Frammenti - Passo Dopo Passo
Un pugno di frammenti.
Frammenti di passato. Frammenti della mia vita. Frammenti delle vite che mi sono lasciata alle spalle.
Sono nata in una famiglia d’alta classe di Kalos. Magari non proprio alta... ma di classe sicuramente. Benestante, insomma. Sono figlia unica.
Io dovevo per forza di cose essere la figlia perfetta. Sorridente, ubbidiente, educata, gentile anche con la feccia più viscida.
Ma io non sono così, non lo sono mai stata.
Non sono la classica ragazza tutta rose e fiori. Non vado in giro con vestitini rosa tutti infiocchettati e con le scarpe col tacchetto basso. Non mi trucco con ombretto rosa e lucidalabbra. Non mi pongo sul capo cerchietti o fiocchetti vari. Non pettegolo su qualsiasi persona mi passi davanti al naso.
No.
Io sono una ragazza che sta bene nel suo silenzio, nella sua testa, circondata dai suoi pensieri. Io mi scelgo la mia compagnia, la seleziono e scarto valutando con cura. Se le persone non mi convincono, convivo con la solitudine e il silenzio. Non mi da fastidio. Amo vestirmi con colori freddi e tendenzialmente non chiari. Quindi, o scuri o una via di mezzo. Amo il nero e il viola, sono i miei colori preferiti. Ho delle tendenze leggermente dark o gothic. Il mio trucco comprende al massimo matita e eyeliner. Tanto per sottolineare e valorizzare i miei occhi.
No, non mi mescolavo con le mie coetanee pettegole, e me ne restavo chiusa in casa a guardare con occhi sognanti fuori dalla grande finestra della mia camera. Oppure facevo delle passeggiate fino al parco, solo per il gusto di farlo.
Parlavo spesso con i Giramondo che incontravo in giro. Non essendo mai uscita da Frescovilla, ero avida di conoscere le bellezze del mondo che non avevo ancora visto.
I miei non mi lasciavano mai andare da nessuna parte fuori dalla città. Era noioso. Loro erano noiosi.
Mio padre, un uomo austero e severo, pomposo sotto certi aspetti. Era un brav’uomo, niente da dire, ma pretendeva il controllo su tutto, incluso sulla sottoscritta. Una cosa che non potevo sopportare.
Mia madre. Una donna dolce, premurosa, ma ossessionata dal suo lavoro, dalla pulizia e dall’ordine. In quei casi diventava a dir poco asfissiante. A me piaceva il mio disordine. Mi ci rintanavo.
Ma la cosa su cui io e mia mamma litigavamo di più era il mio modo di vestirmi, i miei gusti sui colori e sui vestiti. Sul comportamento distaccato, si era arresa. Per fortuna.
Lei non sopportava il nero. “Sei sempre tutta così tetra! Perché non ti metti qualcosa di un po’ più acceso e colorato?”. Inutilmente continuavo a ripeterle che i colori caldi e accesi non li posso soffrire.
Quando esagerava, per ripicca, mi giravo e, guardandola dritta in volto, abbassavo la palpebra sinistra, nascondendo l’occhio azzurro, chiaro e limpido.
Così, lei vedeva solo il destro. Nero. Iride e pupilla si fondevano assieme.
Questa cosa la irritava parecchio. Ma poco importava.
Ho anche i capelli neri. E mi sono fatta delle meches azzurre, sulle punte. Così sono in tinta con gli occhi.
Ma non voglio divagare oltre.
Il mio passato è stato monotono e privo di significato. Anche se avevo quello che desideravo, e anche di più, mi mancava una cosa.
Un amico, o un’amica. Qualcuno di cui potessi fidarmi veramente.
Negli esseri umani non avevo mai trovato quello che cercavo. La sincerità, la capacità di dire la cosa giusta al momento giusto e quella di saper soppesare i silenzi.
Qualcuno con cui potessi parlare. Perché, anche se nel silenzio e nella solitudine mi ci trovavo comoda, talvolta diventava stretta.
Il giorno del mio dodicesimo compleanno riuscii a ottenere ciò che cercavo.
Ero seduta in cucina, da sola, a fare colazione.
Il Minccino di mia madre continuava a passare la coda sul tavolo sotto il mio naso, facendomi starnutire di continuo.
- Diamine, Minccino! Aspetta che io finisca, no?
Quello si limitò a farmi gli occhioni dolci. Sospirai. Nel frattempo era entrato mio padre.
- Buon compleanno, tesoro! - Esordì. Mi girai a guardarlo. Era raro che usasse appellativi di quel genere.
- Ciao papà. - risposi.
Lui non perse il sorriso e mi porse una scatoletta. La osservai con curiosità.
Era piccola, quadrata e con un bel fiocco ad ornarla.
- Tanti auguri, Anneke. - Disse solamente. - Ci vediamo questa sera alla tua festa.
Poi uscì, lasciandomi da sola con la scatoletta. Dopo averla osservata per qualche minuto, sciolsi l’elegante fiocco blu con un unico, fluido, lento gesto.
Staccai con cura la scotch per non strappare la carta azzurra decorata con un motivo ad onde.
Infine, lentamente sollevai il coperchio della scatola vellutata color panna.
Era una Pokéball. La presi in mano, con delicatezza. Emanava del calore al suo interno. Vibrava di energia. Era viva.
Premetti il pulsante della sfera, e quella si aprì, sprigionando una scintillante luce argentata, che si raggruppò sul pavimento formando qualcosa di piccolo.
Quindi, la luce si diradò, lasciandomi vedere un piccolo Pokémon dal manto argenteo, con le orecchie a punta, il musetto dolce quanto il suo verso acuto e due grandi occhi scuri.
Una Eevee cromatica. Mentre l’accarezzavo capii che lei sarebbe stata la mia prima vera amica.
Non ci mettemmo molto ad affezionarci l’una all’altra, e una notte tiepida di luglio, venne circondata dalla luce dell’evoluzione, diventando una bellissima Umbreon.
La chiamai Eclissi, come soprannome, ma spesso mi dimentico di chiamarla così. Ma né io né lei ci facciamo molto caso.
Purtroppo, la mia amicizia con Eclissi aveva definitivamente cancellato qualunque contatto con gli esseri umani da parte mia, perché ormai non avevo bisogno di nessun altro.
I miei genitori stavano diventando tremendamente asfissianti. Mio papà insisteva sulle amiche, mia madre sul ragazzo. Non ne potevo davvero più.
Avevo quasi quattordici anni, quando incontrai Philip. Era un giramondo poco più grande di me, viaggiava assieme alla sua famiglia. Quando io espressi il mio desiderio di viaggiare, lui e la sua famiglia mi proposero di unirmi a loro.
Accettai immediatamente.
Tornai a casa di corsa e raccontai il tutto ad un’euforica Umbreon e a un incerto Phantump, mio nuovo Pokemon.
Presi qualche strumento, delle Pokéball, i vestiti che mi piacevano di più e qualcosa da mangiare, ficcai tutto nello zaino e raggiunsi Philip, dopo aver accarezzato Minccino e aver scritto un biglietto.
“Mamma, papà, per quanto bene vi possa volere e per quanto ne vogliate voi a me, non posso più stare qui.
Parto per esplorare il mondo, un mondo che, se restassi chiusa qui, non riuscirei mai a vedere.
Non preoccupatevi, ho i miei Pokémon con me. Mi proteggeranno.
Vi chiamerò, promesso. E prima o poi, tornerò.
Vi voglio bene,
Anneke”
Assieme a quella famiglia di viaggiatori, presi un pullman che ci portò a Temperopoli.
Viaggiai con loro fino a Sinnoh, e dopo, partii da sola alla volta di Johto.
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