Main Mind
La lancetta dell’orologio continuava imperterrita la sua avanzata.
Fuori, la pioggia colpiva ripetutamente i grandi vetri della sala ovale in cui si trovava, distruggendo la suddivisione temporale creata dal ticchettio del grande orologio a pendolo attaccato alla parete. O meglio, apparentemente attaccato con una specie di colla alla carta da parati dal gusto orrendo.
Marrone, con dei rombi blu. Sarà roba da intellettuali, ma a me fa schifo. Come tutto il resto, del resto. Che ironia, inizio anche a ripetere le parole, l’analisi mi fa solo del male, oltre a svaligiarmi il conto in banca.
Due anni che tutto quello continuava, senza un briciolo di risultato importante. Solo tante tessere di un puzzle, sparse a casaccio su di un tavolo, incomprensibili nella loro totalità. Troppi pezzi mancavano, troppe erano le cose che non ricordava o che, ancora meglio, non voleva ricordare, almeno così aveva detto il dottore. Due anni che veniva ripetuta quella cosa, due anni di terapie e di cicli di vari farmaci, tecniche strane e dialoghi infiniti. E nemmeno un fottuto ricordo che sia tornato alla luce. Il solo risultato era stato il suo mancato acquisto della nuova auto, e l’odio verso chiunque faccia delle domande.
‒ Matthew, mi sta sentendo?
‒ No, scusi dottore, stavo pensando che invece di spendere tutti i miei soldi per lei, potrei benissimo farmi con una bella dose di peyote, risparmierei e mi godrei l’attimo, invece di sentirla ripetere sempre le stesse, identiche, dannatissime idiozie. Con tutto il rispetto. ‒ disse Matthew, adottando il periodo di oscillazione del pendolo per sequenziare le parole dell’ultima frase.
‒ Sta dicendo, quindi, che la terapia non sta funzionando, giusto?
‒ Esattamente, dopo due anni che cosa ho concluso? Nulla. Non voglio mettere in dubbio lei, sia chiaro, probabilmente il problema sono io che sono talmente escluso dalla vita da essere immune ai suoi metodi.
‒ Non crede che tutto questo sia già un enorme passo avanti? Dagli infiniti studi fatti, e potrei citare decine di uomini, dal grande Freud al mio vicino di casa che mi invia i suoi ragionamenti nati dai suoi movimenti intestinali, che hanno affermato l’impossibilità di recuperare certe cose dalla mente umana, se il paziente non vuole. Se lei ha rimosso degli avvenimenti del suo passato e, nonostante tutti i suoi sforzi, non riesce a rimembrare, probabilmente io non posso fare niente, questo è vero, sta a lei rimuovere le barriere della sua mente. Posso, però, indirizzarla sulla dritta via.
‒ Tutte queste parole, dottor Main, solo per dirmi che spetta a me fare tutto?
‒ Non esattamente, lei può farcela, ma dipende solo ed unicamente da lei. Io le mostro gli strumenti, deve essere lei ad adoperarli nel modo giusto. Anche discutendo in questo modo stiamo continuando la cura, le assicuro che non sarà tempo sprecato.
‒ È lei a conoscere il mestiere, Doc. Vorrei solo ci fosse qualcosa che mi faccia davvero capire che non sto buttando i miei soldi. Niente di personale, ma avrei potuto comprarmi una PS4, con tutte le versioni premium di ogni singolo videogame, ed i rispettivi DLC, con i soldi che sto sborsando. Quindi se ha un jolly da giocarsi, lo faccia. Io sono stanco di sentire sempre le stesse cose, e se deve continuare in questo modo, tanto vale interrompere le sedute.
‒ Stia calmo, non dipende da me la durata del trattamento, è tutto concatenato…
‒ Concatenato?! Sono due fottuti anni che ho sempre lo stesso incubo, non cambia minimamente. Non ce la faccio più ad andare avanti in questo modo, forse non capisce quanto sia difficile vivere così. Ho il continuo terrore che tutto si avveri, e vivo la mia vita rifugiandomi da tutto e tutti, le sembra giusta, una cosa simile? Se neanche lei, che dovrebbe essere il miglior psicologo di tutta la Regione, riesce ad aiutarmi, allora tanto vale spendere i miei soldi in prostitute e Black-Jack.
‒ Forse non si rende conto di cosa sta dicendo, dovrebbe cercare di contenere la sua lingua, altrimenti mi rifiuto di continuare un solo istante la terapia. Non ho bisogno dei suoi soldi né della sua presenza. Ha detto bene, sono il più famoso e rinomato, sono ricco e praticamente lavoro per sport, secondo lei perché continuo insistentemente con le sedute? Non è divertente, se crede questo.
‒ E perché, allora, mi dica, dottore. ‒ l’ultima parola fuoriuscì dalla gola di Matthew carica d’odio e disprezzo.
‒ Perché, che lei ci creda o no, mi sta a cuore la sua situazione. Non ho mai visto nessuno come lei, Matthew. Si ricordi che mi deve ancora due mesi di sedute, e nonostante questo continuo a seguirla.
‒ I soldi li avrà ma non è questo il punto. Io sto morendo dentro, lentamente. Sento il mio cervello abbandonarmi giorno dopo giorno, divento sempre più dispettoso verso tutti, nascono in me sentimenti contrastanti che non conoscevo nemmeno. Rabbia ed ira erano sconosciute per me, e da quando ho questi incubi non faccio altro che essere furioso verso chiunque.
‒ Capisco, capisco… Ho un’ultima possibilità da proporle, non sarà piacevole però. Forse non dovrei neanche parlargliene, voglio la sua parola che non lo dirà a nessuno, soprattutto alle autorità.
‒ Main, cosa ci sarà mai di così pericoloso da essere illegale? Se c’è una possibilità, io terrò la bocca chiusa, ha la mia parola.
‒ Molto bene… Hypno, vieni qui.
Un libro cadde dalla libreria posta alle spalle di Matthew, mostrando un ingresso nascosto dietro il massiccio legno di quercia. Come una porta, la collezione di libri ruotò attorno al proprio asse, rilevando un’enorme figura in penombra. Il primo dei dodici rintocchi fece il suo ingresso in scena, calcando la paura che si faceva spazio nella mente di Matthew.
Oh cazzo, questo no… il mio fottuto sogno sta prendendo vita.
‒No, lei è pazzo. Mi vuole ipnotizzare con quel coso?
‒ Prima di tutto, è un mio collega. Sono a conoscenza del fatto che sia illegale utilizzare i poteri di Hypno, in quanto potrebbe essere fatale al soggetto. Tutti sanno i rapporti del Pokémon con gli incubi, ma mi creda, se ci sarò io a dirigere le operazioni da eseguire, Hypno non sbaglierà un colpo, può farla addormentare, entrare nella sua mente, individuare il ricordo che tanto brama, e mostrarglielo, il tutto grazie all’aiuto dei suoi soli poteri psichici. Non le farà del male e non le ruberà l’anima.
‒ Doc, lei è impazzito. Vuole che Hypno, colui che di notte ruba i sogni alle persone, mi ipnotizzi, addormentandomi, per entrare nella mia mente? Gli occhi castani di Matthew si scontrarono contro le barriere ghiacciate degli occhi grigi di Main, andando in mille pezzi.
‒ Non solo, lei potrà decidere se tenere i ricordi, o cancellarli. Comunicheremo tramite Hypno, la procedura è sicura, non l’avrei proposta altrimenti. Si può fidare, l’ho applicata più volte su di me, nei momenti critici. Hypno è bravo, non le farebbe mai del male.
Matthew volse lo sguardo verso il Pokémon che, immobile come un totem antico e minaccioso, si ergeva chino sulle sue gambe, con le pupille completamente oscurate che si perdevano nel vuoto. Cercò di guardarci all’interno. Un’immensa sensazione di paura e dolore lo colse.
Il cuore ne venne avvolto, come accadeva costantemente nei suoi incubi.
‒ Potrebbe funzionare…? ‒ Matthew si volse stavolta verso l’enorme orologio, specchiandosi all’interno del suo vitreo corpo.
Vide il suo viso, completamente distrutto dallo stress e la mancanza di sonno. Le occhiaie si erano allargate dal suo ultimo controllo, ed i capelli sembravano un mucchio di erba secca, attorcigliata attorno a se stessa e poi calpestata da una mandria di Bouffalant.
‒ Certo, gliel’assicuro. Hypno è disposto ad aiutarla.
Per calcare le parole del suo allenatore, il Pokémon appoggiò la mano destra sulla spalla del ragazzo, cercando di abbozzare un sorriso mal riuscito. Sembrava più un clown demoniaco venuto dall’inferno per rubargli l’anima. Il vero problema, fu la mano di Hypno, gelida e dolorosa. Matthew provò una fitta di dolore nell’istante in cui ci fu contatto fra i due, come una miriade di spilli inseriti di forza nella sua carne.
‒ Devo… devo pensarci, le farò sapere, Doc. Grazie mille per il suo tempo, arrivederci.
Matthew corse fuori dalla stanza e si precipitò all’esterno, curandosi solo allora di indossare il cappotto per ripararsi dal gelo della notte e la violenza della tempesta.
‒ Se crede che io possa tornare, è fuori di testa. Vuole farmi toccare un’altra volta da quell’Hypno… Il primo contatto è stato orrendo, non mi piace quel Pokémon.
Il ragazzo chiuse la zip del cappotto, indossò il cappello la cui protezione era ormai inutile, e corse verso l’auto, pronto a tornare a casa. Entrò nell’autovettura, chiuse gli occhi, e respirò profondamente, cercando di liberarsi dalla sensazione di orrore provato pochi minuti prima.
Mise in moto e, dopo una breve retromarcia, ingranò la prima e si inserì nella carreggiata deserta, derapando vistosamente all’interno di una pozza d’acqua stagna, oscura come il cielo senza stelle dominante in quella notte.
‒ Hypno caro, tocca a te.
Il Pokémon, col suo falso sorriso stampato in faccia, si concentrò per poter seguire le tracce psichiche lasciate dal breve contatto col corpo del ragazzo. Un’eccitante frenesia gli scosse il corpo non appena riuscì ad individuare il percorso corretto.
Al suo arrivo a casa, le mani di Matthew tremavano ancora.
Parcheggiò il vecchio catorcio al suo posto, nel garage del condominio, ed entrò nel vecchio ascensore cigolante le cui luci interne si spegnevano e riaccendevano di continuo; e mentre saliva, verso il suo piccolo appartamento polveroso, non poté far altro che guardarsi, tra un intervallo di buio e l’altro, sullo specchio macchiato e rotto attaccato alla parete di metallo, e sentire un’ondata d’odio per se stesso e per il mondo investirlo.
Studiava gli occhi piccoli e scuri, adornati da quelle maledette occhiaie che non volevano sparire, la pelle giallognola che si assottigliava sugli zigomi affilati, il naso adunco e le labbra troppo sottili, i capelli che a causa di quegli incubi ricorrenti e lo stress diventavano sempre meno… Forse, si diceva, se avesse avuto un aspetto migliore, la sua vita sarebbe andata diversamente; avrebbe avuto più fortuna, sarebbe stato capace di vivere tranquillamente nella società, sarebbe stato circondato da persone a cui importava di lui… No. Il suo aspetto non c’entrava assolutamente, era semplicemente la sua mente che cercava di giustificare quel buco nero che era la sua vita. Sin da piccolo era stato messo da parte, prima dalla madre troppo impegnata col lavoro e coi fratelli maggiori più bravi di lui, poi dai compagni di scuola, ed infine da se stesso; era convinto che qualcuno come lui non meritasse una bella moglie, dei figli, degli amici o anche un lavoro soddisfacente. Si sentiva come un roditore nascosto nelle fogne, pronto a fuggire da ogni barlume di luce che si stendeva fino a lui dall’alto.
Poggiò la testa contro la superficie sporca, guardando il suo riflesso, e poi le lampadine si spensero e lo lasciarono al buio per un istante in più, giusto il tempo di sentire un respiro che non era il suo, ed intravedere un profilo che di umano aveva poco o nulla, quando le lampadine ripresero a funzionare per un istante esatto, lasciandolo poi nuovamente nell’oscurità più totale. Fu allora che l’ascensore fermò la propria corsa, portandolo al decimo piano, e spalancando le porte per farlo uscire.
Allungò la gamba e fece un piccolo salto, e mentre l’ascensore rumoreggiava ancora una volta sotto il movimento improvviso, Matthew ebbe paura di finire tranciato a metà come nel tipico cliché visto in fin troppi film e telefilm; ma fortunatamente, il cigolio rimase quello che era: il lamento di un impianto fin troppo vecchio che con fatica continuava a portare avanti il proprio lavoro.
Prima che le porte si chiudessero, l’uomo ebbe il coraggio di voltarsi, per vedere il cubicolo adesso illuminato totalmente vuoto, come se nessuno vi fosse mai entrato, in primo luogo.
Prima di aprire la porta di casa fece un veloce giro su se stesso, dettato dalla paranoia, convinto che qualcuno lo stesse seguendo. Sentì la pressione sanguigna scendere velocemente e la visione abbandonarlo, la nausea che rimescolava i contenuti del suo stomaco e si gonfiava come un palloncino all’interno del suo ventre.
‒ Dio santo. – finalmente aprì la porta, trovando tutto come lo aveva lasciato: la stanza che ospitava la cucina, un piccolo scrittoio con sopra il computer e un divano, la camera da letto a destra e il bagno a sinistra; entrò in quest’ultimo, ponderò per un attimo di infilarsi sotto il getto della doccia, scartò il pensiero e i vestiti che indossava dal giorno prima, e si fiondò direttamente a letto, tirandosi addosso le coperte che per tanti anni gli avevano dato la sensazione di proteggerlo dal mondo, ma che adesso non potevano proteggerlo dalla sua stessa mente.
Poggiò la testa sul cuscino, nel buio quasi totalitario, aspettando che il sonno arrivasse; fuori la tempesta stava dando il suo peggio, spazzando le strade deserte della periferia con raffiche di vento gelato e trascinandosi dietro qualunque cosa che le persone non avevano pensato di mettere il salvo, lasciando secchi ed immondizia a ballare quel valzer notturno. La poggia cadeva sempre più forte, il suono che si ampliava e presto copriva ogni altro rumore, dalle sporadiche macchine che circolavano nonostante il tempaccio, ai passi dell’inquilino del piano superiore… d’altro canto era ancora molto presto.
Si rese conto di aver chiuso gli occhi solamente quando iniziò a sentire delle voci chiacchierare in lontananza. Nonostante la stanchezza, fissò nuovamente lo sguardo sulla finestra, le luci al neon delle insegne dei negozietti che popolavano la strada filtravano attraverso le veneziane. Iniziò a sentire anche dei passi, che lo preoccuparono vagamente perché sembravano troppo vicini per appartenere all’inquilino dell’appartamento sopra al suo, ma decise di ignorare anche quelli, gli occhi sempre fissati nello stesso punto. Qualcosa si mosse nell’angolo della stanza, ma neanche quello riuscì a destare il suo interesse.
Di colpo però la porta si aprì sbattendo, e due giovani entrarono nella sua stanza, chiamando il nome di qualcuno. La luce venne accesa, ed un Drowzee abbastanza minuto si nascose sotto la scrivania tremando.
‒ Già a nanna, eh? – fece il primo dei due ragazzi, era giovane, ma indossava vestiti un po’ datati, ed i capelli castani erano portati a spazzola. Lo afferrò per il colletto, tirandolo a sedere, ed un suono strozzato uscì dalla gola di Matthew: non si sentiva padrone del suo corpo, non riusciva a comunicare o a muoversi. Mentre sgusciava fuori dal letto, l’altro ragazzo, con i capelli biondi, parlò.
‒ Abbiamo sentito che pensavi di denunciarci per quell’incidente dell’altro ieri, quindi abbiamo pensato di farti visita.
‒ Quale incidente? – riuscì a dire finalmente, con una voce così terrorizzata che quasi non gli sembrò sua.
‒ Uh? Fingi di cadere dalle nuvole adesso? Vediamo di rinfrescarti un po’ la memoria allora… ‒ il biondo girò attorno al letto, raggiungendolo.
‒ Ti ricordi… ‒ Matthew non aveva spazio per fuggire, chiuso in un angolo com’era, e non poté fare nulla quando una ginocchiata allo stomaco gli fece mancare fiato, spossatezza e nausea che gli si agitavano in corpo negli istanti dopo, in cui si abbassò per proteggersi dalle botte che sapeva stavano per arrivare; come sempre, del resto.
Lacrime di rabbia iniziarono a formarsi agli angoli dei suoi occhi, bagliori di una lotta Pokémon che iniziavano a manifestarsi nella sua mente come dipinti che prendevano vita.
‒ …che il mio Arcanine, totalmente per errore, ha fatto fuori quel tuo stupido Raticate, giusto? – continuò il biondo, con rabbia mal celata nella voce. – Cosa posso farci io, se sei un allenatore incapace, eh, Will?! – continuò, scaricando una pioggia di pugni sulla figura accartocciata di Matthew.
‒ Niente – rispose lui apatico, sentendo la rabbia e l’angoscia sconosciute che ogni notte lo tormentavano senza sosta gonfiarglisi in petto. Nella sua testa, in un loop infinito si ripeteva la morte di un Raticate, coperto di ustioni, che dopo esser stato colpito da un attacco Lanciafiamme, cercava di ritornare dal suo allenatore, squittendo finché la morte non lo colpì di sorpresa, lasciandolo accasciato sul campo di battaglia.
‒ Ehi – fece il castano, fermando le percosse dell’amico, che per altro non sembravano sortire nessun effetto sulla vittima – Perché non giochiamo un po’ con lui?
Il biondo lo guardò sorridendo, prima di afferrare il giovane a terra per la collottola del pigiama e trascinarlo fuori dalla vecchia casa. Lo lasciò cadere giù dai gradini d’ingresso, e lo spinse nel giardino sul retro.
E fu lì che incominciarono le vere botte. Quasi con noia, quei due ragazzi si alternavano nel prenderlo a pugni e pedate, lasciandolo inerme sull’erba umida e fangosa. Un calcio allo stomaco, e si sentiva svenire per la nausea, un pugno in mezzo alle scapole, e l’aria veniva tirata via totalmente dai suoi polmoni, mentre la pelle bruciava e i muscoli si contraevano al massimo.
‒ Avanti, sei più patetico di quel tuo stupido ratto – fece ancora il biondo, colpendolo in volto, questa volta. Mattew atterrò sulla sua schiena, ed il dolore atroce al suo setto nasale fu oscurato dalla momentanea cecità e il sangue che gli andò di traverso, lasciandolo a tossire.
Matthew sentiva la volontà di combattere, di ribellarsi a quei due ragazzi, ma il suo corpo non reagiva. Quando voleva urlare, i suoi denti si stringevano, quando vedeva un’apertura e provava ad attaccare, il suo corpo si accovacciava. Ed una parte della sua mente percepiva quella situazione, quei due ragazzi che non aveva mai visto prima, il Drowzee che lo fissava con aria impaurita dalla finestra di camera sua, come familiari. Ancora non piangeva, ancora teneva la testa bassa, eppure quella parte della sua mente aveva voglia di scappare; vedeva ogni possibilità e si chiedeva se fosse il momento giusto finché il treno non era ormai perso. I suoi occhi si fissarono sul Pokémon, il suo braccio si sollevò in aria, e sembrò pesare tonnellate.
‒ Drowzee… Drowzee… ‒ mugolò pateticamente. Il biondo guardò in direzione della finestra e si concentrò nuovamente su di lui.
‒ Vuoi mettere in mezzo i Pokémon? – fece con fare provocatorio, prendendo in mano una Pokéball.
‒ Julius, attento a non andare troppo oltre… ‒ fece il castano, che già da un po’ era rimasto indietro, a guardare la scena con le braccia incrociate.
‒ Stai tranquillo, voglio solo che conosca Arcanine. Così da capire che è soltanto un giocherellone, e che non voleva far del male al suo ratto. ‒
‒ …! No! Ti prego! Ah! – Matthew si ritrovò davanti l’enorme canide; emanava un calore insopportabile. Tentò di indietreggiare strisciando sui fondelli, la sua mente che già prevedeva cosa sarebbe successo di lì a poco. Finalmente riuscì a mettere in moto il suo corpo, scattando in piedi e dando le spalle al grosso Pokémon.
‒ Prendilo! – Matthew guadagnò qualche metro di distanza, prima che Arcanine gli si piombasse addosso, e la mandibola incandescente si chiudesse attorno alla sua gamba destra in un attacco Rogodenti. Sentì un distinto crack, e gli occhi si rivoltarono mentre il suo corpo scuoteva sotto l’enormità del dolore provato. La gola bruciava nello sforzo delle grida, lamenti acuti e graffiati simili a quelli di una bestia ferita. La mandibola del Pokémon si stringeva sempre di più attorno al suo arto, e le sue mani tentavano di graffiare inutilmente il muso, nel vano tentativo di liberarsi.
‒ Julius, basta così, ti prego – riprese il castano, mettendo una mano sulla spalla dell’allenatore, che dal canto suo si limitava a fissare la scena con sguardo curioso, come se non sapesse cosa aspettarsi nonostante fosse stato lui stesso a dare l’ordine di attaccare – Gli hai dato una lezione, basta adesso.
‒ Non ancora – fece proprio lui, liberandosi dalla presa e avvicinandosi a Matthew. Lo guardò negli occhi per un lungo istante, prima di sentenziare: ‒ Lanciafiamme.
Nello stesso momento in cui Arcanine aprì la bocca per caricare il suo attacco, la vittima fece in tempo a girarsi; gli occhi erano fissi sulla finestra di camera sua, su quel Pokémon che tremava visibilmente. – Drowzee… aiutam…
E poi una torre di fuoco si abbatté sulla sua schiena, avvolgendolo e divorandolo lentamente.
Le urla erano sconclusionate, l’istinto quello di scappare, e sentiva la gamba minacciare di staccarsi dal corpo ogni volta che cercava di sottrarsi a quella lenta tortura; non gli importava più di perderla. E sentiva la pelle ribollire e squarciarsi, e la voce mancargli, così come la forza, mentre finalmente cadeva a terra, sangue che colava dal naso e la bocca spalancata nell’ultimo tentativo di chiamare l’unico essere vivente al corrente di quello che gli stava accadendo, riuscendo solamente a produrre un lamento senza fiato.
‒ …Drow… zee… Drow… zee… ‒ l’aria ritornò nei suoi polmoni come se non fosse mai mancata, e gli occhi ripresero a vedere, la luce al neon che filtrava attraverso le veneziane ed il suono della pioggia così come li aveva lasciati prima di addormentarsi. Rimase fermo per qualche istante, poi sentì qualcosa di là, in cucina, e subito saltò a sedere, sbattendo un pugno sopra il tasto d’accensione dell’abat‒jour e nascondendosi sotto le coperte, come quando era bambino.
Non riuscì a fermare i suoni stressati che la sua gola produceva al ritmo dei suoi respiri affannati, mentre il panico lo divorava come le fiamme nel suo incubo ed il cervello gli diceva di scappare e di restare fermo dov’era a un tempo. I suoi incubi non erano mai stati così realistici, il dolore non era mai stato realistico. Sentiva il bisogno di piangere, ma non ci riusciva, ed il suo volto era ricoperto in una patina di sudore, ogni muscolo contratto ed i sensi all’erta, nella paura che qualcuno, o qualcosa, potesse saltare da un momento all’altro dall’oscurità per attaccarlo.
Crampo. La tensione riversatasi sulle fibre muscolari del suo polpaccio annodò la sua carne martoriandolo. Matthew si paralizzò per una decina di minuti, neanche reagì al dolore, attese con indifferenza che la sensazione poco piacevole di un trapano che perforava con estrema lentezza la sua gamba sparisse. Calmo, pacato, arreso.
Diede un occhio all’orologio sveglia sul suo comodino: si rese conto di essere rimasto a letto poco più di un’ora. Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto lanciare ogni oggetto nel raggio di un metro contro lo specchio che aveva appeso all’anta dell’armadio per farsi compagnia.
Quello specchio odioso!
Accade quando si è troppo abituati a stare in solitudine, un surrogato che dovrebbe far sentire meno soli diventa un elemento terrificante che dà soltanto lì impressione di essere osservati, scrutati, seguiti. Matthew ruotò sul suo fondoschiena, mise i piedi fuori dal perimetro del materasso e li infilò a colpo sicuro e dolorante per lo sforzo applicato al muscolo nelle ciabatte. Era il momento di prendere una decisione. Il ragazzo mosse due passi verso la porta, la luce soffusa della lampada scacciava il buio come una paletta per le mosche sarebbe stata capace di fermare un toro. Una figura si muoveva con lui in perfetta sincronia andando qua e là per la stanza e afferrando con violenza pantaloni, felpa, giubbotto. I suoi peli erano già ritti da quel millesimo di secondo bastante per far balzare il cuore in gola quando il suo cervello gli fece rendere conto che era soltanto il suo riflesso.
Matthew tirò su col naso. Scosse la testa.
L’odore sprigionato dai panni che aveva appena indossato non era dei migliori, non si cambiava da quasi dieci giorni. Sbuffò.
‒Poco importa ‒si disse
Bussare con le dita nude sul legno della porta era stata una pessima idea, il freddo rende sensibili certi punti del corpo, ma lui se l’era dimenticato. Il ragazzo era nascosto sotto l’ombrello per proteggersi dalla pioggia e con le spalle strette, le braccia rinsecchite, le gambe intrecciate e la schiena curva aspettava un segno di vita dall’abitatore di quell’antro al quale si era recato per chiedere udienza.
‒ Dai! ‒ esclamò sommessamente.
Una seconda volta sbatté la mano sul portone, ma senza commettere lo stesso errore: utilizzò il fianco del pugno. Metodo grezzo ma efficace, una luce illuminò una finestra del piano superiore colorandola di “arrivo”. Poco tempo e un appena udibile sgattaiolare di passi di uomo assonnato sul parquet e il portone si schiuse.
‒ Diavolo! Matthew, che cosa ci fai qui a quest’ora?! ‒Il volto tumefatto dal sonno del appena desto del dottore sapeva di caldo, di calore e di piumino in cui potevano avvolgersi le persone normali e dormire sonni tranquilli senza incubi, senza paure.
‒ Dottore, ho preso la mia decisione ‒spiegò Matthew senza fronzoli e con un’espressione atona in volto.
‒ Porca miseria, nel cuore della notte… entra, dai!
L’uomo accolse nell’abitazione il ragazzo che fradicio anche se si era portato l’ombrello e raggelato anche se si era messo due felpe e un giaccone, si strinse subito ad un termosifone acceso come fosse l’icona del dio sceso in terra.
Il dottore accese alcune luci, si cambiò alla ben e meglio e raggiunse Matthew con una tazza di tisana alle erbe in mano.
‒ L’ho riscaldata, ne avevo preparata per me prima di andare a letto ma era troppa ‒disse soltanto.
Il ragazzo bevve. L’infuso acidulo e verdastro scese nella sua gola caldo e benefico, eppure, le sue giunture continuavano a tremare.
‒ Allora… ‒esordì con più presenza il dottore sedendosi sul divano in pelle di fronte al suo paziente. ‒…che cosa intendiamo fare?
Matthew fissava il vuoto. La tazza con la tisana in mano sembrava un piccione posatosi sulla mano di una statua al centro di una piazza, i suoi occhi erano assenti.
‒ Non mi hanno mai svegliato così in fretta… ‒sussurrò dopo un’attesa interminabile. ‒…gli incubi mi stanno uccidendo.
‒ Sei riuscito a dormire almeno un po’?
‒ Io… ‒provò a rispondere il ragazzo. Un lampo illuminò all’improvviso lo strato di cumulonembi della sua mente. ‒Mi guardi! ‒esclamò a pieni polmoni d’un tratto facendo sussultare persino il dottore. ‒Se sono riuscito a dormire almeno un po’?! Io sono un essere umano! Non devo dormire almeno un po’! Io voglio riuscire a chiudere gli occhi quando mi pare! ‒sputò fuori.
La voce grossa e lo sfogo improvviso avevano riscaldato la situazione e aumentato la frequenza del battito cardiaco di entrambi gli uomini. In tutto questo, il dottore aveva tenuto la testa bassa e Matthew non aveva staccato il suo sguardo dal vuoto così interessante da dover essere scrutato almeno una volta al giorno nella sua quotidianità.
‒ Hai ragione… ‒ mormorò sottomesso il signore seduto sul divano con le mani incrociate.
‒ Chiama Hypno.
Lo sguardo di Main si risollevò verso la figura tremolante e immobile al tempo stesso del suo paziente stretta tra la tisana e il radiatore come a voler sciogliere, assorbendo tutto il calore possibile, quel gelo insinuatosi fin dentro le sue ossa da notti di veglia e ore di guardia.
‒ Chiamo Hypno.
Corpo disteso su un letto, occhi cinghiati e forzatamente chiusi, cervello dolorante, cuore in euforia. Matthew attendeva impaziente e masochisticamente fiducioso un qualcosa che non sapeva come definire. Aspettava un bus per l’oltreoceano.
Il Pokémon dalla peluria gialla e il nasone cadente girava attorno al materasso studiando il corpo della povera vittima dell’inquietudine del suo subconscio. Hypno con i gli occhi di una vipera in attesa del roditore abbastanza sfortunato e disattento da passare ignaro accanto alla sua tana.
Lo yo-yo nelle mani del Pokémon era stranamente attratto dal terreno, immobile, conservava la sua posizione persino quando la mano a cui era appeso si muoveva, ma Matthew non l’aveva notato.
Il dottor Main scrutava da un angolino della stanza la scena. Ad un certo punto, Hypno si fermò proprio accanto alla testa sudaticcia e inquieta del ragazzo. Il Pokémon poggiò un dito della mano destra sulla propria fronte e lo stesso dito della mano sinistra su quella del paziente.
Oddio.
Le sinapsi di Matthew si spensero, il suo cervello cadde in una catalessi profonda. Il suo corpo smise di emettere e ricevere impulsi. Il ragazzo era in uno stato a metà tra il sonno e il coma, mentre i poteri psichici di Hypno rovistavano tra i suoi pensieri abbandonati come documenti disordinati sopra una scrivania dal legittimo proprietario.
Non voglio alzarmi, fammi restare a dormire, voglio restare a dormire! Ho sonno, stanotte non ho chiuso occhio. Non farmi alzare.
Non ho fatto incubi, ti prego, fammi rimanere a letto. Fammi restare sotto le mie coperte, qui è caldo mentre fuori c’è il gelo. Oh Dio…
Sento freddo…
Sento freddo dietro la mia schiena, che diavolo sta succedendo? Basta! Ahia, smettila, non scenderò dal letto! Basta, non darmi fastidio! Ahia, smettila, mi stai facendo male! Basta, basta, mi fai male!
MI FAI MALE!
Gli occhi di Matthew si spalancarono dopo un indeterminato periodo di catalessi totale. La luce lacerò immediatamente le sue iridi, aveva un faro puntato contro con i suoi quattromila lumen ben poco gentili. A quel punto, i recettori quasi sopiti del ragazzo cominciarono a destarsi con lentezza.
E mai cosa fu tanto maledetta da lui stesso.
Un sottile dolore cominciò pian piano a inserirsi nel suo cervello. Sentiva qualcosa pungergli l’addome, ma non riusciva ad abbassare la testa per capire cosa fosse. In maniera graduale, il dolore si fece più intenso, da una puntura si tramutò in un taglio che, sempre con estrema lentezza, divenne sempre più profondo, sempre più profondo.
Il dolore si fece estremamente forte, Matthew sentiva come una spada conficcata nella pancia, ma non riusciva a muoversi per toglierla. Voleva piangere, sentì in gola un pesante groppo, un po’ causato dalle lacrime imminenti e un po’ dal conato suscitato dal dolore. Cominciò a mugolare.
All’improvviso, perdendo quella particolare regolarità e pacatezza, una fitta dolorosissima gli esplose dentro, persino il polpaccio che quella mattina gli aveva dato tanti problemi sobbalzò. Matthew aveva avvertito come un forte fendente nello stomaco, un involontario seppuku cattivo e devastante che gli aveva letteralmente svegliato i neuroni.
Il ragazzo fu risvegliato da quella sua condizione di precaria paralisi: rigettò un composto che era quasi esclusivamente succhi gastrici dato che aveva mangiato veramente poco in quei giorni e si contorse dal dolore emettendo suoni gutturali e poco umani.
In quello stesso frangente, suoi occhi riuscirono a ricondurre ad un’immagine in un formato leggibile dal suo cervello ciò che lo circondava. Vide due figuri.
A sinistra, Hypno, il cui volto era nascosto dal controluce ma la cui forma era ben riconoscibile. Più a destra, il dottor Main, con in mano un coltello coperto di sangue e delle pinze. Era immobile. Lì per lì il ragazzo rimase nel suo angolino di mondo, un po’ per la paura e un po’ per il dolore, ma fu quando l’uomo calò giù l’arnese e continuò a lavorare che lui capì.
Una mossa di Main e un secondo potente colpo fu assestato nel suo ventre, avvertì il suo corpo esplodere, le sue viscere venire tratte fuori. E abbassò lo sguardo.
Fa male…
Era aperto in due, squarciato dallo sterno all’inguine. Faceva male, ma più di tutto in cima alla lista delle pene in quel momento vi era la sensazione orribile che avvertiva quando qualcosa veniva mosso da mani intruse all’interno del suo corpo. Avrebbe voluto piangere, urlare, vomitare ancora. Ma niente funzionava. Prima il suo corpo aveva deciso di smettere di muoversi per l’annichilimento derivante dal coma, ora i suoi muscoli erano paralizzati dal dolore. Matthew si accorse di star desiderando la morte, un crollo nella parte centrale del suo sistema nervoso e tutto si sarebbe arrestato: il dolore, il sangue, l’eviscerazione.
Storse gli occhi, vide il suo aguzzino che si spostava leggermente più a destra per afferrare una bacinella e fissò per un istante il suo sguardo.
Vuoto.
Vitrei, gli occhi del dottore congelati e immobili non esprimevano alcun sentimento. Una statua capace di muoversi con disinvoltura ma dallo sguardo marmoreo e terrificante.
Nel frattempo Main aveva portato la bacinella, per la breve frazione di secondo in cui aveva fermato la sua tortura, Matthew aveva potuto riposare le membra e si era sforzato al fine di non vomitare ancora. Si era trattenuto per quello che sarebbe avvenuto dopo.
Fermati…
Il ragazzo avvertì come un conato di vomito al contrario, la sua gola si tese, la sua ugola si bloccò. In un istante, quello che prima era il suo corpo intero seppur martoriato dal profondo squarcio, si trasformò in un involucro vuoto. Senza complimenti o preamboli, l’improvvisato chirurgo aveva estratto dal suo addome una grossa massa di organi interni, parte del suo intestino e del suo stomaco vennero gettati, ancora collegati al resto del suo organismo, nella bacinella.
Matthew fece appena in tempo a vedere quell’atrocità, il dolore non era ancora arrivato, eppure lui sapeva che dopo quello che gli era successo, non sarebbe tornato indietro facilmente.
Il dolore giunse. Matthew chiuse gli occhi.
Che devo fare…? Dimmi che devo fare…?
Due gambe si muovevano al suo comando. Ma non erano le sue.
Due braccia sottostavano al suo dominio. Ma non erano le sue.
Un busto compiva i movimenti che gli venivano ordinati. Ma non era il suo.
Matthew riaprì gli occhi davanti ad una figura, un’immagine ben conosciuta. Di fronte a lui sostava immobile il dottor Main con in mano una bacinella piena di una massa indefinita. Ma il ragazzo non se ne rese conto, per lui quello non era il dottore… soltanto il suo riflesso nello specchio. Si rese conto non senza far cadere la bacinella in terra che l’immagine si muoveva esattamente come lui. Lui si trovava nel corpo del dottore.
Quasi svenne di nuovo, il volto contrito stava per sciogliersi in una smorfia incosciente ma qualcosa di più forte di lui lo trattenne, una morsa gli stritolò le meningi costringendolo a restare in piedi. Una chela poco delicata incastrò il suo cervello. E accanto a lui, solo Hypno.
Succube, schiavo degli ordini dell’essere che lo scrutava a distanza comandandolo con gli occhi, riprese la bacinella. Mosse il primo passo, e solo una frase guidò il suo movimento, riecheggiante e straziata dentro il suo cranio:
Ricostruisci Will.
Giunse ad una stanza alla quale si accedeva da una porta segreta che fu spalancata dal Pokémon. Un fetore lo raggiunse, la stessa puzza che aveva avvertito quando si era risvegliato prima sul tavolo, ma prima che potesse opporsi e tornare indietro, due catene invisibili lo avevano già trascinato a forza là dentro. Matthew, terrorizzato, intravide una barella inzaccherata di sangue, una sagoma che stava inerme sopra di essa.
Quindi decise di chiudere gli occhi.
Rispondi affermativamente.
‒ Va bene signora, possiamo iniziare la seduta immediatamente.
Guidala dall’altra parte.
‒ Prego, mi segua…
Il dottor Main aprì la porta del salotto nel quale era già stato acceso il falò, la donna lo precedette. Calma, silenziosa, si sdraiò sul divanetto. Il dottore chiuse la porta e si sedette sulla poltrona, prese la sua cartella e vi trascrisse il nome della nuova cliente. Sorrideva, gioviale.
‒ Mi dica pure, che cosa le impedisce di dormire?
Bravo, bravo Matthew, hai svolto il tuo lavoro… da qui in poi devo occuparmene io.
Vespus, Linnea, Levyan
La lancetta dell’orologio continuava imperterrita la sua avanzata.
Fuori, la pioggia colpiva ripetutamente i grandi vetri della sala ovale in cui si trovava, distruggendo la suddivisione temporale creata dal ticchettio del grande orologio a pendolo attaccato alla parete. O meglio, apparentemente attaccato con una specie di colla alla carta da parati dal gusto orrendo.
Marrone, con dei rombi blu. Sarà roba da intellettuali, ma a me fa schifo. Come tutto il resto, del resto. Che ironia, inizio anche a ripetere le parole, l’analisi mi fa solo del male, oltre a svaligiarmi il conto in banca.
Due anni che tutto quello continuava, senza un briciolo di risultato importante. Solo tante tessere di un puzzle, sparse a casaccio su di un tavolo, incomprensibili nella loro totalità. Troppi pezzi mancavano, troppe erano le cose che non ricordava o che, ancora meglio, non voleva ricordare, almeno così aveva detto il dottore. Due anni che veniva ripetuta quella cosa, due anni di terapie e di cicli di vari farmaci, tecniche strane e dialoghi infiniti. E nemmeno un fottuto ricordo che sia tornato alla luce. Il solo risultato era stato il suo mancato acquisto della nuova auto, e l’odio verso chiunque faccia delle domande.
‒ Matthew, mi sta sentendo?
‒ No, scusi dottore, stavo pensando che invece di spendere tutti i miei soldi per lei, potrei benissimo farmi con una bella dose di peyote, risparmierei e mi godrei l’attimo, invece di sentirla ripetere sempre le stesse, identiche, dannatissime idiozie. Con tutto il rispetto. ‒ disse Matthew, adottando il periodo di oscillazione del pendolo per sequenziare le parole dell’ultima frase.
‒ Sta dicendo, quindi, che la terapia non sta funzionando, giusto?
‒ Esattamente, dopo due anni che cosa ho concluso? Nulla. Non voglio mettere in dubbio lei, sia chiaro, probabilmente il problema sono io che sono talmente escluso dalla vita da essere immune ai suoi metodi.
‒ Non crede che tutto questo sia già un enorme passo avanti? Dagli infiniti studi fatti, e potrei citare decine di uomini, dal grande Freud al mio vicino di casa che mi invia i suoi ragionamenti nati dai suoi movimenti intestinali, che hanno affermato l’impossibilità di recuperare certe cose dalla mente umana, se il paziente non vuole. Se lei ha rimosso degli avvenimenti del suo passato e, nonostante tutti i suoi sforzi, non riesce a rimembrare, probabilmente io non posso fare niente, questo è vero, sta a lei rimuovere le barriere della sua mente. Posso, però, indirizzarla sulla dritta via.
‒ Tutte queste parole, dottor Main, solo per dirmi che spetta a me fare tutto?
‒ Non esattamente, lei può farcela, ma dipende solo ed unicamente da lei. Io le mostro gli strumenti, deve essere lei ad adoperarli nel modo giusto. Anche discutendo in questo modo stiamo continuando la cura, le assicuro che non sarà tempo sprecato.
‒ È lei a conoscere il mestiere, Doc. Vorrei solo ci fosse qualcosa che mi faccia davvero capire che non sto buttando i miei soldi. Niente di personale, ma avrei potuto comprarmi una PS4, con tutte le versioni premium di ogni singolo videogame, ed i rispettivi DLC, con i soldi che sto sborsando. Quindi se ha un jolly da giocarsi, lo faccia. Io sono stanco di sentire sempre le stesse cose, e se deve continuare in questo modo, tanto vale interrompere le sedute.
‒ Stia calmo, non dipende da me la durata del trattamento, è tutto concatenato…
‒ Concatenato?! Sono due fottuti anni che ho sempre lo stesso incubo, non cambia minimamente. Non ce la faccio più ad andare avanti in questo modo, forse non capisce quanto sia difficile vivere così. Ho il continuo terrore che tutto si avveri, e vivo la mia vita rifugiandomi da tutto e tutti, le sembra giusta, una cosa simile? Se neanche lei, che dovrebbe essere il miglior psicologo di tutta la Regione, riesce ad aiutarmi, allora tanto vale spendere i miei soldi in prostitute e Black-Jack.
‒ Forse non si rende conto di cosa sta dicendo, dovrebbe cercare di contenere la sua lingua, altrimenti mi rifiuto di continuare un solo istante la terapia. Non ho bisogno dei suoi soldi né della sua presenza. Ha detto bene, sono il più famoso e rinomato, sono ricco e praticamente lavoro per sport, secondo lei perché continuo insistentemente con le sedute? Non è divertente, se crede questo.
‒ E perché, allora, mi dica, dottore. ‒ l’ultima parola fuoriuscì dalla gola di Matthew carica d’odio e disprezzo.
‒ Perché, che lei ci creda o no, mi sta a cuore la sua situazione. Non ho mai visto nessuno come lei, Matthew. Si ricordi che mi deve ancora due mesi di sedute, e nonostante questo continuo a seguirla.
‒ I soldi li avrà ma non è questo il punto. Io sto morendo dentro, lentamente. Sento il mio cervello abbandonarmi giorno dopo giorno, divento sempre più dispettoso verso tutti, nascono in me sentimenti contrastanti che non conoscevo nemmeno. Rabbia ed ira erano sconosciute per me, e da quando ho questi incubi non faccio altro che essere furioso verso chiunque.
‒ Capisco, capisco… Ho un’ultima possibilità da proporle, non sarà piacevole però. Forse non dovrei neanche parlargliene, voglio la sua parola che non lo dirà a nessuno, soprattutto alle autorità.
‒ Main, cosa ci sarà mai di così pericoloso da essere illegale? Se c’è una possibilità, io terrò la bocca chiusa, ha la mia parola.
‒ Molto bene… Hypno, vieni qui.
Un libro cadde dalla libreria posta alle spalle di Matthew, mostrando un ingresso nascosto dietro il massiccio legno di quercia. Come una porta, la collezione di libri ruotò attorno al proprio asse, rilevando un’enorme figura in penombra. Il primo dei dodici rintocchi fece il suo ingresso in scena, calcando la paura che si faceva spazio nella mente di Matthew.
Oh cazzo, questo no… il mio fottuto sogno sta prendendo vita.
‒No, lei è pazzo. Mi vuole ipnotizzare con quel coso?
‒ Prima di tutto, è un mio collega. Sono a conoscenza del fatto che sia illegale utilizzare i poteri di Hypno, in quanto potrebbe essere fatale al soggetto. Tutti sanno i rapporti del Pokémon con gli incubi, ma mi creda, se ci sarò io a dirigere le operazioni da eseguire, Hypno non sbaglierà un colpo, può farla addormentare, entrare nella sua mente, individuare il ricordo che tanto brama, e mostrarglielo, il tutto grazie all’aiuto dei suoi soli poteri psichici. Non le farà del male e non le ruberà l’anima.
‒ Doc, lei è impazzito. Vuole che Hypno, colui che di notte ruba i sogni alle persone, mi ipnotizzi, addormentandomi, per entrare nella mia mente? Gli occhi castani di Matthew si scontrarono contro le barriere ghiacciate degli occhi grigi di Main, andando in mille pezzi.
‒ Non solo, lei potrà decidere se tenere i ricordi, o cancellarli. Comunicheremo tramite Hypno, la procedura è sicura, non l’avrei proposta altrimenti. Si può fidare, l’ho applicata più volte su di me, nei momenti critici. Hypno è bravo, non le farebbe mai del male.
Matthew volse lo sguardo verso il Pokémon che, immobile come un totem antico e minaccioso, si ergeva chino sulle sue gambe, con le pupille completamente oscurate che si perdevano nel vuoto. Cercò di guardarci all’interno. Un’immensa sensazione di paura e dolore lo colse.
Il cuore ne venne avvolto, come accadeva costantemente nei suoi incubi.
‒ Potrebbe funzionare…? ‒ Matthew si volse stavolta verso l’enorme orologio, specchiandosi all’interno del suo vitreo corpo.
Vide il suo viso, completamente distrutto dallo stress e la mancanza di sonno. Le occhiaie si erano allargate dal suo ultimo controllo, ed i capelli sembravano un mucchio di erba secca, attorcigliata attorno a se stessa e poi calpestata da una mandria di Bouffalant.
‒ Certo, gliel’assicuro. Hypno è disposto ad aiutarla.
Per calcare le parole del suo allenatore, il Pokémon appoggiò la mano destra sulla spalla del ragazzo, cercando di abbozzare un sorriso mal riuscito. Sembrava più un clown demoniaco venuto dall’inferno per rubargli l’anima. Il vero problema, fu la mano di Hypno, gelida e dolorosa. Matthew provò una fitta di dolore nell’istante in cui ci fu contatto fra i due, come una miriade di spilli inseriti di forza nella sua carne.
‒ Devo… devo pensarci, le farò sapere, Doc. Grazie mille per il suo tempo, arrivederci.
Matthew corse fuori dalla stanza e si precipitò all’esterno, curandosi solo allora di indossare il cappotto per ripararsi dal gelo della notte e la violenza della tempesta.
‒ Se crede che io possa tornare, è fuori di testa. Vuole farmi toccare un’altra volta da quell’Hypno… Il primo contatto è stato orrendo, non mi piace quel Pokémon.
Il ragazzo chiuse la zip del cappotto, indossò il cappello la cui protezione era ormai inutile, e corse verso l’auto, pronto a tornare a casa. Entrò nell’autovettura, chiuse gli occhi, e respirò profondamente, cercando di liberarsi dalla sensazione di orrore provato pochi minuti prima.
Mise in moto e, dopo una breve retromarcia, ingranò la prima e si inserì nella carreggiata deserta, derapando vistosamente all’interno di una pozza d’acqua stagna, oscura come il cielo senza stelle dominante in quella notte.
‒ Hypno caro, tocca a te.
Il Pokémon, col suo falso sorriso stampato in faccia, si concentrò per poter seguire le tracce psichiche lasciate dal breve contatto col corpo del ragazzo. Un’eccitante frenesia gli scosse il corpo non appena riuscì ad individuare il percorso corretto.
Al suo arrivo a casa, le mani di Matthew tremavano ancora.
Parcheggiò il vecchio catorcio al suo posto, nel garage del condominio, ed entrò nel vecchio ascensore cigolante le cui luci interne si spegnevano e riaccendevano di continuo; e mentre saliva, verso il suo piccolo appartamento polveroso, non poté far altro che guardarsi, tra un intervallo di buio e l’altro, sullo specchio macchiato e rotto attaccato alla parete di metallo, e sentire un’ondata d’odio per se stesso e per il mondo investirlo.
Studiava gli occhi piccoli e scuri, adornati da quelle maledette occhiaie che non volevano sparire, la pelle giallognola che si assottigliava sugli zigomi affilati, il naso adunco e le labbra troppo sottili, i capelli che a causa di quegli incubi ricorrenti e lo stress diventavano sempre meno… Forse, si diceva, se avesse avuto un aspetto migliore, la sua vita sarebbe andata diversamente; avrebbe avuto più fortuna, sarebbe stato capace di vivere tranquillamente nella società, sarebbe stato circondato da persone a cui importava di lui… No. Il suo aspetto non c’entrava assolutamente, era semplicemente la sua mente che cercava di giustificare quel buco nero che era la sua vita. Sin da piccolo era stato messo da parte, prima dalla madre troppo impegnata col lavoro e coi fratelli maggiori più bravi di lui, poi dai compagni di scuola, ed infine da se stesso; era convinto che qualcuno come lui non meritasse una bella moglie, dei figli, degli amici o anche un lavoro soddisfacente. Si sentiva come un roditore nascosto nelle fogne, pronto a fuggire da ogni barlume di luce che si stendeva fino a lui dall’alto.
Poggiò la testa contro la superficie sporca, guardando il suo riflesso, e poi le lampadine si spensero e lo lasciarono al buio per un istante in più, giusto il tempo di sentire un respiro che non era il suo, ed intravedere un profilo che di umano aveva poco o nulla, quando le lampadine ripresero a funzionare per un istante esatto, lasciandolo poi nuovamente nell’oscurità più totale. Fu allora che l’ascensore fermò la propria corsa, portandolo al decimo piano, e spalancando le porte per farlo uscire.
Allungò la gamba e fece un piccolo salto, e mentre l’ascensore rumoreggiava ancora una volta sotto il movimento improvviso, Matthew ebbe paura di finire tranciato a metà come nel tipico cliché visto in fin troppi film e telefilm; ma fortunatamente, il cigolio rimase quello che era: il lamento di un impianto fin troppo vecchio che con fatica continuava a portare avanti il proprio lavoro.
Prima che le porte si chiudessero, l’uomo ebbe il coraggio di voltarsi, per vedere il cubicolo adesso illuminato totalmente vuoto, come se nessuno vi fosse mai entrato, in primo luogo.
Prima di aprire la porta di casa fece un veloce giro su se stesso, dettato dalla paranoia, convinto che qualcuno lo stesse seguendo. Sentì la pressione sanguigna scendere velocemente e la visione abbandonarlo, la nausea che rimescolava i contenuti del suo stomaco e si gonfiava come un palloncino all’interno del suo ventre.
‒ Dio santo. – finalmente aprì la porta, trovando tutto come lo aveva lasciato: la stanza che ospitava la cucina, un piccolo scrittoio con sopra il computer e un divano, la camera da letto a destra e il bagno a sinistra; entrò in quest’ultimo, ponderò per un attimo di infilarsi sotto il getto della doccia, scartò il pensiero e i vestiti che indossava dal giorno prima, e si fiondò direttamente a letto, tirandosi addosso le coperte che per tanti anni gli avevano dato la sensazione di proteggerlo dal mondo, ma che adesso non potevano proteggerlo dalla sua stessa mente.
Poggiò la testa sul cuscino, nel buio quasi totalitario, aspettando che il sonno arrivasse; fuori la tempesta stava dando il suo peggio, spazzando le strade deserte della periferia con raffiche di vento gelato e trascinandosi dietro qualunque cosa che le persone non avevano pensato di mettere il salvo, lasciando secchi ed immondizia a ballare quel valzer notturno. La poggia cadeva sempre più forte, il suono che si ampliava e presto copriva ogni altro rumore, dalle sporadiche macchine che circolavano nonostante il tempaccio, ai passi dell’inquilino del piano superiore… d’altro canto era ancora molto presto.
Si rese conto di aver chiuso gli occhi solamente quando iniziò a sentire delle voci chiacchierare in lontananza. Nonostante la stanchezza, fissò nuovamente lo sguardo sulla finestra, le luci al neon delle insegne dei negozietti che popolavano la strada filtravano attraverso le veneziane. Iniziò a sentire anche dei passi, che lo preoccuparono vagamente perché sembravano troppo vicini per appartenere all’inquilino dell’appartamento sopra al suo, ma decise di ignorare anche quelli, gli occhi sempre fissati nello stesso punto. Qualcosa si mosse nell’angolo della stanza, ma neanche quello riuscì a destare il suo interesse.
Di colpo però la porta si aprì sbattendo, e due giovani entrarono nella sua stanza, chiamando il nome di qualcuno. La luce venne accesa, ed un Drowzee abbastanza minuto si nascose sotto la scrivania tremando.
‒ Già a nanna, eh? – fece il primo dei due ragazzi, era giovane, ma indossava vestiti un po’ datati, ed i capelli castani erano portati a spazzola. Lo afferrò per il colletto, tirandolo a sedere, ed un suono strozzato uscì dalla gola di Matthew: non si sentiva padrone del suo corpo, non riusciva a comunicare o a muoversi. Mentre sgusciava fuori dal letto, l’altro ragazzo, con i capelli biondi, parlò.
‒ Abbiamo sentito che pensavi di denunciarci per quell’incidente dell’altro ieri, quindi abbiamo pensato di farti visita.
‒ Quale incidente? – riuscì a dire finalmente, con una voce così terrorizzata che quasi non gli sembrò sua.
‒ Uh? Fingi di cadere dalle nuvole adesso? Vediamo di rinfrescarti un po’ la memoria allora… ‒ il biondo girò attorno al letto, raggiungendolo.
‒ Ti ricordi… ‒ Matthew non aveva spazio per fuggire, chiuso in un angolo com’era, e non poté fare nulla quando una ginocchiata allo stomaco gli fece mancare fiato, spossatezza e nausea che gli si agitavano in corpo negli istanti dopo, in cui si abbassò per proteggersi dalle botte che sapeva stavano per arrivare; come sempre, del resto.
Lacrime di rabbia iniziarono a formarsi agli angoli dei suoi occhi, bagliori di una lotta Pokémon che iniziavano a manifestarsi nella sua mente come dipinti che prendevano vita.
‒ …che il mio Arcanine, totalmente per errore, ha fatto fuori quel tuo stupido Raticate, giusto? – continuò il biondo, con rabbia mal celata nella voce. – Cosa posso farci io, se sei un allenatore incapace, eh, Will?! – continuò, scaricando una pioggia di pugni sulla figura accartocciata di Matthew.
‒ Niente – rispose lui apatico, sentendo la rabbia e l’angoscia sconosciute che ogni notte lo tormentavano senza sosta gonfiarglisi in petto. Nella sua testa, in un loop infinito si ripeteva la morte di un Raticate, coperto di ustioni, che dopo esser stato colpito da un attacco Lanciafiamme, cercava di ritornare dal suo allenatore, squittendo finché la morte non lo colpì di sorpresa, lasciandolo accasciato sul campo di battaglia.
‒ Ehi – fece il castano, fermando le percosse dell’amico, che per altro non sembravano sortire nessun effetto sulla vittima – Perché non giochiamo un po’ con lui?
Il biondo lo guardò sorridendo, prima di afferrare il giovane a terra per la collottola del pigiama e trascinarlo fuori dalla vecchia casa. Lo lasciò cadere giù dai gradini d’ingresso, e lo spinse nel giardino sul retro.
E fu lì che incominciarono le vere botte. Quasi con noia, quei due ragazzi si alternavano nel prenderlo a pugni e pedate, lasciandolo inerme sull’erba umida e fangosa. Un calcio allo stomaco, e si sentiva svenire per la nausea, un pugno in mezzo alle scapole, e l’aria veniva tirata via totalmente dai suoi polmoni, mentre la pelle bruciava e i muscoli si contraevano al massimo.
‒ Avanti, sei più patetico di quel tuo stupido ratto – fece ancora il biondo, colpendolo in volto, questa volta. Mattew atterrò sulla sua schiena, ed il dolore atroce al suo setto nasale fu oscurato dalla momentanea cecità e il sangue che gli andò di traverso, lasciandolo a tossire.
Matthew sentiva la volontà di combattere, di ribellarsi a quei due ragazzi, ma il suo corpo non reagiva. Quando voleva urlare, i suoi denti si stringevano, quando vedeva un’apertura e provava ad attaccare, il suo corpo si accovacciava. Ed una parte della sua mente percepiva quella situazione, quei due ragazzi che non aveva mai visto prima, il Drowzee che lo fissava con aria impaurita dalla finestra di camera sua, come familiari. Ancora non piangeva, ancora teneva la testa bassa, eppure quella parte della sua mente aveva voglia di scappare; vedeva ogni possibilità e si chiedeva se fosse il momento giusto finché il treno non era ormai perso. I suoi occhi si fissarono sul Pokémon, il suo braccio si sollevò in aria, e sembrò pesare tonnellate.
‒ Drowzee… Drowzee… ‒ mugolò pateticamente. Il biondo guardò in direzione della finestra e si concentrò nuovamente su di lui.
‒ Vuoi mettere in mezzo i Pokémon? – fece con fare provocatorio, prendendo in mano una Pokéball.
‒ Julius, attento a non andare troppo oltre… ‒ fece il castano, che già da un po’ era rimasto indietro, a guardare la scena con le braccia incrociate.
‒ Stai tranquillo, voglio solo che conosca Arcanine. Così da capire che è soltanto un giocherellone, e che non voleva far del male al suo ratto. ‒
‒ …! No! Ti prego! Ah! – Matthew si ritrovò davanti l’enorme canide; emanava un calore insopportabile. Tentò di indietreggiare strisciando sui fondelli, la sua mente che già prevedeva cosa sarebbe successo di lì a poco. Finalmente riuscì a mettere in moto il suo corpo, scattando in piedi e dando le spalle al grosso Pokémon.
‒ Prendilo! – Matthew guadagnò qualche metro di distanza, prima che Arcanine gli si piombasse addosso, e la mandibola incandescente si chiudesse attorno alla sua gamba destra in un attacco Rogodenti. Sentì un distinto crack, e gli occhi si rivoltarono mentre il suo corpo scuoteva sotto l’enormità del dolore provato. La gola bruciava nello sforzo delle grida, lamenti acuti e graffiati simili a quelli di una bestia ferita. La mandibola del Pokémon si stringeva sempre di più attorno al suo arto, e le sue mani tentavano di graffiare inutilmente il muso, nel vano tentativo di liberarsi.
‒ Julius, basta così, ti prego – riprese il castano, mettendo una mano sulla spalla dell’allenatore, che dal canto suo si limitava a fissare la scena con sguardo curioso, come se non sapesse cosa aspettarsi nonostante fosse stato lui stesso a dare l’ordine di attaccare – Gli hai dato una lezione, basta adesso.
‒ Non ancora – fece proprio lui, liberandosi dalla presa e avvicinandosi a Matthew. Lo guardò negli occhi per un lungo istante, prima di sentenziare: ‒ Lanciafiamme.
Nello stesso momento in cui Arcanine aprì la bocca per caricare il suo attacco, la vittima fece in tempo a girarsi; gli occhi erano fissi sulla finestra di camera sua, su quel Pokémon che tremava visibilmente. – Drowzee… aiutam…
E poi una torre di fuoco si abbatté sulla sua schiena, avvolgendolo e divorandolo lentamente.
Le urla erano sconclusionate, l’istinto quello di scappare, e sentiva la gamba minacciare di staccarsi dal corpo ogni volta che cercava di sottrarsi a quella lenta tortura; non gli importava più di perderla. E sentiva la pelle ribollire e squarciarsi, e la voce mancargli, così come la forza, mentre finalmente cadeva a terra, sangue che colava dal naso e la bocca spalancata nell’ultimo tentativo di chiamare l’unico essere vivente al corrente di quello che gli stava accadendo, riuscendo solamente a produrre un lamento senza fiato.
‒ …Drow… zee… Drow… zee… ‒ l’aria ritornò nei suoi polmoni come se non fosse mai mancata, e gli occhi ripresero a vedere, la luce al neon che filtrava attraverso le veneziane ed il suono della pioggia così come li aveva lasciati prima di addormentarsi. Rimase fermo per qualche istante, poi sentì qualcosa di là, in cucina, e subito saltò a sedere, sbattendo un pugno sopra il tasto d’accensione dell’abat‒jour e nascondendosi sotto le coperte, come quando era bambino.
Non riuscì a fermare i suoni stressati che la sua gola produceva al ritmo dei suoi respiri affannati, mentre il panico lo divorava come le fiamme nel suo incubo ed il cervello gli diceva di scappare e di restare fermo dov’era a un tempo. I suoi incubi non erano mai stati così realistici, il dolore non era mai stato realistico. Sentiva il bisogno di piangere, ma non ci riusciva, ed il suo volto era ricoperto in una patina di sudore, ogni muscolo contratto ed i sensi all’erta, nella paura che qualcuno, o qualcosa, potesse saltare da un momento all’altro dall’oscurità per attaccarlo.
Crampo. La tensione riversatasi sulle fibre muscolari del suo polpaccio annodò la sua carne martoriandolo. Matthew si paralizzò per una decina di minuti, neanche reagì al dolore, attese con indifferenza che la sensazione poco piacevole di un trapano che perforava con estrema lentezza la sua gamba sparisse. Calmo, pacato, arreso.
Diede un occhio all’orologio sveglia sul suo comodino: si rese conto di essere rimasto a letto poco più di un’ora. Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto lanciare ogni oggetto nel raggio di un metro contro lo specchio che aveva appeso all’anta dell’armadio per farsi compagnia.
Quello specchio odioso!
Accade quando si è troppo abituati a stare in solitudine, un surrogato che dovrebbe far sentire meno soli diventa un elemento terrificante che dà soltanto lì impressione di essere osservati, scrutati, seguiti. Matthew ruotò sul suo fondoschiena, mise i piedi fuori dal perimetro del materasso e li infilò a colpo sicuro e dolorante per lo sforzo applicato al muscolo nelle ciabatte. Era il momento di prendere una decisione. Il ragazzo mosse due passi verso la porta, la luce soffusa della lampada scacciava il buio come una paletta per le mosche sarebbe stata capace di fermare un toro. Una figura si muoveva con lui in perfetta sincronia andando qua e là per la stanza e afferrando con violenza pantaloni, felpa, giubbotto. I suoi peli erano già ritti da quel millesimo di secondo bastante per far balzare il cuore in gola quando il suo cervello gli fece rendere conto che era soltanto il suo riflesso.
Matthew tirò su col naso. Scosse la testa.
L’odore sprigionato dai panni che aveva appena indossato non era dei migliori, non si cambiava da quasi dieci giorni. Sbuffò.
‒Poco importa ‒si disse
Bussare con le dita nude sul legno della porta era stata una pessima idea, il freddo rende sensibili certi punti del corpo, ma lui se l’era dimenticato. Il ragazzo era nascosto sotto l’ombrello per proteggersi dalla pioggia e con le spalle strette, le braccia rinsecchite, le gambe intrecciate e la schiena curva aspettava un segno di vita dall’abitatore di quell’antro al quale si era recato per chiedere udienza.
‒ Dai! ‒ esclamò sommessamente.
Una seconda volta sbatté la mano sul portone, ma senza commettere lo stesso errore: utilizzò il fianco del pugno. Metodo grezzo ma efficace, una luce illuminò una finestra del piano superiore colorandola di “arrivo”. Poco tempo e un appena udibile sgattaiolare di passi di uomo assonnato sul parquet e il portone si schiuse.
‒ Diavolo! Matthew, che cosa ci fai qui a quest’ora?! ‒Il volto tumefatto dal sonno del appena desto del dottore sapeva di caldo, di calore e di piumino in cui potevano avvolgersi le persone normali e dormire sonni tranquilli senza incubi, senza paure.
‒ Dottore, ho preso la mia decisione ‒spiegò Matthew senza fronzoli e con un’espressione atona in volto.
‒ Porca miseria, nel cuore della notte… entra, dai!
L’uomo accolse nell’abitazione il ragazzo che fradicio anche se si era portato l’ombrello e raggelato anche se si era messo due felpe e un giaccone, si strinse subito ad un termosifone acceso come fosse l’icona del dio sceso in terra.
Il dottore accese alcune luci, si cambiò alla ben e meglio e raggiunse Matthew con una tazza di tisana alle erbe in mano.
‒ L’ho riscaldata, ne avevo preparata per me prima di andare a letto ma era troppa ‒disse soltanto.
Il ragazzo bevve. L’infuso acidulo e verdastro scese nella sua gola caldo e benefico, eppure, le sue giunture continuavano a tremare.
‒ Allora… ‒esordì con più presenza il dottore sedendosi sul divano in pelle di fronte al suo paziente. ‒…che cosa intendiamo fare?
Matthew fissava il vuoto. La tazza con la tisana in mano sembrava un piccione posatosi sulla mano di una statua al centro di una piazza, i suoi occhi erano assenti.
‒ Non mi hanno mai svegliato così in fretta… ‒sussurrò dopo un’attesa interminabile. ‒…gli incubi mi stanno uccidendo.
‒ Sei riuscito a dormire almeno un po’?
‒ Io… ‒provò a rispondere il ragazzo. Un lampo illuminò all’improvviso lo strato di cumulonembi della sua mente. ‒Mi guardi! ‒esclamò a pieni polmoni d’un tratto facendo sussultare persino il dottore. ‒Se sono riuscito a dormire almeno un po’?! Io sono un essere umano! Non devo dormire almeno un po’! Io voglio riuscire a chiudere gli occhi quando mi pare! ‒sputò fuori.
La voce grossa e lo sfogo improvviso avevano riscaldato la situazione e aumentato la frequenza del battito cardiaco di entrambi gli uomini. In tutto questo, il dottore aveva tenuto la testa bassa e Matthew non aveva staccato il suo sguardo dal vuoto così interessante da dover essere scrutato almeno una volta al giorno nella sua quotidianità.
‒ Hai ragione… ‒ mormorò sottomesso il signore seduto sul divano con le mani incrociate.
‒ Chiama Hypno.
Lo sguardo di Main si risollevò verso la figura tremolante e immobile al tempo stesso del suo paziente stretta tra la tisana e il radiatore come a voler sciogliere, assorbendo tutto il calore possibile, quel gelo insinuatosi fin dentro le sue ossa da notti di veglia e ore di guardia.
‒ Chiamo Hypno.
Corpo disteso su un letto, occhi cinghiati e forzatamente chiusi, cervello dolorante, cuore in euforia. Matthew attendeva impaziente e masochisticamente fiducioso un qualcosa che non sapeva come definire. Aspettava un bus per l’oltreoceano.
Il Pokémon dalla peluria gialla e il nasone cadente girava attorno al materasso studiando il corpo della povera vittima dell’inquietudine del suo subconscio. Hypno con i gli occhi di una vipera in attesa del roditore abbastanza sfortunato e disattento da passare ignaro accanto alla sua tana.
Lo yo-yo nelle mani del Pokémon era stranamente attratto dal terreno, immobile, conservava la sua posizione persino quando la mano a cui era appeso si muoveva, ma Matthew non l’aveva notato.
Il dottor Main scrutava da un angolino della stanza la scena. Ad un certo punto, Hypno si fermò proprio accanto alla testa sudaticcia e inquieta del ragazzo. Il Pokémon poggiò un dito della mano destra sulla propria fronte e lo stesso dito della mano sinistra su quella del paziente.
Oddio.
Le sinapsi di Matthew si spensero, il suo cervello cadde in una catalessi profonda. Il suo corpo smise di emettere e ricevere impulsi. Il ragazzo era in uno stato a metà tra il sonno e il coma, mentre i poteri psichici di Hypno rovistavano tra i suoi pensieri abbandonati come documenti disordinati sopra una scrivania dal legittimo proprietario.
Non voglio alzarmi, fammi restare a dormire, voglio restare a dormire! Ho sonno, stanotte non ho chiuso occhio. Non farmi alzare.
Non ho fatto incubi, ti prego, fammi rimanere a letto. Fammi restare sotto le mie coperte, qui è caldo mentre fuori c’è il gelo. Oh Dio…
Sento freddo…
Sento freddo dietro la mia schiena, che diavolo sta succedendo? Basta! Ahia, smettila, non scenderò dal letto! Basta, non darmi fastidio! Ahia, smettila, mi stai facendo male! Basta, basta, mi fai male!
MI FAI MALE!
Gli occhi di Matthew si spalancarono dopo un indeterminato periodo di catalessi totale. La luce lacerò immediatamente le sue iridi, aveva un faro puntato contro con i suoi quattromila lumen ben poco gentili. A quel punto, i recettori quasi sopiti del ragazzo cominciarono a destarsi con lentezza.
E mai cosa fu tanto maledetta da lui stesso.
Un sottile dolore cominciò pian piano a inserirsi nel suo cervello. Sentiva qualcosa pungergli l’addome, ma non riusciva ad abbassare la testa per capire cosa fosse. In maniera graduale, il dolore si fece più intenso, da una puntura si tramutò in un taglio che, sempre con estrema lentezza, divenne sempre più profondo, sempre più profondo.
Il dolore si fece estremamente forte, Matthew sentiva come una spada conficcata nella pancia, ma non riusciva a muoversi per toglierla. Voleva piangere, sentì in gola un pesante groppo, un po’ causato dalle lacrime imminenti e un po’ dal conato suscitato dal dolore. Cominciò a mugolare.
All’improvviso, perdendo quella particolare regolarità e pacatezza, una fitta dolorosissima gli esplose dentro, persino il polpaccio che quella mattina gli aveva dato tanti problemi sobbalzò. Matthew aveva avvertito come un forte fendente nello stomaco, un involontario seppuku cattivo e devastante che gli aveva letteralmente svegliato i neuroni.
Il ragazzo fu risvegliato da quella sua condizione di precaria paralisi: rigettò un composto che era quasi esclusivamente succhi gastrici dato che aveva mangiato veramente poco in quei giorni e si contorse dal dolore emettendo suoni gutturali e poco umani.
In quello stesso frangente, suoi occhi riuscirono a ricondurre ad un’immagine in un formato leggibile dal suo cervello ciò che lo circondava. Vide due figuri.
A sinistra, Hypno, il cui volto era nascosto dal controluce ma la cui forma era ben riconoscibile. Più a destra, il dottor Main, con in mano un coltello coperto di sangue e delle pinze. Era immobile. Lì per lì il ragazzo rimase nel suo angolino di mondo, un po’ per la paura e un po’ per il dolore, ma fu quando l’uomo calò giù l’arnese e continuò a lavorare che lui capì.
Una mossa di Main e un secondo potente colpo fu assestato nel suo ventre, avvertì il suo corpo esplodere, le sue viscere venire tratte fuori. E abbassò lo sguardo.
Fa male…
Era aperto in due, squarciato dallo sterno all’inguine. Faceva male, ma più di tutto in cima alla lista delle pene in quel momento vi era la sensazione orribile che avvertiva quando qualcosa veniva mosso da mani intruse all’interno del suo corpo. Avrebbe voluto piangere, urlare, vomitare ancora. Ma niente funzionava. Prima il suo corpo aveva deciso di smettere di muoversi per l’annichilimento derivante dal coma, ora i suoi muscoli erano paralizzati dal dolore. Matthew si accorse di star desiderando la morte, un crollo nella parte centrale del suo sistema nervoso e tutto si sarebbe arrestato: il dolore, il sangue, l’eviscerazione.
Storse gli occhi, vide il suo aguzzino che si spostava leggermente più a destra per afferrare una bacinella e fissò per un istante il suo sguardo.
Vuoto.
Vitrei, gli occhi del dottore congelati e immobili non esprimevano alcun sentimento. Una statua capace di muoversi con disinvoltura ma dallo sguardo marmoreo e terrificante.
Nel frattempo Main aveva portato la bacinella, per la breve frazione di secondo in cui aveva fermato la sua tortura, Matthew aveva potuto riposare le membra e si era sforzato al fine di non vomitare ancora. Si era trattenuto per quello che sarebbe avvenuto dopo.
Fermati…
Il ragazzo avvertì come un conato di vomito al contrario, la sua gola si tese, la sua ugola si bloccò. In un istante, quello che prima era il suo corpo intero seppur martoriato dal profondo squarcio, si trasformò in un involucro vuoto. Senza complimenti o preamboli, l’improvvisato chirurgo aveva estratto dal suo addome una grossa massa di organi interni, parte del suo intestino e del suo stomaco vennero gettati, ancora collegati al resto del suo organismo, nella bacinella.
Matthew fece appena in tempo a vedere quell’atrocità, il dolore non era ancora arrivato, eppure lui sapeva che dopo quello che gli era successo, non sarebbe tornato indietro facilmente.
Il dolore giunse. Matthew chiuse gli occhi.
Che devo fare…? Dimmi che devo fare…?
Due gambe si muovevano al suo comando. Ma non erano le sue.
Due braccia sottostavano al suo dominio. Ma non erano le sue.
Un busto compiva i movimenti che gli venivano ordinati. Ma non era il suo.
Matthew riaprì gli occhi davanti ad una figura, un’immagine ben conosciuta. Di fronte a lui sostava immobile il dottor Main con in mano una bacinella piena di una massa indefinita. Ma il ragazzo non se ne rese conto, per lui quello non era il dottore… soltanto il suo riflesso nello specchio. Si rese conto non senza far cadere la bacinella in terra che l’immagine si muoveva esattamente come lui. Lui si trovava nel corpo del dottore.
Quasi svenne di nuovo, il volto contrito stava per sciogliersi in una smorfia incosciente ma qualcosa di più forte di lui lo trattenne, una morsa gli stritolò le meningi costringendolo a restare in piedi. Una chela poco delicata incastrò il suo cervello. E accanto a lui, solo Hypno.
Succube, schiavo degli ordini dell’essere che lo scrutava a distanza comandandolo con gli occhi, riprese la bacinella. Mosse il primo passo, e solo una frase guidò il suo movimento, riecheggiante e straziata dentro il suo cranio:
Ricostruisci Will.
Giunse ad una stanza alla quale si accedeva da una porta segreta che fu spalancata dal Pokémon. Un fetore lo raggiunse, la stessa puzza che aveva avvertito quando si era risvegliato prima sul tavolo, ma prima che potesse opporsi e tornare indietro, due catene invisibili lo avevano già trascinato a forza là dentro. Matthew, terrorizzato, intravide una barella inzaccherata di sangue, una sagoma che stava inerme sopra di essa.
Quindi decise di chiudere gli occhi.
Rispondi affermativamente.
‒ Va bene signora, possiamo iniziare la seduta immediatamente.
Guidala dall’altra parte.
‒ Prego, mi segua…
Il dottor Main aprì la porta del salotto nel quale era già stato acceso il falò, la donna lo precedette. Calma, silenziosa, si sdraiò sul divanetto. Il dottore chiuse la porta e si sedette sulla poltrona, prese la sua cartella e vi trascrisse il nome della nuova cliente. Sorrideva, gioviale.
‒ Mi dica pure, che cosa le impedisce di dormire?
Bravo, bravo Matthew, hai svolto il tuo lavoro… da qui in poi devo occuparmene io.
Vespus, Linnea, Levyan
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