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Lost Silver



 
Lost Silver


“Dove... dove sono?”.
La voce del ragazzo era bassa e le note della paura vibravano sulle sue corde. Aprì gli occhi, confuso e malconcio. Gli facevano male le gambe, probabilmente quella sera aveva esagerato di nuovo con gli alcolici.
Basta! Non devi più alzare il gomito!” rimbombava nella sua testa la voce di Mae, la sua migliore amica. A lui non interessava, lui faceva tutto quello che voleva. Nessuno gli era superiore, nessuno avrebbe potuto batterlo.
Si sentiva onnipotente.
“Mae... Mae. Dove mi hai portato?” chiedeva lui, ancora più confuso, mentre lo sguardo finiva di vacillare e di tremare sotto i duri colpi che la sua testa era costretta a subire.
L’emicrania era una dura realtà ed un rumore fastidioso rimbombava nelle tempie, come un ronzio, ma più acuto. Sentiva l’odore di quella ragazza, quasi avesse davanti agli occhi la scia del suo profumo, dolciastro, con quel sentore fruttato.
Nutriva il profondo desiderio di portarsela a letto e di affondare la faccia tra i suoi seni morbidi e profumati, ma per qualche strano motivo non era ancora disposto ad investire in quel progetto.
Appena avrebbe avuto la voglia ed il tempo materiale avrebbe scoperto le sue carte, e Mae sarebbe capitolata sotto i colpi del suo fascino.
Era ancora buio, ma lui avrebbe sorriso al sol pensiero se solo non avesse sentito la sua testa esplodere. Eppure qualche anno prima non si sarebbe mai comportato con tale sufficienza, con tale superficialità;  l’autostima lo aveva divorato.
Lui aveva ottenuto le vittorie, la fama, il denaro, le donne. I Pokémon.
Tutto.
Lui era riuscito dove nessuno era mai riuscito ad arrivare.
Lui era l’allenatore supremo.
E quando si diventa così potenti si può tutto. Anche bere dodici bottiglie di Martini per il solo gusto di farlo con conseguente coma etilico.
Era buio tutt’intorno.
Provò a chiudere e riaprire le palpebre, forse ancora dovevano svegliarsi, ancora ubriache dalla vista del festino della sera prima, ma nonostante questo tutto rimaneva buio.

Forse è la stanza ad essere buia.

Era steso per terra, su di un pavimento polveroso fatto di assi di legno. Non riusciva a notare fonti di luce o altro, solo quel ronzio acuto e fastidioso nelle orecchie.
“Luce...” disse tra sé e sé. Cercò tra i suoi Pokémon. Sicuramente il suo Typhlosion sarebbe riuscito ad illuminare la zona quindi abbassò la mano al cinturone, saggiando con la mano la superficie fredda e liscia delle sfere.
Anche al buio avrebbe saputo riconoscerle. La prima sfera aveva un’intaccatura nella parte superiore. Quello era il suo Typhlosion.
Si alzò a fatica ma stentava a mantenere l’equilibrio e cadde di nuovo. La testa girava forte, ma avrebbe dovuto stringere i denti, come quando aveva lottato contro Mewtwo, o come quando aveva sgominato il Team Rocket.
Lui era forte. Lui aveva battuto la Lega Pokémon, aveva distrutto ed umiliato Rosso sul Monte Argento, aveva cominciato a speculare sulla sua immagine ed era diventato immensamente ricco.
Alzarsi in piedi per lui non era che un gioco da ragazzi.
“L’alcool...” si ripeté. Sentiva il sapore metallico del sangue mentre passava la lingua sulle gengive e intanto provò a rialzarsi, riuscendoci. Ce l’aveva fatta.
 Mise una mano alla cintura e sospirò, prima di prendere la sfera di Typhlosion.
“Vai...” disse, sentendo la saliva colargli sul mento. “Accendi la tua fiamma”.
Fece qualche passo indietro mentre brancolava nel buio, per evitare che l’enorme calore lo potesse ferire.
Tuttavia le sue aspettative furono disattese: al posto dell’enorme focolare, che Typhlosion avrebbe sicuramente prodotto con la sua fiamma, si ritrovò un braciere piccolo e debole.
Essò illuminò l’ambiente di poco, lasciandolo in mano alle ombre, libere di giocare con la fantasia dell’avventore.
In un ambiente come quello le ombre facevano paura.
Lui rimase sgomento già dapprincipio: non era il suo Typhlosion, quello che si trovava davanti, no. Quello era un piccolo Cyndaquil.

La testa comincia a giocarmi brutti scherzi.

Lui aveva un Typhlosion pluristellato, Campione della Lega Pokémon, muscoloso, forte, dalla fiamma caldissima e divampante. Lì davanti c’era un toporagno piromane, e la cosa non gli faceva piacere.
Abbassò lo sguardo verso la sfera che teneva tra le mani; come graffiato con le unghie c’era scritto Hurry.
“Tu... tu ti chiami Hurry...” ragionò il ragazzo.
Tutt’intorno la debole fiamma illuminava a sprazzi il vasto stanzone. Un enorme pilastro centrale, in cemento, sostava storto.
“Torre... Torre Sprout...”. Lui cercò di fare mente locale rapidamente ma quando si accorse che il pilastro rimaneva fermo, senza muoversi, capì che forse non era quello il posto. Il pilastro della costruzione di Violapoli dondolava ritmicamente, tanto che si pensava fosse costruita attorno ad un enorme Bellsprout.
Hurry tossì, sputando sangue; la fiamma, già debole, vibrava come quella di una candela nel vento, alternando il lieve lume al buio più profondo.
Non si sentiva sicuro; era certo che qualcuno sarebbe saltato fuori e lo avrebbe aggredito, l’angoscia che lo stava divorando era un chiaro segnale che qualcosa non stava funzionando.
Abbassò gli occhi verso le Pokéball restanti. Accanto a quella di Hurry c’erano altre cinque sfere che, in teoria e solo in teoria, avrebbero dovuto contenere il resto della sua squadra: Pidgeot, all’epoca un Pidgey molto ostinato, il primo Pokémon che aveva catturato; il suo Gyarados cromatico, frutto di duri allenamenti e ricerche; Lugia, il mitico Lugia, un Pokémon leggendario; Steelix, evoluzione dell’Onix che qualche ragazzino stupido gli scambiò per un Bellsprout inutile ed insulso; Infine il suo Umbreon, maestro delle illusioni.
Li chiamò tutti fuori. Magari Steelix avrebbe utilizzato Fossa e lo avrebbe condotto fuori da quel luogo.
Tuttavia, invece di trovarsi in mezzo a tanti Pokémon super allenati, riuscì a vedere solo degli Unown che circolavano attorno a lui, in senso orario, accerchiandolo.
Tutti punti interrogativi.
“U-Unown?! Dove diamine sono i miei Pokémon?! Chi mi ha fatto questo scherzo?!” urlò lui.
Non ci credeva, doveva essere per forza un brutto sogno. Portò le mani agli occhi, li strofinò e li riaprì ma nulla era cambiato. Tanti punti interrogativi continuavano a circolare davanti a lui.
L’ennesimo colpo di tosse di Hurry lo costrinse ad abbassare lo sguardo. Il Pokémon continuava a sputare sangue; era debolissimo, sembrava fosse avvelenato.
Mosso a pietà da quello che fu il suo primo Pokémon, provò a cercare nello zaino uno strumento atto a farlo stare meglio, ma quando vi infilò il braccio dentro si accorse di non riuscire a saggiare con le dita il fondo. La borsa pareva sterminata.
“Ma...”
Strinse i denti, stava odiando tutto in quel momento, capovolse poi lo zaino per farne uscire l’intero contenuto ma l’unica cosa che cadde per terra, producendo un tintinnio metallico, fu un piccolo ciondolo d’oro, di quelli che si aprono a libro celando una fotografia.
Lo raccolse e schiuse le due metà: la fotografia all’interno era di Mae.
Sospirò, guardandosi attorno. Non riusciva a vedere pochi metri oltre Hurry.
Infilò il ciondolo in tasca e prese a camminare, alzando gli occhi: all’improvviso gli Unown formarono una parola:

L E A V E

“Leave... Vai via...” sussurrò lui. “Lo farei anche, se solo sapessi come!” urlò inferocito.
Mosse i primi passi in avanti scrutando con gli occhi tutto ciò che la fiamma debole di Hurry illuminasse, ma nessun segno di nulla.
La tensione saliva al massimo ed il movimento ritmico ed armonioso degli Unown lo snervava ancor di più. Camminava in fretta cercando un appiglio, ma Hurry non teneva il passo e lo lasciava al di fuori di quella circonferenza illuminata, al centro del buio. Il pilastro che avevano accanto scricchiolò in maniera sinistra e costrinse il giovane a voltarsi. All’interno del grande elemento centrale c’era attaccata una scaletta che gli consentiva di scendere giù.
“Ottimo!” esclamò sorridente lui. “Libertà, sto arrivando!”
Fece rientrare Hurry nella sfera e, incurante degli Unown, scese le scale, immettendosi in un nuovo stanzone buio.
Scese per quasi cinque minuti la scala, spaventato dal fatto che i suoi piedi non avrebbero mai toccato il pavimento e, mano a mano che si avvicinava ad esso, sentiva in diffusione la musica che aveva ascoltato nelle Rovine D’Alfa, quando per sbaglio accese la radio.
Non era la situazione giusta per ascoltare quel tipo di musica.
Non è mai la situazione giusta per ascoltare quel tipo di musica, così inquietante.
Finalmente allungò il piede e toccò il pavimento. Quello scricchiolò sotto i suoi passi.
Ancora buio, ancora nessuna fonte di luce. C’era solo lui lì, la scala dietro la sua schiena e quella fastidiosissima musichetta che gli balenava nella testa.
“Hurry...” sospirò. Avrebbe dovuto rifarsi nuovamente a lui.
Lo fece uscire dalla sfera ma stavolta la fiamma era bella, forte e viva. Illuminò la grande stanza e rimase a bocca aperta: tutt’intorno c’era solo rosso. La stanza e le sue pareti, il soffitto, il pilastro, che ora stranamente era davanti a lui, tutto rosso.
Si sorprese inizialmente per la questione del pilastro. Era alle sue spalle, ne era sicuro, lui non si era mosso. Corse avanti e girò l’angolo, solo per attestare che la scala fosse sparita.

Com’è possibile?!

Scioccato, si voltò d’improvviso. Sotto i suoi piedi un percorso grigio proseguiva in lontananza. Attorno alla sua testa ancora la scritta L E A V E. Decise di snobbare gli Unown e prese a correre in avanti, seguendo la strada segnata. Essa si stringeva sempre di più andando avanti.
Man mano che correva la luce di Hurry diventava sempre più debole ma in lontananza c’era un cartello, e lui doveva assolutamente leggere cosa vi era scritto.
Stringeva i denti, fece lo stesso con i pugni, cercava di allontanare i cattivi pensieri. Doveva uscire da lì, doveva andare via da quel posto. Doveva assolutamente trovare il modo di rivedere la luce del sole.

Di rivedere il volto di Mae...

Correva, la grinta che l’aveva sempre contraddistinto fungeva da catalizzatore, era diventato un tutt’uno con il suo scopo, come ai vecchi tempi, quando doveva lavorare sul serio per ottenere i migliori risultati.
Aveva dimenticato quanto fosse difficile e stressante vivere la vita vera.
A pochi metri c’era quel cartello. L’aria stava diventando più pesante, il respiro faticava ad uscire, la temperatura era aumentata tutta d’un tratto e la luce di Hurry diventava sempre più flebile. Dopo quelli che parvero venti minuti di corsa estenuante raggiunse il cartello; il tempo e lo spazio lì dentro non coincidevano con i suoi ideali di normalità.
Toccò con mano il legno del cartello affisso e vi si inginocchiò, quindi lesse quello che stava scritto con inchiostro rosso.
Rosso come il sangue.


 
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I                                       I
TURN BACK NOW  I

I_________________I
II
II
II
II

 



“Devo... devo tornare indietro? Ora?” si chiese, mordendosi il labbro.
Aveva fatto tanto per arrivare dov’era in quel momento, ma il dubbio esistenziale sull’ascoltare sempre un cartello mossogli dalla sua mamma quand’era piccolo gli stava facendo rivalutare parecchie cose.
Quella musica gli stava martellando le tempie, la cosa lo infastidiva. Davanti aveva ancora strada, indietro aveva la certezza di qualcosa.
Non sapeva cosa fare, ma fu nel momento in cui valutò la scelta da prendere, quando si voltò indietro, ancora inginocchiato, che tutto tornò buio. Hurry tossì per l’ennesima volta, poi un piccolo lamento fece spegnere la fiamma che aveva sulla schiena.
“No! Stupido topo inutile!”
Si alzò, rabbioso, e diede un calcio al piccolo Pokémon; sapeva dove giacesse ed il suo piede lo colpì in pieno torace. Si sentì uno strano tonfo, quando atterrò, e fu in quel momento che la musica delle Rovine D’Alfa s’interruppe, venendo sostituita da quella del Pokéflauto.
Il giovane sospirò, portando le mani agli occhi. Lacrime calde solcavano le sue guance, e vedendosi senza speranza non poté far altro che sedersi per un attimo. Gli occhi ancora chiusi, il pavimento polveroso e le mura rosse si erano unite tutt’intorno in un unico telo nero indistinto dove tutto poteva essere niente e niente poteva essere tutto.
Riaprì gli occhi, il buio era scomparso. Ora una qualche strana fonte di luce illuminava solo lui ed i due metri che lo circondavano in ogni direzione.
Alzò brevemente gli occhi, gli Unown continuavano a girare attorno alla sua testa.
Ma ora erano sei.
 
H E D I E D
 
Questo c'era scritto.
“Lui è morto... Hurry?! Hurry è morto?!”
Spalancò gli occhi. Preso così tanto com’era dalla rabbia aveva dato un calcio ad un Pokémon esausto.
“Sono stato io?” si stava chiedendo, sbalordito. Il rimorso lo investì con forza, estirpando il lui ogni volontà. Niente poteva farlo sentire meglio, le lacrime continuavano a sgorgare e tutta quella maledetta polvere gli intasava i polmoni, tossiva, le braccia cominciavano a fargli male, gli occhi bruciavano. Tutto era così profondamente assurdo che quasi gli sembrava di essere sotto effetto di acidi, l’alto calore forse ne era l’effetto.
Hurry era morto. Hurry era morto per causa sua.
“Hurry... Perdonami!” urlò, abbandonandosi ad un pianto senza freni. “Perdonami! Scusami! Fatemi uscire da qui!” concluse, battendo i pugni sul pavimento, in un crescendo frenetico d’ansia.
La luce su di lui si spense, l’ultima cosa che ricordava prima che quel buio denso e freddo lo inondasse furono gli occhi accusatori degli Unown, poi si sentì cadere nel vuoto.
Quella sensazione era terribile. Non riusciva ad urlare, totalmente impotente, totalmente immobilizzato dalla paura. Il Pokéflauto imponeva le sue dolci note a tutto ciò che attraversava, si moltiplicava nel buio, arrivava ovunque.
S’interruppe però, ad un certo punto, e quella sensazione di vuoto insostenibile portò il giovane a reagire. Urlò, urlò impaurito, con tutto se stesso. Furono pochi attimi dopo che a dieci metri un piccolo pavimento fatto di doghe in legno apparve, luminoso e minaccioso.
Il ragazzo non poté far altro che proteggere il volto; la velocità a cui precipitava era incredibile e una volta toccato il pavimento un’enorme rimbombo, unito all’urlo di dolore prodotto, annullarono totalmente il rumore del flauto, che da quel momento in poi sparì.
Lui era per terra, del tutto dolorante, ma ancora vivo. Con un braccio era riuscito a proteggere il volto tuttavia non aveva ottenuto gli effetti desiderati: aveva scarnificato una guancia con l’orologio, un Rolex d’oro molto costoso che teneva al polso, e si era frantumato omero gomito e spalla. Pezzi d’osso appuntito uscivano minacciosi dal braccio del ragazzo, che urlava in preda al dolore e al delirio.
“Cazzo...” piangeva tra sé e sé. “Cazzo...”. Il ragazzo prese a tremare, totalmente in preda allo sconforto. Davanti agli occhi la sua vita, la sua breve vita, fatta di successi e sprechi, scorreva come acqua del rubinetto, s’accumulava piano nella testa e spariva.
Non sapeva più nulla.
Non voleva sapere più nulla. L’unica cosa di cui aveva interessa era nella sua tasca.
Prese il piccolo ciondolo con la mano sana, lo aprì e vide il volto sorridente di Mae. Lacrime e sangue macchiarono la foto della bella, l’ultimo appiglio che gli era rimasto con la realtà.
“Tornerò alla mia vita... tornerò alla mia vita per te...”
Seduto per terra si guardava attorno: la luce proveniva da qualche strano e misterioso posto, inspiegabilmente, dato che lui era rinchiuso in quattro mura con appena un metro quadrato di spazio. Sembrava fosse un pozzo.
Il pavimento sotto di lui scricchiolava senza che nulla provocasse quel rumore. Il sangue colava dalla sua faccia e dal suo braccio e lui non poteva far altro che lamentarsi.

“Grande esistenza, grande morte, probabilmente. Morirò qui, rinchiuso tra queste quattro mura, sfigurato e con un braccio spezzato. Ho fatto tanto nella mia vita, e mi sono meritato questo. Non lo so... Non so perché mi sono trovato in questa situazione. Mae aveva ragione, non dovevo bere così tanto. Ora... ora la potrò rivedere soltanto qui, in questo ciondolo, che ho anche macchiato di sangue. A che serve ottenere tanto, se poi senza le mie cose non sono nessuno? A che serve lottare per salire la scala sociale se lo stesso sbagli e fai errori... e non migliori... e tutti ti odiano. Tutti odiano tutto, tutti odiano qualsiasi cosa. Tutti amano solo loro stessi, e le loro cose, le loro inutili cose, quando in realtà l’unica cosa che dovrebbero fare è... ascoltare Mae...”.

“Rimani te stesso”.
La voce della giovane risuonava come il rintocco di una campana a mezzanotte, riempiva quel che rimaneva del suo corpo di brividi, lo costrinse ad abbandonarsi allo sfinimento.
Svenne.
Non si rese nemmeno conto del fatto che il pavimento sotto di lui si frantumasse, quasi come le sue gambe quando atterrò nuovamente, dopo l’ennesima interminabile caduta.
Era morto.

O forse no.

La vita lo stava abbandonando gradualmente, più lentamente del sangue nel suo corpo. Aprì lentamente gli occhi. Gli Unown continuavano a girare attorno alla sua testa.

D Y I N G

“Sto... morendo...” sorrise lui, rassegnato.
Gli ultimi aliti di vita abbandonavano il suo corpo, le forze seguivano il carro, le speranze chiusero la porta e gettarono via la chiave.

Era morto.
Stavolta per davvero.

O forse no.

Ad un certo punto si vedeva, steso per terra, le gambe spezzata, un piede totalmente reciso dal corpo, un braccio spappolato ed il volto coperto dal sangue; le lacrime disegnavano una via chiara e pulita attraversandolo, accumulandosi nella polvere accanto al suo volto.
Sono morto... Posso mettermi l’anima in pace”.
Controllò le mani. C’erano. Niente sangue.
Certo, niente orologio né nulla, solo i vestiti ed il cinturone con una Pokéball, una semplice Pokéball bianca e rossa.
Non sapeva il motivo, lui, ma camminava in avanti in quella che gli sembrava la Torre Sprout.
Sempre poco illuminata, sempre pareti rosso sangue, ma c’erano ora persone in religioso silenzio con il capo abbassato. Sembravano monaci in preghiera, con le teste rasate ed abiti lunghi e scuri.
Hey...” faceva ad ognuno di loro, ma nessuno rispondeva.
Continuava a camminare.
Qualcuno mi sente?! Aiutatemi! Fatemi uscire di qui! Devo andare da Mae! Aiuto!”
Per quanto potesse sgolarsi, tuttavia, nessuno gli rispondeva. Anzi, pareva che nessuno lo vedesse, e ciò ebbe l’unico effetto di fargli perdere la voglia di cercare di comunicare con quelli.
Ok... Se è così che deve andare andrà così...”.
Continuò a camminare per quella stanza chilometrica. Finì addirittura di guardarsi attorno, sapeva che ciò che cercava era lì, in cima al pilastro.

Rosso... Hai organizzato tutto tu, vero? È tutta una tua idea! Tu volevi vendicarti!”
Il giovane prese a piangere. A piangere sangue.
Rosso era a dieci metri d’altezza, in cima al pilastro, proprio davanti al giovane. Lo guardava silenzioso, come sempre. Pareva pallido, il suo sguardo era nascosto dalla tesa del berretto che, come sempre, teneva davanti agli occhi.
Quello si mosse meccanicamente, portando la mano alla cintura, e la musica, quella degli Unown delle Rovine D’Alfa, cominciò a scorrere, ma al contrario.
Ancora più inquietante.
Red lanciò la sua sfera, ed apparve il suo Pikachu.
I Pokémon di Red erano delle macchine, creature allenate per abbattere l’obiettivo, per distruggere l’avversario. Lo sfidante, che aveva già combattuto ab illo tempore contro il suo avversario, sapeva che, per quanto quel Pikachu fosse piccolo, combatteva contro un mostro d’abilità e bravura.
Quel Pikachu era probabilmente il Pokémon più forte contro cui aveva lottato.
La questione stava nel fatto che quel Pikachu era veramente triste: coda ed orecchie puntavano al pavimento, gli occhi erano tristi.
Qualcosa stava per accadere.
Rosso puntò l’indice verso l’avversario e Pikachu mosse deboli passi in avanti. Il giovane si vide costretto ad indietreggiare. Alzò la testa, gli Unown erano scomparsi ormai e nella cintura non aveva neppure Hurry, ormai passato a miglior vita.
Ma poi, abbassando il capo, notò un’ultima, scintillante Pokéball.
Pikachu continuava ad avanzare, le guance cominciarono ad emettere forti scintille.

Una volta toccato il fondo si può solo risalire...

Decise di lottare, di lanciare in campo quella sfera, sperando che ad uscirne non fosse un Rattata o un Magikarp.
Fu fortunato.
“Celebi"
E non era un Celebi normale, ma del resto nulla lo era in quel dannatissimo posto. Il suo corpo era totalmente diviso a metà. La parte visibile apparteneva ad un esemplare cromatico, con le estremità rosate. L’occhio e la mezza bocca visibile erano determinati ma sembrava sapere di non aver alcuna speranza contro quel Pikachu.
Emise il suo verso, un fastidiosissimo stridio che costrinse il giovane a stringere i denti e a chiudere gli occhi.
Vai Celebi! Usa Psichico!”
Ma il primo ad attaccare fu Pikachu, più rapido dell’avversario. Si abbassò sulle quattro zampe, con gli occhi carichi d’odio verso Celebi. D’un tratto il suo corpo cominciò ad emanare delle strane onde scure. La coda era tesa.
Lui riconobbe subito quale tipologie d’attacco stesse utilizzando il suo avversario.
Maledizione! Ma lui non può imparare questo tipo di mossa!”
Ed in effetti era vero.
Ora toccava a Celebi. Il giovane s’aspettava che concentrasse le sue energie per colpire con la sua forza psichica l’avversario.
Invece si esibì in uno straziante Ultimocanto, con quello stranissimo stridio in diffusione, che costrinse nuovamente il giovane a tapparsi le orecchie. Guardò Red, lui rimaneva impassibile anche di fronte a quel rumore così forte e fastidioso.
Così sinistro.
Ultimocanto? Ma è una follia! Io ho soltanto un Pokémon, lui ne ha sei, non riuscirò mai in tre turni a metterli tutti fuori combattimento!”
Pikachu si gettò quindi a capofitto, pronto per l’attacco. Con la coda cercò di colpire, in maniera alquanto strana per altro, il suo avversario.
“Flagello?! Ma che diamine... Perché utilizza mosse che non potrebbe utilizzare normalmente?!”.
Celebi non sembrò assai  risentito dall’attacco e anzi, continuò ad attaccare, senza ricevere alcun ordine da parte del suo allenatore, nuovamente con Ultimocanto.
Il giovane portò subito le dita alle orecchie, cercando di schermare quanto meglio potesse quel rumoraccio, senza riuscirci in alcun modo.
Fu ancora Pikachu quindi a muoversi, cominciando ad urlare nei confronti dell’avversario.
“Questo invece è Frustrazione...”.
Celebi stavolta subì forte il colpo, emettendo il suo verso sinistro.
Forza! Ce la puoi fare!”.
Celebi si rimise in piedi a fatica, fluttuando con quella sua aluccia, senza allontanarsi di molto. Allora attaccò, stavolta con Malcomune.
Pikachu urlò, schiacciato dal dolore, condividendo con il suo avversario preziosi punti di vita.
I gemiti del Pokémon erano terribili.
“Fortunatamente tra poco finirà questo strazio...” disse il giovane, calcolando i turni in cui il primo Ultimocanto era stato effettuato.
Pikachu ebbe solo il tempo di attaccare con Malosguardo, prima che gli effetti del perfido canto di quel Pokémon abominevole si abbattessero su di lui.
Pikachu e Celebi caddero quasi contemporaneamente per terra, esanimi.

Sono esausti...”.

Fu l’evidenza a far cambiare idea al giovane. Sangue a fiotti fuoriuscì dalle bocche dei due, crearono pozze scure, dall’odore pungente e metallico come solo quello del sangue. Due rivoletti si lanciarono in avanti, opposti, incontrandosi l’un l’altro, unendosi e formando un’unica grande macchia.

“Loro... loro sono morti!”.

Poi Pikachu riaprì gli occhi, e si rialzò all’in piedi, molto lentamente. Guardava lo sfidante negli occhi. Rosso fissò per poco il giovane, per poi inginocchiarsi. Aprì la bocca, lecco le labbra, sembrava stesse per dire qualcosa, invece si limitò a soffiare delicatamente contro l’avversario. Subito dopo successe una cosa che sconvolse il giovane: la testa di quello scivolò lentamente dal
collo e cadde sul pilastro. Rotolò qualche centimetro per cadere anche da lì e infine si sfracassò sul pavimento, proprio pochi metri dietro il suo Pokémon.
Pikachu sembrava non essere presente in quel momento, voltò per un attimo il capo, mentre il corpo del suo allenatore crollava dal pilastro, e quindi a sua volta soffiò, prima di stramazzare per terra.

“Destino... Destinobbligato?!”

Dolore. Solo dolore, terribile dolore nella testa. Fu questo a costringere il ragazzo a chiudere gli occhi, abbandonando momentaneamente quella realtà che ormai si era sgretolata ampiamente.
Palpebre chiuse, tutto era nero, gli occhi bruciavano tanto. Un rumore, gli Unown cantavano con il loro verso sinistro ed inquietante, e la curiosità spinse il giovane ad aprire gli occhi.
Danzavano, sempre lentamente, forse stavolta di più.

N O M O R E

Quello dicevano. No more.
“Ma...”.
Il dolore s’acuì, e lui urlò forte, urlò come non aveva mai fatto. Il dolore era insostenibile, s’innervava dentro la sua testa che pareva scoppiasse, gli occhi si chiusero tanto velocemente che sembrò quasi non fosse stato lui a controllarli.
“No!” pianse. Portò le mani alle palpebre, le dita a pulire le lacrime ed il sangue, con quel suo odore inconfondibile, quando si rese conto che il rigonfiamento creato dall’occhio all’interno della palpebra mancava.
Gli occhi non c’erano più. Riusciva a sentire sotto le dita le palpebre rientrate nelle orbite. Il sangue viscido gli scorse sulle guance.
Non gli rimaneva che abbandonarsi agli ultimi respiri che stava esalando. S’accasciò lentamente, rannicchiato con le ginocchia portate al petto, quindi s’addormentò, esalando l’ultimo respiro.
Era morto.

O forse no.

Aprì gli occhi, nonostante il mal di testa forte continuasse a martellargli le tempie.
La prima cosa che fu in grado di vedere furono gli occhi di Mae.
“Hey...” fece lui, sorridendo.
“Ti sei svegliato, finalmente”emulò il sorriso la ragazza, con le lacrime al viso. Stringeva forte la sua mano, fallendo nel tentativo di limitare il tremore alle labbra.
“Sì... Ho fatto un terribile sogno...”.
“Te l’ho detto che non devi bere così tanto!” s’alterò lei. “Sei entrato in coma etilico!”.
“Ora sto bene, e non berrò più”.
“Già...” fece lei muovendo la testa verso destra, sospirando. Poi inspirò e la riportò alla posizione di partenza.
“Già...” fece di nuovo. Mosse ancora la testa verso destra e sospirò ancora. Infine ripeté l’azione ma al contrario, per poi parlare di nuovo. “Già...”.
“Mae...” tossì lui.
La guardava ripetere in loop quelle azioni e quelle parole, infine gli parve naturale spaventarsi. Lei sembrava essersi bloccata in quella sezione di tempo, senza poter fare null’altro.
“Mae...” ripetè.
“Già...”
Un altro respiro, affondò la testa nel morbido guanciale bianco e chiuse per un attimo gli occhi, cullato dalla nenia che la morbida voce di Mae ripeteva.
Aprì leggermente gli occhi, osservò per un attimo i lunghi capelli castani, lucidi, profumati, poggiati sul caldo maglioncino di filo, quello rosa che indossava sempre. Un occhio si stava chiudendo, la stanchezza forse.
Forse.
Le labbra, quelle labbra così morbide, stavano sparendo dietro la coltre oscura che il sonno gli stava tessendo addosso.
Prima di abbandonarsi definitivamente al riposo si riscaldò sotto lo sguardo di quella. Le strinse la mano, e si perse nuovamente.
Era morto.

Già.

O forse no?

Camminava. Camminava nel buio più che totale, ma stavolta era tranquillo.
Le mani in tasca, stavolta faceva freddo. Vedeva il suo respiro volare via, trasformato in vapore inutile che in ogni caso non sarebbe riuscito a vedere.
Sentiva però il rumore dei suoi passi, le sue scarpe scricchiolavano lungo il quel pavimento.
Ne riconosceva l’odore pungente, era tornato di nuovo in quell’incubo.
Tuttavia era tranquillo, manteneva uno stile posato che precedentemente non aveva voluto mantenere. Forse l’ansia, la voglia di uscire.
Ma in quel momento capì che non aveva niente più da perdere.
Era giusto godersi i piaceri della vita, era giusto godersi quella passeggiata.
Intanto i suoi pensieri vagarono. La prima cosa a cui pensò, senza ombra di dubbio, fu Mae.
L’aveva rivista, aveva stretto per l’ultima, meravigliosa volta le sue mani. Quelle mani piccole e fredde, con lo smalto messo ma smangiucchiato. Non capitava quasi mai di vederla con le dita ben smaltate. Al minimo difetto disfaceva il dito e poi finiva di smontarlo a entrambe le mani.
“Che rimango, con un buco?!”.
“Che buco?”.
“Colorato su tutte le dita e qui no” faceva, mostrando il dito incriminato. Lui sorrideva sempre.
E poi la stringeva.
All’inizio, naturalmente. Con il passare del tempo lui s’arricchì e perse di vista le cose più semplici.
Diventò materiale. E come tutto ciò che diventa materiale, comincia a deteriorarsi con il passare del tempo; la sua vita cominciò a ruotare unicamente sui soldi, sugli sponsor, sulle donne e per ultimo sul nettare ad alta gradazione.

Che cosa ho fatto?

Era giovane, aveva poco più di vent’anni. Ed aveva buttato tutto ciò che lo aveva reso realmente felice. S’accese d’improvviso un riflettore, sulla destra. Lui si fermò e lo fissò.
A sostare sotto il solito fascio di luce stavolta c’era un piccolo Cyndaquil, in braccio ad un ragazzino. Nel mentre un’altra ragazzina gli dava da mangiare.

Hurry... E quella è Mae. E lui... e lui sono io...

Si avvicinò a quelli ed allungò la mano verso il maschietto, che alzò gli occhi e lo guardò.
Di nuovo il canto degli Unown. Tranquillamente alzò gli occhi e li vide, a formare una nuova scritta.

I M D E A D

Il giovane sorrise. Vide il piccolo poggiare quel Cyndaquil tra le braccia della bella e prese quello più grande per mano. Con la corona di Unown che li seguiva presero a salire una scalinata, proprio alle loro spalle che, naturalmente, prima non c’era.
Arrivati in cima ad essa, il bimbo lo guardò.
“Addio per sempre ...”.
Il giovane sorrise, lo salutò con un cenno della mano ed entrò nell’enorme porta di luce che aveva davanti.
Era morto.
Già, stavolta era morto, proprio così.

O forse no?

“Mae, non c’è più niente da fare...” fece il medico, mentre la sua assistente attestava che la morte era avvenuta esattamente alla mezzanotte del trentuno ottobre.
La ragazza piangeva lacrime nere, frutto del trucco sciolto dal suo pianto caldo. Inginocchiata ai piedi del suo letto d’ospedale non le rimaneva altro da fare che affondare il viso nelle coperte, mentre stringeva con vigore le mani di quello che era il suo migliore amico, gradualmente sempre più fredde.
Il bip fastidioso dell’elettrocardiogramma era diventato un rumore snervante e continuato. La linea retta verde non dava speranza: lui era morto.
“Perché?!” pianse ancora.
“Signorina...”.
Il medico cercò di rincuorare la ragazza, mettendole delicatamente una mano sulla sua spalla. Intanto l’infermiera staccava velocemente la spina dell’elettrocardiogramma, orami piatto da più trenta secondi.


 
Mi ricorderò di te. Per sempre.
 
Angolo di un autore ubriaco la maggior parte delle volte:
Almeno non come lui, in ogni caso spero di non fare la sua stessa fine. Allora, questa è una mia rivisitazione di Lost Silver, la pasta a tema Pokémon, credo la più bella che abbia letto. Ci sto lavorando da un po' l'idea mi è venuta qualche tempo fa e spero vi sia piaciuta. In ogni caso potrebbe vedere un seguito questa storia.
A prescindere da ciò, vorrei ringraziare Capricornus, per aver betato il tutto ed aver avuto la pazienza e la voglia di farlo.
Grazie di aver letto.

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