Ogni
passo che poggiava su quei marciapiedi bagnati pareva pesasse un paio di
tonnellate. E le vedeva, le persone che camminavano accanto a lui, che vivevano
tranquillamente le loro vite come se nulla fosse accaduto.
“E certo…” pensò Lucas. “Loro non sapevano neppure chi diamine
fosse, Lucinda. Loro non sapevano che i suoi occhi fossero di quel grigio
scuro, che quasi diventavano azzurri quando era al sole. E quando succedeva
spesso sorrideva. E aveva il sorriso più bello del mondo. Ma loro… tutti loro…
Loro non sapevano nulla di lei…”.
Lo
zainetto gli pesava sulle spalle, lo tirava in basso e lo costringeva spesso a
tirare verso l’alto le spalline sdrucite, un tempo imbottite, con la mano che
non teneva l’ombrello rosso.
Eppure
tutti rimanevano calmi, tranquilli, consapevoli che la giovane ragazza che
aveva perso la vita qualche giorno prima era una loro concittadina.
“Ma come fate?”.
Girò
l’angolo del vecchio palazzo fatto di mattoni bianchi, se si fosse voltato non sarebbe
più riuscito a vedere casa sua. La piazza davanti a lui era gremita di persone,
nonostante quello fosse un maledetto giovedì. Qualche ragazzino aveva saltato
la scuola e stava mangiando del pane dolce seduto sotto i porticati del centro,
mentre un paio di persone in doppio petto sorpassava un gruppo di anziani
armati di dentiera e bastoni intarsiati. Due signore, sulla destra, parlavano
divertite di qualcosa di cui, a Lucas, onestamente non interessava nulla.
Teneva il volto basso, lui, cercando di camminare senza sbattere su niente e
nessuno, mettendo i piedi sempre al centro delle mattonelle, senza mai toccarne
i bordi.
Lo
faceva da quand’era piccolo.
-
Non sapete manco come si chiamava… - sussurrò, tra i denti, stringendo i pugni
e trattenendo le lacrime più che poteva. Una ragazza di una decina d’anni in
più a lui lo guardò torva, mentre gli sfilava accanto. Lui non se ne accorse e
continuò a camminare, attraversando di netto la piazza, piangendo senza che
nessuno se ne accorgesse e accorgendosi dolorosamente di quanto quel mondo
fosse totalmente insensibile alle cose gravi, se non lo colpiva direttamente.
Ne
aveva parlato anche con Barry, la sera prima, e lui era d’accordo.
- Pare che non sia
successo nulla – aveva detto il ragazzo dai capelli biondi mentre, steso sul
letto e con le gambe accavallate, lanciava in aria una pallina per poi
riprenderla. Lucas invece era immobile alla finestra, poggiato sul radiatore
bollente, nel tentativo disperato di prendere un po’ di calore alle mani.
- Il problema credo
sia proprio quello, Barry. Loro non sanno nulla.
- E che dovrebbero
sapere, scusa? Per loro è soltanto una ragazzina sconosciuta morta uccisa da un
cazzo di Graveler.
- Tsk. Dovrebbero
saperlo, invece…
Barry aveva
sospirato, poi aveva voltato lo sguardo limpido verso di lui e lo aveva
squadrato per un timido istante. Aveva lasciato che la pallina cadesse proprio
accanto alla sua testa, col braccio ancora teso verso l’alto.
- Cosa?
Erano poi passati due
secondi, Lucas guardava dritto senza neppure respirare, perso in un vuoto senza
fine che cominciava dietro le sue iridi sporche di lacrime.
- Cosa, cosa? –
aveva chiesto.
- Cosa, dovrebbero
sapere?
Si era quindi
voltato verso Barry, il ragazzo dai capelli scuri, passandovi una mano
attraverso, li aveva scarmigliati, poi aveva sospirato stremato.
- Come, cosa?
Barry aveva
sorriso, quindi aveva sollevato la schiena dal letto. Aveva raccolto la
pallina, solo per lanciarla delicatamente in direzione dell’amico, che si era
lasciato colpire al braccio destro, prima di vederla rotolare sotto la
scrivania.
- Io credo che, per
quanto brutta sia tutta questa situazione, non possiamo dare la colpa della
morte di Lucinda alla gente di Flemminia.
- Credi che mi
manchi qualche rotella?! È appena morta una ragazza che non aveva neppure
diciott’anni, Barry… E tutti… bah! – aveva sbuffato Lucas, guardando oltre il
sipario della condensa che era poggiato sul vetro della finestra.
- Tutti cosa?
- Come, cosa?!
Tutti stanno vivendo normalmente! Era Lucinda! – aveva esclamato ancora,
alzandosi in piedi e tirando un pugno all’aria. Aveva quindi alzato la testa,
cominciando a gridare contro il cielo. – Era necessario?! Era davvero
necessario che te la portassi via?! Ora?! Davvero?! Non poteva morire qualcun
altro?!
- Già… - aveva
sbuffato anche Barry, alzandosi. – Questo posto è pieno di vecchi di merda.
Moriva uno di loro al posto di Lucinda e tutto a posto.
- Già! Invece no!
- Invece no…
- Invece no! Invece
è morta la ragazza che…
Si era bloccato
subito dopo. E lo ricordava perfettamente, lo sguardo di Barry.
Sguardo
indagatore.
Lasciò
che le spalline dello zaino affondassero grevi tra il collo e le spalle, mentre
il corpo dell’ombrello, fatto di quel freddo alluminio pronto a piegarsi al
primo soffio di vento, gli sbatteva contro il muso. Il manico era fatto in
legno, o forse era plastica, ma al primo segno di vento forte lo strinse come
se fosse la cosa più preziosa che avesse.
Intanto
passò davanti il negozio d’abiti della zia di Barry, la signora Gloria, che lo salutò
agitando la mano, oltre le vetrine illuminate. Lui fece finta di non vederla,
concentrato a non dimenticare il volto di Lucinda.
Sì.
Perché
era quella la cosa che più lo preoccupava.
Guardava
la sua mano destra, nascosta dalla sorella e stretta attorno al manico
dell’ombrello, e intanto la ricordava avviluppata al guantino di lana rosa
della ragazza, quando qualche giorno prima l’aveva tirato via.
E
a lui era piaciuto. Era piaciuto davvero tanto, perché per la prima volta s’era
sentito accettato da qualcuno; non era più il ragazzo silenzioso, il
bonaccione, quello troppo buono che però si faceva fottere, quello leggermente
sovrappeso, quello fesso, quello poco attento.
Da
quando Lucinda gli aveva stretto la mano lui era un ragazzo del tutto nuovo, più
carico, più pieno di sé.
Finalmente
vivo, sfuggito da quella cortina buia che lo divorava dalla base.
E
poi se n’era andata, e tutto era ritornato più forte di prima. Ma quel tutto,
quel tutto negativo e inutile, aveva trovato un nuovo vicino, del tutto
inaspettato.
Ed
era la rabbia. Alzò lo sguardo al cielo, grigio e rimestato, come se qualcuno
avesse gettato le nuvole nere alla rinfusa e fosse andato via. E fu proprio
guardando quelle nuvole che pensò alla domanda che seguiva ogni suo respiro, da
quando aveva visto il suo corpo senza vita.
Perché hai dovuto
levarmela così presto, Arceus?
C’era.
Era
lì.
L’aveva
presa. Lo sentiva che anche lei gli fosse accanto, che non fosse il solo a
viversi quella situazione in quel modo.
Sapeva
che fosse reciproco.
Percepiva
le sue intenzioni, aveva capito che fossero le stesse e già pensava al dopo,
senza viversi il durante. Perché il durante di quella scena, di quella stretta
di mano, di quell’intesa, era come un infarto. Sì.
Ma
più bello di un infarto.
Qualcosa
che cercava costantemente da tutta la vita, che non era mai riuscito ad
ottenere.
D’altronde
era soltanto una mano che ne stringeva un’altra, ma in quel gesto così
insignificante, Lucas aveva visto finalmente l’accettazione da parte di
qualcuno. E quel qualcuno aveva gli occhi di zucchero, le labbra più rosse e
carnose che avesse visto, i capelli più profumati che avesse odorato, e la sua
stessa voglia di vivere la vita superando gli ostacoli.
Assieme.
Barry
lo aveva capito, la sera prima, quando lui aveva troncato di netto il discorso,
mentre lo stava urlando. Lo aveva guardato come se gli avesse fatto un torto,
ma ci pensò soltanto per un secondo, prima che il volto di Lucinda riapparisse
come un segnale di stop nella sua mente.
Anche
se l’aveva persa, non doveva dimenticarla. Non poteva.
E
anche se odiava quel timido paese nato dalla valle, sommerso dalla nebbia,
stanco e sonnacchioso, non poteva permettere che qualcun altro, qualcuno come
lei, perdesse l’occasione di vivere una vita assieme alla propria Lucinda.
Il
pullman per Canalipoli stava aspettando solo lui, disteso lungo il parcheggio
dello stazionamento.
*
Quando
la biblioteca gli si parò davanti vi entrò convinto.
Il
parquet scricchiolava sotto i suoi passi grevi, ormai le spalle dolevano e, quando
raggiunse un piccolo tavolo rotondo in legno, proprio al centro della sala, fu
quasi piacevole abbandonare lo zaino su di una poltroncina dallo schienale di
velluto rosso.
Non
era la prima volta che entrava in quel grande edificio; l’aveva visitato diversi
anni prima in gita con la scuola, e poi successivamente, assieme a Rowan e
Barry, in cerca di informazioni maggiori sull’evoluzione dei Pokémon.
Ricordava
che fosse venerdì, e che fosse contento che il giorno dopo fosse sabato. Dolce
far niente, insomma.
Rinsavì,
alzò gli occhi, spaesato ma ben determinato ad avere le risposte che cercava.
Al grande bancone principale, immersa nel silenzio assordante, vi era un
giovane ragazza, un po’ tondetta, dai capelli neri e corti, acconciati in un
carré spettinato sulla fronte. Indossava grandi occhiali e un maglioncino di
filo azzurro, che stringeva forse un po’ troppo sul petto voluminoso. Oltre le
doppie lenti, gli occhi azzurri fissarono quelli confusi di Lucas, che intanto
leggevano il nome scritto sulla targhetta che aveva appesa al collo.
Elisabeth,
c’era scritto.
-
Posso aiutarti? – chiese, sbattendo delicatamente gli occhi più di un paio di
volte, per poi rialzare con l’indice la montatura e spingerla contro la fronte.
L’unghia era interamente mangiucchiata, ma Lucas rimase ipnotizzato per un
timido attimo dallo smalto arancione.
-
Beh, in realtà sì...
Quella
sorrise cordialmente. Da guancia a guancia le labbra carnose diventarono un
filo sottile e carminio, come il rossetto che indossava. Subito dopo annuì,
come a invitarlo a spiegarle tutto.
-
Beh... io venni qui circa... quattro anni fa. E lessi un libro sul Pozzo
Memoria...
-
Oh – annuì ancora quella. – Sì. Parli di quella vecchia costruzione prima di...
-
Di Flemminia, sì. Il libro parlava di una leggenda...
Quella
continuava a guardarlo, pronunciando le labbra e guardando in alto. Lucas però
guardò in basso, cercando di visualizzare meglio ciò che cercava.
-
Aveva la copertina in pelle. Era molto vecchia, marrone... consumata. E le
pagine erano sicuramente ingiallite. E non era stampato come gli altri, no...
-
Ho capito – annuì l’altra.
-
Era scritto a mano – continuò Lucas, battendo l’indice sul bancone. – E aveva
una sorta di...
-
Di fascia, per chiuderlo.
-
Esatto!
-
So dov’è... – sorrise, muovendosi lentamente e scendendo dallo sgabello, che la
faceva sembrare molto più alta di quanto in realtà fosse.
-
Seguimi – disse poi, facendogli strada attraverso il vasto corridoio. Le tante
persone che avevano attorno non alzarono minimamente lo sguardo, rimanevano
concentrati sui tomi che stavano leggendo, e quasi sembravano infastiditi dal
lieve scricchiolio dei loro passi sui listelli del pavimento di noce. Li
superarono quasi subito, si tuffarono in uno dei ventisei corridoi gemelli e fu
lì che quella si fermò.
-
Allora... – fece, portando l’indice sulla punta del naso, mentre gli occhi
vispi guardavano in alto, sulle mensole a più di cinque metri d’altezza.
-
Si trova qui? – domandò Lucas.
-
Sì.
-
Dove?
-
Qui. Da qualche parte. Sto cercando di... sì...
Allungò
il passo breve e raggiunse l’alta scala d’alluminio. Raggiungeva in altezza,
addirittura superava, l’intera libreria, e contava più venti pioli. Elisabeth
la spinse più in là, viaggiò sul suo binario fino a raggiungere quasi la fine
dell’enorme mensolone. Poi annuì di nuovo e portò le mani ai fianchi.
-
Trovato? – domandò ancora il giovane, sentendo qualcuno zittirlo, nascosto da
qualche parte, in qualche corridoio.
-
Sì. È qui.
-
Bene – annuì Lucas.
-
Vieni.
Il
ragazzo aggrottò la fronte e cominciò a camminare.
-
Lo hai già preso e non me ne sono accorto?
-
No – distolse lo sguardo, quella, quando il giovane la fissò. – Sali tu. Ho
paura dell’altezza.
-
Oh… Okay.
E
così il nostro eroe si ritrovò in bilico su di una scala di più di sei metri,
avvinghiato a ogni piolo, che saliva sempre più in alto. Le mani sudate erano
il suo più grande timore, ma Elisabeth gli aveva garantito che avrebbe
mantenuto la scala e che lo avrebbe retto, anche se avesse dovuto reggere il
peso di due quintali.
-
Non peso due quintali.
-
Lo so. Vai. All’ultimo scaffale, è l’ultimo sulla sinistra.
Lucas
allungò l’ultimo passo, sorpassando la sommità della libreria e riuscendo a
vederne la polvere che vi si era poggiata. Poi si concentrò sui tomi, e tra
decine e decine di volumi che parlavano di Flemminia, della Torre Memoria, dei
campi che la accerchiavano e dei metodi di coltivazione, lo vide.
Era
lì.
Pelle
sdrucita e pagine ingiallite, già ne sentiva l’odore. Lo afferrò elettrico e
non si accorse d’esser sceso dalla scala con una sola mano, mentre stringeva il
libro con l’altra. Quando poggiò i piedi a terra lo guardò meglio, lo aprì e
lesse in prima pagina.
Le 108 Anime perdute
-
Se non sbaglio era proprio questo… - sospirò.
-
Sì, è questo – s’inserì la ragazza, sistemando nuovamente gli occhiali sul
naso. – Ti chiedo solo di fare molta attenzione…
-
A cosa? – chiese poi Lucas, guardandola dritta negli occhi azzurri.
-
È un manoscritto, è molto vecchio e non vorrei che venisse rovinato proprio
durante il mio turno…
Lui
storse le labbra e sospirò.
-
Sì, tranquilla.
-
Grazie.
E
andò via sculettando.
Otto
secondi dopo Lucas era seduto al tavolino al centro della biblioteca. La luce
era fioca ma non ci aveva fatto troppo caso. Era piegato in avanti, le pagine
del libro erano spalancate davanti a lui. E cominciò a leggere.
“Dal destro fianco del Corona, assorto
lambisce l’orizzonte e
l’incarminia
ogne filo di sol e dà
conforto
all’ombrosa quïete di
Flemminia.
Le nubi al confluirvi,
quale sabbia
del deserto che
s’espande e raggruma
ma tutto copre,
egualmente una gabbia
strinser d’intorno
d’assonnata bruma.
Dolce pension fu alle
nebbie ‘l paese
che vi restarono: un
cirro esplorava
le vie battute, un
nembo erba e maggese
nutriva, un altro i
ruderi ammirava
e tutte soggiornaron
nove anni,
mentre del borgo
l’oscurate genti
vissero cieche, ignare
de li affanni
e de le gioie altrui,
cieche e dormienti.
Al decimo, il
centottesimo giorno,
l’alba trafisse l’atra
coltre a lutto
e ‘l popol finalmente
fé ritorno
alla passata vita. Ma
non tutto:
la Morte entrò nel
buio e fu compagna,
di giorno in giorno,
d’uomini diversi.
In lor cent’otto il
sonno ancor ristagna,
eterno, e niun notò
d’averli persi.
O anime rapite,
vagabonde
senza fine, senza
riposo omai,
sian le esequie dei
corpi almen feconde
d’una memoria che non
muoia mai!
Così lo padre Zantus
reverendo
benedisse le salme del
rapace
destino, in piazza una
lastra affiggendo
di fiori ornata che
dicea: Qui giace
Caitlin
Giuseppe
Tyrone
Crissy
Ernestine
Kayla
Dorothea
Pablo
Trang
Brigida
Demarcus
Leana
Ester
Bridgette
Niesha
Jennine
Karole
Kendal
Elwood
Keesha
Jayna
Leopoldo
Louvenia
Kerrie
Geralyn
Sherri
Yen
Beverlee
Adell
Dannie
Kirsten
Yuette
Tifany
Rick
Eve
Monte
Gertrudis
Matt
Latrina
Ervin
Edwin
Clemente
Celeste
Rosanna
Tonda
Jenice
Candelaria
Keith
Lydia
Marlo
Natisha
Gabriella
Doretta
Elissa
Adelina
Edgar
Stasia
Rosalie
Angila
Jayson
Lavelle
Rosalind
Perry
Jamar
Priscilla
Esta
Cornelius
Maybelle
Marvin
Rita
Odell
Vivian
Claudia
Willodean
Dania
Eloisa
Annamae
Jaleesa
Edith
Marcellus
Dorian
Desmond
Herman
Letha
Angela
Merrill
Dahlia
Emmy
Cyril
Christian
Shana
Jacquie
Marjorie
Stephanie
Joanna
Hiroko
Nicolette
Brianne
Sena
Donnell
Tameka
Damien
Melida
Dwain
Viola
Alba
Daisey
Marcela
Dormì
Flemminia quella notte in pianto,
nel
pianto si svegliò, due volte trista:
altre
cent’otto vittime, dal manto
della
notte nascoste all’altrui vista.
Al
rito funebre ed a tutte l’ore
negl’occhi
del vicin come allo specchio
ciascun
si vide, nel comun timore
d’essere
‘l prossimo, giovine o vecchio,
e
‘l terzo giorno una terza ecatombe
travolse
‘l volgo, imparziale, invisibile.
Tremante,
padre Zantus tra le tombe
sentenziò
un sol rimedio al mal terribile,
un
sacrificio concorde, alla luce
del
ritrovato sol, con sepoltura
in
fossa esposta al ciel che riproduce
per
l’alme erranti domestiche mura.
Nessun
sorriso, unanime consenso;
nessuna
voglia, soltanto impazienza.
Fu
giorno di lavor comune, intenso,
ma
di posar non si sentì esigenza.
Un
pozzo alla memoria fu scavato,
cinto
di massi e con antro per l’urna
creata
ex novo, subito abitato
da
l’agnello de l’espiazion diurna:
la
bimba, estratta, fu mandata al rogo
e
‘l ciner suo serbato ne la roccia;
posta
nel pozzo, come a dare sfogo
a
sete rïarsa basta una goccia,
così
le schiere spettrali fur sazie
seguendola
e non emersero più.
Flemminia
ancor compiange e rende grazie
alla
piccola dolce Mary Lou.”.
A Lucas bastò una lettura, una
sola lettura di quelle pagine, per riuscire a comprendere la situazione.
Rabbrividì.
Chiuse il libro e lo infilò nello
zaino, per poi scappare fuori, dimenticandosi l’ombrello sotto la sedia e
immergendosi nella tempesta.
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