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Levyan - ILCC: IV - Anarchia



IV
Anarchia


Erano le 10:15. La città di Austropoli vibrava dell’acceso fermento tipico dei giorni lavorativi. Il traffico era intenso, i pedoni occupavano i marciapiedi, i bambini erano a scuola, i lavoratori in piena attività. Poche sagome quasi invisibili si muovevano sui tetti e tra i vicoli dei quartieri più popolati. Erano lì dalla sera prima, nessuno li aveva notati.
Juan e Mirta erano sul luogo di lavoro, al varco del Ponte Freccialuce. Era un’eccezione: loro di solito facevano il turno di notte. Avevano chiesto un permesso solamente per quella giornata. Ovviamente, erano stati obbligati. Come da programma, l’uomo che li aveva raggiunti due sere fa si ripresentò alle porte del varco. Aveva ancora la divisa, molte tasche, molti astucci, armi e un passamontagna. Non li guardò neanche: «è il momento» disse soltanto.
Juan posò la scopa e si fece da parte, Mirta cominciò a respirare a fatica. Per due giorni avevano aspettato in silenzio. La donna, da dietro il suo bancone, tentò di calmare il cuore e si diresse verso il terminale. Premette i due tasti necessari ad attivare lo stato di emergenza e aprì il collegamento con il varco che era all’altro capo del ponte. «Qui terminale varco uno, emergenza di livello cinque, serrare le entrate, sgomberare il ponte, ripeto: emergenza di livello cinque, serrare le entrate, sgomberare il ponte» disse, con la voce che vacillava e il microfono che tremava tra le mani.
«Qui varco due, richiedo conferma» rispose qualcuno.
«Varco uno, emergenza di livello cinque, serrare le entrate e sgomberare il ponte» ripeté, per la terza volta, cominciando ormai a piangere.
Il Ponte Freccialuce era diviso in quattro sezioni, due per i pedoni e due per le macchine, uno per ogni senso di marcia. Si accesero alcune luci rosse, una sirena cominciò a suonare, seguita da un’altra e un’altra ancora. Secondo il protocollo, le luci di emergenza che indicavano le uscite si attivarono e i segnali di allerta furono sfoderati. Gli addetti aprirono tutti i caselli, presero le bandiere rosse dalle loro postazioni e si misero ad agitarle nell’aria, mettendosi ai lati della carreggiata. Tutte le vetture accelerarono, seguendo le indicazioni. I pedoni impiegarono più tempo, ma anche loro si avviarono di corsa verso le uscite. In dieci minuti, il ponte era sgombro. Il messaggio di allerta era giunto a tutti gli operatori, quando si ebbe il via libera, i piloni si alzarono e le strade furono chiuse. Il ponte era inaccessibile.
«Voi siete fortunati, ad essere fuori città» mormorò il tizio in divisa a Mirta e Juan, mentre qualcuno chiedeva nervosamente informazioni al terminale e il telefono cominciò a squillare. I due erano come paralizzati. Mirta non poteva rispondere e anche lo avesse fatto, non avrebbe saputo rispondere a chi chiedeva l’entità della minaccia. L’uomo con il passamontagna prese la ricetrasmittente, premette il pulsante e disse «ponte libero, avviamento della fase due» e riagganciò.
Qualcosa di simile stava avvenendo dalla parte della Galleria Solidarietà, a nord di Austropoli, unico collegamento attraverso il deserto con il resto della regione. Un altro uomo in divisa aveva fatto scattare l’allarme dal Varco, facendo immediatamente liberare la zona di traffico e chiudendo tutte le uscite.
«Galleria libera, avviamento della fase due» disse anche lui.
«Galleria e ponte liberi, fase due: avviata» rispose qualcun altro.
«Molo Passeggeri e Molo Principale pronti, avviamento della fase due» continuava un quarto operatore.
«Molo Unione, Molo Libertà e Molo Pollice pronti, avviamento della fase due».
«Centrale elettrica pronta, avviamento della fase due».
«Torri di controllo dell’aeroporto pronte, avviamento della fase due».
«Fognature pronte, avviamento della fase due».
«Stazione Centrale pronta, avviamento della fase due».
«Riverside Street pronta, avviamento della fase due».
«Fase due iniziata, studio di trasmissione, in linea» concluse un ultimo uomo.
Le strade erano state chiuse, le vetture erano ferme, nessuno aveva capito esattamente perché. Molti civili erano scesi dall’auto, per chiedere informazioni. La città aveva fretta, ma la sua febbrile attività sarebbe stata interrotta da un momento all’altro. Alcuni battelli avevano appena lasciato il molo, altri erano appena arrivati. Sette aerei stavano decollando, altri cinque chiedevano il permesso di atterrare. I treni continuavano a muoversi, così pure le metropolitane.
In tutta la città si udì un boato gigantesco. Proveniva da ogni lato, da ogni direzione, da ogni angolo e da ogni strada. Era come se il cielo fosse esploso all’improvviso. Pochi secondi prima, solamente le linee di collegamento principali erano entrate in stato di allerta. Dopo le esplosioni, ogni essere vivente di Austropoli alzò la testa e si rese conto del caos che stava per scoppiare. Ogni allarme scattò, ogni sirena cominciò a suonare, ogni centrale di controllo diede lo stato di emergenza.
Dopo il boato, il Ponte Freccialuce cominciò a tremare e subito dopo a crollare in pezzi. Esplose in più punti e cominciò a sgretolarsi come un castello di sabbia. Il cemento divenne polvere, le lamiere si accartocciarono, il metallo si fuse e i tiranti si staccarono. Il collegamento tra Unima est e Austropoli cadde a pezzi, collassando su se stesso nell’arco di pochi secondi. Gli enormi blocchi di cemento che lo componevano affondarono nell’acqua sottostante, proprio dove il fiume sfociava nell’oceano. La polvere si alzò, le onde si incresparono. Il Ponte Freccialuce non esisteva più.
La Galleria Solidarietà esplose i migliaia di schegge di vetro. Il tunnel che attraversava il deserto, unico passaggio attraverso il deserto inospitale, crollò in pochi secondi. Scomparvero la via pedonale e le strade sopraelevate che portavano a nord.
Anche i moli anche furono detonati, cominciando sommessamente ad affondare nell’oceano, rendendo impossibile l’attracco. I battelli che erano già in viaggio, si allontanarono dalla città, mentre i viaggiatori già a bordo si portavano verso i parapetti, per osservare il porto che veniva mutilato dalle esplosioni. Quelli che invece stavano per fare porto, si bloccarono in mezzo alle acque.
Le stazioni dei treni persero improvvisamente la corrente. Gli schermi si spensero e le sale della gestione del traffico ferroviario caddero nell’oscurità, spezzata solo dalle luci di emergenza. Presto, anche queste si spensero, pure i generatori ausiliari erano stati scollegati. Dalle centrali di altre stazioni, in seguito al silenzio radio dell’intera Austropoli, provenne l’ordine di sospendere il traffico. I capitreno furono obbligati a tirare i freni, Tutti i treni in partenza o in arrivo, diretti o provenienti dalla città, si immobilizzarono, paralizzandosi sui binari.
Le due torri di controllo dell’aeroporto esplosero, collassando come il ponte e la galleria. Le finestre furono frantumate, l’acciaio di divelse, il cemento si sgretolò. Senza più alcuna indicazione da parte degli operatori, tutti uccisi nell’esplosione, gli aerei smisero di muoversi. Quelli che erano già in pista e avevano preso velocità, terminarono il decollo e si allontanarono, gli altri che si erano appena avviati, cominciarono la manovra di arresto e non riuscirono ad abbandonare la terraferma. Quelli che invece erano intenzionati a scendere ad Austropoli, dovettero fermarsi e riprendere quota, richiedendo un atterraggio di emergenza nel prossimo aereoporto. Un Boeing 777 con quattrocento passeggeri più equipaggio, non potendo fare altrimenti, dovette atterrare senza indicazioni sulla prima pista che ai piloti apparve libera. Con non poche complicazioni, riuscì a scendere a terra, senza alcun permesso o linea guida da parte delle torri di controllo ridotte in frantumi. Anche se scosse da quell’atterraggio turbolento e rocambolesco, fortunatamente, tutte le persone a bordo si salvarono e scesero dall’aereo seguendo il protocollo di allarme, per trovarsi in mezzo alla pista di atterraggio, di fronte ad un aeroporto piombato nel caos.
Austropoli era stata presa alla sprovvista, paralizzata da quell’incubo di fuoco, terrore e acciaio.

Piazza Centrale era gremita di turisti e passeggiatori. I padri portavano buste e pacchi, i bambini scorrazzavano lungo i marciapiedi, le mamme guardavano vetrine e gli adolescenti si scattavano fotografie in mezzo alla Times Square di Unima. Sulle facciate dei palazzi che circondavano la piazza, decine e decine di schermi mandavano in onda pubblicità, loghi, prodotti. Sul più grande di tutti e su numerosi altri, perenne, si illuminava la scritta “I Love Castelia City” con il cuoricino stilizzato. I negozi di souvenir esplodevano di compratori sudaticci, le caffetterie erano popolate da studenti con gli occhi fissi sul MacBook e le cuffiette, gli hotel a cinque stelle erano trafficati da ricchi magnate in vacanza o da uomini d’affari in viaggio di lavoro. In quel formicaio di voci, lingue, denaro e opinioni, quella mattinata sembrava dover scorrere tranquilla come ogni altra.
Poi, un boato squarciò il cielo. L’intera città tremò. L’esplosione più vicina che Piazza Centrale fu in grado di percepire fu quella che mandò in frantumi la Galleria Solidarietà. Quando il rumore lasciò di nuovo spazio al silenzio e le vibrazioni sembrarono cessare, sulla la folla era sceso il gelo. Le auto si erano fermate, i guidatori erano scesi, i pedoni si guardavano attorno e chi si trovava all’interno di un locale si precipitava in strada terrorizzato. Nessuno capiva niente, non si udiva neanche più un fiato, come se tutti stessero trattenendo il respiro all’improvviso. Poi, dalla lontananza, iniziarono a fermentare delle grida. Qualche voce preoccupata si azzardava a fare delle domande a voce alta, quindi ad alzare strilli allarmati, la folla tornò a muoversi come un denso liquido eterogeneo. Come un crescendo, il caos sembrò aumentare ad incredibile velocità. Qualcosa, però, smorzò improvvisamente qualsiasi pulsione.
«Popolo di Austropoli!» tuonò una voce robotica da qualsiasi altoparlante, cassa, cuffia e altro emettitore di suoni presente nella città. Seguirono interferenze, gracchianti e caotici rumori intasarono l’aria. La maggioranza delle persone si portò le mani alle orecchie, presa alla sprovvista da quel fastidioso stridio.
Zap.
Tutta la città perse corrente, tutti gli schermi divennero neri, tutte le luci si spensero, tutti i pannelli pubblicitari di Piazza Centrale rimasero solo dei grossi scheletri di metallo e lampadine scure. Il calo durò poco più di un secondo, poi l’energia elettrica parve fare ritorno. I semafori ripresero a funzionare, dando però solo una luce gialla a intermittenza e gli schermi ripresero vita, ma trasmettevano solo colori disposti a casaccio, privi di una forma compiuta.
«Popolo di Austropoli!» ripeté la voce cogliendo di nuovo tutti alla sprovvista. Stavolta era meno gracchiante, più chiara e meglio sincronizzata tra tutti i dispositivi all’interno dei quali risuonò. I pannelli pubblicitari decisero di tornare a funzionare, ma non trasmisero loghi di fast-food o di brand di abbigliamento. Nemmeno la onnipresente scritta “I Love Castelia City” ricomparve su alcuno dei giganteschi display. Invece di tutto questo, si manifestò una sagoma. La folla rivolse gli occhi verso l’alto, ma ogni schermo collegato alla rete cittadina trasmise contemporaneamente lo stesso video. Ad accompagnarlo, appena sotto la sagoma ombreggiata, dei sottotitoli che traducevano le sue parole nelle lingue più utilizzate.
La sagoma uscì dall’ombra. Era certamente un essere umano, ma indossava una felpa rossa con il cappuccio e una maschera che copriva l’intero volto. La maschera era quella di uno Yamask, o forse una sua imitazione: giallo paglia, apparentemente di metallo pregiato, imitava dei generici lineamenti umani stilizzati.
«Noi siamo i liberatori della città» cominciò l’uomo in maschera «il nostro obiettivo non è uccidere innocenti» parlava lentamente, scandendo bene le parole. Non aveva emozioni nella voce, la quale era modificata abbastanza da impedire anche una stima approssimativa della sua età «il nostro obiettivo non è quello di arricchirci né di distruggere» continuò «abbiamo tagliato ogni collegamento con l’esterno: strade, treni, aerei, navi. Austropoli è un luogo isolato dal resto del mondo e tale rimarrà finché sarà necessario. Nessuno è azzardato ad entrare o uscire. Austropoli è nostra. Austropoli è il nostro ostaggio» tale frase fu la più minacciosa dell’intero discorso.
«Mentre sto parlando, squadre armate composte dai miei e dai vostri fratelli si riversano per le strade, circondano le uscite, popolano i grattacieli. Ma il nostro obiettivo non è uccidere» ripeté, come per smorzare il tono delle ultime affermazioni «Austropoli è il fulcro della borsa mondiale, il mercato della bugia che schiaccia la società dei lavoratori e dà ricchezza e potere a uomini spregiudicati. Uno dei nostri squadroni sta entrando in questo momento a Riverside Street, centro focale di questa economia. Ogni traffico verrà bloccato e il mercato finanziario rimarrà immobile, privo del proprio nodo fondamentale. Sottrarremo Austropoli al resto del mondo, affinché la finanza globale crolli e i ricchi restituiscano il potere e il denaro a voi. Al popolo» spiegò.
«Tuttavia, sappiamo bene che qualche complice di questo sistema corrotto vorrà fermarci e preferirà tenere la borsa viva e i propri soldi in tasca, piuttosto che salvaguardare voi. E per questo, chiediamo scusa all’intera popolazione di Austropoli, per essere costretta ad essere il nostro ostaggio» di nuovo quell’espressione.
«Trader, broker, banchieri, manager e tutti gli altri avidi criminali che sanno di essersi arricchiti a discapito della brava gente... ascoltate le mie parole. Il nostro obiettivo non è uccidere, ma se entro cento giorni a partire da oggi tutta la ricchezza non dovesse essere restituita al popolo... Austropoli scomparirà in una nuvola di polvere. Di case e grattacieli non resteranno altro che macerie e tre milioni di innocenti moriranno per la vostra ingordigia» dalla folla cominciò ad innalzarsi il caos.
«E’ in vigore la legge marziale, i successivi messaggi conterranno istruzioni sulle modalità di approvvigionamento e di organizzazione. Austropoli dovrà sopravvivere. La popolazione è invitata ad insorgere nei confronti dei ricchi e dei dirigenti, processandoli secondo le leggi del popolo. Il mondo esterno si renderà conto di come nessuno abbia bisogno della borsa, della speculazione economica e del mercato finanziario. E se entro cento giorni non sarà abbastanza lucido da comprenderlo, saremo costretti a dare al mondo una lezione. Non provate a fermarci, basta che un solo estraneo metta piede in città e toglieremo permanentemente la corrente a tutte le abitazioni, con intuibili conseguenze sugli ospedali e su qualsiasi infrastruttura pubblica e privata. Alla seconda intrusione non consentita, Austropoli verrà ridotta in cenere» sembrò avviarsi verso la conclusione, mentre dalla folla ascendeva sempre più il disordine e la paura.
«Avete cento giorni, che tutto il potere torni al popolo! E se questo non accadrà, che il sacrificio di tre milioni di innocenti serva da lezione! Popolo di Austropoli, noi siamo i liberatori della città. Noi siamo i liberatori del mondo!»
Zap. Buio. Ancora una volta, il calo di corrente durò poco più di un secondo.

Gli schermi appesi al muro dietro alla scrivania del CEO della AxeCorp tornarono a mostrare i canali su cui erano sintonizzati precedentemente. Gold, travestito da Oswald Bettany, la segretaria e l’intestatario dell’ufficio continuavano a fissare il vuoto, esterrefatti. Qualsiasi persona al mondo, tutto potrebbe aspettarsi fuorché da un momento all’altro dei terroristi prendano in ostaggio l’intera città. Alcuni degli schermi mostravano l’andamento della borsa, che aveva iniziato a vacillare: i diagrammi mostravano cifre assurde e numeri assolutamente impossibili per una normale giornata di compravendite. Altri, invece, erano sintonizzati su dei telegiornali. Una ripresa da elicottero mostrava i due capi del Ponte Freccialuce, ormai lontani più di duecento metri, con le estremità ridotte ad una pietosa frangia di cemento. Un servizio non in diretta mostrava il replay dell’esplosione delle torri, a cui seguiva l’atterraggio zoppicante e insicuro di un enorme aeroplano sulla pista cinque. Un cameraman faceva una ripresa ballerina in zona porto, dove le autorità cercavano di aiutare i passeggeri dei battelli più vicini alla costa a raggiungere la terra tramite un viavai di scialuppe e gommoni. I moli erano ormai ridotti a croste di cemento che affondavano lentamente, attraccare era impossibile e insicuro. Ma la ripresa più terrificante era quella rivolta a Riverside Street: squadre ben armate di uomini in divisa facevano irruzione nei grattacieli, nelle sale, nei palazzi. Diverse telecamere si davano il cambio, mostrando da tante angolazioni l’irruenta ma aggraziata operazione in corso. Non c’erano spari, nessun morto, neanche una goccia di sangue. I terroristi entravano in numero troppo elevato per poter essere contrastati dalle guardie private, puntavano le armi sui presenti ma non premevano i grilletti. Li disarmavano per poi stenderli al fine di renderli inoffensivi, senza uccidere. Quando la stanza era libera, ordinavano a tutti i broker di uscire. Quando si erano assicurati che la sala fosse libera e il palazzo sgombro, lanciavano granate o piazzavano cariche: i computer, le scrivanie, i documenti, tutto ciò che era manifestazione fisica del traffico economico finanziario veniva dato alle fiamme. La polizia non interveniva a Riverside Street, era come se i terroristi avessero previsto anche questo: le famiglie, la gente, il popolo, si stavano tutti riversando per le strade. Assaltavano supermercati, rubavano automobili, sfondavano vetrine. Era come una guerra civile scoppiata tra tutti i distretti e tutti i quartieri. Le poche forze dell’ordine che non stavano aiutando con le evacuazioni della zona portuale o l’intervento anti-violenza per le strade, avevano probabilmente abbandonato l’uniforme e stavano abusivamente riempiendo il pick-up di provviste, anche loro erano pur sempre dei civili.
«E’ l’anarchia» commentò l’amministratore delegato della AxeCorp «dobbiamo andarcene» decise, scoprendo la cassaforte che era celata dietro un quadro e ne prelevò tutto il contenuto, nascondendolo in una valigetta. Ignorò persino Gold, precipitandosi fuori dal suo ufficio e dirigendosi verso l’ascensore, con la segretaria al seguito. Il Dexholder di Johto impiegò un po’ per capire che era il momento di andarsene. In un primo momento, aveva rischiato di scoppiare a ridere, davanti al messaggio del terrorista. Poi, vedendo il ponte crollare e i palazzi esplodere, aveva riportato la mente a Vivalet e a Porto Alghepoli, ai cadaveri degli spettatori sotto le macerie, al volto privo di vita di Emerald e ai corpi insanguinati di Crystal e Silver. Si svegliò da quel coma scuotendo la testa e strizzando gli occhi. Tolse gli occhiali e si passò una mano tra i capelli. Allentò la cravatta e si voltò verso il tizio con la valigetta con cui aveva finto di contrattare fino a dieci minuti prima.
«Comunque eravamo qua per mettertelo nel culo, non ti sei accorto di niente, sei veramente un babbeo» gli gridò.
Il tipo guardò esterrefatto la propria segretaria, poi cominciò a ringhiare, ma le porte dell’ascensore gli si chiusero in faccia e lo trasformarono immediatamente in un ricordo lontano. Gold rimase immobile per qualche secondo, trasse un sospiro, uscì dall’ufficio.
«Ragazze, qua è successo il pandemonio, portate i vostri bei culetti fuori dal palazzo se non volete finire come Denzel Washington in Io sono leggenda» disse alla ricetrasmittente.
«Era Will Smith, scemo» lo corresse Celia.
«Che cosa succede Gold?» chiese Platinum.
«E’ che ogni tanto mi confondo, vedo talmente tanti film che...»
«Che cosa succede là fuori! Perché parli di pandemonio?»
«Il piano è andato a puttane, non è ovvio?»
«Sei stato scoperto?»
«No, o meglio, diciamo che non è quella la nostra priorità...»
«Platinum, esci immediatamente dal palazzo» intervenne Celia.
«Ah! Hai visto il video!» esclamò Gold.
«Platinum, esci, scappa! Lascia stare i documenti!»
«Ragazzi, volete spiegarmi che succede?»
«Camion vaticani? Com’era il segnale di emergenza?» continuava Gold, girando per i corridoi con nonchalance.
«Li ho quasi trovati, non mettetemi fretta...» continuava Platinum, testarda.
«Porca troia! Esci di lì, scappa da una finestra!» ripeté Celia.
Le porte blindate dell’archivio si spalancarono, divelte da una bomba di fuoco. Rovinarono a terra come inutilizzabili pezzi di metallo, sganciate dal loro vano scorrevole.
«Oh merda!» imprecò Platinum, paralizzata.
«Vattene da lì!» esclamò Celia.
Dalla cappa di fumo fece capolino una sagoma, anzi due. Un grosso Pokémon bipede che emanava fiamme da tutto il dorso e un essere umano che avanzava con le mani in tasca, fischiettando.
«Lady Berlitz che dice parolacce, mi confesso sorpreso...»
«Gold, mi hai fatto prendere un colpo» lo attaccò la Dexholder.
Celia trasse un sospiro di sollievo, dall’altro capo della conversazione «imbecilli, datevi una mossa».
L’ascensore era stato messo fuori uso dal blackout, tutti coloro che si trovavano nel grattacielo scendevano le scale come una rumorosa e goffa valanga di colletti e cravatte. Qualcuno cadeva, causando impedimento a chi lo seguiva e danneggiando chi lo precedeva. Un paio di individui facevano gli eroi e tenevano le porte di sicurezza spalancate improvvisandosi uscieri della situazione. Lentamente, l’intero palazzo si svuotava dei suoi abitanti. Celia, Gold e Platinum, tuttavia, non dovettero seguire alcun esodo di massa: dopo il rendez-vous al quindicesimo piano, con annesso inadeguato commento di Gold a proposito dell’outfit di Celia, il Dexholder di Johto estrasse Sudowoodo dalla sua sfera, ordinandogli di sfondare uno dei vetri rinforzati con un Martelpugno. Niente di più facile, per il Pokémon Imitazione.
«Vi serve un uccello?» chiese il ragazzo dagli occhi d’oro, sostituendo Sudowoodo con Togekiss.
«Cristo...» commentò Celia, estraendo la Ball del suo Skarmory.
«Vado con lei» si aggregò Platinum, spaventata.
«Hai paura che ti punti il durello? Guarda che mica ti facevo andare davanti!» la canzonò Gold «ah no, è che lei ce l’ha più grosso...» riprovò, notando la differenza di dimensioni tra i due volatili. Non ricevette risposta che non fosse un mormorio di disgusto, ma non poté non notare il sorrisetto divertito che la Dexholder di Sinnoh stava cercando di nascondere.
In groppa alle due cavalcature, uscirono a mezz’aria, abbandonando il palazzo. Prima di tornare a terra, si fermarono in quota per osservare la città dall’alto: Austropoli era diventata un campo di battaglia. A est si vedeva chiaramente il Ponte Freccialuce ridotto a due moncherini maldestramente mozzati e le macerie di ciò che era stato un tempo mezze sommerse dalle acque del fiume. Verso sud, la zona del molo era diventata un mercato all’ora di punta: la maggior parte del movimento si stava concentrando lì, tra sfollati, soccorritori e civili che si erano riversati in strada e avevano seguito il flusso della gente. La galleria solidarietà era troppo lontana, ma anche da quella distanza era ben visibile la colonna di fumo che si era elevata in seguito all’esplosione. Tutte le strade sembravano un campo di battaglia, alcuni ragazzi mal vestiti rubavano auto e facevano irruzione nei locali, mentre pochi poliziotti disorganizzati tentavano di dissuaderli dalla totale anarchia. Senza successo.
«Che diavolo sta succedendo...?» si chiese ad alta voce Platinum.
Celia e Gold si ricordarono improvvisamente che lei non aveva visto la trasmissione che era andata in onda su ogni schermo, essendo rinchiusa nell’archivio.
Il Dexholder di Johto guardava in basso, come se stesse scrutando qualcosa sotto di loro.
«Hanno attaccato la città» le spiegò Celia «sono dei terroristi, dobbiamo andarcene prima...»
«Via da qui!» esclamò Gold, dando una fiancata allo Skarmory su cui erano le ragazze.
Una pallottola attraverso l’aria, fischiando a pochi centimetri dalle loro orecchie.
«Hanno dei cecchini, non vogliono far fuggire nessuno dalla città, neanche in volo!» esclamò.
«Scendiamo, rapidi» ordinò Celia.
I due volatili si gettarono in picchiata, mentre gli Allenatori si tenevano stretti per non essere disarcionati. Videro scorrere tutti e quindici i piani, per un totale di circa 53 metri, ad altissima velocità. Non udirono il suono di altre pallottole, evidentemente i tizi con i fucili di precisione avevano accettato la loro discesa, concentrandosi su altri bersagli meno propensi ad arrendersi. Celia, girando un po’ lo sguardo, vide chiaramente un povero diavolo in groppa al suo Staraptor essere colpito, a pochi isolati da loro, e sfracellarsi a terra come un frutto troppo maturo. Il Pokémon lanciò un grido acuto, gettandosi in picchiata per riprenderlo. Non riuscì nell’intento.
«Ci siamo!»
Arrivarono a terra, evitando di spiaccicarsi sull’asfalto con una brusca frenata.
«State tutti bene?» chiese Platinum, scendendo dal Skarmory.
Non le risposero. Attorno a loro c’era il caos, teppisti dal volto coperto con una bandana e energumeni vestiti di pelle stavano dotati di spranghe e altre armi improprie sfondavano vetrate, saltavano su auto parcheggiate, attaccavano civili. Si ritrovarono inermi, in mezzo a quella guerriglia civile priva di ordine e legge. I lampioni cadevano, i camion prendevano fuoco, la gente gridava.
Negli altoparlanti, in un eterno loop, risuonava ancora una voce robotica, come un’inquietante cantilena: «Noi siamo i liberatori della città».

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