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Painted Pictures - 7 - Painted Picture

Painted Picture                                                   


Il calore che fuoriusciva dal camino lambiva il volto dormiente di Dhalia, stesa sul divano, senza scarpe ed avvolta nel plaid, a quadrati rossi e verdi.
Ce l’aveva anche lei a casa, tutti la possedevano. È uno di quegli oggetti che sono presenti in ogni abitazione, come i termometri a mercurio.
Tutti hanno un cassetto dove gettano le cose inutili; quello di Dhalia era designato nella credenza che aveva nel salone, dove vecchie batterie senza più carica e monete senza alcun valore numismatico condividevano acari e buio. Anche Dylan ne aveva uno e c’erano un paio di schede sim per il cellulare, qualche moneta ed un vecchio Siemens.
Lui era davanti la tela, non più bianca, forse sporca. Ma tanto non interessava, la tempera avrebbe finito per riempirla, con colori vivi ed accesi, con il disegno che aveva in mente.
Ed i suoi disegni vivevano perché parlavano e t’accompagnavano durante ogni sguardo, carezzando le iridi con colori sfumati, linee precise, figure morbide e spigolose.
L’armonia.
Bagnò le setole del pennello nel giallo acceso e cominciò a stendere lo sfondo, pieno e vivo, senza sfumature di sorta. Quell’uniformità serviva a mantenere il focus sul soggetto principale.
E lei, il soggetto principale, dormiva sul divano, col calore che fuoriusciva dal camino a lambirle il volto, stesa sul divano, senza scarpe ed avvolta nella plaid a quadrati rossi e verdi.
Sì, stava dipingendo un primo piano di Dhalia, da tantissimo tempo, e a lei, che voleva vedere ciò che stesse stendendo su tela da ancor prima, avrebbe fatto la più grande delle sorprese.
Quattro ore dopo Dylan stava ancora dipingendo, ed erano le tre e mezza del mattino, ma lo sfondo era uniforme e quasi del tutto completo.
Gli pareva così distante quel giorno, in cui i suoi Pokémon erano diventati uno strumento per combattere e non per creare arte. Si girò e guardò Tool, il suo Rhydon, che dormiva beato sulla sua brandina.
Che poi tanto brandina non era. Cioè, era un vero e proprio materasso, che Dylan aveva in disuso. Toddi, ovvero Ditto, s’era disteso sulla sua schiena, e Cleo, la sua dolcissima Kecleon, dormiva sulla trave che manteneva il soffitto, in pace.
Solo Pablo era ancora sveglio, con le occhiaie, ma sempre accanto a Dylan; del resto all’arte, uno Smeargle, non poteva dire di no.
“Puoi andare a dormire, Pablo, qui posso finire da solo...”.
Ma quello fece cenno di no, continuando a dare piccoli tocchi di colore sulla tela, con la sua coda. Dylan gli carezzò la testa e sospirò. “Sei prezioso per me”.
E lo era sempre stato. Fin da bambino, Pablo aveva disegnato assieme a lui, sullo stesso foglio, che avevano sempre diviso.
E rise, il pittore, quando si ricordò di ogni volta che aveva dovuto farlo salire su di una sedia per fargli dipingere le parti in alto delle tele grandi, dove purtroppo non arrivava.
Poi passi soffici e vellutati si tramutarono in dure tallonate e la faccia di Dhalia apparve oltre l’uscio .
“Hey...” disse, con volto ammaccato e voce compressa, mentre si stropicciava un occhio. “... ma quando vieni a dormire? Aspettavo te e mi sono addormentata”. Dylan si perse per un attimo nel suo sguardo perso, spaesato, ed i capelli corti e spettinati. E gli occhi, che anche se piccoli e struccati, erano smeraldi che risplendevano di luce propria, inondando il suo viso di luce. Sorrise al suo sorriso, lei, ma poi lo vide alterarsi.
“Esci subito fuori di qui!” urlò, destando Cleo, che immediatamente con la lingua chiuse la porta.
“E non provare più ad entrare!”.
Sentì Dhalia poggiare palmi e fronte contro il legno della porta. “Ma che starai mai disegnando che io non possa vedere? Mia madre nuda?!”.
“No, bionda...”.
“Non sono bionda...” fece quella, che infatti era mora. “Dai... vieni a dormire...”.
“Vorrei finire e...”.
“Allora facciamo così” disse la biologa marina. Chiamò Pablo a sé e chiuse gli occhi, prendendolo per mano. “Portami da lui” continuò.
E lo Smeargle eseguì, tirandola a lui. Dhalia aveva ancora gli occhi chiusi e con le mani cercò il volto di Dylan, sporco di vernice sulle guance. “Non sporcarmi, ti prego” si crucciò lei.
“No” sorrise quello, poi col pennello ancora sporco di giallo andò a pizzicarle la punta del naso. L’espressione di Dhalia tramutò, ancora con gli occhi chiusi, e sbuffò. “E meno male che...”.
“E meno male che ci sei” la interruppe lui, baciandola, sporcandosi il naso.
Dhalia si staccò dall’uomo e sorrise. “Potrei aprire gli occhi ora e...”.
“Ne varrà la pena” interruppe di nuovo quello. “Credimi”.
“Oh... ok. E...”.
“Cosa?”.
“Puzzi di vernice”.
Dylan rise e la cinse di nuovo, prendendosi un ultimo bacio, prima di andare a lavarsi e d’infilarsi nel letto.

Tre giorni dopo Dhalia era da sola a casa.
E Dhalia, per questioni di carattere, era curiosa. Soprattutto se qualcuno le diceva che non poteva vedere una cosa.
E perché non avrebbe potuto?! Cosa stava nascondendo Dylan?! Cosa dipingeva di così trascendente da non poter essere compreso dalla sua mente?!
Beh, lei doveva bypassare quella situazione, stava impazzendo. E Tool stava riposando proprio nella stanza dove c’era il quadro.
Avrebbe portato qualche bacca al Rhydon del suo ragazzo e poi, per caso, avrebbe fatto cadere il lenzuolo che copriva la grande tela su cui lavorava alacremente da settimane.
Un occhio sarebbe caduto sul dipinto e lei, sbadata com’era, l’avrebbe raccolto. L’avrebbe pulito un po’ dalla vernice, lucidandolo come una sfera di vetro, per poi uscire come se nulla fosse successo.
E quindi, due Baccamela alla mano, andò nel bagno e frugò nel cassetto a destra, dove generalmente lui teneva i rasoi usa getta ed una forbice a punta arrotondata, spostò tutto e trovò una chiave. Sapeva di trovarla lì; le donne sanno sempre tutto, impossibile provare a nascondere loro qualcosa.
Andò davanti la porta, infilò la chiave nella serratura fremendo per quello che avrebbe visto, e decise di godersi la cosa per bene: quindi non avrebbe buttato occhi sulla tavola fin quando non vi sarebbe stata davanti.
Allora diede le bacche a Tool, che le accolse con sorpresa, gli diede un paio di carezza sulla carcassa coriacea e poi si voltò in direzione della tela.
Tela che non c’era: solo il cavalletto, sporco di vernice verde lungo le gambe in legno, era protagonista di quello spazio. Per terra c’era il lenzuolo che Dylan usava  per coprire le tavolozze, gettato, come fosse caduto così, dall’alto.
“Non... non c’è...” fece, assumendo un’espressione appuntita. “Non c’è. L’ha spostato...” osservò nuovamente, con la voce colma di delusione. Fece qualche passo indietro e richiuse a chiave la porta, celando sotto i rasoi da barba la chiave tanto preziosa.

Quando Dylan rientrò in casa fuori pioveva.
Era zuppo, ma in volto aveva un’espressione immensamente compiaciuta.
Dhalia invece no. Lei era semplicemente infastidita e faceva zapping selvaggio senza realmente avere alcun interesse per ciò che guardasse. Sentiva dentro il petto un prurito fastidioso che non la faceva stare in pace con se stessa.
“Hey, Dhaly... Come va?”.
“Dove sei stato, oggi?”.
Dylan rovesciò gli occhi verso l’alto. Era nei suoi giorni, ne era sicuro.
“Ho una storia incredibile da raccontarti...”.
“Domani è il mio compleanno” tuonò poi lei, senza collegamenti con le parole del ragazzo.
“Lo so benissimo... ecco perché dicevo di avere una storia incredibile da raccontarti...”.
Lei inarcò un sopracciglio ed accavallò le gambe, fasciate nel jeans che indossava. Poi incrociò le braccia sotto al petto ed annuì, come a lasciargli il via libera. “Avanti”.
“Beh, domani per te è un giorno importantissimo”.
“Faccio ventisei anni, Dyl, non diciotto o cinquanta”.
“Ogni compleanno è importante. Ma domani ho la mia prima mostra!” esplose lui, gioioso.
D’un tratto tutta la rabbia che Dhalia stava segretamente covando sparì nel nulla. S’alzò in piedi, correndo dal fidanzato ed abbracciandolo.
“Bravissimo! Sei tutto bagnato, però!” sorrideva lei, affondando il volto nell’incavo del suo collo.
“Sono stato da Patrick Medina, il direttore del museo, gli ho mostrato i miei dipinti e mi ha dato una sala!”.
Dhalia sorrise. Le era totalmente passato di mente l’arrabbiatura per il dipinto che mancava. Forse era perché lo stava mostrando a Medina che quello non era nella stanza, assieme a Tool.
“Sono fiera di te”.
Dylan sorrise. Reputava meraviglioso l’aver stupito la donna che amava. Lo nascondeva a se stesso, forse in modo fin troppo grossolano, ma in fondo sapeva di disegnare per impressionare lei, per sentirsi dire quanto fosse bravo e prendersi quei complimenti che avrebbe voluto da suo padre e che non aveva mai ricevuto.
Affondò il naso nei suoi capelli dolci e chiuse lì la sua giornata.

“Un altro scalino e siamo dentro, Dhalia...”.
Il vociare attorno a lei aumentava, ma non poteva attestare nulla con assoluta certezza fino a quando la benda nera che aveva davanti agli occhi non fosse caduta. E Dylan la stringeva per bene.
“Siamo arrivati?!” si lamentava lei, cercando di tastare con i dodici sottilissimi centimetri del suo tacco ogni appoggio.
“Sì” diceva Dylan, con la voce felice. Lo sentiva salutare persone e stringere mani.
Quel pomeriggio lui le aveva detto di farsi più bella che potesse e d’indossare il suo vestito migliore. Lui invece portava una camicia nera con la cravatta bianca, con quello stile così stranamente sciatto e contemporaneamente elegante che aveva fatto suo, radicandolo in ogni manica piegata ai gomiti, in ogni piega dei suoi pantaloni neri, in ognuno delle stringhe dei suoi lacci. Alla fine aveva indossato un abito lungo, blu come il mare, che le cadeva addosso come una cascata cerulea e larga. Aveva passeggiato con piacere sotto il braccio del ragazzo per il lungomare di Porto Alghepoli e poi per la piazza centrale, fino a salire le scale del promontorio, dove si trovavano il centro commerciale ed infine il Museo d’Arte. Poco prima di entrare tirò fuori dalla tasca una benda di seta nera e le coprì gli occhi.
“Lo sai che non mi piacciono queste cose...” fece lei.
“Non ti troverai in nessuna gang-bang, te lo prometto. Ma devi tenere gli occhi chiusi”.
Fu così che lei fece slalom tra gambe distratte, pestando piedi e spesso il suo stesso vestito; sarebbe inciampata se Dylan non l’avesse cinta per la vita.
“Ok, ok, ci siamo quasi” disse il ragazzo, staccandosi da lei e tirandola per mano. Dhalia sentiva in petto una crescente voglia.
Stava per scoprire il dipinto, il fantomatico dipinto che Dylan disegnava da ormai mesi.
“Giù la benda” fece, e lui stesso le liberò lo sguardo. I riflettori a led pugnalarono le sue iridi smeraldine, giusto per un secondo, prima di mettere a fuoco la grande tela che aveva di fronte.
No, prima si sarebbe guardata attorno. E quindi chiuse e riaprì le palpebre un paio di paia di volte, quindi vide donne e uomini sorridere in sua direzione, mentre qualcuno la indicava con la mano, annuendo.
Non capiva, Dhalia.
Poi poggiò lo sguardo sulla tela e realizzò. Dhalia si vide.

 

 
Ed anche questa è finita. Parla Andy.
Nessuno ci aspettava, ma non è un problema, io e Vesp abbiamo scritto con piacere questa storia e tenerla da parte non è stato semplice, anche perché non mi piace lasciare le cose incomplete.
Ad ogni modo questa è la storia di Dylan e Dhalia.
Vogliamo ringraziare chiunque avesse letto i capitoli precedenti, chiunque sia riuscito ad arrivare fino a qui.
L'immagine è di Dahlia Takenaka, artista meravigliosa che ha ispirato il personaggio di Dhalia (quella nell'immagine) e di Cassandra nelle mie storie.
E nulla, vorrei comunicare che il mio percorso con i Soulwriters finisce qui.
La tanto agognata megalong con tutti i soggetti era utopica, non era possibile mettere d'accordo tante teste per una sola storia (considerando poi l'allontanamento di Barks e l'addio di Ink Voice) Poco tempo, poca voglia. Preferisco mettere tutto me stesso nella mia serie, sperando che un giorno veda la fine.
In ogni caso, come sempre, siamo onorati di tutto quello che ci è stato dato.

Saluti,

Andy Black;
Vespus.

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