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Against Me (an Unravel Me story): Chapter 10

 

 




Against Me        
   Quando tutto cade.




Kalos, Borgo Bozzetto, 21 giugno 20X1


- Yvy… sveglia…
La voce di Grace era leggera e soffice, come la spuma delle onde.
Riusciva quasi a percepire il dolore di sua figlia, che continuava a dormire supina, con la pancia gonfia stretta tra le mani e il volto rigato dal pianto; le lacrime, come linee incandescenti sul suo volto opalescente, scendevano laterali baciandole gli zigomi e impregnando la federa del cuscino di cotone candido e profumato, ai lati della testa.
Aveva avuto il tempo per sistemare i capelli dorati in una lunga treccia, prima di andare a dormire, proprio come le aveva insegnato quand’era bambina.
Grace poggiò poi una mano sul volto di sua figlia, incandescente.
Sospirò.
Guardò quel pancione, sommò l’espressione che aveva sul volto e fu colta come da un’ondata di gelo, che le attraversò il corpo e la raggiunse fin nelle ossa.
- Yvonne… - aveva ripetuto, cercando di destarla da quel sonno disturbato. Pensò che fosse stata troppo dura, con lei: era un bambino, quello che portava in grembo, non l’anticristo. Non era la prima donna sulla faccia della terra a partorire un figlio che non avrebbe avuto entrambi i genitori. Di certo non era una cosa impossibile.
Yvonne era una donna forte, aveva sfidato le avversità per seguire i propri sogni, scappando via da quella valle sonnecchiante e prendendo più di un autobus, più di un treno, un aereo e solo dio sapeva cos'altro, una volta atterrata oltreoceano.
Grace sospirò, guardando oltre la finestra. Carezzò nuovamente il viso di sua figlia, spostando poi la mano sul grosso pancione, sentendo la creatura agitarsi. Non riuscì a trattenere un piccolo sorriso, la donna, gettando i pensieri in avanti, a quando quel bambino, quella bambina, sarebbe stata tra le sue braccia, e magari le sarebbe somigliata, con quegli occhi grigi che le davano l’espressione fredda come l'acciaio, ammorbidita da quel paio di labbra gonfie e rosee.
Ricordava, Grace, quando i denti di Yvonne spingevano per uscire dalle gengive, e la piccola urlava con tutta la forza che aveva nei polmoni. Aveva cominciato a perdere le speranze quando, dopo diciannove ore ininterrotte di pianto e di sonno mancato niente cambiava.
Aveva chiamato sua madre, quella era corsa da lei in poche ore, con un mazzo di lavande tra le mani, che aveva messo in un vaso accanto all'ingresso, e un pezzo di pane caldo. Le aveva detto di guardare come si faceva, per la volta successiva, poi le aveva strappato Yvonne dalle mani e aveva cominciato a cantarle la berceuse des reves, la stessa nenia che le veniva cantata a sua volta da sua madre.
Forse le cose dovevano andare così.
Forse tutto doveva ripetersi, e Yvonne avrebbe dovuto rivivere il suo dramma, la sua tragedia, e ritrovarsi giovane e bella con una figlia problematica e sognatrice.
Una perla, rinchiusa tra le valve di quell’ostrica tra le montagne.
- Yvonne… sveglia… - la chiamò di nuovo, prima di rendersi conto che non sarebbe stato proprio così.
Lei aveva lottato ed era riuscita a conquistarsi un posto importante all’interno del mondo che aveva sognato. Determinata, lei. Sognatrice, lei.
Coraggiosa.
Proprio quel coraggio che Grace riconobbe non avrebbe mai avuto, assieme all’incoscienza di vivere una vita come aveva fatto Yvonne; sua figlia, la donna che le giaceva davanti col volto graffiato dagli incubi, meritava rispetto.
Si abbassò su di lei e le baciò la guancia destra. Il suo profumo era dolce e penetrante.
- Amore… svegliati…
E quella aprì gli occhi, dopo aver battuto le palpebre qualche secondo di troppo, con l’espressione di chi non era riuscito a fuggire dai propri incubi.
- Mamma…
La sua voce era compressa e parzialmente rotta dal pianto. La paura era trasmessa sul suo volto, come se al posto di sua madre ci fosse stato un vecchio proiettore Prevost dalle bobine polverose.
La più grande sospirò e storse le labbra.
- Sei qui da così poco tempo e già ti ho vista piangere troppe volte…
Yvonne si sedette accanto a lei.
- Era un sogno…
- Già. Ti ho sentita urlare…
Sua figlia abbassò lo sguardo. Automaticamente portò la mano bollente sul ventre.
- Non vedo l’ora che tu esca fuori… - sussurrò alla sua creatura.
- Sei tutta sudata. Hai bisogno di una doccia.
Yvonne annuì. Si alzò in piedi e sbuffò. Il seno stava per esplodere e la schiena le si stava per spezzare. Non avrebbe resistito ancora molto.
- Scusami… - disse. – Ti ho svegliata.
Grace inarcò spalle e sopracciglia, poi poggiò le mani sulle ginocchia e sospirò. La guardò, forse per un minuto, forse per l'eternità intera, mentre lo sguardo della figlia rimbalzava fugace sulle pareti della sua cameretta.
- Torna qui… - le disse, facendole spazio sulle lenzuola sgualcite. Yvonne annuì, afferrò il bicchiere ottagonale con l’acqua e lo buttò giù. Non era più fresca e le gocce di condensa si erano accumulate sul comodino. Dopodiché, si accomodò accanto a sua madre, che le strinse con vigore le mani.
Lo sguardo di sua figlia era basso, fisso sulle ginocchia di Grace.
- Guardami… - l’ammonì quella, prendendole poi il mento tra le dita e girandola verso di lei. Tuttavia gli occhi di Yvonne ancora non volevano farsi catturare.
- Mamma... - ribatté, come fosse quasi un moto di ribellione
- Guardami. - ripeté.
E quando si connesse a quei pozzi d’argento, Grace riuscì a leggerne appieno paure, tristezze e speranze. E a nulla servì il successivo tentativo della più giovane di riavvolgere lo sguardo e gettarlo oltre la finestra che aveva davanti, perché ormai sua madre l'aveva predata.
Tanto valeva farsi sbranare.
- Allora? – chiese la più grande, dopo aver atteso pochi secondi che il cuore di sua figlia riprendesse i giri. Quella sospirò, poi annuì.
- Sono una stupida, vero? - domandò, abbassando gli occhi. Sua madre le lasciò il viso e incrociò le braccia.
- Sicuramente. Ma non per le scelte che hai fatto da quando sei diventata madre.
- Io non sono ancora una madre.
- Sei una madre non appena non controlli più la pipì, tesoro...
E lì Yvonne, bella come la luna di quella notte, nonostante non avesse ancora smesso di lacrimare, aveva sorriso. E anche sua madre lo fece.
Stinse di nuovo le sue mani, incandescenti.
- Vuoi che indovini io o, per una buona volta, parlerai tu?
- Andiamo… indovina...
Grace annuì e rimase a contare per qualche secondo i frammenti del respiro di sua figlia. Quando ne ebbe abbastanza, alzò gli occhi al soffitto.
- Oggi sono stata dura, con te. Oh cielo, lo sono stata spesso... Nessuno mi ha insegnato come essere una madre…
Lasciò le mani dell’altra e, con un piccolo sforzo, si alzò in piedi. Le diede le spalle solo per qualche secondo, poi si voltò e lasciò cadere le mani ai fianchi.
- Con te non è stato semplice. Da quando ti ho concepita fino a oggi… Sono stata spesso sola nelle mie decisioni importanti…
- Mi spiace molto…
- Di cosa? Di esser nata?! Non dire assurdità! È che non sapevo dove mettere le mani, con te e tutta questa storia della maternità… volevo il meglio per te ma finivo soltanto per creare altri problemi. Il mio corpo a un certo punto mi chiese una tregua…
- Lo sto capendo.
- Tu piangevi in continuazione… - sospirò quella. – Avevo bisogno di dormire, ma ero sola, in questa casa. Lavoravo… di tanto in tanto mia madre mi dava una mano, con le cose più difficili… forse se ci fosse stato tuo padre sarebbe andato tutto in un altro modo…
- In che senso? – domandò Yvonne, asciugandosi le lacrime col polso. Batté poi le palpebre, fissando la donna coi grandi occhi spalancati.
- Nel senso che, crescendo, non mi avresti vista come il nemico.
Yvonne fece cenno di no con la testa, abbassando lo sguardo.
- Tu non eri il nemico…
- Forse non saresti andata così lontana da me, per cercare la tua strada… - continuò Grace. – Magari non sarei stata l’unico bersaglio della tua ira. Forse non te la saresti presa solo con me…
- Eri una stronza, mamma…
Grace spalancò lo sguardo e schiuse le labbra, indossando una maschera d'incredulità.
- Yvonne!
- Sono incinta, lasciami stare...
- Va bene... Ma poi ne riparliamo!
Annuì, l’altra, facendo spallucce. Riportò le mani sul pancione e batté gli occhi stanchi.
- La questione è che... - riprese la più piccola delle due. - Non sono mai riuscita a farmi capire da te.
- Eppure abbiamo una quantità di cose in comune da far impallidire... Anche io mi presentai a casa di mia madre con una pancia enorme, forse più grande e...
- Ovviamente...
- E la nonna non sapeva nulla. Sai... - continuò, incrociando le braccia sul petto. - ... a mia madre non andava a genio che io gareggiassi sulle auto da corsa. Ma era la mia passione...
- E a mia madre non è andata giù la mia idea di partire per Unima...
- Il mio era un ambiente maschile. Erano davvero poche le donne nei vari box, e spesso le uniche erano le pilote stesse. E io venivo dalla periferia della periferia, e avevo talento e voglia di fare... Ed ero bella.
- E ancora, viva la tua modestia...
Grace appuntì lo sguardo, quindi assunse una smorfia di disappunto sul volto.
- Tu che sei meravigliosa, sai a chi assomigli?
- Mio padre, no? – provocò l’altra, col sorriso sulle labbra.
- Di tuo padre non hai nulla... neanche il cognome... - ridacchiò quella, a mezza bocca. - Era il mio allenatore. Sempre vicini, sempre insieme. Una sera, dopo l'ennesimo campionato vinto...
- Di nuovo...
- … Siamo stati una notte assieme. E nove mesi dopo sei nata tu... non c’è mai stato nulla tra noi, né lui ha mai voluto avere tanto a che fare con te... ci spediva di tanto in tanto dei soldi, che io non gli chiedevo...
- E in questo non siamo così simili...
- Perché?
Yvonne cercò di raccogliere tutta l’ansia che aveva in corpo, per canalizzarla verso l’alto, fino a catturarla tra le corde vocali, dove avrebbe potuto cacciarla fuori.
- Questa creatura… - disse, carezzando ancora il pancione. - … questo bambino è frutto del più grande amore della mia vita...
Grace appuntì il viso.
- Ho voglia di fragole... - fece. – Dovrebbero essercene in frigo, ieri, sapendo che fossi qui, te le ho preparate. Dopo, però. Ora puoi spiegarmi che cos'è successo?
Yvonne non piangeva più, ormai. Batté le palpebre stanche e sospirò.
- È lunga, la storia...
- A meno che non ti si rompano le acque adesso, abbiamo tempo... - fece, avvicinandosi nuovamente a lei.
- Bene…
Respirò profondamente. Sapeva che sarebbe stato problematico, raccontarle quella storia: avrebbe dovuto combattere contro il giudizio negli occhi di sua madre, mentre le diceva che si sentiva spaesata un secondo dopo aver messo piede ad Austropoli, e che si era resa conto della propria irresponsabilità non appena scesa dall’aereo. Avrebbe dovuto ammettere che senza Shana si sentiva libera e sola, e che si era assicurata un tetto sulla testa grazie alla comune da cui lo stesso Ruby l’aveva tirata fuori.
Avrebbe dovuto dirle del fatto che aveva fatto i lavori più disparati, senza conoscere quella nuova lingua, e rassicurarla che no, non si era spogliata per soldi, ma che aveva provato a tirare avanti facendo la commessa in un 7/11 al mattino e la lavapiatti in una cucina di un ristorante di sera.
Dormiva quattro ore, e aveva conosciuto Sergej per puro caso, prima che tutto le crollasse addosso.
- Era uno spacciatore… - le disse.
- Cosa?!
- Ero depressa e debole… Spesso saltavo i pasti perché non avevo soldi. A malapena riuscivo a mantenere quel fragile equilibrio.
- E lui? – domandò Grace, inarcando un sopracciglio.
- Lui all’inizio era comprensivo… Era un bell’uomo, protettivo…
- Non sapevi che lavoro facesse?
Yvonne abbassò lo sguardo, colpevole.
- Sì. Ma in quel momento non me ne importava…
Grace sbuffò, nascondendo il volto tra le mani. Cercava di mantenere il controllo.
- Yvonne… - fece.
- Mamma, ora sto bene… sono qui…
- Non dirmi che questo spacciatore è il padre di mia nipote… - ribatté, col terrore negli occhi.
- Mamma! No! Cosa diamine ti viene in mente?! No!
- Scusa… - alzò lo sguardo verso l’alto, Grace.
- E poi non conosco ancora il sesso. Non so se è femmina o maschio…
- Probabilmente sarà un maschio…
- Ma io voglio una femmina!
Grace ridacchiò. – Allora avrai una femmina… Continua…
Yvonne annuì.
- Beh… Cominciai una relazione con Sergej… Di giorno contavamo soldi e dividevamo le dosi… e di notte… beh…
Grace alzò lo sguardo verso l’alto, cercando di trattenere lacrime di rabbia. Era delusa, Yvonne lo percepiva. Sospirò, socchiuse gli occhi e annuì.
- Mi drogavo.
- Dannata… - ribatté l’altra.
- Lo so. Ma in quel periodo non mi sembrava esserci altra soluzione… ero diventata anoressica, non avevo un lavoro e capivo a malapena ciò che mi veniva detto...
Forse furono quelle parole oppure il potere dell’immaginazione di Grace, che aveva posto sua figlia Yvonne sola e in mezzo a un branco di lupi in una notte d’inverno, a porle sulle spalle un mantello d’empatia lungo e caldo. La sua espressione mutò, gli occhi si addolcirono e le labbra si schiusero leggermente, come petali di rosa.
- Non dev'esser stato semplice… - fece.
- No, mamma… - rispose l’altra. – È stata la cosa più difficile della mia vita. E quando stavo per toccare il fondo, quando stavo per non capire più nulla, Sergej mi ha fatto riaprire gli occhi…
Grace aggrottò la fronte, sorpresa.
- In che modo?
- Mi ha ammazzato di botte, mamma… mi ha preso a calci nella pancia…
Involontariamente, il cuore della donna saltò un battito. Il volto, cereo, pareva paralizzato. Solo una singola lacrima, calda come metallo fuso, le rigò la guancia sinistra, fino a raggiungere il mento. Rimasero solo le cicale, a stonare quel quarantacinque giri in loop, oltre le finestre.
E Yvonne, vedendo sua madre soffrire in quel dignitoso silenzio, non poté fare altro che emularla.
- Non voglio vederti piangere… Poi le cose sono andate meglio… - disse, sorridendo. La sua creatura prese a scalciare, facendola sobbalzare. – Uff… l’ho lasciato.
Grace cercava nel più profondo del suo corpo la forza per continuare ad ascoltare.
- Hai lasciato quell’uomo di merda?
- Sì, mamma. L’ho lasciato.
Fu come se il volto di Grace, congelato dalla peggiore delle tempeste siberiane, fosse colto da una calda corrente del deserto. Sospirò sollevata, riprese a respirare, asciugò le lacrime.
- E… e quella roba… non l’hai più toccata, vero?
Yvonne fece cenno di no.
- Fu drastico, netto… la crisi d’astinenza fu breve… ma per niente semplice. Ero senza soldi e non potevo andarmene dalla comune, Sergej continuava a vivere lì, anche se non mi considerava più…
- E non hai mai pensato di ritornare qui? Di chiedere aiuto?
Yvonne sorrise, facendo cenno di no.
- Dopo il modo in cui sono scappata? Oggi ero sorpresa del fatto che non mi avessi sbattuto la porta in faccia… Col tempo, telefonicamente, ci siamo riavvicinate un po’…
- Tu rimani sempre mia figlia, Yvy… sapere che hai passato certe cose… mi fa male.
- Lo so. Ma tutto è andato meglio. Mi ripresi, misi qualche chilo, cominciai a fare esercizio e trovai lavoro come ring-girl, in un’associazione di boxe professionistico.
- E che facevi? - domandò sua madre.
Yvonne fece spallucce e sorrise. - Passeggiavo sul ring tra un round e l'altro con un cartello tra le mani…
- Ti pagavano per camminare?
- Lo fanno anche adesso… – ridacchiò, mentre raccoglieva i lunghi capelli d’oro in una coda alta, dietro la testa.
- E poi?
- E poi White e Ruby mi hanno trovata. E tutto è andato per il meglio. E ora sono qui…
Grace sospirò.
- Ti vanno due fragole?
L’altra annuì, sorridendo. Scesero, Yvonne un po’ più lentamente, mentre la creatura continuava a tirare calci. Uscirono fuori, affondarono entrambe i piedi nell’erba e raggiunsero il dondolo. La seduta era fredda e un po’ d’umidità s’era stesa sulla valle. Grace rimaneva con le gambe strette, la ciotola di terracotta sulle ginocchia e l’espressione un po’ provata sul volto.
Vide Yvonne prendere una grande fragola e morderla, sorridendo subito dopo.
- Qui è tutto più buono.
Grace annuì.
- Il bambino dovrebbe crescere qui. L’aria è pulita e fresca e tu avresti me ad aiutarti.
Yvonne annuì, spostando lo sguardo di lato, verso lo steccato che sua madre doveva aver ripassato con la vernice qualche settimana prima.
- Hai ragione. Sarebbe la cosa migliore ma…
- Ci risiamo. – sorrise l’altra.
- Senti, è complicato... – ribatté l’altra, prendendo una nuova fragola, stavolta più piccola, e infilandola interamente in bocca. Masticò e fece cenno con le mani a sua madre di aspettare.
- Cosa?
Ingoiò e annuì, poi continuò.
- Intendo… ho un contratto. Il mio lavoro è difficile da “spostare”. Austropoli è una piazza importante e io devo essere presente per tutti i set e le sfilate.
- Certo, ma stai pur sempre diventando madre.
Grace prese a sua volta uno dei frutti nella ciotola e fece un cenno con la testa. – Come credi di farti entrare i vestiti con quelle due cose…
Sorrisero entrambe, guardando i seni della ragazza.
- Infatti ho prestato il volto a un brand di reggiseni… White non si è lasciata sfuggire l’occasione…
Sua madre annuì.
- White è il tuo capo?
Yvonne annuì.
- Parlami di lui.
- Lei. Beh… che dire. Forse è la donna più forte che conosca. Lavora venti ore al giorno, si è costruita da sola, ha un uomo che la ama a casa e più responsabilità che capelli in testa.
Grace appuntì lo sguardo e annuì. – Come si comporta, con te?
- Come un’amica, anche se sappiamo entrambe chi è lei e chi sono io. È stata lei a scoprirmi e a salvarmi.
- Già… raccontami anche questo.
- Ero sul ring, col cartello in mano… - rispose quella, alzando lo sguardo al cielo. Le stelle le guardavano. – Ricordo ancora la serata, perché c’era parecchia umidità e prima di uscire di casa temevo mi si rovinasse l’acconciatura. Lei e Ruby erano lì per parlare di lavoro ma mi videro mentre ero sul ring e per qualche strano motivo la impressionai. Mi aspettarono fuori al palazzetto, io ancora non parlavo benissimo la lingua… Ruby mi ha aiutato molto, traducendo.
- Ruby parla francese? – domandò sua madre, inarcando un sopracciglio.
- È un uomo pieno di sorprese.
- Questo è poco ma sicuro… - ribatté Grace, carezzandole la pancia. – Poi?
- Poi mi offrirono il mio lavoro. Dovevo sostituire Camelia in una sfilata.
L’altra appuntì il viso, stranita.
- Camelia? La top-model? Per la tua prima sfilata?
Yvonne annuì. – Stavo letteralmente morendo di paura, mamma. Lo stilista era un tale stronzo, poi… non aveva neppure adattato l’abito per il mio corpo… Quella sera cominciò a darmi addosso, era palese che lui volesse lavorare con Camelia e non con me…
- E poi?
- E poi Ruby… - sorrise l’altra ricordando la cosa più bella del mondo. – Venne in mio aiuto, mi sistemò l’abito e mi calmò.
- E poi vi innamoraste… - concluse Grace, precipitosa. Difatti, Yvonne rapprese le labbra e fece cenno di no con la testa.
- Non è proprio così. Lui aveva una… cazzo, una relazione, all’epoca…
Sua madre spalancò gli occhi.
- Yvonne!
- No! Aspetta! Non giudicarmi anche tu! Probabilmente non ho fatto ciò che si può definire “giusto”, ma ero innamorata di lui e…
La ragazza alzò nuovamente gli occhi al cielo, mentre un debole sorriso le si dipinse sul volto.
- Era bellissimo stare con lui. Mi sentivo apprezzata e protetta, ascoltata… capita. Era la prima volta, dopo anni, che un uomo mi faceva sentire speciale senza che io dovessi fare nulla in cambio.
Grace abbassò nuovamente lo sguardo. Non era felice di quelle parole ma dovette contestualizzare: la vita di sua figlia non era stata semplice, lei non aveva preso delle decisioni popolari e alla fine si era ritrovata per subire il peso dell’immaturità e della frenesia.
- Ruby… lui, invece?
- L’uomo della mia vita, mamma. L’uomo che continuerei a cercare negli occhi di chiunque, come se avesse detto alla mia mente e al mio cuore che non esiste nient’altro… Io… - sorrideva ancora, addolcita dai ricordi, così vividi, così reali, da poter quasi essere toccati.
- Cosa?
- Mi ha coltivata come un fiore. Mi ha fatta sentire una donna, a prescindere dal mio lavoro, dal mio corpo. Non ero più un bel viso, ma qualcosa di unico, tra le sue mani. E lui riusciva a farmi sentire sempre speciale.
Grace allargò il sorriso, a mezza bocca. Si rese conto del fatto che sua figlia fosse ancora innamorata.
– E ora?
- Ho fatto qualcosa di brutto, mamma. Si è accorto che sono stata io a separarlo dalla donna con cui stava prima.
L’altra era interdetta. Rimase in silenzio, mentre vedeva sua figlia prendere un’altra fragola.
- Sono pentitissima di questa cosa… Ho sbagliato ma…
- Non è ciò che ti ho insegnato. Ma non ti ho insegnato tantissime cose…
- Ho commesso questo errore ma lo rifarei subito…
Grace annuì.
- Forse lo avrei fatto anche io.
Yvonne spalancò gli occhi. – Cosa?! Davvero?!
Era incredula. La sempre corretta e rigida Grace Gabena, la disciplina in persona, l’etica a comando, era d’accordo con lei.
La vide annuire, inaspettatamente.
- Ho vissuto una vita da sola e non ho mai trovato quello che hai assaggiato tu. Il vero amore…
Si guardarono profondamente per un secondo, fin quando a Yvonne non saltò un battito.
- Il vero amore… - ripeté.
- Sei una guerriera. Hai combattuto per ottenere ciò che volevi e lo hai fatto a discapito di un’altra donna. Non è giusto, dal suo punto di vista ma… Forse lo avrei fatto anche io.
Yvonne si umettò le labbra con la lingua. Respirò profondamente.
- Ora che si fa? – chiese.
- Ora questo bambino probabilmente non avrà due genitori deboli ma uno molto forte. E non è giusto, ma per certi versi è meglio così. Se posso permettermi di darti un consiglio…
Yvonne la guardò, spalancò gli occhi d’argento e batté le ciglia due volte.
- Sì?
- Cerca di esserci sempre. Parlagli, diventa sua amica. Non farlo sentire solo. Non fargli sentire la mancanza di nulla e asseconda i suoi desideri, i suoi sogni. Se…
Parlava, Grace, ma non riusciva a sostenere lo sguardo di Yvonne.
- Se?
- Se avessi avuto un po’ più di lungimiranza oggi potresti fare ciò che fai ma qui, a Luminopoli… avevo tante conoscenze ma ero stupida. Volevo che seguissi le mie orme.
Yvonne sorrise amaramente, facendo cenno di no con la testa.
- Ho sempre odiato le auto.
Risero entrambe.
Mangiarono entrambe una fragola, si abbracciarono. I loro cuori fecero pace.
Poi andarono a dormire, un po’ più fresche, un po’ più calme.

Unima, Austropoli, sede della B&W Agency, 23 giugno 20X1

Le pale dell’elicottero ruotavano frenetiche nel cielo della sera.
Adriano non era abituato a quello spettacolo di luci e se non fosse stato così stanco probabilmente avrebbe avuto maggior entusiasmo. Invece si limitava a guardare con distacco lo skyline di Austropoli, coi suoi mille grattacieli che facevano a gara a chi raggiungesse per primo le nuvole nere.
Era parecchio in alto, seduto su di una poltroncina piuttosto scomoda, le cuffie antirumore gli ammaccavano i capelli e il Rolex continuava a ballargli sul polso, che da circa sei mesi avrebbe dovuto far levare una maglia dal cinturino d’acciaio ma, per qualche motivo, non lo aveva fatto ancora. Guardò l’orario, specchiò poi il volto nel finestrino del Bell sul quale volava e vide un ritratto di sé col volto provato, figlio delle molte ore di viaggio.
Poche ore prima era tornato a casa con in mano la copia del contratto che aveva firmato. L’aveva letto e riletto, cercando di capire dove fosse l’inghippo, prima di arrendersi alla palese evidenza: White aveva bisogno di lui per il suo Atelier.
O meglio, per l’Atelier di Ruby e tutto suonava molto strano.
Tutto era molto stimolante.
Aveva preso un borsone, messo un paio di cambi, per un paio di giorni, e affidato a Noelle, la sua domestica, il compito di spedire successivamente il resto della roba. Quella notte non era stato affatto semplice prender sonno, dato che un misto di eccitazione e preoccupazione gli si erano rimestati tra lo stomaco e i polmoni.
Era adulto. Forse un po’ troppo, aveva ridacchiato sotto ai baffi, ripensandoci. Ricominciare con qualcosa di così forte, di così potente, alla sua età, era proprio come ricominciare la sua vita da un punto di salvataggio.
Se avesse avuto vent’anni in meno, probabilmente avrebbe fatto sua quella città; forse avrebbe avuto un po’ più d’ingenuità, negli occhi del colore dell’acqua dei Caraibi.
Si era fatta rapidamente l’ora di prendere quell’aereo. Sul volo che lo aveva portato a Ponentopoli aveva disegnato dei modelli e si era informato meglio sul lavoro del suo allievo migliore, tramite internet. Il risultato fu che amava i vestiti di Ruby.
Aveva ripensato per un po’ alla situazione, in generale, e gli era sembrato davvero strano che quello fosse scappato via, dopo aver costruito qualcosa di così meraviglioso. Aveva letto qualche notizia in più su di lui, e i rotocalchi online non facevano altro che affiancare al suo nome quello della top model Yvonne Gabena.
E aveva letto per minuti interi di loro, della loro storia, di come avevano costruito qualcosa di così magico assieme. Vide anche una foto, risalente a pochi giorni prima, della modella presso la stazione di Luminopoli, mentre indossava dei vistosi occhiali neri, piuttosto larghi per il suo viso. Cercava di nascondere il grosso ventre, senza riuscirci.
In mente aveva cercato di allontanare il pensiero che in quella donna stesse nascendo il figlio di Ruby, ma un timore freddo come il buio lo aveva costretto a contare i mesi.
Capì che quel bambino avrebbe potuto tranquillamente essere dello stilista.
Pensò a Sapphire, un’ombra nera gli si poggiò addosso.
- Che bella, vero?aveva chiesto Orthilla, che fissava l’IPad proprio accanto a lui. Adriano si era limitato ad annuire, spostando il voluminoso ciuffo dall’occhio sinistro. – È proprio vero che le donne col pancione diventano ancora più belle!
- Quando la base è questa… - aveva ribattuto suo zio, scrollando in basso lo schermo, puntando gli occhi sulla figura della modella. Aveva sospirato, si era chiesto se fosse proprio quella donna, la chiave della sparizione di Ruby.
Avrebbe indagato, forse. Avrebbe fatto qualche domanda. Poco dopo aveva riposto il tablet ed era rimasto in silenzio, a fissare il profilo delicato di sua nipote, mentre lentamente prendeva sonno.

L’elicottero era atterrato. Adriano camminava sicuro e stranito sul tetto del Times Building, proprio al centro di Austropoli. Tutto era buio attorno a lui e quattro fari di luce gialla, ben piazzati agli angoli della piattaforma, emettevano fasci luminosi che raggiungevano le parti più alte del cielo. Stringeva il suo borsone di pelle, lungo accanto alla coscia sinistra, mentre il rumore assordante intimoriva Orthilla, a pochi passi da lui, bassa, come se l’elica avesse potuto in qualche modo tranciarle di netto il collo. Trascinava il trolley celeste sugli alti tacchi, cercando di raggiungere l’impassibile zio, che intanto raggiungeva una zona coperta. Quello si voltò, attese che la nipote lo sorpassasse e la seguì, in un’antisala asettica con un grosso ascensore, una macchinetta per il caffè e un distributore automatico di merendine, in cui era rimasto soltanto un Twinkie e un paio di Gatorade. Un uomo dalla pelle scura e dagli occhi azzurri, grosso ed elegante, stava con le mani incrociate dietro la schiena, proprio davanti a loro. Indossava un completo nero, un paio di scarpe lucide, nere, una camicia nera e una cravatta del medesimo colore.
- Lei è il Signor Adriano, vero? – domandò, con voce baritonale. Orthilla vide lo zio annuire in silenzio. Quello che aveva di fronte increspò le labbra e sospirò.
- Posso vedere i vostri documenti?
- I nostri documenti? – domandò la ragazza, in direzione di Adriano. Lo vide annuire di nuovo, poi si voltò verso di lei e umettò leggermente le labbra.
- Fai come dice.
- Oh… che roba… - sbuffò l’altra, che era abituata ad essere riconosciuta ovunque. Eseguirono celeri, poi l’uomo si fece da parte e aprì la porta che aveva alle spalle, che i due neppure erano riusciti a vedere, tanta era la mole dell’uomo.
Entrarono in un ambiente decisamente meno spartano, più moderno. In sottofondo risuonava Smooth Operator di Sade. Era rilassante, e le luci erano soffuse quanto bastava per far capire che quello non fosse un posto come gli altri. Una scrivania di cristallo era stata piazzata davanti a una grande parete di vetro satinato, che non lasciava intravedere nient’altro che le luci nella stanza alle spalle. Seduto al tavolo vi era un giovanotto dai capelli ricci, scuri come la notte. Col volto assonnato, cliccava apatico sui pulsanti del mouse. Hugh, c’era scritto sulla targhetta di plastica che aveva davanti.
Spalancò gli occhi, quando si ritrovò Orthilla e Adriano davanti.
- Oh. Siete arrivati. – disse, facendo un leggero cenno col capo. – Avverto la Dottoressa Trebuchet. Nell’attesa gradite un succo di guava?
Adriano rimase immobile, fissando la porta che aveva davanti.
- Certo, grazie! – rispose Orthilla, gioviale, sorridendo in quel modo tutto particolare che aveva, stringendo forte gli occhi. Hugh annuì, trascinando con difficoltà lo sguardo dal corpo della giovane donna.
- Accomodatevi lì… - ribatté, indicando delle poltroncine rivestite di pelle blu. Alzò poi la cornetta, premette il tasto 1 e avvicinò il ricevitore all’orecchio. Pochi secondi dopo ebbe un sussulto.
- Sì, Dottoressa Trebuchet, c’è qui il signor Adriano con la signorina Orthilla… certo, come desidera. Già fatto, sono seduti e l’aspettano.
Attaccò, poi alzò gli occhi.
- Qualche minuto. Arrivo subito col succo.
Si alzò, snello e scattante, e sparì oltre il muro, in quello che sembrava un piccolo locale di servizio illuminato da un neon bianco.
Orthilla guardò suo zio; era profondamente concentrato, mentre guardava il vuoto davanti a sé.
- Hey… - fece lei, toccandogli la spalla con la mano sottile.
Fu come risvegliare qualcuno da un coma lungo e profondo, Adriano trasalì quasi spaventato.
- Sì, tesoro… che c’è?
- Zio… - inarcò il sopracciglio l’altra. – Calmati. Non ti ho mai visto tanto agitato in vita mia… è così importante per te, questo lavoro?
L’uomo passò una mano nei lunghi capelli e abbassò il volto. Gli occhi di Ruby parevano fissarlo da quando aveva messo piede in quella città.
- Non è una cosa piccola, Orthilla… anzi.
- Spiegami di nuovo, per cortesia.
- Cosa?
- Che dobbiamo fare qui.
- Probabilmente tu dovrai fare qualche sfilata, ma potresti anche riuscire a entrare in qualche produzione cinematografica. Siamo nella più grande città del mondo, del resto…
La ragazza spalancò gli occhi sognanti. – Sì, me l’hai detto già… sarebbe meraviglioso…
- Io invece dovrò produrre degli abiti per un film, in un atelier che appartiene a Ruby e alla persona che ci aspetta dietro questa porta.
Orthilla sembrava decisamente stupita.
- Ma tu sai davvero produrre abiti del genere?
- Sì. Non disegno solo abiti per idol…
Quello abbassò il volto e la giovane aggrottò la fronte.
- Non mi sembri molto sicuro di te, ed è strano… - ribatté, con voce squillante. Quelle parole penetrarono nella sua testa e rimbombarono forti, mentre la stanchezza cominciava a far sentire il proprio peso specifico. Forse furono le ore di volo, la tensione e la mancanza di quel caffè che forse avrebbe dovuto chiedere al giovane Hugh, che in quel momento poggiava le sue Lanciotti sul pavimento dell’antisala dove si trovavano, stringendo un bicchiere tra le mani, colorato di verde.
- A lei. – disse, porgendolo a Orthilla, che sorrise di nuovo stringendo gli occhi.
- Grazie mille.
- Prego.
Orthilla poggiò le labbra sul bordo del bicchiere e buttò giù un po’ di quel succo. Era molto dolce, le piaceva. Tornata a Hoenn avrebbe dovuto fare in modo di procurarsene ancora.
- Comunque? – domandò allo zio, tornando concentrata sul suo sguardo perso.
- Comunque cosa?
- Non sembri molto felice…
Adriano sospirò.
- No. È che… sono confuso.
Orthilla aggrottò la fronte.
- In che senso?
- Nel senso che...
Non aveva molta voglia di spiegarsi, lui, che piuttosto che parlare preferiva mostrare.
Ma non a Orthilla. Non a sua nipote.

E quasi come se il caso avesse avvertito nel suo tergiversare quel disagio, un rumore di tacchi prese a esplodere oltre la vetrata alla loro sinistra. Si voltarono entrambi, Orthilla prese un altro sorso di succo di frutta, forse un po’ più lungo del precedente, e rimase accanto a suo zio ad aspettare, mentre la figura di una donna, alta ed elegante, diventava sempre più nitida nella satinatura della parete di cristallo.
E poi la porta si aprì.
- Non mi interessa, Frank, della disponibilità del tuo personale. – aveva detto, col telefono attaccato all’orecchio destro. Indossava un tailleur beige con lunghi pantaloni e decolleté Louboutin, che aveva acquistato diversi mesi prima, in un pomeriggio d’inverno. Ricordava che quel giorno ci fosse una gara importante della Major League di baseball, e tutta la città sembrava gravitare attorno allo Yankee Stadium per via della sfida contro Chicago. Guardava Adriano, concentrata, e nonostante fosse chissà da che ora sulle batterie la sua capigliatura risultava perfetta, con quella coda alta legata dietro alla testa e i due ciuffi, soliti, che le cadevano sulle orecchie. I grossi occhi azzurri erano truccati perfettamente e risaltavano come pietre preziose illuminate sul volto diafano.
Pareva una ragazzina ma era arrabbiata come una iena. Ascoltava ciò che l’interlocutore le diceva e sul viso cominciò a montarle una quantità di rabbia inusuale. Prese un gran respiro e cercò di calmare i bollenti spiriti, poi umettò le labbra, batté le palpebre due volte e riempì i polmoni d’aria.
Aveva caricato le palle di cannone nell’obice.
- Io e te abbiamo un contratto, Frank. Io ti pago fior di quattrini, Frank. In virtù di ciò, se voglio che i tuoi ragazzi ballino su di una gamba sola vestiti come Marilyn Monroe, loro lo faranno. E sarà meglio che la permanente bionda sia la migliore della loro vita, e che facciano gli auguri al presidente con tutta la convinzione di cui sono disposti altrimenti vi insegnerò la differenza tra uno studio legale pagato migliaia di dollari l’anno e un avvocato ingaggiato per portare a termine una singola causa, che non vi conosce e che pregherà di non vedermi mai più in vita sua.
Orthilla guardò Adriano, leggermente intimorita. Lo sguardo del Capopalestra di Ceneride invece non sembrava sorpreso.
- Questa è una stronza… - aveva sussurrato la nipote.
- Non più di un qualsiasi imprenditore a questi livelli, tesoro.
- E se facesse così anche con noi?
Adriano batté le palpebre due volte e mostrò la cartellina che aveva tra le mani.
- Questo è ancora in bianco. Ma immagino che scopriremo ciò che succede solo vivendo...
White stava continuando a parlare ma fissava i due dell’appuntamento di mezzanotte, con insistenza, quasi come se chiedesse loro una mano per concludere quella telefonata. E dopo venti secondi, e avere intimato Frank di fare il proprio lavoro, abbassò il cellulare dall’orecchio.
Continuò a guardare Orthilla e Adriano, indugiando sulla ragazza e riempiendo lo sguardo di una luce meravigliosa.
- Lei è tua nipote? – fece.
Adriano si limitò ad annuire e si alzò in piedi. Lo stesso fece l’altra.
- È stupenda. Ti assomiglia molto.
- È tutta sua madre, te lo assicuro.
La voce dell’uomo era calda e penetrante. White allargò il sorriso, ma solo sulla metà destra della bocca, e fece cenno loro di entrare. Si voltò, attese accanto alla porta fino a quando i due non sfilarono all’interno dell’ufficio.


PROSSIMO CAPITOLO IN USCITA IL 30 Novembre 2021 (più o meno.) (Si spera.)

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