Against Me
Quando tutto cade.
9.
Hoenn,Petalipoli,20 giugno 20X1
- Lino. Non ti aspettavo.
La voce di Norman era profonda e calda. Aveva sollevato lo sguardo distrattamente per poi tornare a guardare in basso, concentrandosi sulle pile di fogli che aveva davanti. Queste erano disposte sulla sua scrivania di palissandro, in maniera ordinata dalla più alta alla più bassa.
Il più giovane anticipò Whiteley e le tenne la porta aperta, distratto, mentre continuava a guardare il Capopalestra.
- Lo so. Mi scusi per il disturbo, è che avevo bisogno di incontrarla... - aveva detto, esibendosi in un lieve inchino. Fece spazio a quell’altra e chiuse la porta, poi si girò nuovamente verso il padrone di casa, avanzando fino a raggiungere il fianco della ragazza. Vedeva le mani di Whiteley stringere con delicato vigore la borsetta di pelle.
Erano lì da una ventina di secondi ma Norman non li aveva mai guardati. Erano rimasti in religioso silenzio, mentre aspettavano che quello finisse di scrivere qualcosa sui suoi fogli, con la testa inclinata leggermente verso destra e gli occhiali sulla punta del naso, che di lì a poco sarebbero caduti se non li avesse sistemati. E lo fece, poco dopo aver poggiato la penna a sfera nel suo astuccio. Alzò poi lo sguardo.
- Accomodatevi.
Indicò loro le poltroncine che aveva davanti, rivestite di prezioso velluto blu. A Whiteley sembrò immediatamente un uomo molto rigido, poco propenso a condividere le proprie parole con gli altri. Si sedette prima di Lino, poggiò la borsetta sulle ginocchia e cercò di rimanere quanto più dritta possibile con spalle e schiena, che aveva sempre avuto la pessima abitudine di curvarsi, anche se stava cercando di lavorarci sopra. Intanto gettò uno sguardo nell’ufficio e apprezzò un po’ più distintamente i particolari dell’arredamento: nel complesso lo stile era classico. C’erano molti elementi in legno e la finestra laterale a fare da grosso punto luce. Più di tutto, però, Whiteley era totalmente deliziata dalla boiserie in noce che rivestiva le pareti, e la grande libreria alle spalle della scrivania, su cui erano sistemati decine e decine di tomi, di ogni genere e dimensione.
- Non la vedo da parecchio tempo. – fece Lino, che intanto s’era accomodato accanto a lei.
- Non passi di qui da un po’, hai ragione. – ribatté l’altro, con lo stesso tono di voce.
L’uomo non aveva avuto alcun cenno di reazione e neppure il sorriso gioviale di quello che un tempo fu il suo migliore allievo aveva addolcito l’espressione severa sul suo viso.
- Mi spiace molto... sarei dovuto venire a trovarla già qualche tempo fa. – aveva risposto Lino, sorridendo gioviale come sempre, stringendo le palpebre. – Lei è Whiteley, una mia amica.
La indicò, inclinando leggermente la testa in sua direzione. Quella avvampò quasi subito; annuì e abbassò il volto, stringendo nervosamente la cinghia della borsetta tra le mani.
- P-piacere, Signor Normanson.
Il padrone di casa lasciò sedimentare le sue parole e poi sospirò.
- C’è qualcosa che non va?
- N-no, tutto bene!
L’uomo annuì, guardò Lino e inarcò le sopracciglia, che a sua volta sorrise e fece spallucce, quasi come a voler dire è fatta così. Non alzò gli occhi, Whiteley, fino a quando non lo vide riprendere la Parker tra le mani.
- Solo un momento.
Levò il cappuccio della penna e scrisse con la mano sinistra una nota sul taccuino che aveva accanto. Poi, metodico, ripose nuovamente la penna nell’astuccio.
- Altrimenti dimentico. – disse, quasi a giustificarsi, vedendo poi Lino accavallare le gambe, incrociando entrambe le mani con una grazia quasi innaturale. Whiteley era immobile, oltremodo nervosa, mentre continuava a straziare il manico della borsetta che stringeva avara. Guardò Lino, che sembrava più a suo agio col padre di Ruby; li sentiva parlare di una certa Stacey, che entrambi parevano conoscere e che a quanto pareva aveva appena deciso di prendere la patente nautica per spostarsi più rapidamente via mare, e pensò che non vi fosse occasione migliore per cercare in giro qualche fotografia di Norman da giovane, che lo ritraesse magari con suo figlio, ma alle pareti erano appesi soltanto attestati e diplomi, tutti perfettamente paralleli, alla stessa distanza l’uno dall’altro, senza neppure un alone di sporco sui vetri.
La sua attenzione si focalizzò però su di una piccola fotografia che l’uomo aveva sulla scrivania, accanto a un Macbook, splendente come argento appena lucidato, dove un Ruby a cui non avrebbe dato più di quattro anni, dal volto sorridente, stava sulle spalle di suo padre; a quei tempi, Norman era molto differente dall’uomo che aveva di fronte.
Dapprima pensò che Ruby gli somigliasse davvero poco: certo, i colori erano i suoi, ma il più giovane aveva rubato a sua madre fisionomia e dettagli, con la forma delicata del volto e il corpo più sottile e slanciato, oltre che per il sorriso smagliante.
Guardò Norman, poi, così serioso e austero e pensò che quello non passasse molto tempo a sorridere. Lo fissò forse con troppa insistenza, Whiteley. Sovrappose il ricordo di Ruby all’immagine di suo padre e si rese conto che, dell’uomo che aveva davanti, lo stilista avesse preso soltanto il cognome: stretto nella sua camicia bianca dal colletto e i polsini inamidati, ben stirata e chiusa fino al penultimo bottone, Norman era un uomo talmente posato da dare di se stesso l'immagine di una persona che nel silenzio avesse costruito il proprio maniero; probabilmente respirava a tempo col ticchettio delle lancette del Sector che portava sul polso, per godersi al meglio quel segmento di nulla, di vuoto. Ordinata era la sua scrivania e curata era la sua figura: non un capello rovinava l’armonia della sua pettinatura, né si poteva avvertire il sentore di un pelo di barba scampato alla rasatura quotidiana del suo volto.
Lo fissava con così tanta insistenza che Norman si sentì quasi costretto a guardarla, inarcando le sopracciglia folte. La donna distolse subito lo sguardo, e allora lui si focalizzò sull’ex allievo.
- Come posso aiutarvi? – domandò.
Lino si voltò a guardare Whiteley, che stava con la testa bassa e le dita ancora strette attorno al manico di pelle della borsetta. – Può dirglielo lei stessa.
Quella sentì un fremito investirla e poi la lingua le si attaccò involontariamente al palato. Norman la guardò e poi annuì leggermente, come per farle capire che fosse in ascolto.
Toccava a lei.
- Sì, ecco... io vengo da Unima. E sono... cioè, ero...
Tanta era l’incertezza nelle sue parole che il Capopalestra sentì forte l’impulso di spostare per un attimo gli occhi su Lino, che si limitò ad annuire e sorridere a mezza bocca.
- Che cos’era a Unima, questa ragazza? – domandò Norman, proprio a lui.
- Lei era l’assistente di Ruby.
L'altro la guardò per un attimo, quindi quella annuì, come a confermare le parole che aveva appena sentito.
- E perché sei qui?
- I-io… - tentennò, battendo le sopracciglia più e più volte, cercando di riprendere il controllo di se stessa. Norman tornò a guardare Lino.
- Perché è così nervosa? – chiese.
- Io non saprei dirglielo… Whiteley. – la chiamò, affacciandosi verso di lei, che continuava a guardare imperterrita le proprie ginocchia.
- C’è qualcosa che dovrei sapere? – ribatté l’uomo, con quella voce grossa, mentre aggrottava la fronte. E mentre a Lino non restava altro che fare spallucce, la ragazza annuì.
- E cosa dovrei sapere?
Passarono alcuni secondi, dove i tre respiri si accavallarono disordinati. Lei però ancora non riusciva a parlare, immobile.
- Whiteley… - la chiamò Lino, mettendole poi una mano sulla spalla.
- S-sì. Lei magari può... dirmi dov’è suo… dov’è suo figlio... Ecco, io lo starei cercando.
L’uomo rimase impassibile per qualche secondo, poi portò entrambe le mani al volto, raccogliendo il mento tra i palmi e coprendo le labbra con entrambi gli indici.
- Stai cercando mio figlio?
Annuì nuovamente, e dopo qualche secondo fu Lino a incoraggiarla, stringendole nuovamente la spalla.
- Spiega, dai… - fece.
- Sì, ecco… lui doveva tornare al lavoro diverso tempo fa… ha ancora un... ancora un contratto. Ma è sparito.
L’espressione di Norman non mutò: con la bocca nascosta dalle mani, restò una ventina di secondi in silenzio, a scrutare impassibile gli occhi sfuggenti della ragazza che aveva di fronte. Poi distolse lo sguardo, inarcò le sopracciglia e sospirò. Non passarono molti secondi prima che alzasse l’interfono e portasse la cornetta all’orecchio.
Dal ricevitore si sentì forte e chiaro la voce della segretaria.
- Portaci del tè verde. Con ghiaccio. – le disse quello, abbassando poco dopo il ricevitore.
- Non ce n’è bisogno… - ribatté Lino, sorridendo ancora gioviale, cercando di stemperare un po’ la situazione.
- I-io vorrei sapere solo se stia bene… se l’ha visto… - riprese Whiteley, che ancora non guardava l’uomo negli occhi. Si grattò la fronte con l’unghia smaltata e rimase in attesa di una risposta, che arrivò poco dopo.
- Quindi staresti cercando mio figlio.
- S-sì, è così. Doveva ripresentarsi ma… beh, io non so dove sia.
Norman si riservò qualche secondo di silenzio, poi riprese.
- Ed era il tuo capo.
- Sì, signore.
- E che capo era?
Lo sguardo di Whiteley si levò verso il soffitto, e la sua espressione si rasserenò.
- Molto bravo. Era un perfezionista… voleva che tutto fosse fatto nel modo giusto, e controllava che ognuno facesse la propria parte.
- Un po’ come lei. – aggiunse Lino.
La ragazza fece spallucce. - Ma non è severo. Anzi, è sempre molto gentile.
- E dove lavorava? – chiese nuovamente l’uomo.
- A… a Unima, gliel’ho detto. In un atelier. Abbiamo organizzato eventi… e sfilate! Suo figlio è bravissimo!
- Uhm…
Norman pareva pensieroso. Grattò la guancia sinistra e sospirò.
- E gli piaceva, il suo lavoro?
- C-certo! – esclamò l’altra. – Curava ogni dettaglio! Con dedizione e amore!
- E nonostante questo non ha rispettato il contratto ed è andato via.
Whiteley annuì, ma rimase interdetta; guardò in basso e si esibì in una timida risposta.
- Beh… sì.
- Come hai detto di chiamarti? – chiese ancora Norman.
- W-Whiteley, signore.
- Whiteley… ciò che mi dici non mi sembra una cosa che Ruby farebbe, onestamente. Mio figlio non è un bugiardo.
Gli occhi della bella, azzurri come il cielo, si spalancarono stupiti. – Ma io non intendevo minimamente accusarlo!
- E cosa intendevi fare?
- Nulla! È che noi abbiamo bisogno di lui e… e vorremmo capire dove sia.
Grattò di nuovo la stessa guancia, Norman, sospirando e continuando a fissare la ragazza, proprio come aveva fatto lei qualche minuto prima.
- Questo non lo so.
Whiteley abbassò il volto, fissando il fermacarte semisferico d’ottone, dalla superficie lucidata dagli anni di usura. Gli rispose, continuando tenere la testa basta.
- La questione è... - fece. - ... è che non ho molto tempo. Ruby deve portare a termine un grosso lavoro e… e a me non piace più andare in atelier senza di lui.
La sua voce era sottile e docile e gli enormi occhi cerulei dribblavano quelli di Norman, che rimaneva in ascolto e la scrutava, attento.
- Di che lavoro parli?
- La Presidentessa ha… ha ricevuto una mail dagli Studios, per un film, e…
- Presidentessa? – chiese ancora quello, aggrottando la fronte. – Chi è?
Whiteley strinse ancora il manico della borsa. - È la socia di Ruby… - rispose. In cuor suo si chiedeva però per quale motivo dovesse subire quell'interrogatorio.
- Ruby ha una socia?
- Sì. La signorina White… Cioè, signora. Ora è sposata.
- Ed è anche lei una stilista?
- No, no… - ribatté l’altra, scuotendo la testa. – Lei si occupa di tutta la questione finanziaria, e delle sponsorizzazioni… e delle modelle.
- Le modelle?
- Sì. – annuì quella. – Le ragazze che sfilano coi nostri abiti.
- E lui… - fece, spostando per un attimo gli occhi oltre la finestra alla sua sinistra, dove qualche uccello aveva preso il volo. – … lui veste delle modelle, quindi…
Non fu una domanda. Fu più una presa di coscienza.
- Sì…
- Ed è bravo?
- Molto. Abbiamo venduto tanti abiti, la scorsa stagione…
- In effetti… - s’intromise Lino, che fino a quel momento non aveva avuto l’occasione di aprire bocca per più di qualche attimo. – Ho visto più volte Ruby su internet… ho letto che l’Atelier… - guardò poi Whiteley, dopo qualche secondo. – Com’è che si chiama?
- Automne.
- ... l’Atelier Automne, sì, ho letto che è una giovane realtà e che molte star di Unima hanno indossato i suoi vestiti…
Norman annuì.
- Quindi è diventato uno stilista importante.
- Certamente! – rispose Whiteley. – Il nostro lavoro è stato enorme! In pochissimo tempo abbiamo dovuto produrre tantissimi abiti e…
- Ma ora lui non c’è più.
L’entusiasmo negli occhi di Whiteley, che prima aveva spinto rapido quel timore reverenziale che la ragazza aveva nei confronti dell’uomo che aveva di fronte, si spense immediatamente. Lui non pareva particolarmente turbato da quella situazione e continuava a fare le sue domande, come se avesse potuto risolvere qualcosa.
Tuttavia non sembrava così interessato a farlo. A Whiteley sembrava che lui li guardasse dall’alto, come dalla cima di un’altura, mentre loro cercavano di capire qualcosa. E allora anche Lino si rese conto che quell’impasse non sarebbe stata superata se lei non avesse parlato chiaramente, e se Norman non avesse deciso di scendere dal suo trono di diffidenza.
Perché era di quello, che si trattava: Norman non la conosceva. E non era il tipo d’uomo che si apriva a chiunque. Riconobbe, il ragazzo, che nonostante i tanti anni passati come suo allievo, non conoscesse appieno il suo maestro e il bagaglio che si trascinava dietro.
- Lei… lei non può aiutarla in alcun modo? – chiese, infrangendo la parete di silenzio che tutti si erano impegnati a costruire. L’altro si voltò nuovamente verso la finestra, mantenendo sempre solido lo sguardo.
- Lino… non vedo Ruby da più di un anno. Venne a Hoenn per poco tempo.
- Era marzo… - s’inserì Whiteley.
- Già. Probabilmente era marzo… - annuì l’altro, pensieroso.
– Oh… - disse poi la ragazza, col volto ancora basso. - Fu quando lui e Sapphire si lasciarono...
- Lo sai? – domandò quello, voltandosi verso di lei.
Whiteley annuì, rapida e concisa, guardando per la prima volta Norman negli occhi.
- Sì. Quello fu il suo periodo più difficile. Non fu semplice per noi aiutarlo… è stato così sfuggente, in quei giorni…
- Che successe?
- Successe che…
E poi si fermò. Gli occhi del Capopalestra continuavano a scrutarla ma fu lì che quella cominciò a chiedersi se dare tutte quelle informazioni al padre di Ruby fosse poi così giusto.
- Sì? – domandò lui, dopo quello che reputò un fastidiosissimo silenzio
- Beh, non sapevamo neppure che fosse tornato ad Austropoli. Lui viveva ancora in albergo, a quel tempo… per fortuna…
- Perché, per fortuna? – interruppe Norman, accigliato.
- Perché Yvonne viveva proprio lì, accanto a lui.
L’uomo parve aver capito, dato che prese ad annuire.
- Parli di Yvonne Gabena, vero?
- Sì. È praticamente la donna più famosa del mondo…
- E ha salvato Ruby.
- Sì… lo ha… lo ha trovato incosciente, accanto a un blister vuoto di Xanax… è stato portato all’ospedale, per via di un’overdose… ansiolitici… ci è rimasto per… non so, boh, qualche giorno. Ma poi è stato meglio…
Gli occhi di Norman si spalancarono, e Whiteley riuscì a vedere per la prima volta la preoccupazione sul volto dell’uomo. Poi, come se fosse stato tutto organizzato, qualcuno bussò alla porta. Lino si voltò, vedendo una donna di mezz’età con un vassoio tra le mani. Indossava un sorriso di plastica e una camicetta forse un po’ troppo stretta per i bicipiti tonici che aveva. Anche il petto, di una forma innaturalmente tonda, esplodeva all’interno delle coppe del reggiseno; fece slalom tra le sedie dei due ospiti sui suoi tacchi di dieci centimetri e poggiò il vassoio al centro della scrivania, e non si levò quel ghigno dalla faccia neppure guardando il turbatissimo Norman, che non aveva mai spostato gli occhi da quelli della giovane di Unima, le fece cenno di uscire.
- Vado… - disse, dopo qualche secondo, voltandosi e sfilando via e, nonostante non avesse sbattuto la porta, nella stanza rimase il fragore di un tuono e la confusione di chi si risvegliava dopo un uragano.
Quello stesso uragano imperversava oltre gli occhi neri dell’uomo che aveva davanti, ancora immobile, ancora bloccato da quelle parole che non sapeva come gestire.
Poi, come d’improvviso, abbassò lo sguardo.
- Servitevi… - fece, con voce sommessa, indicando il tè freddo. Lino si alzò e prese due dei tre grossi bicchieroni di cristallo, ottagonali, poi ne porse uno alla ragazza e uno al Capopalestra. Lui pareva guardargli attraverso, concentrato su Whiteley e sulle parole che ancora sembravano uscire dalla sua bocca.
- Il bicchiere… - fece Lino. - … glielo poggio qui…
Tornò a sedersi, tornò il silenzio. Norman incrociò le braccia davanti al petto e abbassò lo sguardo sul bicchiere di tè verde, mentre la condensa colava impietosa verso il piano della scrivania. La ragazza invece tracannò in tre sorsi tutta la bevanda, tenendo un cubetto di ghiaccio tra i denti e il bicchiere freddo tra le mani.
- Mi spiace averle detto questa cosa… - disse poi, senza riuscire a guardare Norman. Quello muoveva solo gli occhi, prima a destra, poi al centro, poi a sinistra, poi di nuovo al centro, poi ancora a destra e così via, come se fosse un computer in elaborazione di dati. Si alzò in piedi, senza risponderle, offrendo poi loro le spalle. Whiteley non sapeva se stesse guardando qualcuno dei tomi nella grande libreria o un quadro, sulla destra, dalla cornice in legno scuro, che raffigurava Perseo durante l’uccisione di Medusa in uno stile quasi caravaggesco. Rimaneva fermo, come se fosse spento. Pareva che la stanza fosse stata divisa in due e il tempo scorresse solo dove Whiteley e Lino erano seduti.
L’uomo percepiva forte la voglia di nicotina attraversargli il palato molle, e aveva promesso di non cedere a quella debolezza, quindi ritirò i remi in barca e urlò a se stesso di rimanere dove riuscisse a mantenere il controllo di ogni cosa. Ma poi, quando si voltò, sul suo viso era chiaro il sentimento di spaesamento.
Era chiara la paura.
- Norman… - disse Lino, che mai aveva visto il suo maestro in quel modo. Cercò di richiamare la sua attenzione, riuscendovi solo in parte.
- Io… - fece, abbassando poi lo sguardo. - … io non lo sapevo.
Whiteley restò in silenzio, così come l’altro. In piedi di fronte a loro, Norman riuscì solo ad accendere il proiettore dei ricordi, addolcendo lo sguardo quando visualizzava le immagini di suo figlio, da bambino, prima di raggiungere per la prima volta Hoenn, quando tutto sembrava ancora lontano dall’essere qualcosa di stucchevole e non necessario. Fece qualche passo in avanti, spostò la poltroncina e vi si sedette.
- Le cose però sono andate bene… - volle aggiungere inutilmente Whiteley, prima che quello unisse le mani sulla scrivania, davanti a sé.
Un attimo di silenzio, continuava a muovere gli occhi in maniera quasi meccanica, lui.
Cercava le parole, e i due interlocutori non parlarono, quasi a volerlo aiutare.
- Lui… - cominciò Norman. Le labbra si erano separate producendo un leggero schiocco.
- … lui era un bambino iperattivo. Oh, per l’amor del cielo, era davvero ingestibile… - fece, sorridendo in maniera quasi impercettibile. Si grattò la guancia con la mano sinistra, poi inarcò le sopracciglia, per un istante soltanto, e tornò a guardare Whiteley, che lo fissava stupita.
- Non l’avrei mai detto… - disse, sorridendo a sua volta.
- L’amore per la moda e quell’atteggiamento più… posato, ecco, sono sopraggiunti durante l’adolescenza, poco prima che ci trasferissimo ad Albanova. Lui era così… diverso…
Lino lo guardava in apprensione, accorgendosi che nei suoi occhi ci fosse di più: Norman stava pensando a qualcosa che non aveva mai avuto il coraggio di sviscerare, e Whiteley, col suo sguardo ingenuo, stava spalancando quei portoni che per anni si era impegnato a serrare con tutta la disciplina che aveva a disposizione.
- Non sono stato il migliore dei padri. Non ci sono andato neppure vicino, a dire il vero… - fece, alzando gli occhi al cielo e sospirando. -… poi, quando si ha a che fare con mio figlio tutto diventa complicato. Sapete… - fece, spostando nuovamente la sedia e rimettendosi in piedi.
Era irrequieto.
Si voltò. Diede loro le spalle, poi guardò verso sinistra, oltre la finestra.
Vi si avvicinò.
- All’inizio, Ruby e Caroline sono stati un ostacolo, per me. Sono cresciuto con la consapevolezza di me stesso e di ciò che volevo fare e…
Poi si fermò. Alzò una mano sul vetro fresco.
- … forse non volevo così ardentemente una famiglia. Non sono stato presente con mio figlio. Mia moglie ha sempre avuto ragione, quando diceva che io pensavo soltanto al lavoro…
E lì Whiteley pensò al suo papà. Si chiese cosa stesse facendo in quel momento, prima che Norman continuasse.
- Fu una bravata di Ruby… dell’ingestibile, piccolo Ruby, a costarmi la promozione che stavo cercando di raggiungere.
- Che fece? – domandò lei.
- Distrusse un macchinario di ricerca molto importante… ma, beh, lui aveva sei anni, io trentadue, ovviamente mi presi la responsabilità di ogni cosa.
Lino era più sorpreso di Whiteley.
- Era davvero così vivace? – chiese.
L’altro rimase immobile, ancora con la mano sulla finestra.
- Era tremendo… Io e Carol non riuscivamo a tenerlo tranquillo per più di dieci minuti… lui saltava ovunque, correva, urlava. Rompeva. Una volta… - disse, grattandosi nuovamente la guancia sinistra. – … riuscì a distruggere un armadio di legno massiccio, prendendolo soltanto a calci.
Lino e Whiteley spalancarono gli occhi, entrambi più che perplessi.
- Parliamo della stessa persona? – domandò il primo.
- Sì, te l’ho detto.
- A… calci.
- Un armadio, sì. A calci. – rispose. Alzò poi gli occhi al cielo, sospirando. – E io ero lì, fermo, mentre vedevo mio figlio ridere sotto a una montagna di vestiti di mia moglie.
Whiteley rapprese le labbra e si guardò le mani. Pensò che forse fu quell’evento a scatenare in Ruby l’amore per gli abiti, per poi ritrattare e cominciare a pensare che stesse facendo dei pensieri altamente fuori luogo.
- Non l’avrei mai detto… - si limitò a dire.
Lino manteneva sul volto candido quell’espressione perplessa. Stentava a credere a quelle parole, ripensando alla delicatezza degli atteggiamenti dell’uomo.
- Quando vi trasferiste qui lui però era già più calmo e posato… - fece, sistemando l'orologio sul polso.
- Come adesso. – aveva invece aggiunto l’altra, voltandosi prima verso di lui e cercando poi negli occhi di Norman una conferma, che arrivò con un cenno del capo.
- Sì. Non so di preciso cosa possa essergli successo, fatto sta che ora è quel che è… anche se nessuno sa dove sia.
Si voltò nuovamente, tornò verso la scrivania e vi si sedette dietro. Le mani stringevano i braccioli di pelle nera della sedia, dai bordi leggermente consunti.
- Mi costa ammetterlo… forse mi costa più di ogni altra cosa…. – continuò, vagando ancora con lo sguardo, fuggiasco e imbarazzato. Sentiva il cuore battere nel petto.
Odiava quella consapevolezza.
- Cosa? - domandò Lino.
– Io sarei dovuto essere più presente. Sarei dovuto essere una figura importante per mio figlio, ma è solo adesso che mi rendo conto che io, che sono suo padre, tra noi tre, forse sono quello che lo conosce di meno…
Whiteley lo vide abbassare gli occhi, colpevole. Lino, invece, era sbalordito da quella scena: Norman, l’irreprensibile Capopalestra di Petalipoli, aveva deciso di mostrare le proprie debolezze.
Una cosa che, in tutti gli anni in cui l’uomo era stato il suo sensei, non era mai successa.
- Mi spiace molto… - ripeté Whiteley, che in fondo si sentiva responsabile di quel tracollo emotivo. Grattava con le unghie lunghe il dorso della mano mentre l’uomo che aveva davanti batteva le palpebre lentamente.
Lo si leggeva dal suo sguardo, che stava lottando con se stesso per non crollare, per rimanere il pilastro di marmo che toccava contemporaneamente terra e cielo, al centro della buriana, com’era sempre stato, ma gli occhi di quei ragazzi, così impietositi e preoccupati, parevano quasi invitarlo a cedere all’umanità che aveva sempre celato dietro la sua disciplina; Lino lo leggeva nei suoi occhi di tempesta, che avrebbe voluto inginocchiarsi e chiedere scusa al mondo per non essere stato il padre che suo figlio aveva meritato e il marito che sua moglie aveva immaginato.
Avrebbe voluto camminare sui tizzoni ardenti piuttosto che ammettere a quei perfetti sconosciuti che lui avrebbe dovuto alzare il telefono più spesso e telefonare a suo figlio, interessarsi a lui, prendersi qualche giorno di ferie e andare a trovarlo dall’altra parte del mondo, che magari avrebbe avuto bisogno della sua presenza, i primi giorni, nonostante nel corso del tempo Ruby ne avesse fatto sempre a meno.
Forse perché non c’era mai.
Forse perché era sempre al lavoro. Sempre a migliorare la propria posizione, sempre a ricoprirsi d’oro e cemento, per diventare forte e prezioso, ma inarrivabile, irraggiungibile per chiunque altro.
Dietro i suoi occhi, che avrebbero dovuto piangere lacrime salate come il mare che si vedeva qualche passo oltre la porta di casa sua, Lino riusciva a vedere il fallimento di un uomo infallibile, di quell’uomo che non poteva permettersi di essere debole, diventando pertanto un uomo debole.
Gli faceva strano interpretare il suo sguardo, il suo silenzio. Per la prima volta si rese conto che Norman non fosse soltanto il suo lavoro, un Capopalestra burbero e roccioso, ma anche il padre di Ruby.
E la cosa strana fu che non gli era mai capitato di rendersene conto.
Si mise nei panni di Ruby, indossando le sue scarpette da corsa e quel cappellino bianco di qualche taglia di troppo, la grande tracolla verde, che si chiudeva sul petto ossuto.
Guardava il mondo senza la maschera dell’ossigeno legata alla faccia e tutto ciò che chiedeva era che suo padre si accorgesse di lui. Ripensò anche al suo, di papà, così apprensivo e fece un paragone.
Tutto sembrava così paradossale.
Norman, grande e grosso, dal volto ben rasato e dal colletto della camicia inamidato, sempre ordinato, sempre regolare, sempre disciplinato, non era altro che un uomo in piedi sul ciglio del baratro che stava tirando dal vuoto ciò che aveva di più prezioso, stringendo una fune che gli stava segnando le mani. E aveva paura di perdere tutto.
E aveva paura di cadere.
- Signor Norman, signore… - disse Lino, ormai stanco di quell’apprensione. – Credo che ci sarà tempo e luogo per sistemare le cose, se ce ne sarà volontà. E lei ne è il campione. Ora però c’è… c’è Whiteley che…
- Sì! Signor Normanson! - s’inserì. – Ruby è stato male, è vero! E lei non lo sapeva! Ma poi è stato subito meglio! Lui, lui… - alzò poi di nuovo gli occhi al soffitto, a leggere un copione che sapeva essere scritto tra le due plafoniere di vetro spesso che illuminavano l’intero ufficio. - … beh, Ruby è semplicemente Ruby! È una persona! Eccezionale, certo, ma pur sempre una persona! Lui ha fatto tanto per noi dell’Atelier Automne, ha creato dal nulla qualcosa di meraviglioso e ci ha resi speciali…
- Lei potrà dire tante cose, sul suo rapporto con Ruby… - aggiunse Lino, mentre un confuso Norman rimbalzava lo sguardo a destra e a sinistra. – Ma quello che le invito a pensare è che, nonostante tutto, suo figlio è un uomo adulto, che ha deciso di prendere la sua strada. E conoscendolo, avrebbe fatto lo stesso anche se lei avesse vissuto tutto il tempo sulle sue spalle.
- Stiamo parlando di un’overdose da ansiolitici, Lino… - rispose quello.
- Lo so. Ma non tutti reagiscono allo stesso modo. Suo figlio è sempre stato serio e disciplinato… Basti fare un paragone con Sapphire! Lei dieci anni fa si arrampicava sugli alberi e si cacciava nei guai, e Ruby l’ha tolta dai casini ben più di una volta! Quindi non stiamo parlando di un disadattato…
- Anche ad Austropoli non ha mai fatto nulla di male! Era sempre elegante e puntuale! – disse l’altra, annuendo energicamente. – E in poco tempo è diventato una figura di riferimento per la signora White! E lei è… - e poi un sorriso s’espanse sul suo volto diafano. - … lei è difficile…
Norman rimase in silenzio, poi abbassò lo sguardo.
- E poi dopo quella breve parentesi in ospedale si è ripreso alla grande… - continuò la donna. – Ha traslocato dall’albergo dove viveva e ha preso casa, e poi ha cominciato la sua relazione con… con Yvonne… - fece, e mentre pronunciava il suo nome abbassò lo sguardo nuovamente sulla borsetta, mutando totalmente espressione.
Il Capopalestra s’accigliò.
- Cosa c’è, adesso?
- Il fatto è che non ho molto tempo, devo tornare a casa mia… c’è un grosso lavoro che ci aspetta e come le ho già detto sono venuta qui per cercare Ruby, ma la produzione deve andare avanti lo stesso…
- Giusto così.
- La signora White troverà sicuramente un modo. Però dovevo provare…
Norman dipinse una smorfia sul suo volto, quindi sospirò. – Beh. Lui non c’è.
- C’è dell’altro… - continuò. Lino la vide stringere i pugni forte e schiudere le labbra.
- Di cosa parli?
- Prima… abbiamo parlato di Yvonne…
- La modella. So che frequentava mio figlio, li ho visti su di una rivista.
- Sì. I due sono stati assieme per un po’ di tempo ma poi hanno litigato e lui è andato via solo dio sa dove…
Lino guardava la scena dall’esterno, senza sapere.
Senza immaginare.
- Va bene. – chiuse Whiteley. Si alzò in piedi, stringendo ancora la borsa tra le mani e assumendo un’espressione corrucciata. – Ruby deve assolutamente tornare perché…
- Perché?
- Ruby… - sospirò l’altra. – Lui, ecco, non sa che Yvonne è incinta.
Fu un attimo, e gli occhi di Norman si spalancarono. Batté le palpebre un paio di volte e schiuse le labbra, cercando di trovare le parole giuste per poter ribattere in qualche modo a quella frase.
La verità, però, era che non esistesse nulla da poter dire.
- Incinta. – si limitò a ripetere. Non era neppure una domanda.
- Sì. A breve Yvonne partorirà.
- E lui non sa nulla?
- Nulla. – rispose l’altra, facendo cenno di no con la testa.
- Nulla…
- Nulla.
Il respiro dell’uomo si stoppò, anche se soltanto per un secondo.
- Lo avvertirò non appena mi telefonerà. – Spostò poi lo sguardo verso destra, fissando il cellulare, sperando quasi che Ruby potesse chiamarlo in quel momento.
- Mi scusi, ma ora devo proprio andare. – disse poi Whiteley, esibendosi in un piccolo inchino del capo.
- Vai, vai. – annuì Norman, che poco dopo rimase da solo in quell’ufficio, pronto ad affrontare il peggiore avversario che potesse mai ritrovarsi davanti.
Se stesso.
Kalos, Borgo Bozzetto, 20 giugno 20X1
Ormai, la notte era scesa da un paio d’ore.
Di tanto in tanto, qualche sera d’estate si rivelava un po’ troppo umida anche in quel gioiello nascosto tra le valli alpine del sud; l’aria si permeava di quell’odore che proveniva dai boschi, che Yvonne amava, anche se era tardi e lei era ormai stesa sopra le coperte, senza riuscire ad acciuffare il sonno, neppure una volta.
Pensava. Forse pensava troppo. Si rigirava tra le lenzuola, come se percepisse che il riposo meritato fosse sempre alle sue spalle, ma poi, quando si voltava, non riusciva a trovare nulla.
Sbuffò, rovesciò il cuscino dal lato più fresco e alzò i capelli verso l’alto.
Parve trarne beneficio.
Guardò il soffitto, sentiva i dolori alla schiena e la pesante, la nausea, poi la fame, e un insieme di emozioni e sensazioni che, istantaneamente, avrebbe barattato col contenuto dell'enorme pancione, che incombeva su di lei e le dava quella forma così poco aggraziata.
Nonostante tutto, Yvonne non era ancora abituata a vedersi in quel modo.
Ma poco poteva farci, lo sapeva.
Pensò alla sua giornata, a come fosse cominciata male, con sua madre, e a come poi era continuata, con quel pranzo da Xavier.
E Shana. Ancora non se ne era capacitata.
Batteva le palpebre, come fossero tergicristalli su quei due parabrezza grigi come l'acciaio, che nonostante il buio splendevano alla luce della luna, che finì poi per guardare, attraverso i vetri un po' troppo doppi delle finestre della sua stanza.
Pensò che quella sera, la luna fosse davvero grande.
Divagava, si rimproverò di non farlo più, poi tornò a visualizzare Shana e Xavier che si tenevano per mano, che cucinavano assieme, che parlavano, che si baciavano e vivevano la loro vita come dei perfetti novelli sposi.
Avevano messo in tavola un flan di zucca molto saporito, farcito con del formaggio ben stagionato, e s'erano impegnati a non sembrare quelli strani, quando Yvonne chiese loro per quale motivo vivessero ancora in quel posto dimenticato da dio o da chiunque ne facesse le veci.
- Vuoi mettere la vista che abbiamo ogni mattina? - aveva risposto Shana, prendendo poi a elencare tutti i benefici di non vivere in una città grande come Luminopoli, che non distava molto lontana da Borgo Bozzetto.
- Punto primo, l'aria è pulitissima! Punto secondo... qui conosciamo tutti e tutti ci conoscono! C'è fiducia reciproca, perché siamo una comunità che ha a cuore il bene del prossimo... Non c'è criminalità, punto quarto e, punto quinto, è il posto dove siamo cresciuti.
Finita quella frase, entrambi si scambiarono un sorriso, entrambi annuirono. Yvonne avrebbe voluto ribattere che anche lei era cresciuta lì, ma paragonare Austropoli a Borgo Bozzetto era del tutto fuori luogo. Pensò che, ovviamente, le metropoli avevano degli svantaggi rispetto ai piccoli centri rurali come quello, ma si rese conto poi che i lati positivi superavano di gran lunga le mancanze. Lo stesso Xavier, da sempre più moderato nelle sue esternazioni, regolò un po' il tiro della moglie.
- So bene che vivere in città possa sembrare più affascinante ma la realtà è che dipende dalle esigenze personali, e da come una persona vuole vivere la propria vita... Io lavoro a Luminopoli, te l'ho detto, e dieci minuti di passeggio tra le strade sono intensi, a livello di traffico, persone che t'infastidiscono, che cercano di farti comprare qualcosa... Però hai tutto a portata di mano. Alla fine abbiamo tirato le somme e...
- E abbiamo deciso di rimanere qui! - concluse Shana, sempre energica, sovrapponendosi all'uomo che aveva accanto e poggiando la mano sulla sua.
Yvonne ripensava al suo sorriso energico, alle loro dita che s'intrecciavano sulla tovaglia di cotone bianco, davanti allo sformato fumante e alle posate d'argento che probabilmente, pensò, appartenevano alla nonna dell'amica. Le guardò meglio, coi rebbi larghi e lucidi.
Argento buono.
Roba di altri tempi.
Stava divagando di nuovo, stesa lì, nel suo letto. Poi sbuffò e un soffio d'aria le accarezzò il collo. Si limitò a chiudere gli occhi, per godersi quel bacio fresco, prima di ritornare ancora una volta lì, a casa di Xavier e Shana che si tenevano per mano.
E ne era infastidita.
Sbuffò, evase da quel ricordo e capì che non avrebbe dormito di lì a breve quindi decise di alzarsi dal letto, facendo forza sulle braccia per sedersi.
Non ne capiva il motivo ma una sensazione d’ansia incandescente le rimestava bile e pensieri. Guardò nuovamente oltre la finestra, verso il firmamento, mai così bello e prepotente negli ultimi otto anni, quando la sera si riempiva di riflettori e anche la più luminosa delle stelle faticava a risaltare, in mezzo alla luce sporca dei lampioni sui marciapiedi.
- Che bello... - disse tra sé e sé, con un filo sottile di voce. Pensò che quello spettacolo meritasse di essere apprezzato meglio; si alzò e infilò le ciabattine rosa, quindi le strusciò in avanti fino alla porta, e poi ancora oltre, verso il corridoio, fino a raggiungere le scale.
Sperava di non svegliare sua madre, scendendole. Erano le quattro e un quarto del mattino e ricordava che sua mamma non riusciva a connettersi col mondo se non riposava otto ore filate, quindi scese senza far alcun rumore, e fu bravissima, pensò, prima di sentire forte la voglia di fragole grattarle il palato duro. Andò in cucina, aprì il frigorifero e le trovò in una ciotola di terracotta beige, già tagliate a tocchetti, insaporite con zucchero e succo di limone.
Sorrise, sua madre le preparava sempre, quando era bambina. Prese l’intera ciotola e un cucchiaio da portata, forse un po’ troppo grande per la sua bocca, e dopo ritornò sui suoi passi. Aprì la porta di casa, girando un paio di volte la chiave nella serratura.
Quando mise piede fuori si sentì immediatamente più leggera. Un velo sottile d'aria più umida e fresca le si poggiò addosso. Sorrise, lei, immobile, con la ciotola tra le mani, come se avesse ricevuto qualcosa di meraviglioso. Respirò profondamente, tirò fuori dal corpo quell’ansia, sempre inopportuna, e lasciò le ciabatte davanti alla porta, dato che voleva affondare i piedi nell’erba, come faceva sempre, prima che andasse via da Kalos.
Si avvicinò al piccolo dondolo accanto alla profumatissima siepe di alloro che divideva il loro giardino da quello dei vicini e vi si sedette.
Prese a cullarsi, prese a mangiare. Pareva più spensierata, mentre i piedi venivano solleticati dai fili d'erba un po' troppo cresciuti. E forse era davvero così.
Forse lei stava bene, lì.
Ingoiò un paio di cucchiaiate di fragole e poggiò la testa sul montante del dondolo.
Ricordava scene di lei da piccola, quando quel giardino le pareva davvero immenso e il mondo era un po' meno infame.
Carezzò il pancione e pensò che fosse proprio quello il mondo in cui suo figlio sarebbe dovuto nascere.
Forse era una femmina, anche se sperava non fosse così.
- Che amarezza... - fece, abbassando il capo e sospirando.
Non sapeva neppure se avrebbero avuto un bambino o una bambina, lei e Ruby.
Ruby.
Ripensò al volto di quell'uomo, ai suoi occhi pieni di luce, alle sue labbra che la baciavano.
Alle parole che aveva sempre rivolto verso di lei.
Inutile negarlo, amava ancora quell'uomo, nonostante fosse sparito vigliaccamente dalla sua vita e da quella di tutte le persone che conosceva.
Lo immaginava con un'altra donna, con in braccio un bambino, o forse una bambina. E insieme, tutti e tre, vivevano una vita felice, come quella che non avrebbe mai sognato di volere quando infilò quattro pantaloni e sei magliette in un trolley e volò via da Kalos.
Com'erano cambiate, le cose.
Aveva sognato il successo ed era arrivato quando meno lo aveva cercato.
E poi, in quella notte d'estate che poi tanto calda non era, si era resa conto di volere qualcosa che avrebbe potuto avere anche senz'andare così lontano.
Un uomo, una famiglia, magari un lavoretto part-time. La cucina, l'orto, le faccende assieme al marito, il sesso coniugale e poi ancora, i problemi, le liti.
I ricongiungimenti.
Era sola, su quel dondolo, e le fragole forse erano troppe.
Sbuffò, le poggiò accanto e si fermò a pensare.
Forse Ruby preferirebbe una femmina...
Ovviamente, preferirebbe proprio una femmina... Si sveglierebbe di notte per cucirle i vestitini addosso, la porterebbe sulle spalle fino a... fino ai quattordici anni, forse.
Ed era sicura, Yvonne, che sarebbe stato il migliore dei padri.
Quella bambina sarebbe diventata una principessa, e lo sapeva lei, che per mano sua era diventata una regina.
Che era ciò che facevano i re. Elevano tutto.
Ruby era un re e lei provava un sentimento strano nei suoi confronti, che poco si discostava dall'odi et amo con cui già conviveva da tempo.
Sì, perché si sentiva contemporaneamente vittima e carnefice; sapeva che quel bambino sarebbe nato senza un padre, strega com'era lo sentiva fin nelle viscere, e sapeva pure che la colpa non sarebbe stata di nessuno se non la sua, se Ruby aveva deciso di scappare via.
Riusciva ancora a rivederla, quella scena, mentre lui la sottoponeva alla giuria del suo sguardo impietoso, con la lettera che aveva lasciato Sapphire in una mano e le chiavi di casa nell'altra.
Fu il boia di due amori, quel gesto, il suo e quello di Ruby, entrambi.
Pensò che Ruby e Sapphire non si sarebbero mai lasciati, se lei non si fosse mai comportata in quel modo.
La luce della luna la rendeva ancora più bella, anche se sul volto affranto la preoccupazione e l'ansia stavano cominciando a disegnare l'espressione di chi aveva solo una domanda, da porre all'universo.
Ho davvero sbagliato, a fare ciò che ho fatto?
Il dondolo cigolava sotto il peso suo e della sua creatura, mentre continuava a guardare le stelle nel cielo. Batteva gli occhi e non le parevano più le stesse. Ma le stelle erano così, furenti e capricciose. Mai dome, mai ferme.
Sbuffò, pesante, mentre davanti ai suoi occhi si presentarono due demoni. Si avvicinavano sinuosi come cobra, col loro sguardo ipnotico. Erano orribili e spaventosi, longilinei e magrissimi, dalla pellaccia olivastra, dura, e gli occhi rossi come il sangue, scavati da milioni di notti insonni. Brutti, coi capelli radi, ma alti sulla testa, come setole infeltrite di uno spazzolone, avevano finito per sedersi lì accanto a lei, uno a destra e uno a sinistra. Si erano avvicinati alle orecchie della donna, che sentiva il loro fiato pestilente, incandescente, sulla pelle candida del collo.
Era impaurita, lei, immobile, e lasciò che avvicinassero le loro dita puntute alle sue guance.
La graffiavano.
- È lei, la stronza? - chiese quello di destra a quello di sinistra.
- Già. Sapphire ci ha mandati da lei...
Il cuore di Yvonne saltò un paio di battiti e la bocca si asciugò subito, quasi le pareva di percepire la sabbia del deserto sulla lingua.
- Dovremmo farle capire che si è comportata come una stronza... - aveva ripreso quello di sinistra, con la voce più stridula che si potesse avere.
L'altro si limitò solo a sorridere, graffiando con più forza la guancia della donna, che rimaneva con gli occhi spalancati, immobile.
- Ma lei lo sa già...
- Che puttana! - rise di contro, l'altro.
Entrambi le carezzarono le braccia, poi poggiarono le mani rugose sulla pancia. Yvonne era ferma, paralizzata dalla paura che facessero del male al suo bambino. Percepiva lento il sudore congelato scenderle dietro la schiena, attraversando la linea che si snodava tra le scapola.
- E questo è il figlio di quell'uomo... - disse quello di destra.
- Ma tu l'hai rubato quell'uomo... Non te lo meritavi!
- Come i codardi che non sanno affrontare la realtà...
Le labbra della donna cominciarono a tremare. Non si accorse che le lacrime le avevano percorso l'intera lunghezza del volto, incontrandosi sul mento delicato e cadendo sulla vestaglia, ormai madida per via del calore che aveva percepito fino a quel momento.
- Che c'è? - chiese quello a sinistra. - Hai paura?
- Ma noi non ti vogliamo fare nulla!
- Già! - rise ancora il primo. - Noi vogliamo solo sbatterti in faccia la verità!
- E la verità è che sei una puttana!
E le risate fragorose si alzarono al cielo. Urlavano loro, Yvonne pensò che i vicini avrebbero sentito tutto, e si sentiva così tremendamente violata e imbarazzata da voler scavare con le mani un fosso tra i trifogli di sua madre e infilarsi lì dentro per sempre.
- Ma Ruby ora lo sa... - aveva detto quello di destra.
- Sì?
- Certo! È scappato, non torna più... lui si meritava una donna vera...
Le unghie di questo cominciarono grattare sul tessuto ruvido della veste, proprio in corrispondenza della pancia.
- Invece ha posato un bambino nella pancia di questa qui! Ma guardala! - rideva l'altro, a perdifiato, mentre Yvonne rimaneva rigida e paralizzata, a fissare gli artigli affilati che premevano sempre di più sul ventre; avrebbe voluto gridare con tutta la sua forza, sbattere quei due mostri lontano da lei, ma l'unica cosa che riusciva a fare era piangere.
Tremava.
Guardava le sue mani, la testa le scoppiava. Il cuore batteva come se fosse impazzito.
- Che donna inutile...
- Ma che esistenza credi di poter dare, a questa creatura?
- Sarà letteralmente un figlio di puttana...
Risero entrambi.
- Già! E appena saprà ciò che hai fatto finirà per odiarti anche lui!
- Avresti dovuto abortire quando potevi!
- Un bambino senza padre!
- In un mondo come questo!
- E tu sei impotente!
- Tu sei inutile!
- Non potrai mai dargli tutto ciò che chiederà! Ma t'immagini la scena, quando le chiederà chi è suo padre?!
E ancora, le risate si levarono fragorose in quella notte. Gli occhi di Yvonne si spostarono, mentre il cuore le faceva male in petto e i denti finivano per massacrare il labbro inferiore. Aprì la bocca, per urlare, ma dai polmoni stanchi non usciva più nulla. Tremava e piangeva.
- Non hai un padre, piccolo bambino! Ho pensato che non ti servisse! - aveva risposto l'altro demone, scimmiottando la voce di Yvonne. - Ti basterà una madre!
- Se sarà una donna spero non prenda da lei, altrimenti finirai per fare delle scelte di merda!
E ancora, le risate più malvagie e violente che potessero emettere, quei due corpi deformi, si levavano in alto. Gli occhi della bionda si spostavano nervosi sulle finestre del vicinato, sperando che nessuna luce le riempisse.
- E se sarà un uomo non saprà mai cosa fare!
- Ciò che è certo è che finirà per odiare questo mondo!
- Io non vedo l'ora che nasca! - disse, quello a sinistra. - Torneremo qui e lo divoreremo, ancora in fasce!
Le lacrime ormai le cadevano sul petto, impietose e bollenti come sangue. Le mani continuavano a tremare ma tanto era il senso di protezione per quella piccola creatura che riuscì a muoverle e poggiarle proprio sul grosso pancione, spostando quelle dei due mostri osceni.
Avrebbe voluto urlare loro che si sbagliavano, che sarebbe stata una grande madre, che quel bambino avesse o meno un padre, e che l'avrebbe inondato di tutto l'amore possibile.
Ma nel profondo dell'anima, nella parte più buia e polverosa, Yvonne sentiva che ognuna delle parole di quei mostri fosse così vera da risultare come un marchio a fuoco sulla carne viva.
E l'odore, quell'odore nauseabondo, non era altro che la verità.
L'aria vibrava tra gl'incisivi, quando inspirava, si fermava per un attimo nei polmoni e tornava fuori, e anche se le labbra tremavano lei doveva trovare la forza per parlare.
- ... io... - cominciò a sussurrare, ansimando, mentre le lacrime continuavano a scendere copiose. - N-no.. io non... non vo...
E i mostri continuarono a ridere.
- ...le... vole... io non...
- Cosa sta dicendo?
- I...io...
Tossì Yvonne, piangeva ancora, ma riuscì a muovere i palmi delle mani per asciugare le lacrime sul volto.
- Guardala... - disse quello di destra, assumendo immediatamente un'espressione schifata.
- Sì...
- Sta provando a giustificarsi... Brutta stronza, ma lo sai che hai fatto?
- C... cosa... - chiese l'altra, senza neppure porre la domanda, parlando con immensa fatica.
- Lo vuoi sapere?
- I-io non ho... fatto...
- Lui non ti apparteneva!
- No! Lui non era tuo!
- Lo hai rubato alla donna della sua vita!
- E lo hai sedotto! Perché sei una puttana!
- Sì! Solo una puttana!
Ascoltava le loro voci. Quella parola la feriva al pari di un fendente di sciabola affilata. E la riempiva di una rabbia rossa e densa, che nasceva dal centro dello stomaco e risaliva acida verso la bocca, dando energia.
Dando forza.
- Zitti!
La sua voce rimbombò forte lungo tutta la valle. - Io non sono una puttana!
- Hai rubato quell'uomo!
- Non ho rubato nulla! - replicò, con la voce roca. Umettò le labbra e riempì i polmoni d'aria, mentre il cuore pompava sangue nelle arterie. Il viso della donna si fece paonazzo e i pugni si strinsero con così tanto vigore da darle dolore alle dita.
- Ruby ha deciso di stare con me! E... e io ne ero innamorata! Mi trattate come un'assassina m-ma... i-io non ho ucciso nessuno! E poi, questo bambino! Questo miracolo è il frutto dell'amore più puro che c'è!
E le luci del vicinato cominciarono ad accendersi. Il panico negli occhi della donna era ormai visibile, dato che li aveva resi opachi, accecandola e nascondendole la realtà.
- Tu lo hai rubato!
- Come fa una ladra!
- Lui non era di nessuno! Non è un oggetto! - urlò. Fece poi per muoversi, sbracciando e spostandoli. Quelli ricaddero entrambi ai suoi piedi. Non accennavano però a smettere di ridere, divertiti.
- Era di Sapphire. - aveva detto il primo.
- Tu hai preso l'uomo di Sapphire!
- Sì! Okay?! Ho preso l'uomo di Sapphire e poi l'ho fatto diventare il mio uomo! - ribatté furibonda Yvonne, con le lacrime agli occhi e i denti stretti. - Ma questo non mi renderà una donna peggiore! E voi non riuscirete a farmi sentire peggio di quanto non mi senta già!
- Questo perché sei colpevole!
- Colpevole!
- Colpevole!
I demoni si alzarono in piedi e si avvicinarono a lei, famelici, allungando ancor di più gli artigli e mostrando le fauci affilate. I quattro occhi spiritati di sangue la fissavano, come facevano gli occhi del predatore sull'umile preda,
- Tu soffrirai!
- Sì! Noi ti faremo soffrire!
- Lo faremo ora!
- Lo faremo per sempre!
Le loro voci diventavano sempre più forti, e si abbassarono entrambi, pronti per scattare e saltarle addosso.
Yvonne lo sapeva; portò le mani sul volto, disperata, mentre il piccolo scalciava. E anche se attorno a lei c'era il giardino, il prato di trifogli e le alte siepi, e gli occhi delle persone che ormai s'erano affacciate alla finestra potevano testimoniarlo, tutto ciò che percepiva lei era il vuoto, e il caldo dell'infermo di chi aveva il diavolo a inseguirlo, pronto per portarlo giù con se.
Non li vide, ma gli artigli freddi di quelli cominciarono dilaniare il suo corpo.
E il dolore era così forte da non farla muovere più.
E morì.
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