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Levyan - ILCC: VIII - Occhio di falco


VIII
Occhio di falco


«Calmo, calmo» sussurrò Gold al suo Typhlosion che vibrava di rabbia, con lo sguardo truce rivolto al tizio che stava puntando l’arma sul suo Allenatore.
Platinum era a metà tra i due, ma non nella linea di tiro del fucile dell’uomo. Questo dal momento che, essendo l’unico con un Pokémon al suo seguito, Gold era quello che andava tenuto nel mirino.
«Chi siete?» domandò il mercenario, la voce graffiata e un po’ attutita dal passamontagna nero che gli copriva il volto.
Gold si rese conto di starlo guardando in faccia per la prima volta. Dopo essersi voltato, tutto il mondo attorno a lui era scomparso: il grattacielo, il cielo crepuscolare, lo skyline di Austropoli, il panorama, Platinum, il fiume, il mare, il vento fortissimo che spettinava la cima della Foundation Tower. L’unica cosa ad essere rimasta ben evidente nel suo campo visivo era l’arma: quel fucile nero cromato dal calcio squadrato e la canna lunga e sottile, con un collimatore alla fine. Sull’apice centrale era montata un’ottica di enormi dimensioni che somigliava molto più ad un cannocchiale che ad un mirino. L’uomo lo stringeva tra le mani, saldo, immobile, una spalla contratta e pronta a ricevere il rinculo e l’altra ben distesa e rilassata, che indirizzava chirurgicamente la canna verso il suo obiettivo. Si trovava a poco più di cinque metri di distanza da lui e quell’arma era fatta per colpire oggetti posti a distanze ben maggiori, ma ciò non significava necessariamente che l’uomo avrebbe sbagliato il colpo.
«Chi siete?» si ripeté l’uomo.
Gold era completamente immobile, serissimo, ghiacciato.
«Aspetta» si intromise Platinum.
«Zitta tu» la silenziò lui «chi siete, dico a te, moretto» la canna del fucile ebbe una minima oscillazione verso Gold, il quale saltò un battito senza darlo a vedere.
«Non cerchiamo guai» mormorò il ragazzo di Borgo Foglianova.
«Eppure siete qui» lo interruppe l’uomo.
Gold era senza parole. Platinum cercò il suo sguardo, ma lui continuava a fissare il puntino nero che avrebbe potuto far fuoco un proiettile calibro 50 da un momento all’altro.
«Ascolta, non siamo nemici, cercavamo soltanto...»
«Le direttive erano ben precise, voi le avete infrante salendo su questo tetto, vi sto risparmiando solo per sapere se avete con voi altri compagni potenzialmente sovversivi di cui devo rendere conto alla base» tagliò corto lui «non serve temporeggiare, voglio che parliate».
«Va bene, va bene, ti dirò tutto io» si intromise di nuovo Platinum.
L’uomo la fulminò con lo sguardo, ma stavolta non la interruppe.
«Ma prima ragiona: quello è un fucile ad azione singola, significa che devi ricaricare prima di far fuoco una seconda volta» iniziò la ragazza «se colpisci il mio compagno, il suo Typhlosion non impiegherà due secondi a trasformarti in un mucchietto di cenere, se invece colpisci il Pokémon, lui ha ben altre cinque Poké Ball con il resto della sua squadra a portata di mano, attaccate alla cintura. Anche in questo caso, uno qualsiasi di loro impiegherà poco più di tre secondi per renderti inoffensivo. Sei in grado di ricaricare l’arma in un così breve intervallo di tempo? Perché sembra bella pesante e inoltre non credo che il rinculo sia proprio una carezza» sciorinò la Dexholder di Sinnoh «inoltre, non dimenticarti di me, anche io ho con me una squadra di sei Pokémon e sono molto più vicina, ma soprattutto, non vedo nessuno a puntarmi un fucile contro».
L’uomo tentennò, ma non dette cenno di arrendersi. Con un movimento sicuro e preciso, spostò le sue attenzioni da Gold a Platinum, puntando l’arma su di lei. Una goccia di sudore imperlava la sua tempia, nella piccola porzione di pelle non coperta dal passamontagna. Aveva le pupille dilatate, probabilmente a causa delle luce che stava sempre più calando, lasciando il posto alla sera. Aveva la bocca serrata e le labbra secche e screpolate.

Molto sotto di loro, uno dei terroristi che avevano preso il controllo della scuola controllava l’orario sul suo orologio da polso, col quadrante posto dallo stesso lato del palmo della sua mano. Aveva una pistola stretta nella fondina, con la mano poggiata su di essa. Teneva d’occhio i bambini, aspettando solamente il segnale. Avevano ancora quindici minuti, prima dello scattare dell’ultimatum. Fece l’occhiolino alla maestra che tentava di tranquillizzare i suoi alunni. Lei aveva il gelo negli occhi e le mani in preda ad evidenti tremori.
Un acre odore di caldaia si era diffuso nell’aria. Ma tra la tensione generale e la situazione paradossale che si era creata, nessuno sembrava accorgersene.
La polizia era bloccata fuori. Non poteva entrare, non aveva neanche i numeri per essere sicura di riuscire a fermare tutti quei teppisti in uno scontro tête-à-tête. Il loro piano era di rassicurare i terroristi a pochi secondi dallo scadere del tempo limite dicendo che il governatore sarebbe stato portato lì a breve. Una bugia, perfetta però per guadagnare qualche minuto. Alcuni tiratori si stavano appostando sui palazzi attorno, forse sarebbero riusciti a fermare gli uomini più prossimi alle finestre, ma stando alle informazioni dedotte la maggior parte degli ostaggi era concentrata nella palestra sotterranea e con loro il cinquanta per cento dei criminali. Era una grande incognita, come sempre. Ma con la maggior parte dei poliziotti rintanati a casa, feriti o impegnati a placare il caos in tutto il resto della città, sperare era tutto ciò che restava loro.

«Ascolta, hai presente l’ultimo messaggio mandato dal tuo capo a tutta la città? Noi vogliamo salvare quei ragazzini, dacci una mano e nessuno morirà inutilmente» sbottò Gold, nel tesissimo silenzio.
«Che cosa stai dicendo?» chiese l’uomo.
«Dei pazzi stanno tenendo in ostaggio sessanta ragazzini in una scuola elementare, siamo venuti qui per intervenire e salvarli, se ci aiuti possiamo fare in modo che nessun innocente muoia per colpa nostra!»
«Menti, non ti credo» fece lui.
«Oh cazzo, lavori per Al Capone e neanche ascolti le sue comunicazioni? Ha mandato poco fa un video su tutti gli schermi di Austropoli!»
«Ci sono degli orari precisamente stabiliti per le comunicazioni, non c’era nessun messaggio piazzato per questa sera!» confutò lui.
«E’ stata un’emergenza, evidentemente, neanche il tuo capo poteva prevedere che dei deficienti avrebbero preso dei bambini in ostaggio!»
L’uomo mugugnò. Senza abbassare il fucile, tolse la mano dal grilletto e premette il tasto della ricetrasmittente che portava attaccata al giaccone.
«Riders, Qui è Falco 25-75, ho bisogno di una ricognizione a livello della strada su...» guardò Gold.
«Due isolati da qui, quella direzione» fece con la mano il movimento meno brusco e ampio che gli riuscì.
«...sull’incrocio tra la venticinquesima e la settantatreesima, dovrebbe esserci una scuola elementare, passo» continuò lui.
«Bzzz... Falco 25-75, qui è Rider 13-88, sono in zona, fornisco immediatamente informazioni» rispose qualcuno, la voce robotica e filtrata dalla radio «è corretto, c’è una scuola, sembra che stia succedendo qualcosa, ci sono delle volanti della polizia e anche alcune transenne... è richiesto intervento? Passo».
«No, Rider 13-88, grazie. Nessun intervento richiesto, passo e chiudo».
Il soldato si prese qualche secondo, poi finalmente abbassò il fucile. Platinum tornò a respirare. Gold smise di tenere ogni muscolo del corpo in tensione.
«Avete intenzione di scendere sulla scuola?»
«Il piano è quello, non li allarmeremo, arrivando dall’alto» rispose il Dexholder di Johto.
Il cecchino rifletté «faccio in modo che non vi colpiscano dalle altre postazioni circostanti, ma voi fate in fretta. Non dite a nessuno che vi ho permesso di farlo e, soprattutto, non mettete mai più piede su questo tetto» mosse alcuni passi fino a trovarsi faccia a faccia con Gold «sei un idiota, ma hai avuto fegato» gli disse, a bassa voce «ma tra voi due, è lei quella con le palle» aggiunse, indicando Platinum.
La ragazza iniziava a riprendere possesso dei suoi movimenti, avvicinandosi a Gold e al parapetto, tenendo sempre d’occhio il fucile che fino a pochi secondi prima avrebbe potuto fare fuoco su di lei.
«Fai un rapido sopralluogo e poi sparite dalla mia vista» disse lui, staccando il mirino dall’arma e mettendolo tra le mani di Gold.
Il Dexholder lo usò come cannocchiale. Controllò tutta la zona sottostante. Individuò alcuni cecchini piazzati sui tetti vicini, uno stava mangiando un panino, seduto su una sedia-sdraio, con i piedi poggiati sulla ringhiera che delimitava il suo tetto. Individuò la scuola, vide le volanti della polizia e la zona delimitata attorno. Buttò anche l’occhio su un tizio in motocicletta che si era fermato ad un centinaio di metri dalla scuola, tutto vestito di nero, con una divisa simile a quella del cecchino che era accanto a lui. Doveva essere quello, Rider 13-88.
«Ok, possiamo andare» confermò lui.
«Riusciamo ad atterrare sulla scuola?» chiese Platinum.
«Sottovaluti il mio Togekiss?» ribatté Gold.
Il soldato fece qualche passo indietro, mentre Gold ritirava Typhlosion e faceva uscire il suo secondo Pokémon. Riattivò la ricetrasmittente, stavolta però premette un tasto diverso «Falchi, qui è Falco 25-75, due Allenatori in groppa ad un Pokémon volante dalla mia posizione, direzione ovest, non sparate, sono inoffensivi. Ripeto: qui è Falco 25-75, due Allenatori in groppa ad un Pokémon volante, lasciateli passare, scenderanno a terra, non colpire, non fare fuoco, passo e chiudo».
I due Dexholders si preparavano alla discesa, mettendosi a cavalcioni su Togekiss. Gold indossava gli occhiali da aviatore che portava sempre con sé in adolescenza, li aveva recuperati poco prima nella stanza dell’hotel. Dietro di lui, la ragazza di Sinnoh.
«Hai fatto la cosa giusta, Falco 25-75» gli disse Platinum, sistemandosi la sciarpa.
«Mi chiamo Sam» rispose lui, quasi accennando un sorriso.
«Va bene: hai fatto la cosa giusta, Sam...»
«Già, credo tu sia il primo ad esserne uscito vivo dopo averle puntato l’arma contro» aggiunse Gold, prima di gettarsi nel vuoto.

«Cinque minuti! Vogliamo il governatore! Oppure continuate a proteggerlo e avrete questi ragazzini sulla coscienza!» urlò uno dei terroristi al megafono.
Nessuno dei poliziotti rispose: non ne avevano il potere e non erano neanche in grado di realizzare un bluff degno di tale nome.
«Cinque minuti!» aggiunse l’uomo, che per la cronaca si chiamava Bruce.
Nella classe 2° E, con la semiautomatica in una mano e il megafono nell’altra, tre ragazzini legati dietro alla cattedra, l’uomo con il giubbotto antiproiettile seguiva in maniera fiscale e precisa il copione che gli era stato consegnato. Era tardi, fin troppo tardi, pensava, guardando l’orologio digitale «Riley, dove cazzo sei?» schiamazzò affacciandosi appena sul corridoio.
Riley era uno dei ricognitori: al ventiduesimo secondo di ogni minuto passava davanti alla porta della 2° E, allertando il suo compagno con un cenno. La sua periodica comparsa indicava che tutto stesse andando secondo i piani. La sua improvvisa sparizione, ovviamente, l’esatto contrario.
Bruce si strizzò il naso, irritato dall’odore di fornello che aleggiava nell’aria «Grant! Grant! Non vedo più Riley!» urlò a voce più alta, sudando freddo.
«E’ qui da me, non preoccuparti!» rispose Grant dal piano inferiore, anche lui urlando «ho avuto dei problemi con le casse, ho quel problema all’anca, lo sai...»
«Porca puttana, Grant, bisogna seguire il programma! Deve essere tutto preciso, siete durati un’ora senza fare cazzate e adesso intendete abbandonarmi proprio sugli ultimi cinque minuti!?» sbraitò Bruce.
«Ma datti pace! Non è successo niente!»
«Vaffanculo, Grant! Sai bene cosa dicono le istruzioni, in caso di sospetta intrusione! Io non intendo sporcarmi le mani per le tue stronzate!»
«Dai Bruce, mica vorrai sparare veramente! Hanf... Sono dei ragazzini!» intervenne Riley, con il fiato corto.
Al piano di sotto, nell’aula di scienze, Riley e Grant stavano portando il carico che era stato richiesto dall’organizzatore del colpo. L’uomo che li aveva ingaggiati e aveva fornito loro il piano, il protocollo da seguire e i soldi, aveva richiesto esplicitamente che quei tre parallelepipedi di compensato sigillati fossero portati in quella precisa stanza e che si trovassero lì al momento dello scattare dell’ultimatum.
«Torna a fare il giro di ricognizione, Riley» lo sollecitò Grant «o va a finire che quell’idiota la fa davvero, una cazzata...» l’uomo, affaticato, si mise a sedere su una delle casse.
«Ma che ci dobbiamo fare con quelle?» chiese Riley.
«Noi niente, il capo ha detto cha la polizia deve trovarle in questa stanza».
«Quindi noi abbiamo finito...? Adesso scattano i cinque minuti, ci consegniamo e stop?»
«Esatto».
«Com’è che dici sempre, tu? Un tempo entravi, prendevi il malloppo e uscivi...»
«...oggi invece ti pagano per fallire il colpo e andare al fresco!» finì la frase Grant, sghignazzando in duetto con il socio «hai proprio ragione! Ma tu la senti questa puzza di gas o sono solo io?»
«Comunque questi ricchi viziati hanno idee sempre più strambe... no, il naso un po’ tappato, in realtà... per te che ci sarà lì dentro di tanto importante?»
«Il capo ha detto che sono solo prove incriminanti, in pratica tutta la storia degli ostaggi e del governatore è una copertura per incastrare qualche tizio dell’Austropoli bene... e poi ho smesso di ascoltare, non capisco mai un cazzo di queste cose... a me basta che mi pagano» declamò Grant.
Riley titubava «io mica ci credo...» si grattava la barbetta incolta.
«Figurati, ma tanto cosa vuoi che me ne freghi? Meno domande ti fai e meglio è!»
«Non possono essere solo documenti, quelli bastava mandarli alla polizia... e poi tre intere casse da trasloco... dev’essere qualcosa di assurdo...»
«Sicuramente. Ed è proprio per questo che ero io l’addetto al trasporto: perché sono quello che si fa meno seghe mentali» Grant indicava a Riley l’uscita, come suggerendogli di abbandonare.
«Ma non sei curioso? Dai, tanto ormai abbiamo finito, diamo soltanto un’occhiata...» Riley si avvicinava sempre di più, aveva pure posato il fucile su un banco tutto inciso e rovinato.
«Lascia perdere, tanto cosa cambia?»
«A te, cosa cambia? Io prima della cauzione dovrò rimanere in una cella per dieci giorni con questo chiodo fisso!»
«Sei veramente un ragazzino, Riley».
«Solo un’occhiata, dai, non ti cambia niente!» lo supplicava.
Grant guardò l’orologio. Mancavano tre minuti allo scattare dell’ora X.

Tre minuti. Bruce digrignava i denti, nervoso. Il sudore imperlava la sua fronte e rendeva scivolose le sue mani, a tal punto da fargli quasi cadere la pistola. Lanciava un’occhiata al corridoio, dove Riley continuava a non manifestarsi, poi un’occhiata ai ragazzini. Avranno avuto sì e no l’età di suo nipote, il figlio di sua sorella, che abitava ad Ebanopoli. Lo ricordava approssimativamente, essendo passati anni dall’ultima volta che lo aveva visto. Immaginò di essere obbligato a sparare ad uno di quei ragazzini, si morse la lingua al solo pensiero. Il piano era di consegnarsi, minuto più, minuto meno. Il protocollo era volto ad evitare eventuali problemi, ma ormai mancavano solo tre minuti, cosa sarebbe potuto succedere?
Nell’aria c’era un odore aspro e pungente, ma tanto di lì a poco sarebbero usciti tutti incolumi.

«Avete un tiro pulito?» chiese il tenente.
«Solo su uno di loro, ma ha con sé dei ragazzini» rispose uno dei cecchini.
«Io ne avevo due sul lato ovest, ma quello che passava ogni minuto sembra scomparso, non capisco» fece l’altro.
La radio trasmittente funzionava ancora, nonostante tutte le linee fossero state staccate e l’intera città fosse digitalmente isolata dal resto del mondo.
«Merda... del governatore non si sa ancora niente?»
«No, tenente» rispose una recluta, da dietro.
«Va bene, abbiamo ancora due minuti, diremo che sta arrivando comunque, passatemi il megafono!»
«Tenente, signore... c’è ancora la possibilità che quei ragazzi...» si intromise una poliziotta.
«Soldato, la prego... non stiamo giocando con i Pokémon, qui».
«Certo, signore» si ritirò lei.
«Qualcuno è riuscito ad ottenere le planimetrie?» urlò ancora il tenente.
«Ce ne stiamo occupando, ma il comune non risponde e allo studio che se n’è occupato dicono che non hanno tempo di mandarcele» rispose il poliziotto.
«Tra i contatti c’era il numero di una ditta di elettricisti, provate a chiedere a loro»
«Non credo abbiano qualcosa, una delle maestre ha detto di aver chiamato solo ieri per un guasto alla caldaia».

«Non spingere così, devi solo fare leva sulla punta!»
Riley spinse mentre Grant teneva il pannello.
Crock!
Il coperchio della prima cassa venne via.
«Ecco, visto? Hanf... hanf... non ci è voluto niente» fece Riley, respirando a pieni polmoni per riprendere fiato «effettivamente ora la sento pure io questa puzza... comunque dai, controlliamo».
Grant spostò i pezzetti di polistirolo con il palmo della mano. Sotto sembrava esserci un qualcosa di grosso e pesante. Ci affondò le dita fino a toccare un apparecchio metallico con dei cavetti, degli elettrodi e un quadrante digitale.
«Che cazzo è?» si chiese a voce alta.
«Spostati, fammi vedere» fece Riley.
Il ragazzo agitò il polistirolo, prendendone un pugno pieno e tirandolo fuori dalla cassa.
«Oh Cristo, è un timer» esclamò Grant.
«In che senso, un timer?»
00:06
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Togekiss frenò spalancando le ali, l’inerzia fece quasi cadere Gold e Platinum, che si reggevano già per miracolo sul manto candido del Pokémon volante. I loro piedi toccarono il terreno. Non c’era tempo da perdere.
«Io mi occupo di quelli nelle aule, tu vai direttamente nella palestra» stabilì il ragazzo di Johto.
Platinum annuì.
Un boato, l’aria fu scossa da un’onda d’urto. Il tetto della scuola tremò sotto i piedi dei Dexholder. Si sentirono finestre infrangersi, cemento venire ridotto in frantumi, fiamme divampare. Il pavimento cominciò a cedere sotto i loro piedi. Gold fece appena in tempo a gettarsi su Togekiss, aggrappandosi ad una sua zampa. Platinum si strinse al suo braccio. Appena sotto di loro, l’edificio crollava su se stesso, cedendo alla violenta esplosione. I due si stringevano ai loro appigli senza avvertire il proprio peso né percependo alcun rumore, per via del boato che fischiava ancora nelle loro orecchie. Avevano gli occhi spalancati, fissi su quella che qualche istante prima era una scuola elementare. Nel tetto si era aperta un’enorme voragine, i pavimenti erano crollati. Dell’edificio, che continuava a caracollare sotto il proprio peso, restavano solo macerie e lamiere che si accartocciavano, avvolte dalle fiamme.

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