCorp alla compagnia» cominciò Platinum.
«La proposta mi solletica» sorrise maliziosamente
Gold.
«Io non ho mai partecipato attivamente a queste
attività, ma potrei aver accompagnato qui uno degli agenti di papà
appositamente per imparare» continuò la ragazza.
«Adesso è diventato addirittura stimolante» ascese
Gold.
«Ci procuriamo un appuntamento, entriamo e siamo già
a metà dell’opera».
«Tu hai una scusa per essere qui» partì in contropiede
Celia «ma Gold è un Dexholder e io sono una Capopalestra, siamo facce
conosciute, non possiamo entrare in un ufficio e fingerci dei contabili come se
niente fosse».
«Specialmente io, insomma» sostenne Gold.
«Userete un travestimento, con me come lasciapassare
dovrebbe essere difficile destare qualche sospetto» propose Platinum.
«Si tratta di una delle associate della Faces, se
non sono degli idioti sanno benissimo che stiamo indagando su di loro, se sanno
che stai collaborando con la Resistenza e con i Dexholder, ti stanno già
tenendo gli occhi addosso» sottolineò Celia.
«Sì, infatti non ho mai detto di non voler attirare
l’attenzione» precisò l’altra.
«Che cosa intendi?»
«Possiamo utilizzare il tuo stesso stratagemma, no?
Più riflettori ti vengono puntati addosso, più è difficile che tu sia un
bersaglio».
«Non è l’esatto contrario?» chiese Gold grattandosi
il mento.
«No» dovette ammettere Celia «come vi ho spiegato a
Sinnoh, Antares mi ha dato la nomina di Capopalestra proprio per tenermi al
sicuro» la sua espressione era dura, rievocare gli eventi del suo passato
doveva essere per lei particolarmente sgradevole «io e Xavier, mio fratello,
abbiamo inconsapevolmente preso parte al progetto del PokéNet, una delle
ricerche che la Faces utilizzava per raccogliere i dati necessari a portare
avanti i suoi progetti. Eravamo i soggetti adatti: avevamo solo nostro padre e
ci eravamo appena trasferiti, niente amici, nessuna persona vicina. Se avessimo
scoperto che cosa si nascondeva dietro all’idea del PokéNet, si sarebbero
potuti liberare di noi senza che nessuno se ne accorgesse. Lo avevano già fatto
con quelli venuti prima di noi...»
Platinum abbassò gli occhi e persino Gold si scurì
per qualche secondo. Ripensò ad Emerald che aveva perso la vita a Vivalet e a
Silver e Crystal, ancora degenti nell’ospedale di Porto Alghepoli.
«Antares mi ha preso sotto la sua responsabilità, è
stato lui a farmi entrare nella Resistenza. Non potendo proteggermi, mi ha
fatto nominare Capopalestra di Vivalet sotto la Lega di Zero, quando ancora era
abbastanza sano di mente da poterci aiutare. L’idea era di mettermi in luce,
farmi diventare famosa, così che la Faces non potesse uccidermi».
«E la cosa ha funzionato» aggiunse Platinum.
«Sì, più o meno» confermò lei, distogliendo lo
sguardo.
«Quello che volevo dire è: sanno già che cerchiamo
di remare contro di loro, ma se bussiamo alla loro porta con un ordine
ufficiale e sotto gli occhi di diversi civili ignari di tutto il resto, non
possono metterci i bastoni fra le ruote» proseguì l’altra.
«Non possiamo permetterci il minimo errore» precisò
Celia.
«Possiamo fare di meglio, addirittura» si aggiunse
Gold, con malizia.
«Ovvero?»
«Zero ha incoscientemente distrutto la sede Faces di
Porto Alghepoli affinché qualcuno che ne avesse l’autorità aprisse un’inchiesta
sulle loro attività. A prescindere dal fatto che questo avvenga o no, se la
Faces ha finanziato la AxeCorp, la scusa dei Berlitz per rinegoziare gli accordi potrebbero proprio essere le accuse che
inizieranno a cadere su quest’ultima».
«Questa potrebbe essere la tua prima e unica buona
idea, Gold» affermò Celia.
«Hai visto, tesoro? Sono anche intelligente, oltre
che bellissimo e pieno di carisma».
«E modesto, oltretutto» aggiunse Platinum.
«Mi sfugge solamente un particolare: perché dovremmo
palesare in questo modo la nostra provocazione?»
«Perché provocare è il mio secondo nome» rispose lui
«se lasciamo intuire loro che sappiamo qualcosa, sapranno di doverci temere».
«Dobbiamo ancora saperlo, quel qualcosa che dovremmo sapere».
«Abbiamo i documenti di Zero... e voi della
Resistenza avrete pure raccolto qualcosa, in tanti mesi».
«Credevo che Kalut fosse stato abbastanza chiaro,
non siamo ancora in grado di incriminare la Faces: stando alle versioni
ufficiali, non hanno commesso alcun crimine, anche perché tutte le loro tracce
sono morte insieme ai Superquattro di Holon» ribatte Celia.
«Si ringrazia il vostro amico Zero per questo. Ha
mandato un mio amico in coma e l’altra l’ha lasciata senza una gamba».
Tra i tre scese il silenzio.
«Mi dispiace per Silver e Crystal» mormorò Platinum,
che si sentiva la più vicina al gruppo dei Dexholder.
«Lascia stare. Silver non è diventato tanto più
silenzioso di quanto non fosse già».
«Zero sconterà le sue colpe, quando tutto questo
sarà finito» disse Celia, senza guardarlo negli occhi.
Gold non ribatté. Si alzò, prese una Tennent’s dal
frigobar e la stappò con i molari. Andò a berla fuori dal balcone.
Platinum si alzò in piedi «chiedo a Sebastian di
organizzare l’incontro alla AxeCorp. Domani lavoreremo ai travestimenti e
prepareremo meglio il piano» disse, congedandosi «buonanotte».
Nessuno rispose al suo saluto. La porta della camera
di Gold si chiuse. Celia attese alcuni secondi, poi estrasse dalla tasca il suo
pacchetto di Marlboro, ne prese una e uscì pure lei fuori dalla porta finestra.
Gold storse il naso alla prima folata di fumo che lo avvolse.
«Ti hanno mai detto che baciare una donna che fuma è
come leccare un posacenere?» commentò.
«Tu ne capisci, di donne» lo schernì Celia.
«Prendermi in giro è il modo perfetto per
comunicarmi che ti interesso».
La ragazza scosse la testa, ritraendosi «ma che hai
nella testa? Fino a cinque secondi fa eri un funerale e adesso ci provi!»
esclamò.
«Oh... la cosa ti mette a disagio» mormorò Gold,
stupito. Il ragazzo le si avvicinò, quasi come se volesse parlarle all’orecchio
«sei stata violentata?»
«Gesù Cristo!» imprecò Celia, buttando la sigaretta
ancora intera e facendo per rientrare.
«Lo vedi che succede a tenersi tutto dentro? Sfogati
con me, sono una delle persone più sensibili che...»
«Sei un pezzo di merda! Vaffanculo!» gridò lei,
lanciandogli contro una abatjour, dirigendosi a grandi falcate verso la porta.
Gold rideva, Celia era rossa di rabbia. La ragazza
sbatté la porta alle sue spalle, continuando a lanciare maledizioni nei
confronti del Dexholder. Poi, tornò il silenzio. Il ragazzo era lì, con la sua
birra e il suo sorriso sornione. Non sapeva neanche lui perché lo avesse fatto.
L’aveva presa come una sorta di vendetta personale, uno sfogo, una liberazione.
Si era fatto due risate, ma sotto sotto sentiva che Celia non aveva fatto
niente per meritarselo.
«Forse è stata violentata per davvero» commentò,
riattaccandosi alla bottiglia.
Notte inoltrata, l’orologio segnava l’una e sette
minuti.
Il televisore era sintonizzato sul programma
PokéNights. Il varco del Ponte Freccialuce era rinfrescato da una punta di aria
condizionata. Nell’aria aleggiava un debole odore di vaniglia.
“Parteciperai alla serata di beneficienza per le
vittime della neve di Sinnoh?” chiese il conduttore.
“Certamente, è importante mostrare il nostro
sostegno alle persone che si trovano in difficoltà” rispose Orthilla,
sorridente.
“Che cosa sai dirci di Ruby? Non arrivano notizie da
Iridopoli da giorni, ormai... nonostante l’inquietudine che inizia a
diffondersi. Alcune voci hanno riferito di averlo individuato a Sinnoh.”
“Oh beh, Ruby... il Campione è una persona
responsabile, non abbandonerebbe mai la sua regione nel momento del bisogno. Se
è a Sinnoh, è sicuramente lì per dare una mano.”
«Mamma mia, che sventola» commentò Juan, smettendo
di passare lo straccio sul pavimento, per rimirare l’immagine di Orthilla alla
televisione.
«E’ una ragazzina...» lo criticò Mirta, dal retro
del bancone.
Lui era l’addetto alle pulizie, lei l’assistente
degli Allenatori itineranti. Avevano entrambi il turno di notte da anni, ormai.
Avevano lavorato insieme a Sidera, poi si erano trasferiti in città. Entrambi
erano più che saturi della vita da campagnoli, volevano vivere la metropoli,
almeno per un po’. In un certo senso, ci stavano riuscendo. Nel varco del Ponte
Freccialuce passava veramente un sacco di gente. La città più popolata della
nazione non andava mai a dormire. E quel luogo era anche molto suggestivo: da
lontano era possibile osservare la città, quest’ultima appariva come un cielo
stellato riflesso sulla superficie del mare. Il ponte di brillante acciaio
cromato era come una strada di luce che raggiungeva quella nebulosa di colori,
neon, e insegne. Sembrava di udirne addirittura la musica: l’intrigante e
seducente caos.
«Se Ruby è davvero andato a Sinnoh, non ci sta con
la testa» commentò Juan.
«Perché? Ha un jet privato, può andare dove vuole»
ribatté Mirta.
«Perché c’è l’era glaciale, non hai visto?»
«Sinnoh è al nord, è normale che nevichi...»
«A luglio?»
«Si tratterà
di qualche pazzoide che vuole conquistare il mondo, un po’ come qui a Unima l’anno
scorso» bofonchiò Mirta.
«Sì, come se fosse normale...»
«Piuttosto, com’è andata con la maestra d’asilo, vi
siete più rivisti?» chiese Mirta.
Prima che Juan potesse rispondere, un uomo vestito
di nero mise piede nel varco. I due erano ormai abituati ai frequentatori
notturni, quindi non si allarmarono. Avevano imparato che di notte era
possibile incontrare le persone più interessanti, ma anche le più pericolose,
ma quello era il loro lavoro: sorridere ai pellegrini che viaggiavano per la
regione.
«Serve aiuto?» chiese Mirta.
L’uomo non rispose. Rimaneva immobile in mezzo al
corridoio, sul pavimento appena tirato a lucido da Juan. Aveva dei pantaloni
con molte tasche, stivaloni alti, una giacca sopra alla quale era allacciata
una sorta di imbracatura che reggeva numerosi astucci tattici, un passamontagna
e un cappello a cuffia modello ladro-in-servizio. Li scrutava, prima uno poi
l’altro.
«Possiamo aiutarla?» ripeté la donna.
L’uomo mise mano alla fondina che aveva nascosta
dietro alla schiena e ne estrasse una semiautomatica. La puntò a Mirta, che
rimase paralizzata dalla paura. Riuscì a cacciare solo un gridolino soffocato,
prima che l’uomo le imponesse con un cenno di tacere. Juan era immobile a sua
volta, con lo straccio stretto tra le mani e le gambe che tremavano.
Click-clack.
“Credi che tutti gli eventi degli ultimi giorni
abbiano fomentato un caos inutile, o pensi che stia davvero per succedere
qualcosa?” chiese l’intervistatore.
«In effetti, sì» disse l’uomo vestito di nero «ho
bisogno che facciate qualcosa per me» sussurrò, senza abbassare l’arma.
“Non so che dirti, potremmo star davvero esagerando.
I fatti degli ultimi giorni sono stati terribili ma noi possiamo ancora andare
a dormire sereni: non ci sveglieremo con i malintenzionati che bussano alla
porta”.
Risate, applausi, interruzione pubblicitaria.
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