La Fata e la Luna
Clefairy aveva sempre vissuto in quella radura. Non aveva mai visto un umano. Ne aveva semplicemente sentito parlare attraverso i racconti degli altri Pokémon e da quel che dicevano doveva ammettere che non erano granché.
Zangoose – quel vecchio brontolone – continuava a ripetere che di loro non ci si doveva fidare, erano infidi. Continuava ad affermare che avrebbe preferito condividere la tana con un Seviper piuttosto che essere catturato da un umano.
Clefairy non ci dava molto peso, ormai era noto a tutti che Zangoose fosse irascibile e astioso verso chiunque, persino verso la propria immagine riflessa nella polla d’acqua della radura.
Doveva anche ammettere, però, che gli umani la incuriosivano. Avevano così tanti modi di dire una stessa parola. Fra Pokémon ci si capiva ad un solo sguardo, la comunicazione era molto ristretta, ma gli umani... loro gridavano, parlavano, sussurravano, cantavano.
Clefairy amava cantare, nelle notti di Luna piena di posizionava al centro della radura e inneggiava al satellite, con la sua voce delicata e quasi sussurrata.
Non voleva attirare nessuno, si diceva. Quei rituali erano per lei e per lei solamente, nessun altro avrebbe mai potuto anche solo capire perché facesse qualcosa del genere.
A dir la verità, nemmeno lei lo sapeva veramente. Si era scoperta un’ottima cantante e la sua natura la spingeva ogni volta a venerare la Luna piena. Lo faceva, semplicemente.
Lo amava, altrettanto facilmente.
Aspettava il plenilunio ogni mese, preparandosi febbrilmente per la notte che avrebbe speso nella radura ad osservare il cielo.
Il dramma capitava quando la Luna era coperta dalle nubi. Non riusciva a vederla, si disperava.
Senza Luna, come avrebbe mai potuto cantare? Come sarebbe riuscita ad adorarla?
Un plenilunio nuvoloso era, per Clefairy, peggio della morte. Era nella sua natura cantare alla Luna, lei doveva farlo. Sapeva che senza di esso non sarebbe riuscita ad andare avanti.
Successe una notte di quelle. Evidentemente il destino voleva veramente che tutti i Pokémon assassini nascessero in quel bosco scuro e pieno di insidie, dove i sorrisi di Luna erano spaventosi come i riverberi del coltello di un assassino.
Clefairy decise di cantare lo stesso, senza la sua amata, senza nessuno che potesse ascoltarla.
Quanto si sbagliava.
Qualcuno era lì per ascoltarla, anche se lo faceva inconsciamente.
Un gruppo di sei ragazzi, che stupidamente avevano pensato di sfidare il buio e la notte.
Clefairy cantava e loro ascoltavano, le note gentili della sua voce risuonavano nel silenzio del bosco e come erano belle.
Le orecchie dei giovani vennero cullate dalla melodia calma del Pokémon e senza rendersene conto si trovarono a cercarne sempre di più. Non bastava mai. Sempre di più.
Tremavano, ma avevano caldo e si spogliarono dei pesanti giacconi che indossavano.
Barcollavano, ubriachi della musica che Clefairy produceva.
Ridevano, altrettanto felici e per niente spaventati dall’idea della morte.
Clefairy li vide che giungevano e non s’azzittì. Continuò imperterrita, osservando gli occhi vacui dei ragazzi perdere sempre più lucentezza. Erano come la Luna! Come la sua amata nel cielo.
E quanto avrebbe pagato per vederla ogni notte? Aver la sicurezza che ogni singola notte ella ci fosse stata per ascoltarla cantare?
Quegli occhi erano la Luna. E lei aveva bisogno della Luna.
Morirono così. All’oscuro di tutto. Dodici bulbi oculari che erano delle piccole lune. Tutte per lei.
Pochi giorni dopo, però, gli occhi persero quel fantastico colorito lattiginoso.
Fu così che iniziò quell’interminabile catena di omicidi. E tutte le vittime si ritrovavano nella radura. Integre, ma senza occhi.
Due buchi rossi e neri, che davano sul vuoto. Le palpebre erano tranciate con malagrazia, il sangue che seccava e che formava lacrime che nessuna madre sarebbe stata in grado di asciugare.
Erano tutti giovani, le vittime di Clefairy, non oltre i vent’anni. Qualche coppia innamorata, qualche bambino che impunemente raggirava il coprifuoco... tutti attratti dalla melodia di morte del Pokémon.
In fondo fu anche grazie a questo che i Pokémon assassini si incontrarono.
Sylveon quella notte fu proprio attirato dalle musiche di Clefairy e si sa, la curiosità spinge a fare le azioni più pazze. Cautamente si avvicinò e osservò lo spettacolo più splendido mai visto fino ad allora.
Con quale brama Clefairy strappava gli occhi alle vittime in ginocchio? Che splendida tonalità di rosso carminio era il sangue che usciva da quelle cavità?
Era tutto così perfetto. La Luna, la canzoncina che Clefairy mormorava sottovoce e le vittime che si contorcevano in un’estati fatale e lussuriosa.
La cupidigia che aveva il Pokémon fata nel portarsi al grembo quelle piccole sfere biancastre? Perfetta.
Sylveon si chiese da quanto Clefairy facesse azioni del genere e intento a pensare fece un passo falso, e il Pokémon rosato si accorse di lui.
Bastò uno sguardo e si capirono.
Bastò un sospiro e divennero complici.
Spritzee raggiunse Sylveon e vide con somma gioia il corpo ancora scosso da spasmi che sanguinava steso sull’erba che si macchiava pian piano.
Si avvicinarono e osservarono l’umano contorcersi e morire, silenzioso e con un’espressione beata.
Non servirono parole ai tre per capire che quello era un’incontro voluto dal destino.
Pochi minuti dopo Clefairy ascoltava rapita i racconti di Spritzee sui Pokémon morti e sulle loro ossa e non appena fece menzione dei loro occhi vuoti ella ebbe un sussulto.
Erano tutti animati da uno stesso ideale. Trovare il diverso, provare ogni sensazione e non fermarsi.
Clefairy attirava le vittime, Sylveon le uccideva e Spritzee sezionava il corpo. Una squadra perfetta, ma ancora da migliorare.
Servivano ancora elementi, altrimenti l’orologio non avrebbe funzionato.
Ma la foresta era grande e di sicuro, qualche altro Pokémon assassino si sarebbe fatto vivo per uccidere qualcun altro.
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