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Against Me (an Unravel Me story): Chapter 3


Against Me        
   Quando tutto cade.


Hoenn, Solarosa, 18 giugno 20X1

- Ti ho preparato una tisana...
Gli occhi di Petra, di quell’insolito colore rosato, si poggiarono sulla figura della padrona di casa, piegata a fissare il polso che doleva o forse la superficie graffiata di mogano del tavolo su cui la prima subito dopo poggiò una tazzina, di porcellana bianca, corredata di piattino e cucchiaino in argento.
- Grazie...
- Hai un bel servizio da tè, sai?
- L’ha comprato quel finocchio...
La donna sospirò e inarcò le sopracciglia. Personalmente le dispiaceva che quella chiamasse Ruby in quel modo ma aveva decisamente paura di farglielo presente.
- Beh... non ci pensiamo - sorrise. Le spinse poi davanti la bevanda fumante, invitandola a bere. Quella la guardò e sbuffò, apatica.
- Avrei più voglia di una birra fredda, ora come ora...
Poi l’altra spalancò gli occhi e si alzò. Sapphire la fissò incuriosita.
- Dove vai?
- Ho dimenticato lo zucchero.
- Ah… okay… - ridacchiò poi. - Pensavo stessi per prendermi un’Heineken...
- No – rispose Petra, poggiando una grossa zuccheriera tra di loro. - Sai bene che non mi piace l’alcool...
Sapphire alzò il viso, giusto per quell’attimo che le consentì di fissare Petra negli occhi, per poi fare spallucce.
- E non so spiegarmi come tu sia sopravvissuta fino a oggi...
- Ci vogliono rigore e disciplina, nel caso lo stessi chiedendo...
- No. Non l’ho chiesto.
- Bevi – l’ammonì ancora l’altra, battendo impazientemente davanti a lei la punta dell’indice, perfettamente colorato con smalto color pervinca. - … e intanto dimmi cos’è successo...
Sapphire guardò la zuccheriera, poi rialzò lo sguardo e fissò la figura della donna che aveva di fronte. Sospirò, vedendo come neanche uno dei suoi capelli si trovasse fuori posto ma che, anzi, la sua capigliatura fosse ordinata in quella crocchia alta dietro la testa. Piccoli ciuffetti castani erano ben pettinati e tenuti dietro le orecchie da un paio di forcine scure, che a stento risaltavano. Gli occhi della donna erano finemente truccati, e anche il suo viso lo era, con delicati tocchi di fondotinta a dare tono a un viso che, onestamente, di trucco non aveva bisogno.
- Cosa c’è? - domandò quella, sotto lo sguardo insistente dell’altra, che intanto continuava a pensare al fatto che Petra fosse molto più femminile di lei. Certo, non aveva il fisico di Yvonne, essendo più minuta, sottile, ma probabilmente anche lei sarebbe riuscita a rubarle Ruby, se soltanto ci avesse provato.
- Nulla. Nulla di nulla…

Stupida. Smetti di pensare a ‘ste cazzate. Petra non si sarebbe mai sognata di fotterti il ragazzo.

- Sembri su di un altro pianeta, Sapph... Mi puoi spiegare?
- Nulla, ho detto. Stai tranquilla. Non è successo nulla.
L’altra pronunciò le labbra, per nulla convinta da quelle parole, quindi prese il cucchiaino che la padrona di casa aveva davanti e aprì la zuccheriera.
- Ne metto tre... è un tantino amarognola, ma così sarà sicuramente meglio...
-             Allora mettine sei...
Petra alzò gli occhi e sospirò.
- Potremmo esagerare e metterne un quarto. Del resto ti vedo molto sciupata...
- Già. Sei cucchiaini.
- L’ultima volta non eri così magra. Sei sicuro che vada tutto bene? - domandò poi l’altra, mettendo quattro cucchiaini di zucchero e porgendo la tazza a Sapphire. Quella la prese e annuì, distratta, avvicinando il bordo bollente alla bocca e poggiandovi le labbra, per poi cominciare a sorseggiare la tisana.
Non le piaceva ma rimase in silenzio.
- È ancora amara.
- Oh, ma deve essere amara! È per via delle erbe che ho infuso... Ma ti rilasserà, vedrai!
Sapphire ridacchiò.
- Me ne serve un secchio, allora…
- Te ne preparerò anche due, se serviranno... - sospirò, l’altra, ricomponendosi e raddrizzandosi sulla sedia. Unì le mani davanti a lei, poi annuì. - Credo sia arrivato il momento di parlarne, no?
- Di cosa?
Petra la vide bere un altro sorso, lottare contro se stessa per non sputare ciò che aveva sulla lingua e poi prendere il cucchiaino, per aggiungere altro zucchero.
- Erano meglio sei... – bofonchiò, mentre l’altra beveva in silenzio e perdeva lo sguardo limpido nei respiri del vapore che uscivano dalla tazza.
- Di tutta questa storia, Sapph... Sono ormai diversi mesi che hai subito questa... involuzione, chiamiamola così. Sei palesemente depressa.
- Non sono depressa - ribatté la prima, nascondendo lo sguardo dietro la barriera di porcellana candida e fumante. L’altra rimase dritta, col collo allungato e il viso rivolto in avanti.
- Non provare a convincermi del fatto che tu non abbia appena avuto un attacco di panico...
Era seria, tremendamente seria, e a nulla servì ogni tentativo di Sapphire di distogliere l’attenzione da lei. Quella non mollava, la teneva sotto scacco con gli occhi da maestrina.
- Smettila.
Petra sospirò con così tanto garbo che quasi non pareva preoccupata.
- Non sono problemi miei, lo so, ma ti sono amica e non ho notato soltanto oggi che la fine della storia con Ruby ti abbia fatto chiudere in te stessa, in questo stato...
I loro occhi s’incontrarono a metà strada. Solo i loro respiri non cessarono, e le lancette sincronizzate dell’orologio a parete e del piccolo Cartier bagnato in oro rosa dell’ospite.
- Quando vedo che uno dei miei alunni è un po’ giù cerco sempre di far affrontare loro i problemi. So che non farlo è più semplice...
- Non è così - la interruppe l’altra.
- Credi di no?
Un sorriso fuggì tra le labbra screpolate della donna, mentre la testa faceva segno di no.
- Tu invece credi che vivere la vita intera con una domanda nella testa, senza mai poter ottenere la risposta sia più facile che prendere la situazione di petto? Non lo è, Petra.
- E tu la risposta l’hai avuta?
Il cuore della donna saltò un battito.
- Io la risposta l’ho avuta, Petra. Il fatto è che non ho saputo accettarla...
L’altra rimase immobile, ritirò le mani e sistemò il cinturino di pelle dell’orologio, che intanto s’era girato. Ritirò le labbra e annuì. Sapphire la guardò e le chiese con lo sguardo a cosa stesse pensando.
- Ricordi com’era la tua vita, prima di Ruby?
- Era tranquilla... – annuì l’altra. Sospirò, guardò le mani e continuò. - Non che lui m’avesse sconvolto, sai cos’è successo quando ci conoscemmo, non serve che io lo rispieghi per la millesima volta, e io vivevo una vita molto dinamica, prima...
- Quindi cos’è cambiato?
Sapphire si alzò in piedi, portando le mani ai fianchi e sentendo il polso dolere. Stava però ricominciando a sentire l’acqua che la immergeva dal basso, dalle caviglie. E quella sensazione non era nuova: sarebbe finita per annegare in quel mare sporco, fatto d’autocommiserazione e miseria, e diventare poi calda come il fuoco, prima di trasformarsi in lacrime. E Petra la vide piangere lentamente, in silenzio, mentre il suoi occhi lasciavano che parte della sua anima fuoriuscisse incandescente e scavasse vie lucide sul pallore che le spegneva il viso. Dal suo sguardo traspariva perfettamente quanta sofferenza il suo cuore ferito provasse.
- Non... non è cambiato nulla... ma...
Rimase immobile, con le tempie che pulsavano e la pioggia che continuava a battere oltre le finestre. Si sentiva oppressa.
Ancora, quella sensazione d’impotenza.

E urlò.

Lo fece con tutta la forza che il suo corpo riusciva a contenere, afferrando poi la zuccheriera che aveva davanti e lanciandola contro il muro accanto al frigorifero giallo. Lo zucchero volò ovunque, persino addosso a loro due, che rimasero immobili, soggiogate dalle paura.
- Sapphire... – sussurrò Petra, inorridita.
- ODIO QUESTO SILENZIO! IO NON POSSO STARE PIÙ IN SILENZIO!
Batté i pugni con forza sul tavolo e vi si affacciò, come a guardare il progetto importante di una vita futura stampata su carta doppia e ripiegata più volte, stesa sulla tovaglia. E nonostante sapesse di aver raggiunto già il fondo, era del tutto ignara che scavando si arrivasse ancora più in basso, dove il sole non arrivava. Dove tutto ciò che la circondava finiva per schiacciarla, per levarle le forze, costringendola a pensare ai perché, ai se, ai ma.
Alle colpe sue, a quelle di lui.
Ai forse.
A ciò che avrebbe potuto fare.
Petra si alzò in piedi subito dopo, avvicinandosi a lei con in mano un fazzoletto di carta preso dalla penisola della cucina, alle loro spalle.
- Tieni.
Glielo porse, Sapphire lo guardò per un secondo.
- Sono stanca.
- Lo so. Ma domani è un altro giorno.
- Questo me lo dicono tutti. Nessuno aveva però mai parlato di questa notte infinita.
- La notte non è infinita... – sbuffò l’altra, portando le mani ai fianchi e assumendo un’espressione a metà tra il dispiacere e quella difficoltà a comprendere appieno le cose.
- La tua notte forse finirà quando suona la sveglia... – fece Sapphire, prima che l’ennesima lacrima le si tuffasse sul viso. – Ma la mia probabilmente non è neppure arrivata alla metà.
E fu lì che Petra sorrise, incrociando le braccia.
- Credi davvero che una donna bella e forte come te possa essere sconfitta da tutto questo?
Gli occhi blu di Sapphire spaccarono in due la figura perfettamente simmetrica della maestra di Ferrugipoli, vestendola di serietà e timore.
- Io non sarò mai bella come quella donna.
L’altra sorrise a mezza bocca.
- La bellezza è negli occhi di chi guarda. E io vedo una donna dal viso meraviglioso, dal sorriso triste e dal cuore grande. E dal culo alto... – ridacchiò. – Credo che un uomo si accorgerebbe prima dell’ultima cosa, tra l’altro...
- E cosa me ne dovrei fare di un uomo, scusa?
- Ma cosa ti servirebbe, ora?
Sapphire tentennò. Avrebbe risposto “Ruby”, se solo fosse stata la verità. Passò il fazzoletto già umido e sporco di trucco sulle guance e lo gettò via, appallottolandolo malamente e poi abbandonandosi sulla sedia. Un tuono fece vibrare i vetri delle finestre.
- Vuoi che risponda io? Perché, Sapphire, io lo saprei...
E la risposta era così banale che lei non avrebbe neppure dovuto leggere nella mente di Petra per sapere a cosa si riferisse.
- Me stessa...
- Te stessa, Sapph... Ruby è uscito dalla porta di servizio e tu sei andata nel panico. Non devi perderti, tesoro, per nulla al mondo. Perché sei l’unica persona su cui potrai realmente contare. Dopo me – sorrise quella, annuendo dolcemente e lisciandosi il vestitino grigio sullo stomaco piatto. Prese poi per mano Sapphire e la tirò delicatamente, verso l’ingresso, seguendo le orme bagnate dei passi che aveva poggiato la donna dai capelli castani quando era entrata in casa. Fuori, la pioggia continuava a cadere impietosa, come spesso accadeva in quel periodo dell’anno a Hoenn.
Petra la pose davanti all’uscio, aprì la porta e le mostrò il cortile di casa sua, dove piccole pozzanghere cominciavano a formarsi sul vialetto di ghiaia.
- Lo vedi, il mondo?
Sapphire annuì debole, mentre percepiva le mani dell’amica stringerle le spalle ossute.
- Rispondi, Sapph...
- S-sì... – disse quella, asciugandosi il pianto col dorso della mano.
- Lo vedi, come va avanti?
Gli occhi blu dell’altra si concentrarono sul prato umido, sui suoi odori delicati, e poi oltre, sulle case del vicinato. Alle loro spalle vi erano gli alti alberi del bosco e alle spalle la collina sulla quale sorgeva Petalipoli.
- Sì...
- Il mondo va avanti, la pioggia cade e il tuo cuore batte. Sai che significa? – chiese Petra poi, affiancandola. Le strinse delicatamente la mano infortunata e sospirò, riempiendo i polmoni di quell’aria così pulita, molto differente da quella che respirava nella sua città, già grande metropoli rispetto a quel buco di vita dove viveva la ricercatrice.
- Sai che significa? – ripeté.
Sapphire fece cenno di no, facendola sorridere per la sua ingenuità.
- Significa che non sei morta. Hai passato mesi interi a tumularti coi tuoi dubbi, tesoro, e ora è arrivato il momento che viva la cosa in maniera più sana. Datti una possibilità. E sorridi, sciocca...
- Che dovrei fare?
- Vieni con me. Andiamo a Bluruvia, passiamo qualche giorno da Rudi. Magari ti farà conoscere qualche bel surfista, ti leverai qualche sfizio e... beh... – sorrise nuovamente, facendo avvampare Sapphire.
- Cielo... – sbuffò, malcelando la sua voglia di chiudere il libro della sua vita e riaprirlo in una pagina a caso. – Ma... ma come faccio, poi, col lavoro?
Petra la guardò con sufficienza, riportando le mani ai fianchi sottili e piegando gli angoli della bocca a formare la sua classica smorfia da prima della classe, con le sopracciglia arcuate e le labbra appuntite.
- Semplice. Parla con tuo padre e dille che hai bisogno di riposo.
- Ma le ricerche...
- Le ricerche aspetteranno. Ora dobbiamo fare solo due cose, tesoro.
Sapphire spostò quel ciuffo biondo cenere dallo sguardo e riempì i polmoni. Percepì lentamente i colori tornare a riempire la sua vita.
- Ovvero?
Petra le sollevò delicatamente la mano e annuì.
- Per prima cosa, dovremmo fasciare questa. Un paio di giorni di riposo dovrebbero farti stare tranquilla. La seconda cosa sarebbe fare la valigia. Domani si parte.


Unima, Austropoli, Atelier Automne, 18 giugno 20X1

- Chi lo sa se arriveremo mai a quel cazzo di ottavo piano… – aveva domandato a se stessa White, sbuffando. Aveva riempito i polmoni dell’aria viziata di quell’ascensore pieno di specchi, che le mostrava da tutte le direzioni quell’espressione confusa che il suo viso indossava da una settimana, oramai.
Ed era l’ultima cosa che voleva vedere.
Si voltò, fissò le porte, serrate, dove qualcuno vi aveva inciso Kendrick and Cole, probabilmente con una chiave, graffiando via la cromatura. White guardò la scritta passivamente, poi sbuffò. Il cuore scalpitava come un cavallo in corsa e quella sete, ma non d’acqua, pareva aggrapparsi alla sua gola.
Abbassò lo sguardo, sbuffò e affondò la mano nella borsa, la costosissima Birkin che aveva comprato all’asta, frugandovi alla cieca all’interno con le mani. Non fu difficile sentire la fiaschetta sotto i polpastrelli, e quando l’afferrò un soffio d’aria fresca parve rilassarle lo spirito, oppresso in quell’ascensore troppo illuminato. Aprì la boccetta e ingoiò sulla fiducia un paio di sorsi di brandy, il Torres Jaime I che generalmente acquistava con cadenza settimanale e che era di stanza nel mobiletto dei liquori del suo ufficio da qualche anno a quella parte.
E quando la sua testa risuonò come una campanella con l’alcool che faceva da martelletto, riuscì paradossalmente ad allontanare lo spettro delle paranoie che la stavano consumando in quel periodo. Le porte s’aprirono subito dopo, mostrandole la sua creazione, quell’atelier dagli stilisti sfiduciati e molli, quasi liquidi, riversi sui loro tavoli da lavoro pieni di aghi e stracci di tessuto verdi, gialli, blu. Vedeva però la bellezza di quel posto, White, ne riconosceva l’odore, amava le lampade e le luci gialle che inondavano il lato nord, mentre quello a sud ancora viveva della bellezza del tramonto che baciava lo skyline di Austropoli.
Lei era in piedi, le porte dell’ascensore si erano chiuse alle sue spalle e c’era ancora qualcuno che mangiucchiava in silenzio mentre guardava qualche video sul cellulare, senza accorgersi che chi li aveva messi a libro paga stava camminando nel corridoio tra le due sezioni di scrivanie. Una delle stiliste, più minuta delle altre ragazze, più attenta dei ragazzi, dai profondi occhi color nocciola, rimase immobile a fissare la sfilata disinteressata della Presidentessa, la cui unica direzione restava la porta spalancata dell’ufficio di fronte a lei.
Ci vollero tre secondi poi quella entrò, guardandosi attorno: la grande scrivania di Ruby era davanti a lei, la poltroncina dello stilista era vuota ma il suo tavolo manteneva grandi pile ordinate di documenti, ognuno dei quali aveva attaccato un post-it con su scritto qualcosa. Il primo, per esempio, diceva “fatture”, mentre il secondo “documenti di trasporto”.
Alla sua destra c’era una sedia libera, e White la occupò subito, gettandoci la borsa e il leggero soprabito che indossava. Alla sua sinistra, poi, c’era Whitley, stretta nel suo piccolo tavolino dalle gambe sottili, mentre impugnava con la mano ossuta la Bic col tappo blu.
La fissò immediatamente, quella.
- Presidentessa! – esclamò, irrigidendosi e alzandosi in piedi, mentre le mani continuavano a stringere la penna, forse con troppo vigore. – Mi chiedevo a che ora sarebbe passata…
- Sono passata ora, Whitley… - la salutò l’altra, facendo un cenno col capo e guardandosi intorno. – Davvero vorresti farmi credere che in tutto questo tempo non ti sia mai messa a lavorare sulla scrivania più grande?
Gli occhi blu della ragazza si spalancarono, fissi in quelli del suo capo, poi si spostarono verso il basso, mentre il volto candido arrossiva tutto d’un colpo.
- I-io… Io speravo che il signor Normanson tornasse, a dire il vero… Se fosse rientrato e mi avesse trovata lì…
- Beh, ti serve spazio… – sbuffò l’altra, avvicinandosi a lei e squadrandola in un attimo, apprezzando le ballerine e i pantaloni lunghi e sblusati, di quel grigio che tanto le ricordava un viaggio fatto a San Pietroburgo. Lo aveva abbinato a una camicetta bianca, classica, molto semplice. Seguì con gli occhi affascinati la sua pettinatura, che l’aveva sempre incuriosita: aveva così tanti capelli che riusciva a farsi due grosse crocchie ai lati della testa e a lasciar cadere altrettante ciocche, abbastanza lunghe da poggiarlesi sulle spalle. Era minuta e graziosa, col volto sottile e gli occhi celesti più grossi che avesse mai visto.
- Dovrei mettermi lì, secondo lei? – chiese poi
– Ruby non può sperare di fare ciò che vuole e trovarci sempre ben disposte… vero?
Quella rimase immobile, nascose un paio di volte gli occhi ingenui dietro le palpebre e annuì.
- Credo…
- Riposo, soldato… rilassati - la sfotté l’altra, dandole le spalle e portando le mani ai fianchi. – Ho una tonnellata di domande da farti, e tu risponderai a tutto, e che sia in maniera positiva o negativa.
Whitley la guardò spaesata.
- Cioè?
- Ti vieto di rispondere “non lo so”. E mentirmi. Non mentirmi...
Quella tentennò, poi spalancò ancora gli occhi, ancora più rigida. – N-no! Non lo farei mai!
- Qui stiamo cercando di fare soldi, non voglio licenziarti o altro… Anzi. Quei lavativi qui fuori sono impegnati a mangiare e a cazzeggiare, mentre io li pago, e tu sei l’unica che si sta rendendo effettivamente utile…
White guardò per un attimo oltre i vetri opachi delle finestre e sospirò.
- Che vista. A te piace?
Si voltò, poi guardò annuire l’altra.
- Sì, Presidentessa.
- No, davvero... – ribatté l’altra, aggrottando la fronte. – Devi calmarti. Devi stare rilassata... Non rompere le palle con quest’espressione impaurita.
- Ci proverò...
- Bene... Allora... – cominciò, girando attorno alla scrivania di Ruby e sedendosi al suo posto. – Comoda...
Alzò i piedi sul piano e guardò l’assistente.
- Dimmi sinceramente quanto siamo nella merda.
La domanda colpì Whitley nel segno, che titubò, schiudendo lentamente la bocca.
- Immagino... immagino che se non avessimo le spalle coperte da lei... dai suoi soldi, intendo... beh, saremmo nella... nella cacca, ecco, fino al collo.
- Perché? Dov’è il bilancio di quest’anno?
- La prima colonna di fogli partendo da sinistra... ci sono le fatture e un pratico schema di dare avere coi fornitori. E sotto a tutte quelle carte c’è il bilancio dell’anno scorso.
White lasciò sedimentare la voce della più giovane, quindi sospirò e guardò l’alta colonna di fogli.
- Sotto a tutti quei fogli?
- Sì, Presidentessa.
- Perché non siamo passati ancora al digitale?
Whitley avvampò immediatamente. – Ecco... in realtà è il signor Normanson che si occupava della contabilità… io ho continuato ma… mi spiace… Io..
- Ho capito, ho capito. Insomma... – sbuffò White, abbassando i piedi e sfilando rapida il bilancio dalla colonna di carte. Leccò l’indice e sfogliò le pagine che il suo commercialista aveva redatto, addentrandosi sempre con più attenzione nella questione, per diversi minuti, zittendosi quasi totalmente e lasciando Whitley nel panico più che totale. Quella rimase in attesa, si sedette nuovamente al suo tavolino, guardando la sua penna e, dopo, il grande muro di carta che nascondeva parzialmente la Presidentessa, che intanto continuava a sfogliare i documenti.

“Sta vedendo l’attivo di poche migliaia di dollari, e già la sento urlare. Questa donna è un dannatissimo squalo, puoi ammazzarle il cane e non la vedresti battere ciglio, ma rubale un centesimo e ti salta alla giugulare! Cioè! Sono passati quanti?! Sei?! Sette minuti?! Non si muove! Rimane a guardare quei numeri che io a malapena capisco, e si sta facendo un’idea più o meno precisa di quale vetrata sfondare con la mia testa prima di buttarmi giù!”.

- Whitley, per favore. Leva questa montagna di documenti davanti ai miei occhi – esordì, dopo diverso tempo che non parlava.
- S-subito, Presidentessa!
Quella scattò in piedi e lentamente cominciò a spostare sul pavimento tutti fascicoli, fino a quando non fu in grado di vedere di nuovo la superficie di radica di noce della scrivania.
- Bene... – fece White, subito dopo, sospirando e massaggiandosi il collo. Prese una matita dal portapenne e li acconciò, facendo in modo liberare il collo da quel caldo massacrante.
- Vuole che accenda il climatizzatore? – chiese poi Whitley, eseguendo senza neppure ottenere una risposta.
- Mi chiedo per quale motivo non l’avessi già fatto stamattina.
- Scusi.
- Non scusarti per ogni cosa... Allora. Il bilancio dice che non siamo morti, piccola. Dice soltanto che ci stiamo scavando la fossa.
- Siamo in perdita?
- Ma sei matta?! – esclamò l’altra. – Abbiamo venduto vagonate di abiti, l’anno scorso, in sei mesi... La società è solida, ma qui c’è anche la bozza di bilancio di questi sei mesi, e abbiamo praticamente quasi azzerato il vantaggio delle vendite. Abbiamo delle consegne in programma?
Whitley annuì, voltandosi e raccogliendo un piccolo fascicolo di ordini tenuto assieme da una graffetta rossa.
- Sette, per la precisione. Quasi tutti confezionati, ho ordinato le custodie e...
- Non abbiamo custodie in magazzino? – chiese l’altra, aggrottando la fronte. Quella fece spallucce e fece cenno di no, rapprendendo le labbra.
- Beh, no. Ruby aveva autorizzato un grosso ordine prima di sparire, e abbiamo impiegato mesi a smaltirle tutte, e ho pensato che fosse stato meglio ordinare il numero di pezzi esatti, per risparmiare, a discapito di qualche giorno d’attesa in più per il cliente...
- Uhm. Male. Ma non lo sapevi, te la perdono... fece l’altra, guardando il Piaget che aveva al polso. – Sbrighiamoci, dopo devo passare in ufficio. Cioè, dobbiamo, passare in ufficio.
- Cosa?! – esclamò la giovane assistente.
- Dovrai pur darmi una mano, no? C’è un sacco di roba da fare, e tu dovrai vedere per bene cosa succede, altrimenti questo posto cadrà a picco.

“Nessuna pressione, Whitley...”.

- Certo, Presidentessa...
- Ho un piano – sorrise quella, spostandosi sotto al getto diretto del Mitsubishi che soffiava inverno.
- Ah. Ha un piano?
- Sì, Whitley. Immagino Ruby abbia lasciato qui il suo... – disse la donna, voltandosi e cominciando a cercare con lo sguardo a destra e a sinistra, su ogni mobile e scaffale.
- Il suo cosa, scusi?
- Boh? Dove disegnava i modelli?
- Oh, il suo librone rosso! – sorrise quella, quasi correndole contro, sorpassandola e andando dietro la scrivania. Si abbassò sulle ginocchia, davanti alla cassettiera, e sparì oltre la poltroncina, mentre White la sentiva armeggiare.
- È lì?
- Dovrebbe essere qui – rispose quella. – Lo metteva sempre...
E poi si sollevò, qualche secondo dopo, lasciando cadere sulla scrivania il grosso blocco da disegno dello stilista. Aveva la copertina di pelle, rossa e consunta, e parecchi fogli sciolti vi uscivano disordinati, come se fossero stati disegnati su carta di fortuna e inseriti lì, per non essere persi. White si avvicinò a Whitley, che le fece spazio, permettendole di sedersi sulla poltroncina e di piazzarsi davanti ai bozzetti. Carezzò per un attimo la copertina, sentendo come il tempo ne avesse sfilacciato la superficie, regalandogli fascino e personalità. In basso a destra, con scrittura elegante, vi era il nome dello stilista.
- Ruby Normanson... – sussurrò la Presidentessa, toccando con l’indice il nome dell’uomo, prima di aprire il grosso librone e vedere sulla prima pagina una dedica in penna blu, scritta con grafia differente da quella in copertina, più grezza e grossolana.
Ti amo tanto” si leggeva.
- E questa è la povera Sapphire... – disse ancora, più a se stessa che all’altra, che intanto respirava profondamente.
- Credo che sarebbe utile andare direttamente alla fine...
- Sì, credo anche io. Ma nulla ci vieta di dare un’occhiata nella mente di Ruby. Ce lo deve.
E lo fecero, e dopo centinaia di pagine di disegni più o meno accurati, ognuno provvisto di data, le due arrivarono a visionare l’ultima bozza.
- Sei novembre dell’anno scorso – osservò Whitley.
- È il più recente...
- È invernale, però...
- Beh, su questo lascia fare a me.
Whitley la guardò stranita.
- Come si vuole muovere? – domandò, muovendosi e tornando di fronte alla scrivania.
- In un mucchio di modi diversi. La prima cosa da fare sarà chiamare il mio assistente personale, Hugh, e farlo venire qui, per aiutarti con la contabilità e le mille altre piccole cose di cui dovrai occuparti per la consegna di quei sette abiti. Poi chiuderemo la produzione, chiamerò il mio addetto stampa e rilascerò un comunicato a nome di Ruby. Dopodiché procederemo con la nuova collezione...
- Ma manca lo stilista principale, Presidentessa.
- A proposito di questo, corri a preparare le valigie. Domani partiamo.
Whitley spalancò gli occhi.
- E-e dove dovremmo andare?!
Vide White levare la matita dai capelli e rimetterla nel portapenne. Poi sistemò i voluminosi capelli, sciolti sulle spalle, e prese la borsa.
- A Hoenn. A prendere il nuovo stilista. Ti chiamo domani alle sei del mattino. E ora, se puoi scusarmi, devo andare a ricordare a quei quattro stronzi qua fuori che una cosa è rilassarsi e un’altra è prendere per il culo la sottoscritta...
E sparì oltre l’uscio, lasciando la giovane immobile a fissare la parete vuota di fronte a lei.

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