Against Me
Quando tutto cade.
7.
Hoenn, cielo di Hoenn, 20 giugno 20X1
O meglio, della sua carriera. Anche perché la gran parte delle volte che aveva deciso di acquistare un biglietto aereo in prima classe lo aveva fatto per questioni di lavoro. Poche volte aveva preso un aereo senza una ventiquattrore stretta nella mano destra, e quando era successo aveva Black accanto, che sorrideva in maniera forse eccessiva.
Faceva parte di quelle cose che affascinava terribilmente White, quando pensava a suo marito. Così fuori dal mondo, così quieto e ignaro dei problemi.
Disincantato.
Le piaceva quella fanciullezza che lei, ormai, non aveva più. E guai a pensare che fosse un problema d’età, che del resto lei aveva superato la trentina da pochi anni; era più una questione d’attitudine. White era abituata a preoccuparsi tanto per ottenere il meglio: minimizzare la probabilità di incappare nei problemi era meglio che risolverli.
Pensava poco spesso a cose come quella. Più generalmente non ne aveva il tempo, ma le piaceva elencare mentalmente i pregi di suo marito. Guardò oltre l’oblò, lo strato denso di nuvole celava Hoenn in tutta la sua solitaria bellezza. Quell’isola spuntava florida al centro del mare blu del sud del Giappone, dove le temperature rigide non arrivavano mai. White pensò che l’umidità le avrebbe rovinato quella pettinatura da duecento dollari, ma poi tornò a concentrarsi sul diritto di guardare oltre l’oblò del Boeing 747 che aveva acquistato pagando più duemila dollari di biglietto, e visualizzò nuovamente il volto di suo marito.
Si chiedeva se anche a lui fossero sorti i primi dubbi, in quella relazione.
- Siamo quasi arrivati… - sussurrò Whiteley, accanto a lei. La Presidentessa si voltò con lo sguardo assente, quindi annuì e si chiese quanto ancora il suo uomo avrebbe mantenuto con forza le cinghie di quel matrimonio. Accavallò le gambe, in prima classe c’era lo spazio per farlo, sospirò e sentì ancora forte il richiamo di uno scotch & soda a pulirle la gola dal sapore del whiskey che aveva sorseggiato, forse tre volte, forse quattro, durante quel volo infinito.
Però s’impose di rimanere lucida. Poche ore dopo avrebbe dovuto fare la sua solita magia e non poteva assolutamente distrarsi.
- Non manca molto all’atterraggio… - aveva continuato Whiteley, ma intanto l’altra fissava dritta davanti a sé, e ripensava a poche ore prima, mentre chiudeva le valige: Black era in piedi davanti alla porta, con le braccia conserte, appoggiato allo stipite con la spalla sinistra. La guardava immobile, a piedi scalzi e senza maglietta, mentre quella stipava ordinatamente i vestiti nella Samsonite poggiata sul letto. Lei non se n’era accorta, ma quello stava con lo sguardo basso, stringendo pugni e denti e riempiendo i polmoni con rabbia e risentimento.
- Adesso dove andrai? – aveva domandato quello, con un filo di voce.
- Hoenn. Ho degli affari da sbrigare lì.
Quello aveva sorriso a mezza bocca, poi aveva alzato lo sguardo e sospirato.
- Bella, Hoenn…
- Ci sei stato?
- Sì, sono stato ovunque, quando non eravamo sposati.
White si era fermata, lo aveva guardato per un secondo e aveva inarcato le sopracciglia.
- C’era bisogno di sottolineare l’ultima frase?
- Quando tornerai?
La donna era poi tornata china a piegare panni e a sistemarli nella valigia.
- Quando avrò finito.
- Che significa, scusa? Che vai a fare?
White sbuffò e si sollevò, portando le mani ai fianchi. Aveva caldo e davvero pochissima voglia di discutere con suo marito.
- È lavoro, Black... – aveva detto, alzando gli occhi verso il soffitto e lasciando che cadessero nuovamente sullo sguardo dell’uomo. - Che dovrei andare a fare? Ho un atelier senza stilista, devo risolvere questo problema, poi ritornerò a casa…
- Quindi se non risolverai il problema non tornerai.
- Senti, cerchi rogne?! – aveva ribattuto quella, allargando le braccia e avvicinandosi a lui.
Quello, che reagiva sempre con una risatina quando White assumeva il suo atteggiamento newyorchese, era rimasto immobile.
- Vuoi mettermi le mani addosso, White?
- Non devi rompere i coglioni! Lo sai! Il lavoro è lavoro! Ci sono delle priorità!
- Già. – aveva annuito Black, lasciando cadere le mani accanto ai fianchi e mostrando il torace nudo. Gli occhi di White si erano poggiati per un attimo sul tatuaggio che rappresentava un uroboro stilizzato, per poi tornare a fissarlo negli occhi.
- Mi spieghi cosa cavolo stai passando, per favore? All’improvviso ti dà fastidio ogni cosa!
Black era rimasto immobile, aveva passato le mani nei capelli castani e li aveva tirati indietro. Poi aveva riempito i polmoni e spalancato le narici, quasi stesse caricando il sale nella spingarda, pronto per spararle.
- Forse dovresti cominciare a renderti conto che non esisti solo tu. Sarebbe la prima volta che qualcuno te lo fa notare senza paura di essere licenziato, vero?
White aveva aggrottato la fronte.
- Prego?
- O vorresti licenziarmi? - si mosse, lui, avanzando e andandole incontro. - Vuoi licenziare tuo marito?
- No. Non voglio licenziarti, voglio solo fare il mio lavoro.
E a quelle parole, Black era scoppiato.
- Ma certo! Lavoro! Lavoro, lavoro, lavoro! L’importante è che ci sia il lavoro!
- Sì! – aveva esclamato l’altra, affrontandolo muso a muso. Aveva alzato l’indice smaltato e aveva mosso un passo avanti. – Perché io lavoro! Non sono io, qui, quello che cazzeggia tutta la giornata, nella palestra che IO ho pagato! Però complimenti! Begli addominali! – aveva detto, spingendolo proprio in corrispondenza dell’ombelico. – Io invece ho il culo flaccido, ma tanto che cazzo te ne importa?! Sicuramente scoperai con qualcun’altra, no?
L’uomo, disarmato, pronunciò le labbra, incredulo.
- Alla fine di questa settimana, quindi, avrò visto mia moglie giusto il tempo di questa chiacchierata infelice, giusto?
- Possibile. – aveva risposto. Ricordò di aver digrignato i denti e di essersi voltata, tornando alla sua valigia.
- Bene. Non senti ragione. Meglio buttare la testa nell’alcool. Ti puzza ancora l’alito…
- Oh, falla finita… - aveva sbuffato.
- O forse è meglio lavorare e basta? Così non hai più il tempo per risolvere i problemi della vita, no?
- Io non ho problemi. – aveva risposto subito, disinteressata.
- MA IO SÌ!
Black aveva alzato la voce, e non lo faceva mai; rimaneva sempre calmo e tranquillo, sorrideva anche quando non c’era molto da ridere, perché era fatto in quel modo e, seduta su quell’aereo diretto a Ciclamipoli, White aveva capito di avergli aperto le porte del cuore proprio per quel motivo.
Abbassò lo sguardo, guardò le mani, si concentrò sulla fede.
Dorata. Riluceva sotto i faretti della cabina dell’aereo.
Gli stava stretta.
E non per i piaceri della carne, che l’unico uomo con cui sentiva determinate pulsioni le dormiva accanto. Il matrimonio era nemico della libertà, della scelta; era il tripudio del compromesso, e lei non era abituata al sacrificio per la vittoria di squadra. La sua vita era un one man show.
No.
Anzi.
Un one woman show.
Era arrivata ovunque i suoi occhi si poggiassero, le mani smaltate avevano afferrato tutto ciò che le servisse per essere sempre in una posizione di vantaggio su chiunque.
White era una donna potente.
E in quanto donna potente non avrebbe mai avuto l’opportunità di avere una vita mediocre, con un uomo mediocre dal lavoro massacrante, due o tre figli a cui badare e una casa da tirare a lucido tutti i giorni. Non avrebbe dovuto pensare per ore a cosa cucinare per cena, non avrebbe dovuto ricordarsi degli allenamenti di basket di suo figlio, del saggio di danza della bambina, dell’appuntamento dal pediatra, di quello dal dentista, della dieta, perché dopo l’ultima gravidanza non era riuscita più a trovare quella linea più o meno dritta che le avrebbe ricordato dell’adolescenza, di quando aveva dei sogni per il futuro in cui non era una madre vessata dalla vita e una casalinga senza prospettiva.
Quella sceneggiatura scomparve quando incrociò lo sguardo di Whiteley. Non le sorrise neppure, la guardò soltanto, con una domanda nello sguardo, trasformato poi in parole.
- Che succede?
Succede che mi sento in colpa di non essere un’impiegata di Starbucks. Ecco che succede.
- Hai tutto pronto?
- Sì… il biglietto del pullman ce l’ho proprio qui e… Ma se lo trovassi?
- Chi?! Ruby?! Non lo troverai mai, non metterci il pensiero. Quel figlio di puttana sapeva che lo avremo cercato. Ma vale la pena provare, no?
Whiteley inarcò le sopracciglia. – Va bene. Lei invece cosa farà?
- Cercherò di mettere un punto a questa telenovela.
Subito dopo, la voce del pilota le avvertì metallica che la discesa stesse cominciando. White vide l’altra spalancare gli occhi e allargare il colletto della camicetta celeste che indossava, cercando di mantenere la calma. Gli occhi della Presidentessa si poggiarono sulla cintura, mai staccata dall’inizio del viaggio. Subito dopo capì che Whiteley non fosse un’habitué dei viaggi in alta quota. Gli occhi le si rimpicciolirono, le gote divennero paonazze e riuscì a rapprendere le labbra con così tanta forza che da rosee che erano divennero violacee.
- Hey, calmati… - la redarguì l’altra, attaccando disinteressatamente la cintura di sicurezza. – Se l’aereo si schiantasse a un metro dal suolo non moriremmo di certo…
Quella la guardò, respirando a pieni polmoni, con gli occhi spalancati e pieni di paura.
- Scusi!
- Non scusarti per cose inutili.
- Ho paura. – ribatté subito. – Non sono abituata. In vita mia ho fatto solo un viaggio in aereo, ero piccola e…
- Ecco, ora tocchiamo terra…
- Cazzo! – esclamò l’altra, chiudendo gli occhi e stringendo la mano della vicina con un vigore che non credeva di avere. Le ruote striderono sull’asfalto cocente dell’aeroporto internazionale di Ciclamipoli poco dopo. Whiteley contò sette lunghissimi secondi, in cui aveva riscoperto una sorta di devozione per un dio fin troppo poco presente nelle sue giornate, poi aprì gli occhi e vide White col volto appuntito.
- Per il ritorno ti faccio fittare una barca a remi, ma devi lasciarmi la mano… - replicò l’altra. Quella annuì, vide l’altra sbuffare e slacciare la cintura di sicurezza, prima ancora che il segnale luminoso si spegnesse.
- C’è tanto da fare e c’è poco tempo.
- Okay… - sospirò Whiteley, cercando di tirar fuori un po’ di quell’ansia ruvida dal ventre e dai polmoni. – Quindi, ora?
- Quindi ora tu prendi un taxi e raggiungi lo stazionamento del bus. Cerca Ruby, o almeno qualche notizia… - disse quella, prendendo un flaconcino di profumo spray dalla borsa e spruzzandolo sotto al collo e sui polsi. Aprì poi il tailleur quel tanto che bastava per poter attaccare sul braccio un cerotto alla nicotina.
- E lei?
- E io prenderò un elicottero e raggiungerò Ceneride. Lì mi aspetta Adriano. Era il mentore di Ruby, quando stava qui.
- Capisco… - annuì quella, alzandosi in piedi e lisciandosi la gonna grigia addosso. Fece lo stesso con la camicetta, poi strinse meglio le crocchie che aveva attorno alla testa e raccolse la borsa. Scesero poi dall’aereo, col vento caldo che le colpì entrambe con un pugno nello stomaco e il rumore dei tacchi alti che batteva sul cemento della pista.
Si divisero pochi minuti dopo.
- Faccia buon viaggio! – aveva esclamato Whiteley, prendendo fiato e alzando gli occhi al cielo.
Non era semplice essere l’assistente di una donna come White.
Lavorava sempre.
E assistere sul lavoro qualcuno che non smetteva di lavorare significava non smettere di lavorare. Il passaggio di mano da Ruby a White era stato tremendo; Ruby era un leader: si assicurava che tutti i processi venissero eseguiti con la massima efficienza possibile, e figurava quasi sempre all’interno di ogni operazione. Doveva mettere bocca su ogni azione, e aveva diritto di veto su tutto. Non c’era singolo abito dell’atelier che non venisse approvato dallo stilista, e anche il minimo difetto lo relegava alla pila degli stracci da riutilizzare. White invece era tutta un’altra cosa. Ti diceva per sommi capi cosa volesse, durante incontri o telefonate che duravano al massimo quindici secondi, per poi andare via, e rivederla o risentirla soltanto a lavoro compiuto.
E lì il margine d’errore era molto più alto, perché si aspettava, la donna, che chiunque lavorasse con lei le leggesse nella mente.
Fermò un taxi agitando delicatamente la mano, proprio davanti all’aeroporto. Il sole batteva impetuoso e pareva divorare dall’alto l’asfalto rovente e tutto ciò che vi fosse poggiato sopra, mentre una Toyota accostava lentamente accanto a lei. Vide riflessa la sua figura sottile sui finestrini scuri dell’automobile verde, fissò i suoi enormi occhi blu e sistemò il colletto della camicetta, quindi aprì la porta posteriore destra, entrando. Alla radio una giovane ragazza cantava intonata una melodia molto pop, che le faceva venir voglia di agitare la testa e mantenere il tempo. Gl’interni del taxi erano profumati, il proprietario doveva aver lavato la tappezzeria da poco dato che un pungente odore di lavanda aleggiava per tutto l’abitacolo.
Il tassista non si voltò, rimase immobile al suo posto fissando Whiteley dal retrovisore, e la ragazza riuscì giusto a vedere dei profondi occhi color nocciola dietro uno spesso paio di lenti. Valutò la sua età intorno alla cinquantina, per via delle rughe d’espressione che aveva accanto alle palpebre e della nuca, in cui l’argento stava sostituendo l’oro.
- Buongiorno. – aveva detto Whiteley, dopo aver chiuso la porta. Si era sistemata sul sediolino e aveva cominciato a prendere il portafogli dalla borsetta.
- Dove andiamo? – aveva chiesto quello, compassato.
- Stazionamento degli autobus. Devo raggiungere Albanova.
Quello la fissò per un attimo, prima di voltarsi, mostrando un sorriso gioviale ed educato. I tassisti di Austropoli, per la gran parte pakistani o indiani, rimanevano compassati e si giravano infastiditi, se venivano poste loro delle domande.
- Posso dirle una cosa, in tutta franchezza?
Whiteley s’irrigidì. Pensò che lo spray al peperoncino fosse nella tasca interna della borsetta e lo visualizzò mentalmente.
- Prego.
- Ci metterà almeno sette ore, con l’autobus. La tangenziale tra Mentania e Ferrugipoli è interrotta a causa di una frana e quindi dovrà attraversare il Tunnel Menferro a piedi e poi aspettare un altro pullman lì. Poi dovrà raggiungere Petalipoli, scendere a Solarosa e aspettare il trenino che la porterà ad Albanova.
Whiteley credeva che in sette ore avrebbe avuto tutte le cattive notizie che avrebbe dovuto avere e che sarebbe stata sul volo di ritorno per Austropoli, casa sua, con le sue comodità e una temperatura sì calda, ma meno umida, che non le increspava i capelli in quel modo.
- Sette ore?
- Minuto più, minuto meno. Oppure...
- Oppure?
- Oppure arriviamo in mezz’ora a Porto Selcepoli e mio nipote la porterà a Solarosa attraverso il mare. Dieci minuti di navigazione e sarà lì. Poi le toccherà solo aspettare il treno, o farsela a piedi, insomma, fino ad Albanova. Ma ci metterà al massimo venti minuti. Un’ora e dieci complessiva. Meglio, no?
- Decisamente... – sbuffò quella, stringendo ancora il portafogli. – Beh... andiamo. Spero solo che non mi si rovini la camicetta.
Pareva felice, quello. Si voltò, abbassò la frizione e girò la chiave nel quadro d’avviamento ma il motore rispose sbuffando e tossendo stanco.
- No… non di nuovo... – aveva detto quello, detergendosi la fronte con la camicia a quadri bianca e rossa.
- Ehm... di nuovo cosa, di preciso?
- Non parte! Ho… problemi col motorino d’avviamento.
Whiteley cercò mentalmente una soluzione al problema ma poi si bloccò, perché si rese conto di non capirne nulla. – E quindi?
- E quindi prenda un altro taxi oppure vada verso il Centro Pokémon e affitti una bicicletta. Tramite la pista ciclabile sarà a Porto Selcepoli in un niente.
Otto minuti dopo era all’ombra di un’alta palma, poggiata a un muretto di mattoni rossi che sperava non le sporcasse la gonna nera, al ginocchio, che era riuscita ad abbinare sapientemente al paio di decolleté, ma nessun taxi era ancora passato.
- Ma che succede? – domandò al tassista, che ancora imprecava, con la testa nel cofano.
- E che dovrebbe mai succedere, signorina? Non parte! Non va!
- No, dico... perché non passano altri taxi?
- Ah, i tassì oggi saranno tutti bloccati nella zona dell’arena a Porto Selcepoli. Orthilla si sta esibendo lì, quindi, a meno che non sappia volare...
- La bicicletta…
- Esatto... – annuì quello, anche Whiteley non poté vederlo.
- È impossibile che io salga su di una bicicletta con una gonna così corta... – fece, vedendo poi l’uomo affacciarsi dal cofano e osservarla attentamente. La ragazza avvampò immediatamente.
- Oh, boh. Tu intanto vai a fittare una bicicletta. Da Clelio. Vedi, c’è scritto ovunque, sull’insegna, Clelio, Clelio, Clelio, Clelio, Clelio, Clelio. Io intanto chiamo mio nipote. Volerà rapidamente fin qui e… oh, ma che sciocco... forse potreste volare sui suoi Pokémon.
Whiteley lo guardò torvo. Aveva paura di cadere dall’aereo, con le cinture e tutto il resto. Volare su di un Pokémon l’avrebbe portata nel primo reparto di terapia intensiva disponibile.
- Ehm... Ha detto Clelio? Si chiama proprio così?
- Ma se volaste non avresti bisogno della bicicletta.
- Io non volo sui Pokémon, signor tassista! – aveva ribattuto quella, leggermente inacidita.
Mezz’ora dopo era ritornata, spingendo una bicicletta che sapeva non riuscire a portare bene.
Il tassista era poggiato alla portiera, proprio accanto a un grande Altaria dal piumaggio voluminoso e a un ragazzo della sua età, dall’insolita capigliatura verde, arruffata sulla fronte, dal corpo sottile avvolto in una camicia bianca. La guardò e le sorrise.
- È lei? – chiese poi il giovane al tassista, che annuì.
- Non so come si chiami, mai puoi sempre presentarti e te lo dirà lei... – aveva detto quello, poggiato al portabagagli dell’auto, mentre prendeva un tiro dalla sua Winston.
- Sono Whiteley... – ribatté l’altra, stringendo la mano a entrambi.
- Non sembri vestita in maniera adatta per la bicicletta. – aveva detto Lino
Quella sorrise, mostrando il caschetto giallo che aveva avuto in dotazione. – L’importante è avere questo, no?
- Ti si vedranno tutte le gioie, con quella gonna, tesoro, Lino ha ragione. – ribatté il più grande.
- Lino sono io.
- Sì, avevo capito. Ma non salirò mai su questo... coso...
Altaria si voltò verso di lei.
- In realtà è molto dolce. Non ci farà del male... – ribatté il ragazzo.
- Ma non lo metto in dubbio! È che ho paura dell’altezza.
Poi sentì vibrare il cellulare nella borsetta. Lo prese.
INCOMING CALL WHITE PRESIDENTESSA ACCEPT DECLINE |
- Oh, fantastico...
Si voltò, facendo qualche passo per allontanarsi.
- Pronto. Presidentessa?
Hoenn, Ceneride
Le pale dell’elicottero ormai non roteavano più. White si allontanava dall’eliporto battendo i tacchi sulla superficie liscia della piattaforma in cima al più alto edificio di tutta l’isola di Ceneride.
Dovette ammettere a se stessa che la visuale da lì fosse davvero suggestiva.
Le sembrava uno di quei luoghi che aveva visto durante uno dei suoi viaggi in Europa, come Santorini o Panarea, con tutte quelle casette di roccia bianca che spuntavano come funghi dalle terrazzate, posizionate come anelli di un’arena dove la Palestra di Adriano faceva da parterre e la baia d’acqua splendente era palco e protagonista della scena. Lei si mosse fino ai bordi della piattaforma, rimanendo a un metro dallo strapiombo, e assaggiò il vento marino, carico di salsedine, che le soffiava tra i capelli.
- Whiteley. Io sono appena atterrata. Sei arrivata ad Albanova?
- No, Presidentessa. A dire il vero ho avuto un paio di problemi.
- Che tipo di problemi? – chiese quella, aggrottando la fronte e portando la mano con la borsa al fianco.
- Nessuno ci aveva avvertite che oggi, a Porto Selcepoli, vi fosse un’esibizione di Orthilla... i taxi sono tutti bloccati lì, per la tratta e l’unico che ero riuscito a prendere ha problemi col motorino d’avviamento, credo.
White portò la mano alla fronte.
- Non c’è un singolo taxi in tutta Ciclamipoli?
- A quanto pare no.
- Ti rendi conto dell’incredibile puttanata che sto ascoltando, Whiteley? Tu dovevi soltanto raggiungere lo stazionamento dei pullman e andare ad Albanova.
- ... per cui ci vorrebbero circa sette ore, Presidentessa... ecco perché ho fittato una bicicletta, in modo da raggiungere Porto Selcepoli e navigare su di un Pokémon per trovarmi direttamente a Solarosa.
- ...
- Presidentessa?
- Tu sai andare in bicicletta?
- Sì, Presidentessa. Più o meno.
- Con quella gonna?
- Ho anche il caschetto.
- Bah... – sbuffò l’altra, allontanando quei pensieri con un movimento della mano. – Non m’importa come tu ci riesca, basta che porti a casa il risultato. Cerca di non farti male. Da adesso in poi non sarò più reperibile.
- Senz’altro, Presidentessa. Stia attenta.
- Nata attenta, io... – fece, per poi chiudere la conversazione e gettare il Blackberry sul fondo della sua Birkin di Hermes Si voltò e seguì il pilota dell’elicottero, scendendo delle scalette esterne d’acciaio bugnato per poi ritrovarsi sulla terrazza più alta di Ceneride. Non aveva appuntamento con Adriano, pertanto sapeva che il suo raid alla Palestra avrebbe potuto ottenere l’effetto opposto.
Puntellava i tacchi delle Loboutin sulle mattonelle di pietra, e non scivolava perché aveva imparato a guidare quelle trappole anche su di una lastra di ghiaccio, ma rimpiangeva i giorni in cui indossava le Converse con disinvoltura; purtroppo il suo lavoro consisteva anche nell’apparire, e lei non avrebbe dato troppo valore a chi si sarebbe presentato da lei con un progetto e delle Converse al piede. Impiegò circa mezz’ora di cammino verso la parte bassa dell’isola, e ci arrivò sudata e coi piedi doloranti, ma entrò in un Centro Pokémon e si diede una rinfrescata, per poi uscire con un paio di Chanel dalle lenti scure sul naso e un Lavottino tra le mani; lo addentò rapida, si ripromise di comprarne un altro prima di partire e si presentò davanti alla porta della Palestra di Adriano. Quella si spalancò silenziosa, e un soffio d’aria gelida le raggiunse il volto, mitigando l’effetto di quel caldo umido che le aveva arrossato le gote.
All’ingresso vi era ragazza molto bella, dai lunghi capelli biondi e il sorriso di chi doveva mostrare gli incisivi per lavoro. Era seduta dietro a una scrivania con su scritto ACCETTAZIONE, e salutò White con un cenno della testa.
- Salve, benvenuta alla Palestra di Ceneride, dove potrà sfidare il grande Adriano.
- Il grande Adriano... – ripeté White, tra i denti. – Salve.
- È qui per la medaglia? Dovrà compilare questi moduli... – disse, indicandoli con la punta della Parker nera che teneva tra le mani.
- No, in realtà sono qui per affari di altra natura, ho bisogno di parlare con Adriano.
La donna batté le palpebre un paio di volte e annuì. Abbassò poi gli occhi sulla lista che aveva davanti e inclinò la testa, mostrando un orecchio pieno di piercing.
- Dovrà attendere un bel po’, allora. Oggi l’agenda è abbastanza fitta, e Adriano dovrà lottare contro diversi avversari.
White odiava aspettare, ma era a Hoenn apposta, pertanto rimase in silenzio.
- Beh, avrò tempo per sistemare delle cosucce.
- Se vuole, può seguirmi nella sala con vista sull’arena.
- Come le pare.
La bionda annuì, un po’ infastidita dall’ultima risposta, e si alzò in piedi.
- Da questa parte, prego.
Le fece strada attraverso quei corridoi che odoravano di pulito, coi pavimenti lucidi di marmo intarsiati con lunghe strisce d’ottone, che ricreavano ghirigori arzigogolati, e intanto la segretaria si muoveva proprio come avrebbe fatto una modella, mettendo un passo davanti all’altro e ondeggiando sinuosamente col bacino.
White notò quella cosa e ne rimase piacevolmente sorpresa. Le fu fatto strada sulla destra, dove una sala con una ventina di comode poltroncine in pelle dava direttamente sull’arena. Adriano era in piedi su di una piattaforma d’acciaio azzurra, mentre l’avversario si trovava molto più in basso, quasi a livello dei Pokémon che lottavano.
- Si può accomodare. – aveva detto la donna. – Mi occuperò personalmente di riferire al signor Adriano della sua presenza. Può già anticiparmi i motivi della sua visita?
- Lavoro. Motivi di lavoro.
- Benissimo. Le auguro buona permanenza.
White annuì, quindi le fece un cenno con la mano, poggiò su di una delle poltroncine dall’alto schienale la borsa e si sedette su quella accanto, sprofondandovi e sospirando.
- Aspettiamo...
Hoenn, cielo di Hoenn
In quei cinque minuti, Whiteley aveva rivalutato diverse cose:
- Non credeva che le piume di Altaria fossero così morbide.
- Non credeva neppure che riuscisse a volare così velocemente, o così in alto.
- Non credeva di riuscire a urlare così forte.
- Non credeva di riuscire a stringere il petto di Lino con così tanto vigore.
- TI PREGO! TI PREGO! SCENDIAMO! TI PREGO!
Lino era piegato in basso, stringeva le dita nel piumaggio del suo Pokémon e sentiva solo la metà delle parole della ragazza, le cui braccia gli cingevano il petto. Non sapeva come, ma era riuscito a convincerla a evitare la bicicletta e la pista ciclabile, e in quel modo sarebbero arrivati praticamente subito. Tutt’intorno non c’era altro che una cupola blu, molto profonda, che si poggiava sulle loro teste. Al di sotto invece il mare di nuvole, vaporose come le ali di Altaria, si stagliava immobile e placido, rendendo quella traversata ancora più piacevole.
Dal suo canto, ovviamente. Whiteley, alle sue spalle, piangeva terrorizzata.
- TI PREGO! HO PAURA!
- VA BENE! – aveva urlato. – NON APPENA SUPEREREMO QUESTE NUVOLE ANDREMO PIÙ IN BASSO! MA NON AVERE PAURA! NESSUNO È MAI CADUTO DA ALTARIA!
- A ME NON INTERESSANO LE TUE STATISTICHE! VOGLIO SOLO TORNARE A CAMMINARE SULLA TERRAFERMA!
Pochi minuti dopo si ritrovarono diversi metri sopra i tetti di Solarosa. Avevano rallentato e anche il sibilo nelle orecchie, dovuto all’alta velocità che prima avevano sostenuto, era svanito.
- Ora calmati... – aveva sorriso Lino. – Andrà tutto bene...
- So che andrà tutto bene, è che ho paura dell’altezza! – aveva ribattuto quella, coi lunghi capelli ormai sciolti che ondeggiavano al vento.
- Hai detto che vieni da Austropoli, giusto? – chiese quello, voltandosi giusto un po’, per guardare i penetranti occhi blu che le accendevano il viso. - Ho sempre voluto visitare Unima, da ragazzino... poi, ho scoperto che un biglietto aereo costa tantissimo... – ridacchiò.
- Sì. Nata e vissuta lì.
- I palazzi sono alti ad Austropoli, vero?
- Sì. – aveva annuito l’altra, cosciente del fatto che l’altro non avrebbe potuto vederla.
- E come mai vai ad Albanova? È un paesino davvero piccolo.
Quella abbassò gli occhi, vedendo i piedi penzolare dal dorso del Pokémon.
- Cerco una persona. Anzi, magari la conosci. Ruby Normanson.
Lino s’irrigidì. La stessa Whiteley sentì una vibrazione attraversare il corpo del ragazzo.
- Certo che lo conosco. Qui tutti conoscono Ruby. È una vera e propria star. Anche se è da un bel po’ che non si fa vivo.
- Era il mio capo... – ribatté l’altra, con un filo di voce. – E ha lasciato l’atelier prima di un importante evento. Devo trovarlo, o perlomeno sincerarmi che non si trovi qui ad Albanova.
- Secondo me non lo troverai, ad Albanova. – ribatté l’altro.
La sua voce fu così fredda e rapida da giungere alle orecchie della giovane come una sentenza.
- Perché... perché dici così?
- Perché ad Albanova vive la famiglia di Sapphire. Ciò che ha fatto con lei... beh, non... non è bello.
Whiteley avrebbe voluto guardarlo negli occhi, in quel momento, e invece doveva accontentarsi soltanto della sua nuca.
- In realtà la storia è molto più lunga e complicata di quello che credi.
- Io sono cresciuto con Ruby... – ridacchiò quello, col vento che gli spingeva i capelli indietro. – Lo conobbi nel peggior periodo della mia vita, credo. La mia asma aveva reso impossibile praticamente i primi quindici anni della mia vita, e ho vissuto in una bolla di vetro fino a quel momento. I miei genitori erano davvero molto apprensivi, e Ruby, e anche suo padre, Norman, mi hanno... mi hanno sempre stimolato a spingermi oltre. Sapphire entrò nella sua vita quasi contemporaneamente a quando lo feci io... sembravano dovessero finire la propria vita assieme, mano nella mano, l’una con l’altro.
Whiteley si limitò ad annuire, ma sapeva che certe volte le differenze non le si superava con così tanta semplicità. Forse era l’amore, all’inizio, a mitigare le acque di due fiumi che s’incontravano a metà strada.
Ma poi, c’era poco da fare, uno sarebbe stato più impetuoso e avrebbe finito per soffocare l’altro. L’amore non bastava mai; bisognava assomigliarsi.
- Erano diversi, loro due.
- Ma gli opposti si attraggono. – ribatté prontamente l’altro.
- Gli opposti si sopportano. No, lasciamo perdere questo discorso, non conosco troppo bene Sapphire per parlare... – disse l’altra, dimenticando quasi totalmente di essere a più di cinquanta metri dalla terraferma. – Però posso dirti che l’intesa che aveva Yvonne è rara da trovare...
- A me sembra solamente la donna più bella del mondo, lei. Non la conosco, ma avrà i problemi che hanno le donne come lei. Non è una donna vera come Sapphire...
- È una donna più vera di ciò che pensi... Ruby è sparito e ha fatto soffrire anche lei.
Poi Altaria atterrò. Il vento smise di spettinare entrambi.
Lino scivolò dalla schiena del suo Pokémon e tese la mano ossuta alla ragazza, che l’afferrò e scese. Il ragazzo si voltò, guardando la bella dai capelli castani raccogliere la chioma folta e increspata dal vento. Scelse di non ricreare la coppia di crocchie al lato della testa, ma di legare tutto in una pratica coda di cavallo. Si accorse solo dopo di aver ammaliato totalmente il ragazzo che aveva davanti.
- Ehm... grazie, Lino.
Lo guardava meglio, in quel momento, e si accorse di quanto vividi fossero i suoi occhi verdi, e di quanto candida fosse la sua pelle. Alto, più di lei, lo vide abbassare la testa, accogliendo il ringraziamento in silenzio.
- Hai bisogno di altro? Vorrei far bere un po’ d’acqua al mio Altaria.
- No, no, grazie Lino. Se solo potessi indicarmi qual è la casa di Ruby...
- Dopo sai come tornare a Ciclamipoli? Perché io... – avvampò poi lui. – Cioè, non ci sarebbero problemi.
- Oh. – si bloccò lei, sorridendo. – Saresti davvero molto gentile.
- Beh... ti aspetto qui, allora.
- Grazie ancora. – fece quella, avvicinandosi a lui e dandogli un casto bacio su di una guancia, che ebbe l’effetto di far arrossire entrambi.
Hoenn, Ceneride, Palestra di Adriano
Against Me
Quando tutto cade.
Adriano aveva già sconfitto un paio di avversari da quando White si era seduta sulle comode poltroncine nella sala d’aspetto della Palestra. Aveva passato, la Presidentessa, diversi minuti a fissarsi le unghie delle mani, prima di ricordarsi di controllare le mail per la sesta volta. Aveva rinviato l’appuntamento con la commissione per l’approvazione del bilancio dell’agenzia, quindi aveva deciso di lasciarsi tentare e di aprire la notifica di WhatsApp che aveva ignorato per oltre dodici ore.
avvertimi quando atterri
02.15
sei arrivata? non farmi preoccupare
06.58
per favore metti da parte le armi, sono spaventato
07.42
WHITE
TI PREGO.
10.16
02.15
sei arrivata? non farmi preoccupare
06.58
per favore metti da parte le armi, sono spaventato
07.42
WHITE
TI PREGO.
10.16
Delle volte si chiedeva perché si comportasse in quel modo, lei. Non c’era un motivo ben preciso per cui sostenesse quelle prove di forza con l’uomo che amava, fatto stava che le vinceva sempre. E la cosa la inorgogliva, la faceva sentire la più forte dei due.
Ma aveva paura.
Sì, perché si figurava la scena in cui lei gli sbatteva la porta in faccia mille volte, e all’improvviso, riaprendola, lui non si facesse più trovare lì davanti.
Il perché, lei lo sapeva.
Quante volte avrebbe dovuto accettare di stare con una persona che non sentiva ragioni?
Lei era una donna con carattere; ne aveva tanto fino a riempirla, e Black, credeva, era innamorato proprio di quel suo lato ingestibile, perché la prendeva come una sfida, come un cavallo pazzo da domare.
Oppure no?
Non lo sapeva più.
Guardava il Blackberry e si chiedeva per quanto tempo quell’uomo, che amava, che amava tanto, avrebbe potuto giustificare i suoi difetti di fabbrica dando per assodato che lei fosse fatta in quel modo, che avesse un bel caratterino e che non fosse gestibile ai più.
Pensò che fosse folle, la quantità di pazienza che delle volte le persone hanno, quando sono innamorate di qualcuno. Perché, e lo avrebbe sottoscritto più e più volte, ove mai si fosse ritrovata davanti a una persona come lei, non avrebbe impiegato neppure due minuti prima di mostrargli la porta.
Rileggeva quei tre messaggi, in cui lui metteva a nudo una fragilità che, durante la lite che avevano avuto, non credeva potesse avere, e che forse lei non avrebbe mai mostrato.
Non ci sarebbe mai riuscita, lei, a mostrare il fianco in quel modo, a mostrarsi debole.
E poi, l’illuminazione: Black doveva essere il suo porto felice. Il cantuccio caldo durante le giornate di neve, il riparo dalla pioggia. Un luogo dove non era la Presidentessa ma una donna, speciale e unica come tutte le altre, ma un po’ di più, perché a tenerle riservato il posto c’era il suo uomo.
Con lui non avrebbe dovuto mostrarsi forte a tutti i costi, e cedere qualche volta, quando c’era un alterco, forse avrebbe rimpolpato un po’ il morale. Black aveva rinunciato a tanto, per lei, e lei non era neppure in grado di mandarle un messaggio con su scritto sono arrivata, sto bene, ci sentiamo dopo senza sentirsi sconfitta con se stessa.
Donna potente, sola contro il mondo. Ma non era vero.
White non era sola contro il mondo, e la fede che le brillava al dito lo dimostrava.
Abbassò lo sguardo, sospirò e strinse i denti.
- Dannato Black...
White
TI PREGO.
10.16
TI PREGO.
10.16
Sono atterrata un paio di ore fa.
13.10
Ho perso letteralmente la cognizione del tempo,
mi spiace molto. Sono in Palestra da Adriano
e forse ho risolto il mio problema con l’Atelier.
13.11
13.10
Ho perso letteralmente la cognizione del tempo,
mi spiace molto. Sono in Palestra da Adriano
e forse ho risolto il mio problema con l’Atelier.
13.11
Magari sarebbe bastato scrivergli, per mettere un punto a quella tiritera.
Affondò lentamente nella poltroncina, stringendo il palmare tra le mani e guardando la vetrata di fronte a lui come se non fosse trasparente, come se oltre non vi fossero due persone intente a lottare. Non le interessavano quelle cose.
Non le interessavano tantissime cose.
Però non demordeva.
Mantenne la classe e l’eleganza, si risistemò, accavallò le gambe come avrebbe fatto una signora che si rispettasse e poi decise di andare in bagno a controllare il cerotto alla nicotina, perché ormai non faceva più effetto e aveva una voglia tremenda di prendere una sigaretta e masticarla. Lo avrebbe fatto lì ma c’erano troppe telecamere, e a differenza dei passeggeri dell’aereo, di Adriano le importava l’opinione. Raccolse quindi la borsa, si alzò in piedi e tornò nel corridoio, guardando a destra e a sinistra; la segretaria batteva freneticamente qualcosa al computer, come una stenografa professionista, mentre la luce che entrava dalla grande vetrata che aveva alla sua destra inondava quasi tutto l’ambiente.
- Mi scusi. – la chiamò White, avvicinandosi poi lentamente. Quella smise di scrivere e girò la testa verso di lei. I tacchi della Presidentessa batterono rumorosi sui pavimenti di marmo.
- Prego?
- Mi può indicare il bagno?
Il cellulare vibrò nella borsa, lei lo sentì e attese che quella annuisse e si alzasse in piedi. Alzò il lungo braccio e indicò dritto.
- È l’ultima porta. Sulla destra.
- La ringrazio.
Quando la raggiunse, aprì la porta e la luce si accese in automatico. Tanto cristallo, tanto acciaio, pavimenti bianchi, luci fredde. Il lavandino usciva direttamente dalla pietra viva in cui la Palestra era stata scavata.
Quel luogo odorava di pulito. Sbuffò, la donna, si chiese per quanto tempo ancora avrebbe dovuto aspettare che il suo appuntamento avvenisse, poi levò la giacca del tailleur, sbottonò la camicetta e mostrò allo specchio il reggiseno di pizzo bianco. Guardò il neo che aveva sul seno, pensò che fosse lo stesso che aveva lì sua madre, e quindi staccò il cerotto che aveva sul braccio, lo gettò e poi ne prese uno nuovo dalla borsa.
- Che, secondo me, non funzionano neanche... – aveva sussurrato, tra sé e sé.
Un minuto dopo era di nuovo vestita, con la nicotina che lentamente veniva rilasciata nel suo corpo e quella sensazione di mancanza di ossigeno che diventava sempre minore.
- Black... – sussurrò poi, prendendo il cellulare. Sbloccò lo schermo e cliccò sulla notifica in alto.
Ho perso letteralmente la cognizione del tempo,
mi spiace molto. Sono in Palestra da Adriano
e forse ho risolto il mio problema con l’Atelier.
13.11
mi spiace molto. Sono in Palestra da Adriano
e forse ho risolto il mio problema con l’Atelier.
13.11
Ok.
13.16
13.16
Glaciale.
Come non era mai stato.
Ok.
13.16
13.16
Ripeto, mi spiace molto. Un po’ per tutto, non
volevo litigare con te... tu sei importante per
me e certe volte sono una persona davvero
ingestibile. Quando torniamo andiamo a
farci un viaggetto solo io e te. Promesso.
13.21
volevo litigare con te... tu sei importante per
me e certe volte sono una persona davvero
ingestibile. Quando torniamo andiamo a
farci un viaggetto solo io e te. Promesso.
13.21
Sapeva che forse era l’atteggiamento che avrebbe dovuto avere dall’inizio, ma meglio rendersi conto di aver commesso un errore che non rendersene conto affatto. Pensò che non aveva mai avuto tanta paura come in quel momento di rimanere da sola.
Forse perché non aveva mai visto Black così distaccato.
Aspettò per qualche minuto che quello rispondesse al messaggio con un Va bene, oppure con qualche frase un po’ più lunga che avrebbe portato al disgelo, ma invano.
Fece prima Adriano, che agile scese dalla sua piattaforma, mantello al seguito. Non le sembrava così alto, in fotografia. Lo vide avvicinarsi con passi decisi allo sfidante, una ragazzina minuta dalla pelle scura e dalla folta chioma afro, le consegnò tra le mani una medaglia e le sorrise con una grazia che aveva visto poche volte in un uomo. Non sentì le parole che scambiò con quell’altra, ma lei parve apprezzare molto ciò che le fu detto, quindi lui le sorrise nuovamente e la vide andare via. Sul suo viso si stampò un’espressione granitica, giusto per un secondo, prima che la bella segretaria coi piercing all’orecchio aprisse la porta dell’arena e indicasse in direzione della sala dove proprio White lo stava aspettando.
Si alzò in piedi, lei, guardando annuire prima Adriano e poi la ragazza, che si congedò e sculettò fuori. Adriano sembrò un attimo spiazzato; guardò in direzione di White, distante e senza poterla vedere, spostò lentamente il volto verso la piscina in cui i Pokémon acquatici avevano lottato e solo infine seguì la segretaria.
White non pensava più a Black; indossò nuovamente l’armatura scintillante e mai scalfita della Presidentessa e vi nascose all’interno il corpo infragilito dalle paure, poi incrociò le braccia sotto al seno, pronta, non appena sentì il rumore di tacchi rimbombare nel corridoio all’esterno della sala, a incontrare lo sguardo della donna alla reception. Quella sorrise cordialmente e lisciò una ciocca di capelli sulla spalla.
- Il Signor Adriano la sta aspettando. Mi segua.
White si limitò ad annuire in silenzio e a camminare alle sue spalle, seguendola lungo lo stesso tragitto che aveva percorso per recarsi in bagno, ma fermandosi qualche stanza prima.
La porta con su scritto UFFICIO era più alta delle altre, ma nello stesso stile, di quel legno scuro e massiccio che aveva visto anche nella sala con le poltroncine. La bionda bussò, poi infilò la testa nella stanza e dopo poco uscì, con indosso il suo sorriso cordiale.
- Il signor Adriano la sta aspettando. Posso portarle qualcosa?
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