Against Me
Quando tutto cade.
8.
Hoenn, Ceneride,20 giugno 20X1
Quando la segretaria entrò nell’ufficio di Adriano, un aroma intenso di caffè si espanse ovunque. La stanza dove il Capopalestra gestiva la parte documentale della propria attività era arredata in stile minimale: non c’erano molti elementi colorati, poco si allontanava dall’abbinamento acciaio/nero, se non i cuscini del divanetto, celesti come il tappeto, come il lampadario e come gli occhi dell’uomo seduto oltre la scrivana, di freddo e lucido metallo grigio. Una cascata sgorgava dalla parete alla sua destra, rinchiusa in una teca di cristallo grande quanto un armadio di un paio di ante.
- Grazie, Jessica. – fece lui, indossando un sorriso genuino e riconoscente. Quella annuì.
- Sono entrambi amari. – ribatté, poggiando due tazzine di porcellana bianca e due piattini del medesimo colore tra i due. White rimase immobile, guardando l’espresso che fumava davanti ai suoi occhi.
- Puoi andare.
La segretaria sorrise cordiale s’incamminò verso l’uscita, lasciandoli da soli.
Adriano mantenne sul volto l’espressione gioviale. Pareva rilassato.
- Lo prendo amaro, io. – disse. – Lei gradisce dello zucchero?
- No. Mi va bene così.
- Perfetto.
Il bell’uomo allora tirò a sé la tazzina. Guardava il piattino, non si accorgeva degli occhi della donna che lo scrutavano, che notavano come fosse perfettamente rasato in viso. La pelle candida di Adriano pareva riflettere la luce emessa dai meravigliosi lampadari di vetro di Murano e i suoi capelli, pettinati ordinatamente, toccavano quell’insolita tonalità verde acqua ed erano acconciati in modo che un paio di ciuffi, più lunghi del resto della pettinatura, gli cadessero davanti agli occhi, dandogli un’aria più misteriosa. Pareva molto a suo agio, lì dentro, mentre girava il caffè col cucchiaino che entrambi avevano accanto alla tazza.
- Non lasci che si posi. L’espresso italiano è diverso dai caffè a cui siamo abituati noi.
White sorrise, sistemandosi meglio sulla sedia e accavallando la gamba destra.
- Infatti mi aspettavo il bicchiere da un litro di Starbucks, quando mi ha parlato di caffè.
Adriano fece un cenno con la testa, come a dire che possiamo farci, poi poggiò il cucchiaino e avvicinò la tazzina alle labbra. White cominciò a girare il suo, concentrata, quindi percepì l’altro sospirare e alzare gli occhi al cielo, sorridente.
- Lo amo. Amo il caffè. Ha un sapore così forte e pungente...
Riavvicinò la tazzina alla bocca, ingoiò l’ultimo sorso e posò tutto sul piattino. Inalò il profumo aromatico rimasto nell’aria e rimase in silenzio. Guardò l’altra fare altrettanto, trattenere la smorfia di disgusto, stringendo giusto un attimo gli occhi.
L’uomo sorrise.
-Le prime volte è così, poi lo apprezzerà.
La donna sorrise cordiale poi fece spallucce, appoggiandosi allo schienale della poltroncina. Adriano fece lo stesso, quindi incrociò le mani sul ginocchio in alto.
- Allora… a cosa devo la sua splendida presenza?
White non arrossì né sussultò, annuì e rimase a fissarlo negli occhi. Lo scroscio della cascata alla sua sinistra continuava imperterrito, riempiendo gli spazi creati dal silenzio che i due tessevano. Adriano la fissava incuriosito, lei rimaneva solida e concentrata.
- Marilyn Monroe lavorava in fabbrica, prima di diventare una stella. In realtà non si chiamava neppure Marilyn Monroe…
Adriano annuì.
- Lo sapevo.
White sorrise leggermente, trapassando con lo sguardo gli occhi dell’uomo e andando oltre, come se sul muro alle sue spalle stessero proiettando Casablanca e lei non l’avesse mai visto.
- Quella donna si è rivelata essere una delle figure più iconiche della cultura popolare. Al pari di… Babbo Natale… - ridacchiò, poi batté leggermente le palpebre e infine sospirò. – Tre mariti, tredici film, migliaia d’interviste, una vita piena d’amore, dato e ricevuto. Mani strette, persone incontrate, gioie, dolori… Tanto bene… tanto male.
- La vita di una star.
- Era la regina di un’epoca d’oro
Adriano alzò gli occhi verso l’alto, portando la mano al mento e carezzandolo con delicatezza.
- Avrei voluto assaggiare un po’ degli anni cinquanta, sa’? – fece. - Doveva essere strano, nel dopoguerra, ergersi come modello per tutte le giovani donne. Ed era anche l’oggetto del desiderio di ogni uomo. Tutti volevano un pezzo di Marilyn… - sorrise. La mano si staccò dal mento e salì verso i capelli lucidi. White si accorse che sulle dita da pianista dell’uomo mancasse la fede nuziale.
- Nonostante tutto, non è stata una vita semplice, la sua… - riprese la donna. Vide Adriano annuire e inarcare le spalle.
- Certo. Ma credo che l’avrebbe preferita mille volte rispetto a ciò che le sarebbe spettato: neppure settant’anni fa, una donna bella come lei avrebbe dovuto lavorare in una fabbrica. Né sposare un uomo anonimo. Non sarebbe stata giusta, la sua esistenza, se fosse morta nell’anonimato. In ogni caso… - ridacchiò, portando nuovamente una mano tra i capelli. – Credo di aver già capito per quale motivo lei è venuta qui da me fin da Unima… – ribatté, inclinando leggermente la testa.
White sorrise, sorpresa, e inarcò il sopracciglio destro. - Ah sì?
- Ovvio... Come se fosse la prima volta che qualcuno interessato al talento di mia nipote si presenti qui davanti a me …
White non lasciò passare neppure un secondo, da quella frase.
- Prego?
Adriano la guardò con sufficienza.
- Sì, Orthilla. Mia nipote.
Quella non poté nascondere il sorriso che conquistò metà delle sue labbra, su cui il suo nude Lancôme aveva già fatto un giro. Si limitò ad abbassare lo sguardo, inclinando leggermente la testa.
- Forse avrei dovuto fare meglio i compiti a casa...
Adriano s’accigliò; la sua espressione si appuntì a tal punto da rendere solido e roccioso quel viso, generalmente armonioso.
- Non è qui per mia nipote? – chiese.
L’altra fece rapida cenno di no e vide Adriano sistemarsi meglio sulla poltroncina, con un grosso punto interrogativo stampato sul volto.
- Uhm. Va bene. E tutto quel discorso su Marilyn Monroe, e la vita differente, a cosa serviva di preciso?
White annuì nuovamente, quasi divertita.
- Sarei potuta entrare qui dicendo piacere, mi chiamo White e rappresento la B&W Agency di Austropoli, ma mi sembrava meno incisivo di un bel discorso sulle prospettive di vita.
- Oh, decisamente... – ridacchiò lui. Lo fece subito dopo pure lei.
- Il fatto è che tutto dipende dai punti di vista. Quando vediamo Marilyn pensiamo alla grandezza di questa donna ma io, che lavoro in questo mondo, vado a guardare anche alla lungimiranza dell’uomo della FOX che un giorno, mentre visitava la fabbrica dove lavorava Norma Jean Baker, ebbe l’audacia di immaginare quell’operaia dal grosso tutone di jeans, il caschetto protettivo e il volto sporco di grasso mentre cantava happy birthday al presidente Kennedy.
Adriano batté gli occhi due volte, poi rimase immobile.
- Io non capisco cosa vuole da me.
- E presto detto: io sono l’uomo della FOX, e di Marilyn Monroe ne ho trovate due, nella mia vita. La prima si chiama Yvonne Gabena, ed è con tutta probabilità la prima donna che Google ti restituirà se gli chiederai di mostrarti una top model. Mentre la mia seconda Marilyn dovrebbe conoscerla abbastanza bene…
L’altro aveva capito. Aveva abbassato gli occhi, poi aveva sussurrato quel nome e quel cognome tra i denti.
- Ruby Normanson…
E lo disse lentamente, come se fosse troppo doloroso pure da pronunciare.
- Ruby. Ruby Normanson. Il talento di quel ragazzo e la sua dedizione mi hanno convinta dalla prima volta che ho visto il suo volto, ad Austropoli.
A quelle parole, Adriano sorrise dolcemente. Alzò gli occhi e guardò la donna elegante seduta davanti a lui.
- Come andò?
- Aveva ancora la valigia con sé… - rispose White, fissandolo seria. – Entrò nel mio ufficio trascinando un grande trolley e si guardava attorno come se fosse appena entrato nel paese dei balocchi.
Adriano rise, accoratamente, forse in maniera esagerata considerata la serietà dell’altra.
- Già… tipico di Ruby. Non sognava altro che scappare da questo posto.
- Beh, Unima è molto differente da Hoenn…
- Comprensibile. Continui.
- Mentii, la prima volta che lo vidi. Gli feci credere di aver seguito per diverso tempo i suoi lavori, mentre in realtà lo avevo visto soltanto una volta, in televisione, alle quattro del mattino, su uno di quei canali di moda che propongono sfilate da ogni parte del mondo… avevo notato un bellissimo abito bianco indossato da una ragazza molto giovane, dagli occhi blu e i capelli lunghi. E Ruby, alla fine della sfilata, è uscito fuori e si è preso gli applausi delle poche persone che stavano in sala… ricordo che rimasi impressionata dall’abito, e anche dalla modella, anche se era decisamente un po’ troppo esile… aveva… sì, questi capelli azzurri, un po’ come i suoi…
Adriano la guardò per un secondo di troppo, con le sopracciglia inarcate e un leggero sorriso sul volto.
- Sto parlando di sua nipote, vero? – fece, prima di ridere divertita. – Ma certo che sto parlando di sua nipote...
- Sì, parla di lei. Orthilla.
- Complimenti, allora. Noto la somiglianza, già che me lo fa notare…
- Mi assomiglia, è vero. Ma continui, stava parlando di Ruby.
White sentì il cellulare vibrare nella sua borsetta ma si guardò bene dal prenderlo. Lasciò sedimentare le parole dell’uomo e dopo un secondo di troppo rispose.
- Sì, dicevo, Ruby fu comunque una scommessa: ho finanziato il suo lavoro, ho preso i suoi vestiti e li ho fatti indossare alle mie modelle, e non ho investito il patrimonio dell’azienda ma il mio, quello personale, perché ho visto nei suoi occhi qualcosa di cui mi sono accorta poche volte.
Adriano rimase serio.
- A cosa si riferisce, di preciso?
L’altra sentì forte la voglia di alcool premerle sotto la lingua. Sospirò, ripetendosi che avrebbe dovuto mantenere la lucidità. Annuì di nuovo, abbassò lo sguardo e fissò per un secondo le sue mani, giunte sulle ginocchia. Come potevano quei pensieri bussare alle sue porte in momenti del genere? Sbuffò e a poi resettò tutto, imponendosi la concentrazione che quella situazione meritava. Si rifocalizzò, guardò Adriano e si umettò le labbra con la lingua.
- Beh, parlo della delicatezza della sua passione… A prescindere dalla sua determinazione, nei suoi occhi non c’è mai stata rabbia, né paura, né risentimento. Non ha mai fatto ciò che doveva fare con lo spirito di rivalsa… Ruby non ha mai odiato nessuno.
Adriano rimase colpito piacevolmente da quell’affermazione e si dipinse un delicato sorriso sul volto, ricco di fierezza.
- Non è cambiato, allora…
- Disegna e cuce i suoi vestiti con l’amore di chi crea qualcosa di meraviglioso. Ruby ama ciò che fa... Il fatto è che ora non lo fa più.
Adriano batté le palpebre due volte, poi il suo sorriso sfiorì, lasciandogli un’espressione seria e spigolosa.
- Non mi sta portando brutte notizie, vero?
- Assolutamente no. – ribatté White. Poi abbassò lo sguardo e sospirò. – Sta bene. Credo, almeno.
- Ma…
- Sono qui per parlare di affari, e lo faccio con la persona che più ha influenzato Ruby Normanson negli scorsi quindici anni.
L’altro la guardava in attesa, senza riuscire effettivamente a capire dove volesse andare a parare. In cuor suo viveva ancora la paura che Ruby stesse male, e il timore che quella donna potesse dirgli qualcosa di terribile lo stava spezzando dentro. Però rimase calmo e composto, batté lentamente le palpebre e cercò di tirare dentro ai polmoni aria buona, viziata dall’odore del caffè che ancora aleggiava nella stanza.
- Quindi Ruby sta bene.
- Ecco, questo non lo so. Ruby ha, per motivi che non vengo adesso a spiegarle, abbandonato l’Atelier e la cosa mi andrebbe anche bene se non fosse per questo…
Abbassò poi la testa e infilò la mano nella Birkin. Qualche secondo dopo tirò fuori dalla borsa la foto di Sabrina, la Capopalestra di Zafferanopoli, e la poggiò sul tavolo.
Adriano la raccolse e la guardò.
- Meravigliosa, lei… - poi alzò gli occhi. – Quindi?
White ridacchiò elegantemente, estraendo in secondo luogo un piccolo modello 3D della donna, in tutto e per tutto assomigliante alla donna, star del Pokéwood. Era perfetta in ogni minimo dettaglio, dalle forme del suo corpo al colore degli occhi e dei capelli.
Adriano la fissò, confuso.
- Sabrina. – ribatté l’altra.
- No, questo è chiaro. Ha appena recitato in quel film con Silvestro, non ricordo come si chiama…
- Non ne ho idea ma Ruby doveva vestirla e questa cosa non è possibile dal momento in cui Ruby non è in Atelier.
Adriano la guardò confuso e White cominciò a sentire delle vibrazioni nello stomaco, figlie della smania di concludere, di vincere e cannibalizzare, di stringergli la mano col risultato in tasca e uscire da quel posto, salire sull’aereo fresco d’aria condizionata e lasciare Hoenn e il suo caldo umido, che ancora si stava sorprendendo di come i capelli non le si fossero increspati. Voleva tornare a tutti i costi a casa da suo marito, urlargli che lo amava con tutta se stessa e che era stata una stronza insensibile, spogliarlo e conservare un po’ di lui per qualche minuto.
Ma rimase immobile.
Schiuse le labbra, che risposero con un lieve schiocco.
- Sto cercando di cambiare le cose da Ruby avrebbe dovuto vestirla a l’Atelier Automne la vestirà.
Adriano rimase immobile. Spostò lo sguardo lentamente sulla statuina e la prese tra le mani.
- E lei vorrebbe che io disegni i vestiti di Sabrina? – domandò, con un filo di voce.
- No.
L’uomo continuava a fissare la statuina, poi sorrise, tradendo il suo spaesamento.
- Cosa vuole da me, allora?
Voglio che lei mi aiuti a scegliere tra gli abiti di Ruby, quelli che ha disegnato lui, dal suo grande librone. Si trasferirà ad Austropoli, le fornirò un meraviglioso appartamento e la coprirò di soldi…
E fu lì che l’uomo si alzò in piedi, caricando i polmoni d’aria e lasciando che rinfrescassero un po’ i suoi pensieri dall’interno. Si voltò, dando le spalle a White, che rimaneva immobile, con le gambe accavallate. Adriano guardava la cascata alla sua sinistra, in silenzio, aspettando che le parole della donna si sedimentassero.
- Le dico di no, White.
Si voltò e la guardò. Era fredda, immobile, glaciale. Annuiva, senza mai mostrare il minimo sussulto.
- Mi dia un motivo.
- Gliene posso dare almeno tre. Il primo è la mia responsabilità qui, a Ceneride: io sono il Capopalestra di questa città e sono legato a questi posti e a queste tradizioni. Anche mia nipote conta su di me per la sua carriera e non potrei mai andare via lasciandola qui da sola… non ha neppure vent’anni e la sua attitudine a fare stupidaggini è preoccupante…
Risero entrambi sommessamente.
- È molto giovane.
- E molto bella. E insieme, queste due cose sono un problema.
- Io però so che il suo caro amico Rodolfo qualche volta l’ha sostituito, e ciò che le chiedo io non è di trasferirsi in maniera permanente a Unima… - ribatté White. Si alzò in piedi anche lei, poggiando l’Hermes sulla scrivania dell’uomo e gli si avvicinò, lentamente. - Una volta che il lavoro sarà finito e la produzione del film sarà soddisfatta impacchetterà quello che si è portato nelle sue bellissime valigie firmate, pretenderà il bonifico che le spetta e girerà il muso dell’aereo che l’ha portata fin qui. Tornerà alla sua vita.
Adriano la guardava in silenzio.
- Il secondo punto è che io non sono uno stilista. – fece. - Sono sempre stato un Capopalestra e il fatto che abbia fatto da mentore a un ragazzo come Ruby non significa che io abbia le qualità per fare ciò che mi richiede. Non so come trattare con certe personalità…
- Ed ecco che scendo in campo io, che mando a fanculo certe personalità da quasi quindici anni, tutti i giorni.
Adriano annuì, ridacchiando.
- Buono a sapersi.
- E il terzo motivo?
Gli occhi profondi del Capopalestra si poggiarono su di lei.
- Io…
- Lei? Cosa?
- Io non posso fare questo a Ruby. Non voglio che possa pensare che abbia rubato i suoi sogni o che lo abbia in qualche modo… sostituito… Questo è il suo lavoro, il suo Atelier, la sua vita…
- Se permette cominciamo a darci del tu, Adriano.
- Certo.
- Anche perché Ruby ha deciso di mandare a puttane la sua vita già qualche mese fa, buttando al vento tutti i nostri sacrifici, i miei e i suoi, uccidendo i sentimenti di più persone e finendo per perdere se stesso. Ci diamo del tu perché, anche se sono venuta qui a ingaggiarla, oltre a essere un’amica di Ruby io sono anche la sua socia. E so bene quali siano gli sforzi che ha compiuto per arrivare dov’è arrivato… e mi brucia ma…
- Vederlo cadere non dev’essere stato bello…
- Non so come si sia comportato in passato, onestamente, - riprese White, incrociando le braccia sotto al seno. – ma credo che certe occasioni non accadano sempre.
Adriano abbassò lo sguardo.
- Quel ragazzo…
- Quell’uomo. – lo corresse lei.
- Già. Ha combattuto le sue guerre. Non sempre è stato semplice supportarlo, perché è dotato di una... sensibilità, sì, al di fuori dalla norma. Quando era più giovane gli è servita la mia vicinanza per riuscire a mettere ordine nella sua vita... con suo padre, e con Sapphire. Ma non è stato per nulla semplice, anzi...
- Mi posso rendere conto di tutto ciò che dici, Adriano. E lo so, delle volte la vita non è semplice. Ma tu continui a vederlo come un ragazzino indifeso, mentre io lo reputo un uomo dal talento smisurato che non ha più dato sue notizie.
Annuì, lui, guardandola dritta negli occhi. Lasciò lo sguardo su di lei un secondo di troppo, per guardare la linea morbida del suo volto che si scontrava con la serietà della sua espressione, dura come l'acciaio. I suoi occhi, di quell'azzurro profondo e penetrante, erano rimasti fissi su di lui mentre le labbra erano rapprese. Riuscì a comprendere alla perfezione quanto nervosa quella fosse.
- Sono venuta a chiederle aiuto, senza elemosinare nulla.” disse White. “Come già anticipato, sarà ben pagato. Ma venire qui da lei...
- Ci davamo del tu.
- Sì, dicevo... venire da te è stata la decisione più giusta, secondo me, perché io voglio tutelare il suo lavoro e la sua persona.
L'espressione di White mutò all'improvviso, si vestì di confusione e riempì i suoi occhi di spaesamento. Abbassò il volto e guardò altrove, prima di proseguire.
- So che tornerà... E non voglio che quando succederà trovi altre macerie, a ricordargli quanto debole sia stato.
Il tono della sua voce era sceso. Adriano le poggiò una mano sulla spalla, cercando di catturare il suo sguardo.
- White... Capisco ciò che dici. Tieni ai tuoi affari quanto tieni a lui.
Lei rimase in silenzio, tuffandosi nel suo sguardo.
- Lasciami valutare per qualche giorno la situazione. Spediscimi tutto l'incartamento e fammi capire che margini di manovra ci sono per... includere Orthilla in qualcuno dei tuoi progetti... come hai potuto vedere è una ragazza molto talentuosa, bella, e avvezza allo show business... potrebbe essere un'occasione, per lei...
White annuì e sospirò, sentendo le mani che le stringevano lo stomaco rilasciare lentamente la presa.
- Va bene... In giornata arriverà tutto sul tuo indirizzo mail...
Si voltò, poi, tornando alla sua borsetta e estraendo un bigliettino da visita. Lo poggiò sulla sua scrivania. Infilò poi il braccio sinistro nei manici della Birkin e si avvicinò nuovamente all'uomo, tendendogli la mano.
- Spero davvero che tu possa prendere la decisione giusta.
Adriano annuì e la strinse, silenzioso. La vide poi voltarsi e sfilare lentamente verso la porta, prima di fermarsi. Voltò solo parzialmente la testa e lo guardò nuovamente, estraendo gli occhiali da sole dalla borsa.
- Ti chiamerò esattamente tra tre giorni, ma il mio numero è lì, sulla tua scrivania. Grazie per il caffè e complimenti per l'ufficio. Hai buon gusto...
Chiuse la porta alle sue spalle, lo scatto della serratura produsse un rumore meccanico che rimbombò nel lungo corridoio esterno, riempito poi dai tacchi della Presidentessa, che si avvicendavano verso l'uscita.
Hoenn, Albanova, 20 giugno 20X1
Atterrarono dolcemente.
Whiteley stringeva vigorosamente il petto ossuto di Lino attraverso la sua camicia di cotone bianco. Le mani della ragazza erano intrecciate con forza e tremavano ancora, nonostante Altaria avesse poggiato per terra le zampe e si fosse accucciato, per permettere ai due di scendere.
Lui si voltò lentamente, che aveva il volto dell'altra a pochi centimetri dall'orecchio.
- Siamo arrivati. Questa... questa è Albanova...
La vide aprire i grandi occhi azzurri, sempre serrati durante la traversata. Percepì il suo respiro, spezzettato e nervoso, mentre lentamente riprendeva confidenza con la terraferma. Allungò un piede e poggiò la ballerina destra sul prato, seguita poi da quella sinistra. Lino l'aiutò a scendere, poi le saltò accanto e sorrise.
- Oggi è una bella giornata. Niente male... generalmente piove.
L’altra non aprì bocca, si limitò a lisciare con le mani la camicetta azzurra e la gonna, che ricordava il colore delle scarpe. Lino la guardava in silenzio.
- Cosa devi fare qui, ad Albanova?
Quella lo guardò e inarcò entrambe le sopracciglia.
- In realtà starei cercando una persona... Non so se la conosci... cioè, la conosci, o meglio, lo conosci, è un uomo.
- Dimmi di chi si tratta e ti risponderò. - rispose l'altro, col solito sorriso cordiale sul volto. Vide poi Whiteley annuire.
- Ruby. Normanson. Ruby Normanson.
Gli occhi verdi di Lino si spalancarono e una maschera di sorpresa gli ricoprì il volto.
- Ruby! Certo che conosco Ruby! La domanda è come lo conosci tu.
Whiteley sorrise, stupita. - Mi stai dicendo che ho chiesto alla prima persona che passava dall'altra parte del mondo se conoscesse Ruby e sono stata fortunata?!
Lino fece spallucce.
- Qui a Hoenn Ruby è una persona nota. È andato spesso in televisione. Ma pochi sanno che lui ha vissuto in questo paesino tra i boschi...
Si guardarono poi intorno: Albanova era composta da un piccolo nucleo di casette, ordinatamente disposte su di una via principale e sulle sue diramazioni. Accanto all'asfalto della strada vi era direttamente il prato, ben curato dalla comunità, che arrivava a perdersi fin dentro ai boschi, che circondavano il paese. Tutte le abitazioni si assomigliavano, sia perché erano tutte rivolte verso sud, sia per il colore dei tetti, le cui tegole erano categoricamente di laterizio rosso.
- Io... - disse poi, a bassa voce, mentre delle nuvole d'ovatta s’accingevano a coprire lente il sole, passeggiando nel cielo.
- Sì? - rispose Lino.
- Devo trovarlo... Devo trovare il signor Ruby.
Quello spalancò gli occhi, poi sorrise incredulo.
- Uao... addirittura il signor Ruby... Ma tu chi sei? - fece poi, incominciando a incamminarsi e facendole un cenno con la testa. Whiteley prese a seguirlo, stringendo i manici della sua shopper di pelle bianca.
- Io sono la sua assistente.
- Assistente? So che è andato a Unima per lavoro ma non so bene di che si occupi...
- Moda. Lavoro in un Atelier, nel suo Atelier. Lo sto cercando, e so che lui è originario di qui, quindi...
- Ottimo. Anche se non è del tutto esatto... - ridacchiò l'altro.
- Come?
- Lui ha vissuto qui, ma non è originario di Albanova.
- Ah no?
L'altro fece segno di no con la testa.
- No. Lui è nato a Johto, a Olivinopoli.
Whiteley impallidì, pensando al fatto che avrebbe potuto doverlo cercare ancora più lontano. E quindi avrebbe dovuto prendere un altro aereo e avrebbe passato altro tempo lontana da casa. Per un attimo ripensò al suo appartamento, caldo in estate e freddo in inverno, alla moquette infeltrita davanti alla porta del bagno e alla macchia d’umidità dovuta alla perdita della doccia della signora Robinson al piano di sopra. Era un appartamento minuscolo, il suo, ma era il suo. Già si vedeva lì, sul divano di pelle consumata, mentre riguardava l'ennesima volta I Ponti di Madison County.
- E tu? Non l'hai visto, vero? - domandò poi.
Lino fece di nuovo cenno di no, fermandosi poi proprio in corrispondenza di un vialetto laterale, che portava a una delle poche casette che spuntavano come meravigliosi girasoli dal prato verde.
- Questa è la casa in cui ha vissuto con Sapphire fino a qualche tempo fa... - fece, spingendo con la mano il cancelletto dell'abitazione, che cigolò rumorosamente. Assunse un'espressione infastidita, lui, propria di chi non amasse i suoni forti, poi sospirò.
- Si vede che è disabitata da un po' di tempo, eh? - chiese, mettendo piede sul vialetto che tagliava in due il giardino. L'altra guardava l'erba incolta, alta fino a quasi settanta centimetri, che si proiettava disordinata verso l'alto.
- Viveva qui?
- Sì. Con Sapphire, la sua ragazza.
E Whiteley ricordava bene la donna di cui parlava Lino. Ricordava i suoi profondi occhi blu, la pelle diafana e i capelli corti, disordinati ma con un senso specifico globale. Sapphire era la donna differente, quella che urlava e sbraitava, la selvaggia, così come la chiamava Ruby per telefono, non troppo alta, non troppo magra, non troppo adatta al mondo in cui l’uomo che stavano cercando era entrato a far parte.
La loro casa doveva essere con ogni probabilità una delle più carine di tutto l’isolato, se non dell’intero agglomerato di abitazioni che sorgeva ad Albanova, se non fosse risultata inevitabilmente abbandonata; le napoletane erano ben serrate, lo zerbino era stato sbalzato nel prato per via di qualche forte folata di vento, che lo stesso Lino aveva ammesso fossero abbastanza frequenti. Whiteley aveva poi voltato la testa, fissando con lucidità la cassetta della posta che avevano sorpassato pochi secondi prima. Questa, era piena di comunicazioni cartacee, lettere e multe da pagare. Si avvicinò e vide che tutte, ma proprio tutte, fossero indirizzate a Sapphire Birch e non risalivano a più di una settimana prima.
- Loro… - fece Whiteley, rileggendo più volte il cognome di Sapphire e poi spostando lo sguardo sugli occhi di Lino, verdi e ingenui. - … vivevano qui assieme?
Quello si limitò a fare spallucce e a sospirare.
- Sì. Due anni fa erano qui… Sai… - fece, alzando gli occhi al cielo e sospirando. – Al compleanno di Ruby, il due luglio, diedero una grande festa ed eravamo tutti qui, in questo giardino. E c’erano festoni, tende, un bel buffet, la musica, e tanta gente. Lui qui è una sorta di superstar, te l’ho detto…
Whiteley storse le labbra e sospirò.
- Anche da me…
Si voltò per scrupolo e mosse qualche passo con le sue ballerine blu verso la porta, limitandosi a premere con l’unghia ben curata sul campanello, che trillò per pochi secondi. Sognava, lei, che ad aprirla ci fosse un Ruby con lo sguardo spento, magari coi capelli in disordine e la barba sfatta, i vestiti sporchi e di qualche taglia più grandi. Ma immaginarlo come se fosse stato appena salvato da un’isola di un atollo tropicale faceva a cazzotti con la realtà dei fatti e la porta che aveva davanti, che rimaneva chiusa.
- Non c’è nessuno… - ribatté Lino, mentre Whiteley sentiva l’insofferenza montare dentro di lei. Il respiro cominciò a diventare più pesante e quel caldo non aiutava a lucidare i pensieri.
Lei voleva soltanto tornare a casa sua.
E allora si gettò contro la porta, battendo i pugni con moderato vigore, aderendovi contro col corpo e stringendo gli occhi del colore del cielo.
- Signor Normanson! Ruby! Signore! – esclamò, alzando la voce e continuando a colpire la superfice di legno dell’ingresso di quella casa ormai abbandonata. Ripensò alla Presidentessa, alla sua espressione poco sorpresa sul volto e a tutte le conseguenze che quel fallimento avrebbe potuto portare.
- Ruby! Sono Whiteley, la sua assistente! La prego, mi apra!
E continuava a battere sulla porta, lei, mentre Lino rimaneva immobile. Quello guardava la giovane donna e sospirò, prima che percepisse la presenza di qualcuno alle sue spalle.
- Lino… - sentirono entrambi, e si voltarono, lei più repentina dell’altro. Videro una donna sottile e posata, dai capelli castani, corti e acconciati in un elegante Demi, con indosso una canottiera bianca e un pantaloncino dello stesso colore. Anche i sandali che indossava erano bianchi e facevano risaltare in maniera eccezionale il colore dei suoi occhi, che erano rossi come rubini. Teneva tra le mani due pesanti buste della spesa, da cui fuoriuscivano tre gambi di cipollotto.
Whiteley vide l’espressione sul volto di Lino, dapprima sorpresa, addolcirsi. Sorrise delicatamente, com’era solito fare, e chinò leggermente il capo.
- Caroline… Ciao. Scusa per… ecco, il trambusto qui fuori…
Quella spalancò gli occhi, sorpresa, quindi li strinse e fece cenno di no col capo.
- No! Figuratevi! Qui non succede mai nulla! Ero solo stupita, tutto qui! – aveva risposto, con la voce squillante e un sorriso inconfondibile che Whiteley aveva già riconosciuto. Si voltò, che aveva ancora le lacrime agli occhi, portò un po’ di quell’aria pulita nei polmoni e si avvicinò all’altro. Fece un piccolo inchino, unendo le mani sulle cosce.
- Buongiorno… mi scusi se possa averla in qualche modo impressionata. Io sono Whiteley, l’assistente di Ruby Normanson all’Atelier Automne…
Caroline sorrise ancora, stringendo gli occhi come aveva fatto prima e fece nuovamente cenno di no con la testa.
- Oh, non preoccuparti! E così tu sei la sua assistente! Sei una ragazza meravigliosa e hai degli occhi stupendi!
Lino sorrise genuinamente e scambiò uno sguardo con la più giovane.
- Caroline… Whiteley sta cercando Ruby. – fece, e l’espressione della donna mutò; inarcò le sopracciglia e sospirò, confermando l’effettiva complicatezza della situazione, e inavvertitamente lasciò cadere un cipollotto, che scivolò oltre il bordo della busta di carta; entrambi, Whiteley e Lino, accorsero in suo aiuto, con lei che raccolse l’ortaggio e lui che le prese una delle due buste dalle mani.
- Oh. Grazie! – sorrise gioviale. Whiteley la guardava di sottecchi, non riuscendo a non sovrapporre la sua immagine a quella di Ruby. Si assomigliavano moltissimo, per le espressioni del viso, il sorriso, gli occhi. Aveva capito che, se Ruby fosse stata la mela, l’albero da cui non era caduto lontano doveva essere per forza Caroline. Quella aveva raccolto il cipollotto dalle mani della giovane e l’aveva infilato nella busta che aveva preso Lino.
- Posso offrirvi una tazza di tè freddo? – domandò.
Insieme, i tre s’incamminarono verso la casa della donna, superando la piazza centrale di Albanova, con la grande fontana in cui nuotavano carpe di varie forme e dimensioni e voltando nel penultimo viale sulla destra, dove quattro villette si spartivano i pochi metri prima che l’inizio del bosco si appropriasse dell’asfalto con la sua mano verde. Seguirono tutti e due la donna fino alla terza villetta, non delimitata da steccati e recinzioni, e di cui il gran giardino, ben curato e pieno di fiori e palme, veniva condiviso coi vicini, una classica e felice famigliola composta da genitori e due figli.
- Salve Caroline! – aveva salutato lui, il capofamiglia, mentre approfittava della giornata di sole per potare le rose. Martin, così si chiamava, indossava maglioncini a quadri da settembre ad aprile e polo Ralph Lauren da maggio a settembre, pettinava i capelli tutti da una parte, verso destra, per nascondere un accenno di calvizie e aveva il sorriso più bianco che chiunque avesse mai visto. Stringeva tra i guanti da giardinaggio verdi un grosso paio di cesoie d’acciaio.
- Salve! Ne approfitti per potare le rose? – domandò Caroline, raggiante. Whiteley la vide di nuovo sorridere, mentre stringeva quanto più poteva lo sguardo.
- Certo! Avevo un po’ di tempo libero e questo cielo meraviglioso mi ha convinto!
Sorrideva.
Sorrideva troppo e Whiteley ne era infastidita.
- Allora io entro! – squillò Caroline, ancora sorridente, cercando nella borsa le chiavi.
- Dia qui. – disse poi Lino, prendendo l’altro sacchetto della spesa, permettendo alla donna di aprire la porta e farli accomodare in salotto, che a Whiteley ricordava tanto quello di casa sua, con un lungo divano a tre posti di pelle marrone e dai cuscini bordeaux, davanti a un tavolino in arte povera su cui, qualche minuto dopo, la padrona di casa poggiò un piattino con grossi bicchieroni di cristallo e una grossa brocca di tè ghiacciato, aromatizzato alla menta.
- È molto dolce, ma se preferite potete aggiungere dello zucchero. – aveva detto quella, cominciando a versare la bibita fresca e a porgerla a Lino, il più vicino a lei. Sorrideva ancora, posata in ogni suo gesto, in ogni suo movimento, mentre guardava con occhi interessati l’ospite dai lunghi capelli castani.
- Hai detto di chiamarti Whiteley, vero?
Quella annuì, rapprendendo le labbra involontariamente. – Mi scusi... per prima.
- Oh, ma tranquilla! Il calore dà parecchio alla testa, a volte! – rise ancora, stringendo per l’ennesima volta gli occhi. – Cercavi mio figlio?
Whiteley annuì nuovamente.
- Sì. Sono venuta qui per lavoro, in realtà.
- Lavori con mio figlio?
- Sì. Sarei la sua assistente... o almeno... lo ero... – sorrise nervosamente, aggiustando l’orlo della gonna mentre guardava il tè versato da Caroline che veniva versato nel bicchiere che pochi secondi dopo aveva stretto tra le mani. L’altra si era limitata a passarglielo, spalancando gli occhi, sorpresa.
- Vieni da Unima?
- Sì. Mi chiedevo se sapesse dove si trovi... Ci sono delle... – bevette un sorso di tè, battendo un paio di volte le palpebre e sorridendo per un attimo. – Buonissimo! Comunque, ci sono delle... delle cose che dovrebbe fare, e mettere a posto, con la Presidentessa e... e poi, gli altri vestiti. E l’atelier.
Lino la guardò, poi guardò Caroline.
- È un po’ agitata... – cercò di giustificarla, grattandosi la guancia e bevendo a sua volta. – Ma nella confusione delle sue parole mi è parso di capire che cercasse Ruby...
Caroline si limitò ad annuire.
- Sì, avevo capito... più o meno. Volete dei pasticcini?
- No, grazie. – replicò Whiteley, continuando a bere.
- In ogni caso... ho sentito Ruby un paio di settimane fa, l’ultima volta... Mi ha telefonata...
Whiteley spalancò i grossi occhi azzurri.
- Quindi è vivo?!
Caroline sorrise.
- Sì! Certo che è vivo! Non starei così tranquilla se sapessi che mio figlio fosse morto!
Anche Lino sorrise. Guardò Whiteley allentare il colletto della camicetta azzurra e umettarsi le labbra.
- Ehm… Credo che a questo punto debba chiederle di darmi il suo numero… Vorrei mettermi in contatto con lui e capire se e quando tornerà al lavoro…
L’espressione di Caroline mutò rapidamente, come se il cielo più azzurro di sempre fosse stato improvvisamente coperto da nuvole nere di tempesta.
- A dire il vero è lui che chiama me, sempre con un numero privato… quindi non saprei come aiutarvi. Ma, dimmi Whiteley… Si è messo nei guai?
- Uh… no. È che abbiamo bisogno di lui… e…
Stava per dire a quella donna di Yvonne, poi si bloccò. Serrò le labbra e sospirò; non voleva essere lei a dire a quella donna così solare che sarebbe diventata nonna e che suo figlio stava scappando chissà dove, chissà per quale motivo.
- E? – domandò Caroline. Lino continuò a guardare l’espressione impanicata sul volto di Whiteley.
- Quindi Ruby non è qui?
- No. Da almeno otto anni… - ridacchiò quella. – Ha convissuto con Sapphire fino a quando non è partito per Austropoli, e poi… beh, si sono lasciati. Ma lo saprai.
- Per sommi capi, sì…
La giovane portò nuovamente il tè alle labbra, finendo il bicchiere con un’ultima grande sorsata. Strinse gli occhi, il suo nervosismo era palese, tanto che Lino le mise una mano dietro la schiena, sudatissima, per cercare di calmarla.
- Forse Norman potrà dirvi di più… - continuò la padrona di casa. -Non vive più qui, da quando abbiamo divorziato… ma è pur sempre il padre di Ruby. A Petalipoli forse troverete le vostre risposte.
Whiteley storse le labbra e si alzò in piedi.
- Grazie. Posso usare un attimo il bagno?
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