3. Back Thru: Le Scelte Giuste di una Mente Malata
– Universo Z –
Si muoveva.
Si muoveva sul vetrino, lo vedeva chiaramente attraverso il microscopio e quello poteva voler significare soltanto una cosa: c’era riuscito.
Quel virus mutageno attaccava la cellula cavia e la dilaniava, distruggendone i tessuti e finendo per replicarsi corrottamente, prima di collassare su se stessa.
Un virus, un semplice virus. Quel piccolo inferno in provetta avrebbe distrutto la popolazione, rendendo velocemente le loro città dei grossi cimiteri di ferro.
Era una parte infinitesimale di materia. Ecco perché bisognava avere paura della zanzara e non dell’elefante. Che pensieri strani faceva, Xavier, mentre sospirava.
Non era la prima volta che giocava con la biologia, aveva già creato armi batteriologiche ed ibridi in grado di strisciare e volare contemporaneamente ma mai era stato così letale il risultato del suo lavoro.
Non se ne compiaceva. Cioè, per lui era l’ennesima vittoria in una vita che lo aveva visto effettivamente vincitore di ogni sua battaglia, nonostante non combattesse per le forze del bene.
No, a che serviva lottare per i buoni? Alla fine erano quelli che morivano prima, i buoni. No, lui era marcio dentro e non vedeva il modo di migliorare quel mondo, ormai troppo grigio e senza speranza per lui.
Meglio cancellare tutto, buttare tutto a terra e godersi quei brevi attimi: sarebbe stato re tra le macerie, affondando i piedi nel fango e nel sangue, nel silenzio più che totale una volta che avrebbe assorbito anche il vento ed asciugato il mare.
Una volta che avrebbe spento il sole.
Sovrano del disordine, del caos. Sovrano dello zero assoluto.
Fino a quando si sarebbe piantato un colpo nella tempia destra almeno, da solo, forse soddisfatto.
La mente umana è grande. La mente umana è strana.
Davanti gli occhi aveva la probabile causa della futura morte di milioni di persone ma non ne sentiva minimamente la responsabilità. Levò il volto dall’oculare e sospirò, spostandosi e camminando verso un armadietto dall’altra parte della stanza. Il camice svolazzava sui suoi passi mentre la luce soffusa fu sostituita brevemente dalla lampada automatica dell’armadietto, che si accendeva quando le ante si aprivano.
Era una luce bianca, molto forte, anche se a lui non dava fastidio.
Erano poche le cose che lo turbavano e quasi sempre erano particolari insoliti ed infimi, così stupidi che passavano inosservati dai più.
Certo, non da lui.
Perché Xavier vedeva il mondo sotto una lente del tutto particolare; ecco perché a lui davano terribilmente fastidio i ronzii dei neon oppure il led rosso del timeout della sua televisione, dettagli così piccoli che venivano subito soppiantati da pensieri più importanti.
E non era difficile trovare cose più importanti del ronzio dei neon.
A causa loro, lui non si concentrava; quindi teneva le luci basse.
I virus ed i batteri in questo modo non vengono danneggiati, pensava.
Che poi raramente era con qualcuno nel suo laboratorio chimico.
Sì, chimico.
No, Xavier non era un chimico. E quello era uno dei suoi sette laboratori operativi.
Però fabbricava bombe al fosforo con la stessa facilità con cui un giardiniere potava una siepe, e lo faceva fischiettando Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club Band.
Xavier era semplicemente una mente geniale, in grado di collegare ogni luogo, ogni tempo, ogni persona. Era una delle poche persone nell’intero universo ad esser riuscito a capire il problema, a schiarire il buio.
Lui sapeva tanto. Sapeva tutto.
E sapeva che quel piccolo virus avrebbe portato l’intera popolazione a rigettare i principi d’educazione e d’etica morale.
Quell’insieme d’acidi nucleici corrotti avrebbe spento le luci del mondo, dando inizio ad una nuova era.
Tutti morti, si sarebbero ammazzati tutti a vicenda.
Avrebbero liberato il campo in fretta.
Sbuffò, poi pulì tutto e preparò un basket portampolle già pieno, con ventisette fialette, nove unità per tre file.
Levò il camice e spostò un ciuffo biondo dagli occhi quindi sbottonò il polsino destro della camicia e tirò su la manica, scoprendo l’avambraccio a quel gennaio, freddo da congelare.
Si voltò, aprì un armadietto molto piccolo e focalizzò l’attenzione sulle due fiale che conteneva, prendendo quella a destra.
La stappò lentamente, facendo estrema attenzione a non far cadere nulla per terra. Con un piccolo contagocce fu in grado d’assorbire pochissima quantità di liquido e piazzarla sotto la lente del microscopio; poi vi guardò dentro.
Ciò che vi vide fu lo stesso virus.
Beh, più o meno. Era stato lui stesso a disattivarlo, creando quello che poteva essere un vaccino a quella catastrofe in boccetta.
Sospirò nuovamente, odiava fare quel tipo di cose, era successo soltanto un’altra volta, in precedenza: ogni volta che doveva creare un virus letale s’iniettava il vaccino e si chiudeva in casa, per far passare il periodo d’assorbimento e permettere agli agenti del sistema immunitario di agire.
Successe quando creò un virus simile all’ebola ma più mortifero; visse le pene dell’inferno, sapeva benissimo quanto un vaccino attivo creasse problemi simili, soprattutto per una malattia del genere.
Pensava di morire. Aveva dolori così forti e lancinanti che avrebbe preferito strapparsi il cervello dal cranio e morire in pace.
Il resto delle volte che l’ingegneria virale lo aveva visto sceneggiatore era soltanto per zone a lui sconosciute e troppo lontane, e quindi aveva reputato prematuro e superfluo iniettarsi il vaccino.
Lo aveva comunque pronto ma non vedeva l’utilità d’iniettarselo ed iniziare il pretrattamento se non ci sarebbe stato mai a contatto.
Quella volta, invece, avrebbe sentito con ogni probabilità la testa volersi staccare dal collo e c’erano ottime possibilità che l’eventuale sanguinamento fosse più lungo del previsto.
Oltre a nausee impossibili da placare ed un forte senso di disorientamento, naturalmente.
Mise il vetrino a sterilizzare e poi prese la siringa.
Non era quella la parte che odiava di più.
Tirò dalla fialetta il vaccino ed espulse l’aria dalla siringa, quindi infilò l’ago.
Poco confortevole, ma nulla che un uomo di ventotto anni non potesse sopportare.
Quando il serbatoio della siringa fu svuotato levò l’ago e disinfettò la zona, premendo per qualche secondo con dell’ovatta.
Pensò per un attimo alla sua vicina di casa. Cosa del tutto insolita, lo sapeva, ma non riusciva a smettere di pensare a quella tossicodipendente col culo di marmo.
Tra di loro non c’era niente più di un buongiorno e di un buonasera, quando capitava, ma la sera prima l’aveva sentita urlare, dal suo appartamento; aveva sentito rumore di piatti rotti e poi la porta che sbatteva.
Fiammetta si chiamava lei, ed aveva le braccia bucate per via degli aghi.
Eroina.
La droga s’intende.
Era fidanzata (o forse no, Xavier non ne aveva idea) con un enorme omaccione di colore dagli occhi spenti e dai capelli radi. Aveva muscoli enormi ed un’aggressività maschia nel porsi nelle cose materiali.
E lei era delicata tra le sue mani.
Spense il cervello, c’era il dovere prima del divagare. Una volta arrivato a casa avrebbe sentito un po’ di musica e le urla ed i piatti rotti e le botte nel muro.
E qualche mitragliata che si levava al cielo.
Il grosso soprabito nero di pelle quasi toccava terra mentre i passi lunghi lo avvicinavano inesorabilmente al grosso portone che aveva avanti.
Avrebbe dovuto avere paura delle persone che stava per incontrare, il loro potere era smisurato, al pari soltanto della loro ambizione.
Distruggere, dilaniare, ottenere, conquistare.
Sentiva già le note del pianoforte suonare quando una lieve emicrania punse dietro l’occhio destro. Spalancò la porta con la mano sinistra dopo il permesso ottenuto da uno delle due ragazze sugli stipiti, mentre stringeva con l’altra il basket portampolle. Si ritrovò davanti tutti gli anziani e quella bellissima donna che suonava.
Cassandra pensò, guardandole le dita lunghe ed affusolate, avvolta nella sua veste di seta bianca. Statuaria nella sua acerba giovinezza, nella sua bellezza antica e silenziosa.
Aveva completamente scavalcato con lo sguardo i cinque vegli, seduti alla grande tavola dorata, totalmente sparecchiata da tutto. Poche luci calde illuminavano la Stanza del Piano.
“Dottor Solomon... Si è fatto aspettare. Doveva essere qui almeno un’ora fa” esordì Mr. Zed, quello al vertice della tavolata. Non era possibile guardargli il volto, perennemente coperto dal lungo cappuccio marrone che lasciava scoperto il mento e le labbra.
“Con un intrattenimento del genere non penso le sia dispiaciuto” fece, poggiando le ampolle sul tavolo. Tutti guardarono con sgomento il basket.
“Ci illustri, Dottore” continuò Zed.
Xavier sospirò e prese a camminare attorno al tavolo, cercando di avvicinarsi quanto più possibile alla donna al pianoforte, per guardarla meglio, per cercare di toccare la sua pelle candida e magari liberare i suoi occhi dalla seta della benda ma gli sguardi dei vegli lo seguivano passo a passo, costringendolo a fermarsi tra il pianoforte ed il tavolo dove erano seduti quelli.
“Il virus è estremamente aggressivo e funziona al cento per cento. Le cellule verranno modificate ed il sistema immunitario sarà notevolmente indebolito. Dopo poche ore cominceranno dolori allo stomaco fortissimi ed emicranie lancinanti, per passare subito ad una forte nausea. Il colorito diventa cianotico nella maggior parte dei casi, talvolta itterico; i soggetti con questa caratteristica, col colorito della pelle giallastro, saranno i più infettivi ma sostanzialmente sono destinati a morire nelle sei ore successive al contagio. Quelli con la pelle tendente al blu, invece, perderanno appetito e cominceranno a sanguinare da ogni orifizio finché la nausea iniziale non termina. Dopodiché ci saranno episodi di cannibalismo sempre più frequenti e la popolazione si ridurrà massicciamente. Dopo tre settimane i soggetti perderanno qualsiasi coscienza sociale e comportamentale...”.
“... tornando praticamente allo stato brado. Saranno animali” interruppe Zed, tamburellando con le dita la superficie dorata del tavolo che aveva davanti.
“Esattamente. Tanto pericolosi quanto innocui per la vostra causa, paradossalmente”.
Le note di Cassandra occuparono per un attimo lo spazio di quel silenzio e furono interrotte dalla voce di uno dei vegli.
“Ho due domande” fece quello. Mr. Heich si chiamava.
“Prego”.
“In primo luogo vorrei sapere cosa determini il colore itterico e quello cianotico”.
Xavier fece spallucce ed assunse l’espressione in volto di chi aveva appena ricevuto una domanda dalla risposta ovvia.
“Naturalmente è la predisposizione genetica a creare tale differenziazione. E proprio per predisposizione genetica ci saranno alcune persone che saranno immuni agli effetti del virus”.
“Questo è un problema” fece Zed.
“Relativamente sì. Ma se guardiamo la realtà dei fatti queste poche persone si ritroveranno a doversi barricare nelle proprie case, con grosse difficoltà a reperire beni di prima necessità. Ad un certo punto la corrente elettrica smetterà di essere erogata, senza l’apporto umano, creando un enorme vantaggio ai famelici. In più c’è l’effetto inibitorio che la paura ti mette davanti: non tutti avranno il sangue freddo per gestire la situazione”.
“Non ho mai sottovalutato l’istinto di autoconservazione di un uomo”.
“E mai lo deve fare, ma non è da sottovalutare nemmeno l’istinto di caccia di un animale feroce. Vi vorreste mai trovare davanti ad un Pyroar affamato?”.
Qualche mormorio anticipò il secco no di Mr. Zed.
“Alla fine vincerete voi, mia cara Azoth”.
“E la seconda domanda” tornò a parlare Heich. “I Pokémon saranno immuni da questi effetti?”.
Di nuovo il silenzio, di nuovo le mani di Cassandra a struggersi sui tasti d’ebano ed avorio dello Steinway.
“No. Non tutti. Alcune specie soltanto”.
Ancora il mormorio dei vegli, poi il dolore alla testa di Xavier cominciò a farsi allucinante, accompagnato da un leggero senso di nausea. Il vaccino stava cominciando a fare effetto.
“Anzi, ritengo che il metodo migliore di contagio siano proprio i Pokémon” continuò il Dottore, con la mani nelle tasche del soprabito, mentre giocherellava col mazzo di chiavi di casa. “Inietterei il siero a dei Pokémon piccoli come dei Rattata, Pokémon che creino risorse alimentari, come il miele, e quindi i Combee, o i Magikarp che mangiamo tutti i giorni. E dei Pokémon altamente distruttivi, come dei Gyarados. Anche i Taillow possono essere utili. Non mi occuperò delle somministrazioni ai Pokémon, sia ben chiaro, sono stato pagato soltanto per la creazione del virus”.
“Saranno i Pokémon ad infettare gli umani?”.
“Sì, faranno da incubatori e potranno diffondere il virus ad altri Pokémon”.
“E l’infezione come avviene?” domandò Zed.
“Basta respirare nella stessa stanza del soggetto contagioso. Se poi s’ingeriscono cellule infette diventa tutto ancor più rapido”.
Tutti guardarono il basket e rabbrividirono: davanti avevano un’arma di distruzione di massa.
In ventisette pratiche ampolle di vetro.
“Se è tutto ora vado” tossì lui, stringendo i denti.
“Aspetti, Solomon! C’è un vaccino?” chiese Mr. Ar, quello seduto alla destra di Mr. Heich.
Xavier pensò all’ampolla sperimentale, gemella di quella che si era iniettato nel suo studio e sospirò. Meglio mentire.
“No”.
“Dovremmo stare lontani dai piani bassi” sospirò Zed.
“Se non volete morire, o se non siete immuni”.
“E come facciamo a sapere se siamo immuni?”.
Xavier sorrise.
“Non siete immuni. Gli immuni sono così pochi che su tutto il nostro pianeta ne posso contare meno di mille. Ho fatto le mie ricerche, quindi mettetevi l’anima in pace. Tuttavia tra di noi c’è una persona immune”.
Lo sgomento si sollevo greve. “E chi è?!” urlarono all’unisono, ognuno sperando di essere il prescelto.
“Starà sicuramente parlando di se stesso” sospirò Mr. Epsilon, mentre Zed rimaneva in silenzio a sentire Heich, Ar e Key discutere animatamente”.
“Non sono io” disse poi il Dottore. “È lei” fece, indicando la pianista.
Tutti la guardarono, per la prima volta da quando Xavier era entrato.
Cassandra, ancora bendata, terminò di danzare con le dita; anzi, quelle rimasero sui tasti come a volerli premere ma impossibilitati.
Come se fossero bloccati, come se le sue dita non avessero più forze.
Come se avessero tagliato le corde a quel pianoforte.
Xavier la guardava con fascino sempre crescente, con una punta di ammirazione. Sospirò nel vedere la benda davanti ai suoi occhi completamente intriso di lacrime. Qualcuna rigava pure il suo viso cereo, arrivando con delicatezza al mento e tuffandosi sulla seta della veste, proprio sulle lunghe gambe. Il labbro inferiore tremava
“Suona!” urlò Zed, con rabbia immane, battendo il pugno sul tavolo dorato.
Cassandra pianse ma tornò a suonare, e la melodia fu così triste da struggere anche gli animi dei più forti di cuore.
“Lei non uscirà mai da questo palazzo! Cassandra non potrà essere una minaccia!” continuò Zed, sentendola gemere per il pianto.
Xavier la guardò nuovamente, in silenzio, con una grande voglia di prenderla per mano ed uscire via. Ma non lo avrebbe fatto, tutto ciò che voleva era andare a casa e mettersi nel letto, per aspettare che il vaccino terminasse i suoi dolorosissimi effetti collaterali.
“Bene, Solomon” terminò quello. “Hai fatto il tuo dovere, l’ultima cassa con i contanti, proprio come mi hai chiesto tu, in questo momento è in una banca di Ciclamipoli, dove mi hai detto di recapitarla. Venti milioni”.
“Benissimo”.
“La fase uno del piano è cominciata. Con i salti universali come siamo messi?”.
“Operativi già da tempo”.
“Magnifico. C’è bisogno di recuperare le pietre, adesso”.
“Ho in piano tra un mese un viaggio nell’universo di riferimento X. Lì ho trovato il soggetto perfetto che corrisponde all’identikit che mi avete fornito”.
“Uhm. Chi è?”.
“Un ricco uomo d’affari, si chiama Lionell Weaves e possiede una grossa società di videosorveglianze. È il padre diretto della discendente dell’oracolo di Arceus. Mi basterà arrivare in quell’universo e poi tornare indietro nel tempo, per fare il lavaggio del cervello al giovane Lionell. Lui ucciderà sua moglie e rapirà la bambina. Dopodiché farà di tutto per prendere il Cristallo Bianco e ce lo consegnerà”.
“E così noi avremo il primo pezzo del puzzle” concluse Mr. Heich.
“Esattamente”.
“E per il Cristallo Nero?”.
“Quello è stato localizzato ad Hoenn, sempre nell’Universo X... Vedrò di far inviare lì qualche persona per prenderlo. Non è mai stato scoperto dall’uomo ed è ancora in forma pura, all’interno di qualche parete rocciosa”.
“L’importante è ottenerlo”.
“Degli altri due cristalli non so ancora nulla”.
“Bene... ci terremo in contatto. E non morire” sorrise Zed.
Xavier sorrise. “Non ne ho il tempo materiale. Ciao Cassandra” disse lui, uscendo dalla stanza, sentendo una nota più acuta proprio lì, dove non doveva esserci.
I sintomi erano peggiorati parecchio. Le gambe e le braccia parevano così pesanti che gli sembrava impossibile procedere oltre lungo la scalinata del palazzo dove viveva.
Non aveva problemi di soldi ed in ogni città aveva un piccolo appartamentino che serviva a non dare nell’occhio.
Non c’era bisogno che la gente conoscesse il suo nome, le sue abitudini.
Non c’era bisogno che vedessero dove vivesse e che auto avesse. Anzi, meglio rimanere nell’anonimato.
Il palazzo in cui abitava era una fatiscente costruzione a nord di Ciclamipoli. Col tempo la città s’era espansa fino ad arrivare alle pendici del Monte Camino, tant’era vero che Cuordilava era praticamente divisa da Ciclamipoli da una strada, battuta costantemente da automobili furibonde e venditori ambulanti di fazzoletti, ai semafori.
Saliva le scale, Xavier, i suoi occhi dalle iridi rubine bruciavano e provava un forte dolore alle tempie; ogni passo sembrava un’impresa e le tre rampe di scale che lo dividevano dal suo uscio parevano rimanere sempre lì, ogni scalino lasciato alle spalle s’aggiungeva alla fine in quella salita infinita, mentre lo stomaco spingeva fuori e si faceva largo per uscire dalla bocca.
Sudava freddo, già vedeva le sue mani diventare biancastre.
Forse stava per diventare blu, pensò. Forse non aveva disattivato correttamente il virus ed al posto del vaccino aveva finito per iniettarsi una dose letale di quel virus maledetto.
E sentiva ancora urlare Fiammetta, mentre Luke dava delle botte possenti nel muro che facevano vibrare l’anima fragile dell’intera struttura.
Lentamente salì ancora un paio di gradini mentre sentì la porta al piano di sopra aprirsi.
Ed al piano di sopra abitavano solo lui e Fiammetta.
“Sei la solita puttana!” sentì urlare.
“Stronzo! Vaffanculo!” piangeva la donna, urlando a squarciagola. La sua voce acuta rimbalzò tra le pareti di quel vecchio palazzo. Xavier guardò uno Spinarak nell’angolo in alto, tra le due pareti, poi sentì una porta aprirsi ed il pianto di Fiammetta più nitido.
“Sparisci sempre per andare da quella puttana!”.
“Drogata di merda, quella è la mia donna!”.
“Che cazzo ci stai a fare con me, allora?!” urlava con più enfasi.
“Vaffanculo, troia!”.
E poi la porta sbatté.
Oxford, pensò sarcasticamente Xavier mentre i morsi nello stomaco non accennavano a diminuire. Sentiva la rampa sulla sua testa tremare sotto i passi furibondi di Luke.
Scendeva velocemente, mormorando quanto odiasse la donna che aveva appena lasciato al piano di sopra, affibbiandole appellativi non propriamente carini.
Xavier se lo trovo davanti cinque secondi dopo, enorme, con una maglietta a maniche lunghe gialla, di sottile cotone nonostante il freddo di quei giorni. Era macchiata di sangue, poco sopra i potenti pettorali.
Gli ampi bicipiti avevano sformato le maniche, slabbrando il tessuto. La vita si stringeva, la maglietta aderente quasi risaltava gli addominali dell’uomo, mentre glutei e cosce toniche erano fasciate in un jeans sporco e consunto. La pelle scura dell’uomo rifletteva lucida il bagliore dei pallidi neon di quel palazzo.
Xavier lo vide avvicinarsi a lui, quello lo guardava in cagnesco e quando s’incontrarono sullo stesso scalino quello gli diede una manata e lo scaraventò nel muro.
“E levati davanti, professore del cazzo!”.
Xavier gemette al contatto con la parete, sentì l’intonaco scrostarsi dalla parte più alta del muro e cadergli sui capelli.
Poi guardò l’uomo andare via, come un uragano.
Tanto morirai. E sarai pure tra i primi a farlo.
Dopo un minuto buono passato tra sofferenze atroci era riuscito ad arrivare al piano. Sentiva le gambe abbandonarlo ed il dolore cominciare a diffondersi come una macchia di vino rosso su di una tovaglia candida. La testa amplificava ogni piccolo rumore facendolo esplodere nella testa dell’uomo; anche la semplice azione di sbattere le palpebre era diventata impossibile, sentiva la guerra dietro i bulbi oculari.
Non aveva mai provato così tanto dolore.
La porta di casa sua era a due metri ma non riusciva più a stare in piedi; s’abbassò sulle ginocchia, con la pancia che faceva giravolte su se stessa quindi vomitò tutto quello che aveva in pancia, con un urlo dolorante e sinistro.
Era quella la parte che odiava di più.
Fiammetta spalancò la porta, come se pochi secondi prima non le fosse successo nulla.
Era sotto effetto.
“Alzati...” fece, stanca.
La donna aveva i capelli sporchi legati in una coda spettinata, mentre grosse ecchimosi le riempivano le braccia, lasciate scoperte dalla canottiera nera che indossava.
Si chinò, inorridendo davanti alla quantità di sangue rimessa dall’uomo, crollato dolorante con la faccia dentro il suo stesso vomito.
“Per Arceus... Alzati...” ripeté, tirandolo su. Xavier non era particolarmente muscoloso e Fiammetta con un po’ di fatica riuscì a sollevarlo. L’uomo era diventato pallido, passava un braccio dietro la testa della ragazza, boccheggiando.
“A... iuto...” sussurrò.
“Sì... ti aiuto...” faceva lei, frugando nelle tasche del giaccone dell’uomo, trovandovi un mazzo di chiavi.
Lo tirò fuori, rimanendo confusa dal grande numero delle stesse chiavi attaccate al mazzo. Guardò la serratura e dopo qualche secondo convenne con se stessa che ad aprire la toppa dovesse essere la chiave più lunga.
La prese, la infilò. Entrava.
E girava anche.
Tre mandate e si ritrovò all’interno di quella casa che aveva visto di sfuggita durante i buongiornobuongiorno che si erano scambiati sul pianerottolo: ordinata al massimo.
Tutto organizzato, tutto al proprio posto.
Così diversa dal caos di casa sua.
“Che ti sei fatto?” le domandò lei, vedendolo barcollare come lei sotto la sua guida. “Eroina? Hai fumato qualcosa?”. Poi risoluta gli levò il grande cappotto e gli alzò le maniche, controllando se avesse dei buchi nell’incavo del gomito.
E ne trovò uno, poco di fianco alla vena, come quelli che aveva lei.
Oddio, più o meno: lei era bucata proprio sulle vene.
“Sei strafatto di qualcosa...” concluse la rossa.
Xavier prese a tremare.
“Aiuto...” disse poi, in un impeto di lucidità. “Ho freddo...” continuò, cadendo di nuovo, proprio davanti al tavolino di cristallo che c’era accanto al divano.
“Drogato di merda... Che ti sei buttato in vena?” fece quella, sollevandolo di nuovo, non senza fatica. “Forza, puliamo questo vomito dal volto e mettiamo qualcosa di caldo addosso. Poi a letto a riposare...”.
Si risvegliò.
Aveva soltanto una fame immane, e la fronte gli scottava. Ma vedeva tutto con un estrema nitidezza e l’emicrania che lo aveva attanagliato era mutato in un piccolo mal di testa, quasi un sollievo in confronto.
Continuava ad avere leggermente freddo.
Fiammetta dormiva accanto a lui, vegliando in posizione rialzata il suo sonno.
S’era messa sotto le coperte con Xavier, cercando di riscaldarlo quanto più potesse. Aveva anche acceso i riscaldamenti.
Lui aveva le mani strette nei pugni, vicini tra di loro, sulla pancia della ragazza. La guardò per un attimo, col volto struccato ed incredibilmente naturale, bellissima. Le palpebre chiuse, chiare e pulite, il naso all’insù con un anello nella narice.
Il labbro era stato spaccato, probabilmente da Luke, proprio in corrispondenza di un altro piercing ad anello.
Il suo respiro era profondo e caldo, lui lo sentiva sulla guancia, avendo la testa vicino la sua spalla.
Si mosse, l’uomo, allarmando la ragazza; quella si svegliò di colpo, incrociando le sue iridi rosse.
Sorrise.
“Hey... Ti sei svegliato finalmente...” fece, sollevandosi.
“Tu... tu sei stata vicino a me, stanotte?” domandò lui, con la voce roca.
Quella sorrise di gusto. “Sono tre giorni che sono qui. Ho visto che ti chiami Xavier, che sei laureato in un bordello di roba... che ci fai in questa topaia?”.
“Tre giorni?!” esclamò quello, facendo per alzarsi.
Lei annuì, bloccandolo. “Devi stare a letto. Vado a prepararti qualcosa di caldo, non hai mangiato nulla durante... beh, il tuo sonno”.
Xavier sbatté le palpebre e la vide alzarsi, sculettando in maniera ovvia e naturale verso la cucina.
La sentiva sferragliare con le pentole, mentre il flusso dell’acqua aperta terminava nel lavello.
Il ragazzo era col pigiama nel suo letto, stava relativamente bene ed era sopravvissuto al vaccino. Forse aveva la febbre, ma facendo un paragone a quando aveva perso i sensi nel pianerottolo, cadendo con la faccia nel vomito, si sentiva un amore.
“Che ti sei iniettato in vena?” domandò lei, dall’altra stanza.
Il vaccino sperimentale che mi salverà la vita dalla calamità che ho creato in provetta.
“Non era in vena. E comunque nulla, era il vaccino antinfluenzale...”.
“Ed ha l’effetto dell’ebola?”.
Sorrise Xavier. “Sarò allergico a qualche componente, non lo so...”.
“Non lo sai? Non sei quello intelligente, tu?”.
Il ragazzo provò ad alzarsi, anche se la testa girava e le gambe dolevano. Sbadigliò e stese gli arti, sentendo scricchiolare lo spazio tra le ossa.
Infilò le pantofole ed entrò in cucina, camminando lentamente.
“Che ci fai qui?! Torna a letto!” s’alterò lei, una volta visto.
“Devo bere...” fece lui, atono.
Fiammetta si voltò ancora e tornò a cucinare. Lui le guardò le spalle, i capelli, il sedere. “Sto facendo un po’ di brodo. Non hai niente nel frigorifero”.
“Viaggio molto”.
“Lo so benissimo, infatti questa è una delle prime volte che ti rivolgo la parola”.
“Io ti... ti dovrei ringraziare...”.
“Mangia... Intanto vado di là, a casa, a farmi una doccia”.
E così lui mangiò e si riposò.
Si sentiva meglio, parecchio meglio, la febbre era quasi del tutto scesa e poteva cominciare di nuovo a pensare al suo lavoro.
Si vestì, aveva intenzione d’uscire per comprare qualcosa per il frigorifero, magari anche un mazzo di fiori per Fiammetta.
Per ringraziarla, insomma.
S’era data parecchio da fare in quei giorni, s’era presa cura di lui. Forse se non fosse stata lì, Xavier sarebbe morto, affogato nel suo stesso vomito.
Era lì che aveva capito d’aver creato un vero e proprio mostro: quei sintomi, così distruttivi e spossanti, erano portati dalla versione disattivata del virus.
Cosa sarebbe successo ad un semplice essere umano se infettato dal virus vero e proprio?
Se avesse avuto un po’ di scrupoli sarebbe rabbrividito al sol pensiero.
Invece si limitò a rimettere il giaccone, a saltare la pozza di vomito rappreso per terra e a scendere le sei rampe di scale per trovarsi in città.
Quando tornò aveva tra le mani un mazzo di fiori molto colorato.
Per strada avevano provato a derubarlo ma lui aveva mantenuto la calma e mostrato una Pokéball al malintenzionato, che poi si era girato ed era scappato via, terrorizzato.
Quel mondo era pieno di feccia puzzolente ed inutile, persone non all’altezza di dare alcun apporto alla società in cui vivevano.
Rapinatori e malintenzionati erano ovunque, rovinavano la faccia della Terra col loro semplice respiro.
Gli umani, pensò, così piccoli e modesti nelle loro fantasie e nei loro desideri. Giocano a fare i grandi con le pistole tra le mani e le giarrettiere sulle cosce cellulitiche. Tutte puttane e truffatori, in questo mondo.
Tranne Fiammetta.
Già, lei lo aveva aiutato senza pretendere nulla in cambio. Senza rubare in casa sua, senza approfittarsi della situazione, semplicemente per la bontà di prendersi cura di qualcuno di più bisognoso.
Salì le scale del suo palazzo, pensando alla fialetta di vaccino che aveva ancora conservato nel suo laboratorio chimico, a pochi chilometri da Ferrugipoli.
Potrei salvarla ed andare via con lei, pensò.
Scavalcò la macchia di vomito e posò la spesa a casa, poi, con ancora il mazzo di fiori in mano uscì.
Scavalcò ancora la macchia di vomito e si fermò davanti alla porta della sua vicina.
Toc – toc.
Ma la porta era aperta.
Cigolò quando lui la spinse. Una zaffata d’urina raggiunse le sue narici, disturbandolo non poco.
Si mosse scavalcando buste di plastica bianche sventrate e brandelli d’abiti. C’erano anche pezzi di vetro e ceramica, parti di piatti e bicchieri rotti ed un tanga rosa lasciato davanti alla porta.
Xavier se la richiuse alle spalle ed avanzò.
Una siringa usata pendeva da una grossa mano di colore che trasbordava la spalliera del vecchio divano consunto di pelle ocra.
Luke, pensò lui. S’avvicinò, l’uomo era con la faccia beata sul divano, nel rilassamento più che totale. Gli occhi erano semiaperti. O semichiusi, non faceva differenza. Non indossava i pantaloni, portava la maglietta gialla di qualche giorno prima e dei calzettoni di spugna bianchi con righe orizzontali rosse sulla sommità iniziale; le mutande erano sporche sul davanti: era lui che emanava quel grosso puzzo d’urina.
S’è pisciato addosso.
Passò oltre, camminando per il corridoio della ragazza, bagno a destra e stanza a sinistra, intonaco che cadeva dalle pareti ed acqua che sgorgava da un lavandino aperto.
Entrò nel bagno e chiuse il rubinetto. Il lavabo s’era intasato e l’acqua era caduta tutta per terra.
Boccette con Xanax e Valium erano poggiate sul lavandino, davanti ad uno specchio frantumato.
C’era disegnato un cuore con del rossetto, in alto a sinistra.
Questi sono ansiolitici. Non bisognerebbe assumere questa roba, specialmente se sotto effetto di droga.
Accanto al gabinetto c’era una vestaglia rosa e poco oltre un reggiseno bianco dalle coppe rigirate verso l’interno. La finestra era stata murata e ad illuminare quel piccolo ambiente c’era soltanto un piccolo lampadario a due bulbi.
Era presente solo una lampadina nell’attacco, e peraltro funzionava ad intermittenza.
Fece dietrofront ed uscì, entrando poi nella stanza di Fiammetta.
Era sul letto a cosce spalancate, in pantaloncini e top elastico aderente.
Sostava con le braccia allargate, come crocifissa sul materasso.
L’ago era ancora infilato nell’avambraccio.
E Xavier sospirò.
Forse perché dopo la prima grande guerra tra Unima e Kanto, che aveva visto Hoenn essere razziata totalmente da quest’ultima per le sue risorse fossili, era l’unica persona che aveva fatto del bene.
L’unica che aveva visto, almeno.
S’avvicinò alla finestre della sua stanza, senza aprirla: l’aria era troppo inquinata, non era salutare, soprattutto da lì, a pochi metri dalle ciminiere di Cuordilava.
Vide quel cielo, perennemente grigio, dove non pioveva più da anni. Vide il deserto che avanza lentamente, a meno di mezzo chilometro; nel giro di qualche anno avrebbe inglobato anche quella città, ne era sicuro.
Appoggiò la fronte al vetro freddo, guardando giù due ragazzini scappare da un uomo grasso e pelato, con una canottiera bianca, e poi vide, poco più in là, il cadavere di un barbone dimenticato da tutti.
Dove vivono queste persone?
A che serve essere una persona pulita se poi la merda ti viene buttata addosso?
Potenzialmente Fiammetta sarebbe potuta diventare una grande donna, con importanti carature morali e bellezza ineguagliabile.
Sicuramente c’erano altre persone come lei, in quel dannato pianeta.
Lui le stava uccidendo tutte, senza distinzione di sesso e di razza. Ripulire dalla feccia.
Ma forse non doveva uccidere lei. Pensò ancora all’antidoto ma gli occhi si fissarono sull’ago che quella aveva nel braccio.
Avrebbe salvato una drogata.
Prese il fazzoletto che aveva nella tasca e gettò il mazzo di fiori sul letto, proprio accanto a lei. Premette il tovagliolo in corrispondenza dell’ago e lo estrasse, mantenendo la pressione per qualche secondo. La guardò meglio, poi, con le lacrime nere per il mascara sciolto che le rigavano le guance, la testa leggermente piegata in avanti e la bocca semischiusa.
Lui le poggiò una mano sul torace, sotto i seni, sentendo il movimento poco fluido dei polmoni. Troppo lento.
La pelle tendeva al pallido ma era incandescente; le fiamme scorrevano assieme al sangue, nelle vene.
Le controllò gli occhi: a spillo, così sottili le pupille e così spente le iridi che quasi quel rosso, proprio come quello di lui che la esaminava, pareva sbiadito.
Non ci volle molto per capire che fosse andata in overdose.
Serviva un intervento tempestivo quindi uscì velocemente ed andò in cucina, prendendo un paio di forbici e tagliandole il top stretto per permetterle di respirare più liberamente.
Doveva evitare il collasso cardiorespiratorio, quindi somministrarle del naloxone.
E trovare del naloxone in quella casa non doveva essere facile.
Si alzò velocemente e tornò nel bagno, andando verso un armadietto.
Lo aprì, caddero diverse siringhe monouso e lui ne prese due al volo, mettendole nella tasca. Prese anche dell’ovatta ed un po’ d’alcool.
Con velocità ed una calma che nessuno avrebbe potuto avere fece una rapida cernita dei medicinali, scartando con velocità le compresse e le bustine, gettandoli per terra, e concentrandosi sulle boccette, ma nulla.
Allora uscì ed andò da Luke.
La puzza d’urina lo stava per nauseare ma lo prese lo stesso per il collo della maglietta, scuotendolo con forza. Gli diede poi un forte ceffone sul volto.
Quello aprì gli occhi quel tanto che bastava per far capire a Xavier d’averlo portato fuori dal trip mentale. Giusto per qualche istante.
“Mi serve del Narcan, Fiammetta sta morendo”.
“... Brutta... puttana...”.
“Mi serve del Narcan” ripeté Xavier, dandogli un altro ceffone.
“Put... tana...” ripeté, sgorgando un rivolo di bava che terminò per corrergli lungo la guancia.
Xavier perse la pazienza. “Narcan, cazzo! Narcan!” gli diede poi un pugno sul volto, rompendogli il setto.
“Put... tana!” ripeteva, con il sangue che sgorgava dalle narici.
“Dimmi dov’è il Narcan!” urlò ancora.
Gli occhi di Luke si rovesciarono ma ebbe il tempo di dire la parola borsa prima di tornare nel trip. Xavier lo lasciò sul divano a macerarsi il cervello e quindi scattò all’in piedi, alla ricerca d’una borsa. La prima che vide era sullo snack tra il salotto e la cucina ed era con ogni probabilità quella di Fiammetta. La rovesciò rapidamente e cercò ma tra carte di caramelle per la gola, una siringa usata con l’ago spezzato, la parte spezzata dell’ago della siringa ed un pacchetto vuoto di Merit non trovò nulla che gli potesse servire. Cadde pure il documento d’identità, pochi secondi dopo, e lui guardò di sfuggita la data di nascita: 16/12/1987. Si voltò, con l’ansia che cresceva, sperando che il respiro di Fiammetta non si fermasse, quindi vide un borsone nero alle spalle del divano.
Era di Luke, se lo sentiva.
Lo aprì e tirò fuori vestiti, vaselina, dei preservativi, una Glock e delle siringhe nuove. Sopra ad un letto di banconote, tutti tagli da cinquanta belli impacchettati, vi erano due boccette di Narcan.
Xavier spalancò gli occhi e le prese entrambe. Scartò una delle siringhe che aveva preso dal bagno e contemporaneamente prese l’alcool e l’ovatta, poggiandoli sul comodino di rovere.
Il respiro di Fiammetta era ancora più lento, stava per collassare.
Le guardò gli incavi dei gomiti, bucati come un campo minato dismesso, e notò che aveva le vene totalmente inutilizzabili.
Sospirò, un solo sguardo al volto marmoreo e poi le coprì il petto nudo con una maglietta che era sul letto. Le prese finalmente la mano ed analizzò il dorso. Ci volle qualche istante ma individuò la vena, disinfettò con ovatta ed alcool e lentamente iniettò il Narcan nel corpo di Fiammetta.
Lo fece con molta calma, per non sbagliare e per non crearle crisi d’astinenza.
Pochi milligrammi e qualche secondo dopo Fiammetta aprì gli occhi.
La voce era roca ed il respiro irregolare.
“Calmati, va tutto bene ora” le fece.
Le pupille si dilatarono lentamente ed il sangue prese a circolare nuovamente.
“Xav... Xavier...” ansimava lei, sollevandosi e finendo vittima d’un attacco di panico. La maglietta cadde, scoprendola nuovamente, ma non sembrò darci molto peso.
“Calmati. Stai bene adesso. Devi ripetere la puntura di Narcan tra un’ora e mezza”.
“Nar-narcan?!”.
Xavier la sovrastò, spingendola con le spalle sul materasso. Le avrebbe dato il Valium trovato nel bagno se non avesse soltanto peggiorato la situazione.
“Ora è tutto a posto. Sei andata in overdose”.
Non gli pareva vero, aveva salvato una vita. E non per mancanza di fiducia nei propri mezzi, del genere: proprio io ho salvato lei, sono un eroe. No, il pensiero fatto fu: ho salvato qualcuno che non conoscevo ed ho fatto qualcosa per lei. Almeno prima che ammazzi tutti quanti.
“Tu... tu mi hai salvata?” domandò Fiammetta, parecchio confusa.
“Già. Ora devo andare” fece. “Quei fiori erano per te... almeno prima che ti trovassi seminuda e mezza morta con un ago nel braccio. Non dimenticare la puntura, tra un’ora e mezza” ribadì.
Lei abbassò gli occhi, assumendo un’espressione a metà tra l’imbarazzo per la situazione e lo schifo che provava per se stessa. “Mi sto trasferendo e probabilmente non ci rivedremo più. Tieniti lontana dai guai e appena puoi raggiungi il posto più isolato possibile. Mangia solo verdure, coltivale tu, e fallo entro i prossimi due mesi. Sappi che ti salverà la vita”.
“... Grazie...” pianse. Ma lui era già uscito fuori.
Xavier sapeva che Fiammetta non lo avrebbe ascoltato: sarebbe stata infettata ed uccisa da altri soggetti contagiati, due anni dopo.
Il biondo dagli occhi rossi abbandonò la stanza della donna con in mano le forbici con cui aveva tagliato il top. Passando davanti al divano si fermò giusto un attimo a guardare Luke, ancora immerso in quel miscuglio d’urina e pace dei sensi.
Non sei una brava persona pensò, ed infilò la punta tagliente delle forbici nella gola dell’uomo, strattonando e sgozzandolo.
Il sangue si riversò copioso sul divano e poi più giù, sul pavimento lercio.
“Non ringraziarmi, Fiammetta. Non prima che io abbia finito con te...” sussurrò.
Ci vollero circa venti minuti per raggiungere il laboratorio nel quale le avrebbe salvato veramente la vita. Posò il giaccone e passò accanto al camice, snobbandolo.
Non indugiò per nemmeno un secondo davanti all’armadietto con il vaccino, non avrebbe donato il paradiso ad un’eroinomane.
Aveva capito che se Fiammetta fosse una tossica la colpa era del mondo che le stava attorno. E l’unico modo per salvarla, per salvarla davvero, era portare il mondo via da Fiammetta.
E per fare quello avrebbe portato via Fiammetta dal mondo.
Già, si era finalmente convinto; avrebbe consegnato Fiammetta ad un mondo più pulito.
Un mondo che avrebbe sporcato strada facendo lui stesso, in futuro.
Aprì la porta di una stanza totalmente vuota. Vi era soltanto un tavolo con due macchinari sopra.
Uno bianco ed uno blu. Prese quest’ultimo ed uscì velocemente, volando in groppa al suo Salamence verso Cuordilava.
La parte ovest del paesino era ormai ridotta in macerie. Una nebbia tossica e violacea s’era formata per via dei fumi di scarico delle grosse raffinerie che producevano carburanti poco lontano da lì.
Cacciò il congegno blu ed impostò su di un piccolo tastierino elettronico una data.
20/08/1988
– Universo Z, 20 agosto 1988 –
Dall’apparecchio apparve una luce blu, abbagliantissima. Lui già lo sapeva e chiuse gli occhi.
Non durò molto ma quando li riaprì qualcuno urlò terrorizzato.
“Da dove sei apparso?!” faceva quel qualcuno.
Xavier lo guardò, quello era inciampato indietro, col volto terrorizzato.
“Sei un alieno?! Come quelli di Roswell?!”.
“Già. E non dirlo a nessuno altrimenti verrò a prenderti ed ucciderò tua madre”.
“O-okay...”.
“Sarà il nostro segreto” disse Xavier, muovendosi in avanti.
Era in un vicolo ma arrivò velocemente nella piazza di Cuordilava.
Prima della Grande Guerra Pokémon, Cuordilava era un paesino ridente tra i boschi e le montagne, alle pendici del Monte Camino. L’ultima grande eruzione era avvenuta almeno quarant’anni prima a seguito d’un terremoto con epicentro Brunifoglia.
Si vociferava che fosse per via dell’ipotetico risveglio di Groudon, il leggendario Pokémon dei continenti ma nessuno lo aveva mai visto.
Solo le donne anziane, vedove della seconda guerra mondiale, raccontavano che esistesse un Pokémon che vivesse nel magma, in grado di controllare il movimento della crosta terrestre.
Controllò la data, era l’ottantotto; ventitre anni dopo tutti avrebbero visto cosa fosse Groudon. E non contenti lo avrebbero rivisto ancora, quattro anni dopo.
Si guardò attorno e vide due ragazzini correre. Una era femmina, aveva gli occhi azzurri ed i capelli biondi.
“Piccola” disse Xavier. “È nata quasi sei mesi fa una bambina nel paese, vero?”.
La ragazzina sorrise, immediatamente. “Sì! Fiammetta! È la figlia di Flavia!”.
“E dove abita Flavia?”.
“Lì”. Il dito della bambina indicò una casetta molto carina con infissi in legno e tetto a due falde. Le pareti erano fatte di tufo vivo, grezzo e ruvido.
“Grazie, piccola” annuì Xavier, arruffandole i capelli e sorridendo. Avanzò poi verso l’abitazione e si fermò davanti alla porta di legno massiccio, bussando con forza.
Il volto era impenetrabile, nessuna emozione traspariva dagli occhi vermigli dell’uomo.
Sentì dei passi e pochi secondi dopo la porta si spalancò. Una donna sorridente si presentò.
Era bella e giovane, particolarmente somigliante a Fiammetta, se non per la capigliatura scura.
“Buongiorno” fece quella, con ancora il sorriso.
Xavier sorrise poi tornò serio e spinse la donna, facendola cadere per terra.
Quella urlò, spaventata.
Rapidamente si guardò attorno, Xavier, ma non fu in grado di vedere la bambina. Osservò poi le scale, pensando che fosse al piano di sopra. Allora si mosse con rapidità e scattò verso la rampa mentre la donna si rialzava.
“Chi è lei?!” urlava. “Aiuto! Papà, aiuto!”.
“Si calmi” disse Xavier, glaciale.
Flavia gli afferrò il braccio e lui si girò velocemente, spingendola ancora e facendola cadere sul pavimento di legno. Quella Piangeva, e tanto gli ricordava sua figlia nella fisionomia.
“Fiammetta!” urlò ancora, correndo a prendere uno degli alari incandescenti del camino acceso. Non poteva, quell’uomo, raggiungere sua figlia. Aveva paura.
Si stava ustionando le mani ma l’unica cosa che le importava era preservare la bambina. Lo vedeva salire le scale, il dolore alle mani era incredibile.
Il sangue cadde dai suoi palmi quando, alcuni secondi dopo, usò l’alare come arma, cercando di spaccare la testa all’uomo che però si divincolò velocemente scartando a destra, sulla scalinata.
Diede poi una pedata nel petto della donna, nemmeno troppo violenta. Quella però morì sbattendo la testa.
A lui non interessava.
Forse era meglio così. Levare un bambino alla propria madre è il crimine peggiore di cui si fosse macchiato ed i residui di quella coscienza che aveva rispolverato in quei giorni sarebbero stati più distesi sapendo che a quella donna non sarebbe mancata la figlia, essendo morta.
Forse sarebbe stata la figlia a sentire la mancanza della madre però le avrebbe fatto un regalo più grande.
Molto più grande.
Il piano superiore constava di tre stanze ed un bagno. Nella più illuminata si sentiva il pianto leggero di un bambino.
No, era una bambina, lui sapeva già tutto. Entrò in camera, vedendo il sole illuminare il pavimento passando attraverso le tende rosa. Sulla finestre delle vetrofanie proiettavano l’ombra di ciucci ed orsacchiotti sul tappeto accanto ai piedi di Xavier.
Un piccolo armadietto era aperto, con mille vestitini fatti a mano e bavaglini e scarpine creati col punto croce.
E poi c’era la culla, costruita dal nonno.
Sentì qualcuno entrare in casa, al piano di sotto.
“Flavia! Mi hai chiamato?! Che è successo?”.
Era proprio il nonno di Fiammetta, un eccezionale Capopalestra. Ma Xavier non si fece prendere dal panico ed osservò ancora per qualche secondo la creatura bellissima nella culla, rossa per il pianto, con radi capelli foschi sulla testa e sei denti in bocca.
Xavier la prese in braccio, quella piangeva a dirotto, disperata e subito dopo la voce dell’uomo al piano di sotto s’incrinò.
“Flavia! Che succede?! Fiammetta!” urlò poi, salendo rapidamente gli scalini a tre a tre, ma quando arrivò a vedere un estraneo con sua nipote in braccio quello aveva già premuto il tasto reset sulla sua strana macchina blu.
– Universo Z, ventisette anni dopo –
La bambina non piangeva più. Forse era stato il salto temporale a calmarla, ma rimaneva con gli occhi vigili e fissava ogni movimento che faceva Xavier.
Lui la teneva in braccio, le sue manine poggiavano sulle sue spalle e carezzavano la barba bionda e rada dell’uomo.
Quest’ultimo poggiò sul tavolo il congegno blu ed afferrò quello bianco. La tastiera su questo era più grande e comprendeva anche le lettere.
Lui si fermò per un momento, riflettendo.
X, pensò. L’universo più pulito ed ordinato è quello X. Lì crescerà bene e non morirà per via del mio virus. Sono sicuro anche che non si farà di eroina.
Gli bastò premere la lettera X sulla tastiera e poi il tasto d’invio per vedere davanti a sé la creazione d’un piccolo vortice scuro.
Xavier digitò dei dati sulla macchina e poi prese in braccio la bambina.
Il vortice era davvero piccolo. Era un buco nero.
Era stato davvero bravo a modificare la sua macchina per evitare il collasso dell’intero universo. L’unico gesto che fece fu toccare quel piccolo puntino nero ed immediatamente sparì.
Non nascose a se stesso che aveva paura, nonostante avesse viaggiato in quel modo svariate volte. Mise una mano sulla testa di Fiammetta, per proteggerla da ogni cosa.
Durante quel viaggio spaziotemporale sentiva il vuoto nello stomaco ed una grande stanchezza; stringeva anche la macchina bianca che intanto calcolava a velocità massima la situazione dello spazio e del tempo circostante.
Non passò nemmeno un secondo, che durò però delle ore nel suo cuore, e si ritrovò a Cuordilava, ridente paesino di Hoenn.
“Fiammetta...” sussurrò lui alla bambina, sollevandola e guardandola negli stessi occhi rossi, prima di abbandonarla. “Tu devi diventare una donna di cuore ed aiutare chi ne ha bisogno. Ed un giorno io e te ci rincontreremo. E tu mi fermerai, se ne sarai capace. Va bene?”.
La bambina lo vide posarla sulle piante e la cenere per poi piangere una volta che quello fu sparito alla sua vista, dopo un lampo bianco.
– Universo X, quattro anni prima,
pochi minuti dopo –
Era scesa dalle pendici del vulcano.
Generalmente, il sabato, Fiammetta indossava la sua tracolla di iuta ed andava sul Monte Camino e sul suo pendio scosceso, il Passo Selvaggio, per cercare erbe medicinali ed altre primizie che la natura regalava.
Quel sabato non fece eccezione. Camminava affondando i grossi stivaloni nella cenere tra le piante rigogliose quando il brusio del boschetto fu incrinato dal pianto d’un bambino.
Lei era sola e nessun altro era lì con lei.
I Pokémon selvatici si fermarono d’improvviso, fissando la scena.
Lei riuscì a localizzare il bambino e si avvicinò, curiosa.
Era una bimba, e piangeva disperata con la testa nella cenere. Non aveva più di sei mesi.
“Guarda tu che... Chi diamine t’ha lasciata qui?”. Si abbassò e raccolse la piccola, pulendole con la mano la testa. “Ma sei una meraviglia della natura, tu!” esclamò, facendola calmare. La strinse e scese la fine del passo, arrivando a Cuordilava.
Due giorni dopo la madre di Fiammetta, Flavia, aveva ottenuto il permesso di adottare la piccola dagli occhi rossi, come i capelli, con quel ciuffo rubino sulla fronte.
“Jarica. Si chiamerà Jarica. E la cresceremo come se fosse sempre stata con noi” diceva Fiammetta a sua madre.
“Già” sorrideva l’altra. “La crescerò come feci con te, sperando che segua le tue orme”.
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