Against Me
Quando tutto cade.
Hoenn,
Solarosa, 18 giugno 20X1
Quando
quel mattino si svegliò, rimase a fissare il soffitto per un paio di minuti
buoni: la cornice di stucco che girava attorno al lampadario stava diventano un
ricettacolo di polvere. Avrebbe dovuto pulirla, e sapeva pure dove fosse lo
straccio, nel mobile del bagno, ripiano in basso.
Era
la voglia che mancava.
Erano
diventate davvero rare le volte che passava a letto, nel suo letto, e quasi sempre coincidevano coi collassi psicofisici che
l’aggredivano ciclicamente. Sospirò, la maglietta sudata le si era attaccata
sulla pelle e le zanzare quella notte le avevano aggredito le cosce.
Sospirò
e allargò le braccia, e l’altra parte del letto era ancora vuota.
“Ovviamente...”.
Si
domandava cosa si aspettasse, del resto: Ruby aveva cominciato una nuova vita,
con una nuova donna, un nuovo lavoro, delle nuove responsabilità.
-
Cazzo... – sospirò poi, voltandosi verso il suo cuscino e cercando inutilmente
qualche scia del suo odore rimasta nascosta tra le pieghe delle federe, ma
ormai tutto sapeva di chiuso e stantio; tutto era diventato immancabilmente
piatto, eppure era andato via da ormai tanto, troppo tempo. Sospirò, cercando
di appigliarsi alla realtà e di trovare la forza di non pensare, ma inciampava fin
troppo spesso in quelle pozzanghere di catrame, ricche di malumore e ricordi
che faticavano a decollare, a lasciarla andare.
Forse
tutto risiedeva ancora lì, tra quelle quattro mura, e la difficoltà di
accettare quell’uomo lontano da lei si stava manifestando in quel modo, con la
tremenda difficoltà nell’abbandonare la loro casa. I suoi occhi blu si
nascosero per qualche secondo dietro le palpebre, difendendola da quella che
doveva essere l’ennesima nuova giornata, quella dell’ennesima svolta, che stava
aspettando da un anno o giù di lì.
Si
chiedeva se era di un altro uomo che avesse bisogno. Insomma, non assomigliava
a Yvonne ma di certo non era da buttare. Sospirò e carezzò il suo corpo,
saggiandone tutte le curve, tutte le depressioni, tutte quelle che prima erano
le sue morbidezze ed erano diventate parti più dure. Ferma con le dita sul
seno, sospirò.
“Un tempo forse
erano più sode... Insicurezze da donne. Tutte le donne hanno questi complessi
sul seno, no?”.
Il
fiato fuggiva attraverso le labbra schiuse. Non si guardava allo specchio da
troppo, per paura di trovarci le rovine di quello che un tempo reputava se
stessa. Rifletté, passando da stesa a seduta, capendo che non avesse bisogno di
un uomo per definire la persona che fosse.
Perché
per farlo, chiaramente, doveva trovare prima se stessa.
“Trovare me stessa...”.
Lo
specchio era davanti a lei, ma i suoi occhi non riuscivano a scorgerne il
riflesso.
“Eppure dovrei
vedermi. Il mio riflesso dovrebbe essere lì.
E non c’è.
Forse perché è vero
che mi sono persa...”.
Il
panico l’attanagliò subito dopo, aggredendola feroce e strappandole a morsi il
respiro. Sentiva spingere la paura dall’interno del proprio corpo, e i muscoli
dell’addome contrarsi. L’aria nei polmoni diventava sempre minore, la stanza
attorno a lei si chiudeva sulla sua testa, costringendola ad abbassarsi, e la
premeva contro il pavimento.
“Basta!”.
Sempre
più stretto, sempre più soffocante, quel luogo la stava divorando. Il calore le
bruciava le tempie, le mani, le cosce.
“Basta! Basta, ti
prego, dio, basta!
Ho lottato contro
cose ben peggiori! Contro avversari più cattivi di me stessa!
Devo riuscire a
vincere!”.
Si
sforzò di alzarsi, di spingere con le spalle il soffitto e sollevarlo, ma le
gambe facevano male, l’ossigeno mancava e tutto ciò che rimaneva era
disperazione e impotenza. Fu schiacciata nuovamente, con più forza e veemenza.
-
Aiuto! - urlava. - Aiutatemi!
Il
cuore batteva sempre più forte, suonava un charleston perpetuo, sfiancante, doloroso.
E
la portò a chiudere gli occhi.
Alle
sei e quarantasette del mattino, Sapphire fu sconfitta da se stessa.
Poi
spalancò le palpebre.
Era
tutto un incubo, per fortuna.
*
“Porca
puttana...”.
Ansimava,
sudata e impanicata. Sentiva la bocca impastata, desiderosa d’acqua, mentre lo
stomaco reclamava cibo e il lenzuolo sul quale aveva dormito era finito tutto ai
suoi piedi, sgualcito. Era stesa sul materasso. Doveva essersi agitata
parecchio.
Non
ricordava il sogno che aveva fatto ma era sicura che riguardasse Ruby.
Sbuffò,
alzò gli occhi e affondò la testa nel cuscino.
-
Non riesci ad andare mai via... vero? - sussurrò, tra i denti.
E
la cosa neppure la sconvolse, dato che, dopo quasi un anno, quell’uomo stentava
a uscire dalla sua vita. Eppure aveva deciso di dare un taglio netto a quello
che era il passato, con le famiglie unite, e gli stessi posti frequentati, i
vestiti che aveva fatto per lei, le persone che avevano in comune.
Ogni
cosa.
“Ogni fottuta
cosa...”.
Aveva
persino deciso di lasciare Albanova, spostandosi nella più ridente Solarosa,
dando tre mandate alla serratura di casa e lasciando le chiavi a suo padre.
- Te ne vai
davvero...
- Sì. Ma sono a
cinque minuti di macchina da qui, papà...
- E col lavoro?
- Sono a cinque
minuti di macchina da qui, papà...
E
in effetti era nella sua nuova camera da letto. La sua nuovissima camera da
letto, ancora spoglia e senza personalità, come ogni stanza in cui si è entrati
da poco. C’era ancora il cellophan sulle ante dell’armadio, e la moquette era
soffice e profumata.
Installata
da neppure sei settimane.
Del
resto i soldi non erano un problema.
- Ma sei sicura di
riuscire a gestire tutto, stando da sola?
- Papà! Ho
ventisette anni! E vado a vivere nel paese accanto, se tu urlassi di notte probabilmente
riuscirei a sentirti!
- Io mi preoccupo
per te...
- E lo so. Ma se mi
ami, e so che mi ami, fammi andare via da questa prigione...
- Uhm... e la mamma?
Come la metti con la mamma?
- La mamma già sa
tutto, papà. Dovevo dirlo solo a te. Ah, ovviamente, nella remotissima
eventualità che il mio ex ragazzo si presenti alla tua porta chiedendoti di me,
tu non gli dirai nulla e lo colpirai
forte sulle palle...
- Come vuoi...
- Ci conto. Soprattutto
per quella cosa delle palle.
E
così era cominciata la sua nuova vita.
Con
l’ansia, gli incubi, il frigorifero perennemente vuoto e un’insana vocazione
per la cucina in scatola. Era la regina del tonno sott’olio.
La
duchessa dei sottaceti.
Non
aveva tanto tempo durante la giornata, e nonostante Solarosa fosse un centro
abitato leggermente più grande di quello da cui proveniva, l’unico supermercato
aperto oltre l’orario di chiusura del laboratorio era a dieci minuti da casa
sua, e spesso non aveva voglia di farsi una scarpinata, per finire a mangiare
verdura fresca e un secondo piatto decente. Di tanto in tanto sua madre le
portava una doggy-bag piena di avanzi del pranzo, ed era come fosse domenica.
Sapphire
non era per niente una cuoca. No.
Era
troppo materiale, non capiva la poesia del cibo.
Quello
che cucinava, del resto, era quell’altro.
Quello coi capelli neri e gli occhi rubini, quello con la cicatrice sulla
fronte, l’innata abilità per le attività pseudo-femminili e la carriera di
stilista intrapresa da appena un anno.
Quello
con la fidanzata col culo alto e abbronzato.
Sapphire
invece aveva la cellulite.
-
E anche oggi fanculo al mondo... - fece, levando la maglietta e lasciando
cadere le mutandine verso il pavimento. Le avrebbe raccolte dopo.
Sfilò
verso il bagno e aprì l’acqua della doccia, aspettando che raggiungesse prima
la temperatura massima, per poi regolarla fin dove la sua pelle non rischiasse
l’ustione. Sospirò e ripensò a Yvonne.
Poi
mise le mani sotto al seno e lo sollevò.
Ricadde
subito dopo, pesante, mentre gli occhi blu fissavano le imperfezioni della
pelle del volto, i capelli spettinati e le labbra screpolate.
-
E questa è una donna vera... - disse, come faceva ogni mattina, quasi per
convincersi di essere dalla parte giusta della contesa. Inconsciamente non si
rendeva conto di mettersi perennemente in competizione con una modella, una
donna perfetta anche quando non lo era, che parlava tre lingue e che aveva più
seguaci su Instagram che capelli sulla testa.
-
Come se contassero qualcosa...
L’acqua
continuava a scrosciare alle sue spalle, mentre il pensiero di quei due assieme
l’attanagliava e la costringeva a essere forte, più del solito.
Il
suo riflesso nello specchio le mostrava una donna smagrita e dal viso stanco.
Sì, belli gli
occhi. Belle le lentiggini sul naso.
Ma Ruby ha scelto
di meglio.
Bah! Fanculo quel
finocchio!
-
Fanculo quel finocchio... - sussurrò, prendendo l’asciugamano che avrebbe
avvolto poi sulla testa e lanciandolo contro la sua immagine apatica.
Si
voltò e si gettò sotto il getto caldo dell’acqua, lavando via l’angoscia
notturna e annegandola in una schiuma dal profumo di patchouli. Ma quando la
doccia finiva, dopo che il calore aveva sgonfiato quell’ansia con cui conviveva
da ormai troppo tempo, rimaneva da sola a fissarsi nello specchio, coi capelli
bagnati, forse un po’ più lunghi di come li portava sempre, e sul suo viso non
vi era altro che stanchezza.
Stanchezza
di tutto, forse anche di ciò che non aveva ancora ma che l’avrebbe aspettata di
lì a poco. Perché Sapphire lo sapeva, mentre strofinava i capelli
nell’asciugamano, seduta in slip sul letto, che non sarebbe durata per sempre,
quella fase.
Sapeva
che la vita l’avrebbe trascinata via assieme a quei pensieri, e che si sarebbe
probabilmente ritrovata sulla riva di fiumi più limpidi. Tutto stava
nell’aspettare che a monte fosse finita la tempesta.
Tutto
stava nel sopravvivere, intanto. Nel non buttare tutto.
Usare
ogni risorsa a disposizione.
E
lei che aveva, per non morire? Che cosa le era rimasto? Quel paio di occhi blu,
che avevano visto le persone mentire? O una testa che doveva ricordare cose che
non voleva?
No,
non poteva fare quel discorso; Sapphire non era il tipo che rimaneva impresso
nella mente delle persone. O meglio, era la sua attitudine a colpire la gente,
e non il suo portamento elegante.
Non
ne aveva, lei, di portamento elegante.
Aveva
soltanto sonno, e caldo, e sete, e di lì a poco avrebbe indossato l’armatura e
sarebbe andata a lavorare.
Sbuffò
e perse i restanti venti minuti ad asciugare e ad acconciare i capelli in
quello che pareva essere il suo taglio migliore, forse un po’ spettinato sulle
punte. Cominciava a farsi rivedere il segno della ricrescita, e forse avrebbe
dovuto usare quella maschera che le aveva regalato Orthilla per levare le
impurità sulla pelle.
La
pelle. La guardò.
-
Grassa.
Capelli.
-
Grassi.
Labbra.
-
Screpolate. E senza trucco sono ancora più cessa di quello che sono.
Eppure
sapeva che non avrebbe dovuto buttarsi a terra in quel modo, e che ogni cosa si
sarebbe sistemata. Sì, quella quiete che mitigava dopo la tempesta.
Poi
saltò nei vestiti e si ritrovò al piano di sotto, e il silenzio l’aggredì di
nuovo. Guardava i muri ballare, i quadri spostarsi, il vento soffiare attorno a
lei e la luce scappare via. Era rimasta all’improvviso di nuovo sola, al
freddo, mentre grondava sudore congelato e il cuore batteva.
E
la voce stronza tornava a farsi sentire.
- Non sei
abbastanza. Forse non lo sei mai stata. Forse non lo sarai mai.
-
Fottiti!
- Sei stata il suo
rincalzo fino a quando non ha trovato quella cavalla. Forse dovresti truccarti
con più attenzione, e forse con quella maschera farai meno schifo. Ma farai
schifo lo stesso.
-
Ma che cazzo vuoi! - urlò lei.
Il
vento soffiò più forte, le pareva quasi di perdere l’equilibrio. Doveva andare
a lavorare, per spingere quella sensazione di incompiutezza lontana da lei ma
ormai non vedeva più la porta.
-
Sei una merda. Sei ridicola.
E
fu in quel momento che la rabbia caricò il colpo, si riversò attorno ai polmoni
e li compresse, e fu quasi sfinente trovare la forza necessaria per riempirli e
urlare.
Urlare
al mondo.
“LO SO!”
*
Non
sapeva quanto tempo fosse passato.
Era
stesa per terra, col viso sul parquet polveroso e poggiava la fronte contro il
tessuto del retro del divano. Le unghie avevano graffiato il pavimento, il
trucco si era sciolto, aveva creato con le lacrime una striscia nera che le
attraversava in orizzontale la guancia e le baciava le labbra.
Sbatté
le palpebre per qualche secondo, e poi tirò dentro tutta l’aria che era
possibile immettere nel corpo.
-
Porca troia infame... - biascicò, mentre la testa doleva. Poggiava sul braccio
sinistro, il polso era piegato sotto il divano. Doleva, pareva essersi slogato.
Il
braccio destro invece era davanti al suo volto. La mano stringeva ancora il
cellulare.
Era
quello, che faceva tutto quel casino.
-
Cazzo... - sospirò, vedendolo squillare. Ed era così impotente che anche la
semplice azione di strisciare il dito sullo schermo le pareva del tutto
insormontabile. Ed era così complicato stare in pace con se stessa che il
semplice rendersene conto le montava in corpo una rabbia senza precedenti.
Lei
odiava.
Odiava
quell’uomo, odiava quella donna e odiava se stessa per essersi messa in quella
situazione, che non poteva fare altro che subire a ogni respiro che emetteva.
Il telefono squillava e lei continuava a odiare, a immagazzinare quel dolore
che sembrava non avere fine, e che sarebbe uscito prima o poi, rompendo
qualcosa.
O
qualcuno.
La
sentiva, quell’onda nera, mentre si trascinava nel suo corpo e sporcava le sue
viscere, insozzava i polmoni, costringeva il cuore, lo spremeva fuori dal loco.
Lo sentiva in gola.
Buttò
fuori l’aria sporca, respirò con la bocca e le lacrime vennero fuori a loro
volta.
E
non sapeva perché.
Si
morse le labbra e spostò poi i capelli davanti agli occhi, blu e ormai
inzaccherati di quello che rimaneva del suo trucco sciolto.
Si
sedette lentamente, mentre il pianto squassava il suo petto e la costringeva a
prendere grandi boccate d’aria. Sapeva di dover andare avanti, di doversi
buttare tutto alle spalle, e lasciò andare la stretta dal telefono, prima di
graffiare con le unghie il parquet.
Sentiva
che stava costringendo in una sfera quella materia nera e malvagia.
Sentiva
che stava per controllarla.
Pensava
a Ruby, le lacrime scendevano e lo faceva anche la pioggia, oltre la porta
d’ingresso che aveva davanti, ma tutto quello non faceva altro che permetterle
di manipolare quel malessere, raggrupparlo tra lo stomaco e polmoni e aspettare
il momento adatto per tirarlo fuori.
E
successe. Successe quasi subito, e Sapphire urlò come una dannata, disperandosi
e perdendo la voce per quanto stesse stressando le sue corde vocali. E il
telefono continuava a squillare, e la pioggia s’infittiva oltre le tende
polverose del soggiorno buio.
-
TI ODIO! TI ODIO, FOTTUTO UOMO DI MERDA! TI ODIO! NON TI PERDONERÒ MAI!
E
quello fu il culmine di quel terremoto interiore, di quell’uragano emotivo.
Durò
un attimo, ma sentiva che il suo cuore fosse un po’ più libero, in quel
momento.
Riprese
controllo di sé. Delle sue mani e della sua voce. Respirò, riempiendo i polmoni
d’aria pulita, e forse era una buona cosa. Rimase a guardare la superficie
delle sue unghie, consumata contro le liste di compensato sui cui era seduta, e
pensò che non avesse mai avuto belle mani.
Il
telefono squillava e lei fissava le tende, e le sagome degli alberi che
risaltavano quando i fulmini fungevano da flash per quel fotografo sadico che
era il cielo. Il vento li costringeva a dimenarsi come indemoniati, e le loro
fronde parevano strapparsi sotto ognuno di quegli ululati impetuosi.
Aveva
paura, nel profondo.
Perché
quella era una vera e propria tempesta, il telefono continuava a suonare e lei
era da sola in casa sua. Nel suo posto felice, che odiava.
Troppo
rumore fuori, poco rumore dentro. Ma nella testa era tutta un’altra storia.
Il
telefono squillava.
Decise
di voltarsi e di prenderlo. La mano tremava ancora, mentre l’avambraccio
detergeva mascara e lacrime, finendo ovviamente per sporcarsi. Sullo schermo,
il nome di Petra riluceva candido sullo sfondo nero. Più in basso vi era la
foto che Sapphire aveva scelto come predefinita, appariva ogni volta che le due
si telefonavano e vedeva le due giovani donne sorridere stanche alle
fotocamera, in bikini, all’interno delle terme di Cuordilava. Quel giorno
Fiammetta le aveva invitate a volersi un po’ bene, quindi si erano recate nel
piccolo paese a valle del Monte Camino, avevano levato i vestiti e indossato
l’accappatoio, e subito dopo lo avevano appeso sui sostegni di legno, prima di
entrare nell’acqua sulfurea bollente del centro termale.
Fu
una giornata molto rilassante, Sapphire la ricordava col sorriso.
Riprese
aria nei polmoni, poi un tuono esplose, facendo vibrare i vetri delle due
finestre che sostavano alla destra e alla sinistra della porta.
-
Sì... - disse, prim’ancora di rispondere, quasi a voler testare la propria voce
prima che quella la sentisse. Inspirò nuovamente, espirò e rispose.
La
pioggia scendeva fitta, prima che lei mettesse l’orecchio sullo schermo.
-
Pronto... Petra...
- Sapph... - fece quella, quasi sconvolta,
prendendo un lungo respiro e soppesando le parole. - - Tutto bene?
-
Sì, Petra. Sto bene.
- Sono fuori la
porta, Sapph... Ho sentito tutto...
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