PREY
Quieta e silenziosa vegliava quell’antica struttura sul Bosco Evopoli, una villetta ormai diroccata, risalente al diciottesimo secolo. Attorno a essa una cortina di nebbia perenne creava un’atmosfera macabra, unita alla tranquillità di quella macchia di verde che bagnava il paesaggio montuoso di Sinnoh.
Non una singola persona
osava avvicinarsi a quel sinistro luogo, respinti dalle numerose leggende
popolari che il tempo aveva creato come scudo. Una delle tante, dipingeva la
vecchia casa come il teatro di un brutale omicidio, avvenuto decenni prima in
quel luogo di così intensa quiete.
- La figlia del
proprietario dell’Antico Chateaux fu la vittima, si dice sia stata massacrata
dal padre con un coltello, e che il suo spirito risieda ancora intrappolato fra
quelle mura, in cerca di vendetta. – le parole di Yosai fecero calare il
silenzio sul gruppo di ragazzini, riuniti attorno al suo banco per
l’intervallo.
Lui, il più grande del
gruppo, castano, osservava con le sue iridi smeraldine i compagni di classe in
cerca di una qualche reazione interessante. Invano.
- Chi vuoi se le beva
ste cazzate, i bambini di 4 anni? – rispose secco uno dei due al suo fianco,
contraendo il viso in una smorfia acida, spostandosi il ciuffo moro dalla
faccia.
- Eichi ha ragione, sono
solo storie inventate per spaventare i bambini. Anche mio padre mi ha detto che
in quella casa non è mai successo nulla, e lui è il commissario di Evopoli, ne
sa più di chiunque altro su argomenti come questo. – precisò Kunitaro, l’ultimo
del trio, un arrogante ragazzino dai capelli cinerei e le iridi indaco.
- E che ne sai che in
realtà tuo padre non ti stia mentendo? E magari non può rivelarti i dettagli di
quell’omicidio? – continuò convinto Yosai.
- Tu guardi troppi film,
Yosai, sembri solo ridicolo. – lo zittì nuovamente Kunitaro.
- Certo che parlare con
voi due è sempre una favola, eh…
- Sei tu che dici
cazzate ogni volta che apri bocca. – lo provocò Eichi.
- Piuttosto, che cosa
aveva detto quella cretina di geografia? – sviò il discorso il castano.
- Una ricerca sullo
Zimbabwe, o una roba simile… - rispose vagamente Eichi.
- Che materia del cazzo…
- sbuffò Kunitaro, segnando delle note sul proprio diario.
Lo sguardo di Yosai si
posò su una figura a lui ben nota all’interno della classe: Katzuki, il ragazzo
fulvo che sedeva sempre in prima fila. Il compagno in questione era da sempre
nel mirino del trio, sia per il suo carattere estremamente introverso, sia per
il suo andamento scolastico, invidiato pesantemente dai tre. Si divertivano
come bambini a maltrattarlo, quel povero ragazzo era il loro giocattolo
preferito. Più di una volta lo avevano rincorso fuori da scuola, rubandogli
zaino e cappellino, facendoglieli trovare poi appesi a uno dei numerosi rami
dei prugni che decoravano il largo viale della scuola. Altrettante volte si
erano dilettati nel ridicolizzarlo davanti alla classe: nascondendogli i
vestiti e le scarpe da ginnastica dopo l’ora di educazione fisica,
rovesciandogli del succo sui pantaloni nuovi, facendogli trovare insetti morti
sul banco, lui ne era terrorizzato.
- Avete voglia di farvi
due risate? – chiese Yosai, con un ghigno stampato in volto.
I due quindicenni lo
fissarono incuriositi, Eichi prese parola, rassegnato. – Che cos’hai in mente,
stavolta.
- Perché non facciamo
entrare lo scemo nell’Antico Chateaux?
- Pensi veramente che
Katzuki abbia le palle di andare in quel posto? Quello è capace di piangere per
una qualsiasi stronzata… – chiese scettico Kunitaro.
- No, ovviamente, ma è
proprio questo il bello.
- Però non è nemmeno
cattiva come idea… secondo me si caga addosso, letteralmente. – disse il moro,
facendosi scappare una fastidiosa risatina.
- E se lo filmassimo? –
propose Yosai.
- E’ illegale. – affermò
Eichi.
- Certo che lo filmiamo.
– seguì Kunitaro.
- Come lo mandiamo lì
dentro però? – chiese il moro.
- Lo costringiamo,
semplice. – rispose il castano.
- Non so… - borbottò Eichi, accartocciando il bicchiere
di plastica e gettandolo nel cestino. Centrò il bidone sbagliato: quello
dell’organico. La capoclasse drizzò le antenne e lo fulminò con un’occhiata.
- Ogawa Eichi, i
bicchieri, una volta puliti, vanno nella plastica! – tuonò la megera con le treccine.
- Vai a raccoglierlo! –
lo canzonò Yosai. Kunitaro rideva sotto i baffi.
- Bastardi. – scosse la
testa il ragazzo, andando a rimediare al suo errore.
La capoclasse lo seguì
con lo sguardo minaccioso finché il rifiuto non fu al posto giusto. Quindi
voltò le spalle e se ne andò.
- Racchia di merda… – borbottò
il ragazzo.
Le lezioni finirono, la
campanella congedò tutti gli studenti. Sulla via di casa, il trio delle
meraviglie continuava a complottare la prossima bravata. Eichi camminava
dietro, davanti a lui Kunitaro con il suo sorriso maligno e in cima al gruppo
Yosai, che pianificava tutto nei dettagli.
- Rubiamo la sua ricerca
e lo spingiamo a cercarla dentro allo Chateaux – propose il capo.
- Ma… significa che
prima dobbiamo portarcela, là dentro… - obiettò Eichi.
- Non dobbiamo farlo
davvero, idiota – lo riprese Kunitaro.
- Perché, ne avresti
paura?
- Ma figurati… – rispose
Eichi, arrossendo.
Kunitaro e Yosai si
scambiarono un’occhiata.
- Preda a ore dodici! –
disse ad un certo punto il castano.
- Ci penso io. – si fece
avanti quello dai capelli grigi, avanzando a grandi falcate – ehi, mammoletta!
– esclamò.
Katzuki lo intravide con
la coda dell’occhio e accelerò il passo.
- Dove scappi, non sai
che è maleducazione?
Il fulvo si sentì
prendere per la collottola e strattonare indietro. Perdendo l’equilibrio, cadde
con il sedere sul selciato. La borsa che aveva a tracolla si aprì, lasciando
uscire numerosi volumi e quaderni pieni di appunti.
- Che cos’è… - Kunitaro
trattenne le risate - …questo? – si abbassò a raccogliere un libro di musica
mezzo ingiallito.
- Smettila, non sono
affari tuoi! – cercò di difendersi Katzuki.
- Ehi ragazzi, guardate
qua! Il ragazzo prende lezioni di Xilofono! – starnazzò quello che era in
piedi.
Il resto del trio si
appropinquò, sogghignando.
- Andate via, lasciatemi
in pace! – si lamentava il fulvo.
- Vuoi diventare uno
Xilofonista, roscio?
- Tu che sei un uomo di
cultura, Eichi, mi sai dire il nome di uno Xilofonista diventato famoso? –
continuava Yosai.
- Penso che non ne
esistano, a dire il vero… – rise Eichi.
Tra una pedata sulla
camicia bianca della vittima e uno spintone che lo facesse rovinare di nuovo a
terra, fu facile per Kunitaro sottrarre i fogli della ricerca dalla borsa di
Katsuki. Quando si furono divertiti abbastanza, lo lasciarono andare. Il
ragazzo colse l’attimo di tregua e girò l’angolo in fretta, senza guardarsi
indietro, senza lamentarsi ancora.
- Ecco il tesoro! –
sorrise il gruppetto, soddisfatto.
Kunitaro stringeva quel
fascicolo spillettato tra le mani, ghignando. Lo gettò nella prima pattumiera
che incrociarono sul percorso.
- Tuo fratello, Eichi,
non ha una videocamera professionale?
- Ehm… no, non ce l’ha.
- Non mentire! Ho pagato
dei bei soldoni per i video della sua ragazza che avevi trovato nella sua
memory card! – ribatté Kunitaro.
- Dai… non so se è
giusto filmarlo… - si lamentò il ragazzo.
- Tu porta la
telecamera, cagasotto. – insistette Yosai.
- Di che cosa hai paura,
mio padre ci parerà il culo. – lo sostenne Kunitaro.
- Ok… - cedette il
terzo.
Il castano gli diede una
pacca sulla spalla – Bravo, ragazzo…
Ognuno tornò a casa
propria, con il progetto di rivedersi la sera stessa.
Katsuki sedeva ora sul
proprio letto, stringendo fra le mani i pochi fogli ancora intatti, sfuggiti
dalla razzia di quei tre bastardi. Guardava il vuoto, lui, cercando di
trattenere le lacrime, le ennesime che versava a causa del trio di bulli. Gettò
a terra quel che rimaneva della sua ricerca, lasciandosi cadere poi sul morbido
letto. Teneva gli occhi serrati, proprio non voleva far uscire quelle maledette
lacrime. Il suo respiro era pesante, confuso, irregolare; il cuore gli batteva
rapido, impedendogli di ricercare la calma.
- Basta… - mormorò lui,
soffocando un singhiozzo. – Basta… - continuò, attendendo invano una risposta
da sé stesso. Oltre a lui, in quella stanza vuota, era presente la sua unica
solitudine, l’ombra che lo accompagnava da quando, tre anni prima,
quell’inferno era iniziato.
Il fulvo trovò la forza
di aprire gli occhi, forzando la vista a farsi strada fra il confuso luccichio
della luce, riflessa dalle lacrime che gli bagnavano i bulbi. Posò lo sguardo
sul soffitto, decorato da una strepitosa riproduzione del Sistema Solare,
dipinta dal padre anni prima. Fra tutti i pianeti, Saturno era il suo
preferito: solitario, freddo, con degli anelli che lo separavano dalla realtà;
si rispecchiava perfettamente in quel corpo celeste.
L’attenzione del
ragazzino venne attirata da un’inaspettata vibrazione del cellulare. Afferrò
l’apparecchio, cercando di capire chi mai avesse potuto contattarlo, non
ricevendo mai nessun messaggio. Aprì WhatsApp, leggendo le poche parole
presenti in quel testo virtuale.
“Ehi, roscio, se vuoi riavere il tuo diario da femminuccia ti conviene
presentarti davanti alla statua, stasera, alle dieci.”
Il numero del contatto
era a lui sconosciuto, ma la foto del suo profilo gli fece capire
immediatamente chi fosse il mittente di quelle fastidiose parole: Yosai.
Col cellulare stretto in
mano, Katsuki lanciò un grido strozzato, facendo affondare poi due pugni
nell’innocente cuscino in memory foam accanto a lui, il segno di quella letale
frustrazione rimase ben visibile sulla superficie del cuscino.
In quei pochi secondi
avrebbe dovuto decidere se ignorare le parole del bullo o rischiare e ballare
col diavolo, presentandosi nel luogo indicato. Cos’avrebbe deciso di fare? Il
suo sguardo si perse nuovamente nel vuoto, accompagnato da un pesante respiro.
Mancavano venti minuti
alle dieci, Yosai ed Eichi sedevano appoggiati alla statua della piazza
centrale di Evopoli mentre Kunitaro si era arrampicato al di sopra del grosso
blocco di marmo e aggrappato a una delle gambe dell’enorme pezzo di metallo, si
sporgeva nel tentativo di avvistare Katsuki.
- Secondo voi verrà
veramente lo scemo? – chiese la scimmia.
- Certo che viene, tiene
a quel cazzo di diario più che a sua madre. – rispose secco Yosai. - Hai
portato la telecamera, Eichi? – chiese poi, voltandosi verso l’amico seduto.
- Sì, ma la uso solo io.
- E dai, facciamo a
turno!
- Col cazzo, già è tanto
che mio fratello non si sia accorto che gliel’abbia inculata, se poi si rompe
sono fottuto.
- Che palle che sei…
- Piuttosto, cosa
vogliamo fare per mandarlo lì dentro? – chiese il moro, indicando il vecchio
maniero in lontananza.
- Gli raccontiamo una
balla e lo sfottiamo finché non ci entra, in quella casa. Altrimenti ce lo
portiamo noi.
- Sicuro sia una buona
idea?
- Che c’è? Ti stai
cagando sotto per caso? – chiese con arroganza Yosai, spintonando lievemente il
compagno.
- N-No… solo che…
- Oh! Lo vedo! Alla fine,
è venuto veramente. – interruppe Kunitaro i due, balzando giù dalla statua.
- Bene, bene… guarda un
po’ chi ha deciso di farsi vivo… è una bella serata, vero roscio? – lo provocò
Yosai.
- D-Dov’è il mio diario?
– chiese il fulvo, dovendo prima trovare il coraggio di aprire bocca.
- Quanta fretta, ti
avevo detto di presentarti se volevi sapere dov’era, mica ti ho detto che te lo
avrei dato… - indicò poi il Bosco Evopoli. – Per sbagliò il mio Shinx lo ha
portato nell’Antico Chateaux, sono stato un po’ sbadato… - continuò a
provocarlo Yosai.
- Se lo vuoi vattelo a
prendere, no? Devi solo attraversare il cancello ed entrare in quella casa. –
disse Kunitaro, poggiando prepotentemente una mano sulla spalla di Katsuki.
Eichi rimase in
silenzio. Katzuki stringeva i denti dalla rabbia.
- Allora, lo vuoi o no?
– rincarò la dose il capo.
- Idioti – esclamò il
fulvo voltando loro le spalle e allontanandosi.
Ma non stava tornando a
casa, bensì, era chiaramente diretto verso il bosco. Il trio impiegò un po’ per
realizzare che il piano era riuscito, ma tutti e tre balzarono in piedi quando
furono sicuri che Katzuki si stesse effettivamente dirigendo verso la macchia.
Iniziarono a seguirlo, rumorosi e sguaiati, al massimo dell’entusiasmo. Il ragazzino,
ancora in divisa scolastica, percorse il sentiero di campagna a piedi,
raggiungendo la fitta boscaglia scura che, a quell’ora della sera, avrebbe
intimorito chiunque. Il terreno cambiò rapidamente, Evopoli era stata
appositamente costruita accanto al bosco omonimo: era nata molti anni prima
come un piccolo villaggio di taglialegna, ma in quel momento sembrò quasi come
se l’oscurità avesse cercato di inghiottire Kaztuki.
- Ti tremano le gambe,
roscio? – lo provocò Eichi da dietro, con la voce un po’ insicura.
Katzuki camminava,
cercando di non soffermarsi troppo sul fatto che gli alberi lo stessero
lentamente cingendo da ogni lato. Il sole stava calando, la luce si faceva
sempre più rarefatta.
- Forse avremmo dovuto
farlo venire proprio a notte fonda – disse Yosai, raggiante.
- Eh, infatti… - approvò
Kunitaro con voce poco convinta, mentre si sfregava nervosamente le mani.
Il fulvo raggiunse il
viale circondato da due lunghe file di alti cipressi che era l’ingresso
dell’Antico Chateaux. Con gli anni, la strada di breccia chiara era stata
conquistata da erbacce e arbusti, i cipressi si erano inselvatichiti, senza più
nessuno a prendersi cura di loro. La villa, costruita alla fine del settecento,
ma rimasta abbandonata negli ultimi trent’anni, era diventata un fossile, una
polverosa e inquietante magione dispersa in un bosco tenebroso. Da lontano
Katzuki iniziò a scorgere le finestre opacate che lo scorgevano come gli occhi
di un cane affamato. Il sole tramontava alla sua sinistra: il cielo avrebbe
sicuramente avuto delle tinte acquerellate degne di un pittore, ma le nuvole
dense occultavano quella tavolozza come uno spesso strato di polvere plumbea.
C’era silenzio nell’aria, uno stridulo silenzio invaso dal frinire delle cicale
e dal fruscio del vento. Katzuki era ormai di fronte al portone, tremante ma
arrabbiato. Non poteva più tollerare tutti quegli abusi, era ormai al limite
della sopportazione. Aveva deciso che avrebbe accettato la provocazione, in
silenzio, senza dar loro la soddisfazione di sentirlo soffrire. Si sarebbe
ripreso ciò che gli apparteneva.
Diede un colpo alla
porta con la spalla, questa si disincagliò da una piastrella e si spalancò
davanti ai suoi occhi. Alle sue spalle, i tre bulletti avevano acceso la
telecamera.
- Ecco! Il roscio che
tira fuori le palle – starnazzava Yosai.
- Lo dobbiamo seguire? –
chiese Eichi.
- Certo… - rispose
dubbioso Kunitaro.
- Aspettate, lasciamolo rosolare,
tra pochi minuti entriamo anche noi a filmarlo– decise Yosai.
Kaztuki si guardava
attorno, spaesato. Aveva paura, ovviamente, ma non era il terrore a
destabilizzarlo. Nulla era forte come l’umiliazione, la rabbia e la
frustrazione che stava provando in quel momento. Estrasse il cellulare e attivò
la torcia, agitandola attorno a sé per scoprire ciò che il buio celava ai suoi
occhi. Inquadrò un candelabro pieno di ragnatele, una scalinata di marmo
zuccherino, un tavolo in mogano mangiucchiato dalle termiti. Tutto attorno a
lui sembrava perfettamente integro, complice il fatto che la cattiva fama che
aleggiava su quel luogo avesse per anni tenuto lontani tossici, writers e
sciacalli in cerca di paccottiglia. C’erano molti soprammobili di valore,
mobilia di ottima fattura, qualche macchia di muffa causata da infiltrazioni di
umidità, vecchi oggetti epoca olocausto non più utilizzati da nessuno: un
telefono fisso, delle lampade ad olio, addirittura alcune armi con incisi gli
stemmi della famiglia che possedeva quel luogo.
Lentamente, iniziò a
comprendere che non c’era nulla di cui aver paura, ma anche che i tre bulletti
lo avevano ingannato.
In quella casa non
avrebbe trovato il suo diario, non lo avrebbe probabilmente mai più rivisto.
Sorrise, il fulvo,
stringendo i denti e trattenendo una furia di lacrime quasi incontrollabile. Cadde
in ginocchio, sopraffatto dall’ondata di sentimenti negativi che stava provando
in quell’istante, poggiava il peso sui suoi pugni, chiusi a terra, stretti in
una dolorosa morsa. Aveva sopportato tutto il male che il trio aveva fatto lui,
aveva sopportato l’umiliazione, la vergogna che provava a sentirsi il loro
bersaglio. Alzò lo sguardo, puntando gli occhi rossi verso le spade appese al
muro. Esitò, sentendosi il corpo tremare, si sarebbe veramente spinto così in fondo?
Erano passati ormai
venti minuti da quando Katsuki era entrato nel vecchio maniero, l’atmosfera nel
bosco si stava facendo sempre più tetra e una brezza gelida cominciava a
filtrare fra le chiome nere degli alberi.
Eichi si strinse nella
sua felpa, guardando negli occhi i compagni. – Non è lì dentro da un po’
troppo? – chiese leggermente preoccupato.
- Quanto è passato? –
chiese in risposta Yosai.
- Venti minuti, circa.
- Che cazzo aspettiamo a
entrare?! Si sarà già cagato addosso, non ci rimarrà più nulla da filmare poi!
– esclamò Kunitaro, gesticolando verso i due amici.
- Entriamo, allora. –
s’impose Yosai.
- E se gli fosse
successo qualcosa? – chiese Eichi, sempre più intimorito.
- Cosa cazzo vuoi gli
sia successo? Hai per caso paura, Eichi? – ringhiò Yosai.
- No che n-non ho paura…
Entriamo… - rispose sottomesso il moro, accendendo la telecamera e seguendo gli
altri due.
La casa, al loro
ingresso, si presentava diversa da come se l’erano immaginata. I tre
camminavano l’uno a fianco dell’altro, guardandosi attorno incuriositi. Eichi
riprendeva ogni cosa con la GoPro di suo fratello.
- Non so voi ma sto
posto più che paura mi mette nausea… - disse Yosai, passando il dito sugli
innumerevoli strati di polvere, accumulati con gli anni.
- Certo che i
proprietari cagavano proprio soldi dal culo eh?! – esclamò Kunitaro, gettando
un’occhiata ai vari soprammobili dorati che decoravano quel salone d’ingresso.
- Roscio, sei ancora
vivo?! – gridò Eichi, nel tentativo di provocare il ragazzo.
Nessuna risposta.
- Starà piangendo in un
angolo quello sfigato. Ehi, roscio, dove cazzo ti sei cacciato?! – ringhiò
minaccioso Yosai.
Nessuna risposta.
- Ti conviene non
scherzare con noi, sai benissimo come finisce! – intimò Kunitaro, tirando un
calcio a uno scudo sul pavimento, facendo echeggiare un fastidioso suono
metallico fra le pareti della villa.
Nessuna risposta,
ancora.
- Io vado al piano di
sopra, il primo che lo trova avvisa gli altri con il cellulare. – ordinò Yosai.
- Vuoi veramente andare
da solo in un posto come questo? – chiese spaventato Eichi.
- Cosa cazzo hai oggi,
Eichi? Credi veramente che sta casa sia maledetta? Dove pensi di essere, in un
film horror?! – sbottò divertito Yosai, deridendo l’amico.
- Fate così, visto che
Eichi si sta cagando addosso vado io da solo di sotto. Tu segui Yosai. – disse
Kunitaro, avviandosi verso la cucina.
- V-Va bene… - rispose
rassegnato il moro.
- Andiamo. – lo trascinò
al piano superiore Yosai.
La cucina di quel
maniero era uno dei luoghi più sinistri che il castano avesse mai visto, con la
torcia del cellulare si fece luce fra i grandi banconi di quell’immensa sala.
La puzza di muffa era quasi insopportabile, respirava a fatica quell’aria
carica di polvere.
- Cristo… sembra sia
morto qualcosa qui dentro… che puzza di merda… - disse, coprendosi naso e bocca
per trattenere un conato di vomito.
Un rumore improvviso
attirò la sua attenzione, facendolo voltare di scatto. Non vide nulla, se non
un paio di pentole rotolare a fianco di un vecchio mobile, ceduto sotto il peso
dell’età. Incuriosito si avvicinò alla dispensa, guardando schifato l’enorme
cumulo di muffa e ragnatele che aveva ormai inghiottito quel luogo.
- Se quelle leggende non
fossero solo delle stronzate, questa casa mette veramente i brividi cazzo… -
disse, scattando una foto col cellulare.
Sentì un ulteriore
rumore alle sue spalle, stavolta più intenso e sinistro. Si voltò. Nulla.
- Yosai? Eichi? Fate
poco i coglioni… - esclamò, intimorito.
Mosse due passi verso la
cucina, varcando la soglia della dispensa. Senza poter reagire, qualcosa lo colpì
in pieno viso, facendolo cadere a terra sanguinante.
- Aaaah… Cristo…. –
gridò dolorante. – Ma che cazzo… - girò lo sguardo in preda al panico e lo
vide: Katsuki lo stava strattonando verso di lui.
- Che cazzo fai? Appena
lo saprà mio padre… - non riuscì a finire la frase, che Katsuki lo colpì di
nuovo sull’occipite, sbattendogli con violenza la faccia su uno dei vecchi
mobili metallici. Uno schizzo di sangue macchiò i vestiti del fulvo, bagnando
anche il pavimento, mischiandosi con la polvere di quella cucina.
Kunitaro gemette,
cercando di rialzarsi, ma Katsuki senza perdere tempo assestò un terzo colpo e
sbatté nuovamente il cranio del castano sul pavimento, rompendogli la mandibola.
Il ragazzo a terra avrebbe voluto gridare, ma l’atroce dolore gli impedì di
combattere per aver salva la vita. In preda a dolorosi spasmi riuscì a
voltarsi, potendo così guardare in faccia il suo aggressore. Il viso di Katsuki
era bagnato da un paio di schizzi del suo sangue, e faceva comparire un sorriso
divertito. Sorrideva, il fulvo, mentre depositava il candelabro che teneva tra
le mani, sostituendolo con un barattolo di cetriolini in salamoia caduto fuori
da una delle dispense.
L’ultima cosa che
Kunitaro poté vedere furono gli occhi spaventosi del compagno di classe, prima che
quel grosso cilindro di vetro gli si esplodesse in faccia, infrangendosi in
mille schegge affilate.
- Hai sentito? – chiese
Eichi.
- Sì, quel coglione
figlio di papà avrà fatto cadere qualcosa – strinse i denti – Kunitaro! Che
cazzo stai combinando? – lo chiamò a voce abbastanza alta perché chi fosse al
piano di sotto potesse sentirlo.
Silenzio.
- Che diavolo – il capo strappò
la GoPro dalle mani di Eichi, la diresse verso la scalinata e si fece strada,
lasciando Eichi indietro.
- Yosai, dove vai? –
chiese allarmato l’amico.
Quello non gli rispose.
- Io resto qua sopra…? –
gli domandò, vedendolo allontanarsi sempre di più, sfavillando nell’aria con la
sua torcia del cellulare accesa – va bene, allora io rimango qui… - ripeté con
voce tremante.
Yosai si catapultò giù
dalla scalinata, sul pavimento di piastrelle costosissime, correndo accanto ad
un vaso cinese di inestimabile valore, rischiando di rovesciarlo a terra –
Kunitaro, che cazzo succede?!
Al piano di sopra, Eichi
si era nascosto nel bagno, seduto all’angolino più distante dall’entrata. La
torcia era spenta e il suo respiro affannoso gli mandava nei polmoni tutta la
polvere rimasta sulle superfici dei sanitari di ottone diventati scuri a causa
dell’ossidazione. Tossì all’improvviso, cercando di farsi più piccolo possibile
tra la toilette e la vasca da bagno. Non poteva sapere che Katsuki si trovava a
pochi metri da lui, nel corridoio che portava ad uno degli alloggi,
direttamente connesso alla cucina da una scala stretta e angusta, probabilmente
la camera della servitù. Camminava al buio, senza torcia, dopo venti minuti in
quella casa i suoi occhi si erano abituati. Aveva sentito che i ragazzi si
sarebbero divisi e aveva sfruttato l’occasione, beccando l’unico solo. Poi
aveva pensato di aggredire i due al piano di sopra, ma Yosai aveva rovinato i
suoi piani precipitandosi di nuovo giù per la scala. Stava cercando di decidere
quale fosse la strada migliore quando udì il colpo di tosse di Eichi
proveniente dal bagno, lievemente amplificato dalla eco di quella stanza. Si
fermò, imbracciò l’oggetto che aveva a tracolla, entrò.
Eichi non udì nulla fino
a quando, letteralmente a un metro da lui, Katsuki colpì involontariamente il
lavabo con il ginocchio.
- Chi c’è?! – si allarmò
quello, terrorizzato – Yosai? Kunitaro?
Eichi si palleggiò il
telefono tra le mani, nel tentativo di riaccendere una luce, ma riuscì solo far
brillare lo schermo nel buio. Il fulvo lo individuò. Si sentì un passo
vicinissimo, poi un oggetto di cuoio pesante cadde sul pavimento sul marmo.
Eichi diresse lo schermo davanti a sé, nel tentativo di vedere meglio. Illuminò
prima le gambe, poi il tronco e infine la faccia di Katsuki. Inizialmente,
credette di potersi tranquillizzare, se fosse stato in una posizione di
vantaggio, lo avrebbe facilmente sottomesso. Poi notò alcuni particolari: la
sua camicia era inzaccherata di sangue, il suo volto era contrito in un orrendo
sorriso mostruoso. Le sue braccia erano tese verso l’alto, brandivano un enorme
spadone polveroso, tremando sotto il suo peso. Katsuki non sapeva maneggiare
un’arma, ma aveva visto farlo a molti personaggi dei manga che leggeva nella
sua cameretta. Aveva sempre sognato di essere come loro. E aveva sempre odiato
gli sfottò dei tre bulletti, quando gli strappavano i fumetti dalle mani e
glieli spalancavano, spaginandoli irreparabilmente.
- Mammoletta, che ti
salta in mente?! Che diavolo stai…
Un fendente sgraziato lo
centrò a metà del trapezio, tra collo e spalla. La spada era arrugginita e
aveva perso il filo, restando per tanti anni chiusa dentro la sua guaina, poco
più di una vecchia reliquia appesa ad un muro. Per tale ragione, penetrò solo
di pochi centimetri, fermandosi alla clavicola. Eichi sentì un dolore atroce,
il freddo acciaio nella carne e il calore del sangue che iniziava a sgorgare
copioso, macchiandogli la camicia. Non riuscì neanche a gridare, tanto era il
dolore che lo piegava. Il suo cuore pulsava a ritmo elevatissimo, le sue
estremità erano gelide e il sudore imperlava la sua pelle bianchissima.
- Lasciami stare, Katsuki,
ti prego… - mormorò, con la voce strozzata – io non volevo neanche fartelo
questo scherzo, io sto con loro solo perché sono i più popolari, non mi diverto
a bullizzare gli altri… scusami…
Katsuki si guardò
attorno. Lasciandolo parlare.
- Scusami per tutti
questi soprusi… non te li meritavi… io sono come te… - balbettava Eichi – anche
io ero uno sfigato, prima… mi atteggio soltanto con la gente come Yosai, loro
stanno con me solo perché la mia famiglia ha i soldi… ti prego… ti prego…
Katsuki lo squadrò, la
pozza di sangue si era allargata e arrivò fino a toccagli la scarpa sinistra.
Posò lo spadone a terra, allungò la mano verso di lui.
- Oh, sapevo che
avresti… - accennò Eichi.
La mano di Katsuki lo
prese per i capelli, lo tirò, posizionandogli la testa sul sedile del water che
era proprio accanto a lui. Eichi sentì il metallo per l’ultima volta, ma
stavolta era ottone, più caldo e tenero dell’acciaio.
- Katsuki… - il ragazzo
piangeva, incapace di reagire.
Uno, due, tre, quattro,
cinque colpi di tavoletta. Qualcosa si ruppe, al buio era difficile capire
cosa. Qualcos’altro schizzò sui pantaloni di Katsuki. Qualcosa cadde nello
scarico muffito e pieno di calcare.
Katsuki si ritenne
soddisfatto. Tirò lo sciacquone, ma lo scarico era otturato e una mistura di
acqua putrida e sangue debordò, riversandosi sul pavimento del bagno. Il
ragazzo non se ne curò, uscì di lì e chiuse la porta, con espressione schifata.
Ne rimaneva soltanto uno.
Yosai arrivò in cucina,
facendosi largo fra le stoviglie e le pentole rovesciate a terra.
- Kunitaro, che cazzo è
success… - il ragazzino si bloccò, paralizzato dall’orrenda visione che gli si
parava davanti. La faccia massacrata di Kunitaro risplendeva di un rosso
cremisi, bagnato dal fascio luminoso della torcia del cellulare, riflessa nelle
innumerevoli schegge di vetro conficcate nella carne. Kunitaro giaceva steso
sul pavimento, lì, privo di vita. Yosai non riuscì a contenere un conato,
sentendosi mancare le forze e dovendo appoggiarsi a un muro per poi vomitare
anche la cena di qualche ora prima.
Il terrore gli aveva
irrigidito il corpo, sentiva la testa girare e lo stomaco ancora rivoltarsi al
solo pensare all’immagine del compagno morto.
Improvvisamente sentì
cinque colpi, secchi, sinistri, seguiti dal rumore di uno sciacquone.
Raggruppando le forze che gli erano rimaste in corpo, si precipitò verso
l’atrio; voleva fuggire, scappare da quella casa dell’orrore, non voleva
morire. Finalmente raggiunse l’ingresso, ma con sgomento s’accorse che la porta
era stata bloccata da una vecchia spada, incastrata fra le spesse maniglie
d’ottone. Provò a forzarle, una, due, tre volte invano.
L’improvviso rumore di
passi dietro di lui lo fece voltare bruscamente, lasciandolo in un angosciante
silenzio a scrutare nel buio attorno a lui, che rimaneva fitto nonostante la
luce del suo cellulare. Le mani gli tremavano talmente forte che non riuscì più
a tenere la GoPro in mano, facendola cadere e rompere al suolo. Sentì un
respiro accanto a lui e si voltò: nulla. Si voltò nuovamente: nulla. La
tensione lo stava divorando, il cuore stava per saltargli fuori dal petto.
- Dove sei?! – gridò
terrorizzato, sferrando pugni attorno a sé, nel tentativo di difendersi da
quella presenza oscura. Continuò ad agitarsi, finché non senti una forza
spingerlo da dietro.
Cadde a terra, facendo
scivolare il cellulare lontano da lui. Cercò di rialzarsi, ma il piede di
Katsuki lo spinse violentemente verso il pavimento, sbatté la testa.
Indolenzito provò a dimenarsi, venendo però colpito nuovamente, allo stomaco
questa volta.
- C-che cazzo credi di
f-fare… - sbiascicò con voce strozzata, stringendosi la pancia per il dolore.
Il fulvo non diede
risposta, colpendolo invece con una serie di calci sul fianco, in testa. Yosai
cercò di trascinarsi via da quell’inferno, strisciando in preda ad atroci
dolori su quel pavimento corroso dal tempo e dalla polvere. Riuscì a
raggiungere le scale, nonostante la furia del compagno di classe, aggrappandosi
a voltandosi.
- Basta, ti prego! –
supplicò disperato, vedendolo avvicinarsi. – Mi dispiace per quello che ti ho
fatto… ti prego… ti prego… - scoppiò in lacrime, implorando pietà.
- Non ti sei mai fermato
quando ero io a supplicare… - rispose stavolta il fulvo con un tono di voce
inquietante, mentre brandiva a fatica la spada di metallo. – Non ti sei mai
fermato… no… e perché dovrei io? – disse infine, alzando la spada.
- No! Ti prego… no! –
gridò terrorizzato, liberando le ultime parole che la sua bocca avrebbe potuto
pronunciare, prima di venir riempita dalla lama di quella spada arrugginita.
L’arma trapassò il
cranio del castano, conficcandosi in una fessura fra due scalini, tingendo con
un tiepido flusso rosso quelle scale marmoree, imbrunite dai decenni di
abbandono.
Era fatta. Kazuki
avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto, avrebbe dovuto sentirsi tranquillo, invece
non sentiva niente.
Si diresse verso il
portone, lo aprì, uscì sulla corte esterna. Respirò l’aria fresca di quella
notte appena scesa sul bosco Evopoli, si sdraiò sull’erba alta e umida.
Niente risate, nessuna
voce, c’era silenzio.
//Note di Doppiakappa:
Era dallo scorso Natale
che non scrivevo in gruppo, ed è passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta
che ho scritto qualcosa per Andy. Anche stavolta mi sono trovato assieme a Lev,
figata, ormai abbiamo una specie di intesa fra noi. Abbiamo fatto i salti
mortali per questo pezzo, usando il poco tempo libero che l’università ci
lasciava.
Alla fine però è uscito
un qualcosa di decente, mi sono pure divertito a scrivere questo inquietante speciale.
Confrontarmi con uno stile diverso dal mio è sempre un piacere, perché mi
costringe ad adattarmi, specialmente con Lev, che ha una forza trainante
notevole. Però alla fine ne esco sempre con qualcosa in più, e spero che questo
qualcosa si possa captare dalle righe che ho, che abbiamo scritto.
Che dire… mi auguro
questa collaborazione vi sia garbata e spero di trovare il tempo per portarvi
nuovamente qualcosa di mio. Passate un buon Halloween!
~KK
//Note di Lev
Come dice KK, è stato
difficile riuscire a produrre con i pochi momenti liberi di cui disponiamo, ma
stiamo dando del nostro meglio (il “nostro meglio” comprende anche il ritardo
elegante, ridete). E’ divertente creare roba del genere durante le ricorrenze,
perché anche se non ci sentiamo da settimane e siamo tutti in giro per il mondo
a sprecare la nostra gioventù, si crea sempre collaborazione e spesso ci scappa
pure qualche telefonata condita da chiacchiere e bestemmie durante il processo.
Io, personalmente, spero solo di tornare presto in pubblicazione seriale. C’è
molta carne al fuoco, ma io avrei bisogno di una giratempo…
Buon Halloween a tutti,
aspettatevi presto mie notizie!
~Lev
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