Adamanta, Primaluce
“In pratica
sì. In pratica se non fosse venuto Ryan ad aiutare Zack, Allegra e Leonard non
starebbero giocando sullo scivolo, adesso”.
Marianne
sorrideva dolcemente, col volto ambrato incorniciato dai lunghi boccoli scuri.
Il suo viso era illuminato di gioia. Poggiava i gomiti sul lungo bancone di
teak, stringendo tra le mani un bicchiere del Sauvignon che aveva portato da
casa, e che aveva a sua volta ricevuto diversi anni prima da suo padre.
Suo padre
beveva parecchio vino. Vino buono.
Con la
gravidanza di suo figlio Leonard la linea asciutta del suo fisico s’era
ammorbidita. Rachel non la reputava né bella né aveva particolare simpatia per
lei, ma a suo fratello stava bene e lei non aveva nulla in contrario finché
fosse andata in quel modo.
Lo sguardo
di entrambe attraversò la grossa vetrata della portafinestra della cucina, che
dava direttamente sul giardino; Lenny e Allegra giocavano sullo scivolo, a
debita distanza da Ryan e Zack che intanto allenavano i propri Pokémon.
Davanti al
padrone di casa c’era un Luxray; ultimo
arrivato del roaster dell’ex Campione di Adamanta, quel Pokémon non era
vista di buon occhio da sua moglie: era troppo aggressivo, poco incline alla
sottomissione. Era probabilmente l’alfa di un branco parecchio grande, con la
conseguenza che ogni direttiva di Zack fosse accolta indisciplinatamente. Era
aggressivo, quello, molto portato
all’attacco.
Uno stile di
lotta che poco si accostava con la riflessività delle mosse di Zack, quando era
sul campo di battaglia. Spaventava chiunque avesse attorno, Rachel compresa.
Non Allegra,
però. Anzi, il Pokémon sembrava apprezzare la compagnia della bimba e giocavano
spesso assieme, sotto gli occhi attenti del padre e quelli impauriti della
madre.
Contro quel
Luxray, Ryan aveva schierato il suo fido Gallade; la lotta pareva feroce ma in
realtà entrambi cercavano di fare meno male possibile all’avversario,
utilizzando soltanto mosse fisiche e che recassero poco danni.
Niente
fulmini, quindi, niente onde psichiche. Solo forza e agilità.
E Luxray
pareva essere in vantaggio.
Ryan sostava
in piedi, a debita distanza dai Pokémon, quasi vicino alla staccionata di
delimitazione, con la schiena dritta e le braccia incrociate. Aveva
l’atteggiamento di chi sapeva affrontare ogni cosa.
“Forza!
Colpiscilo!” ordinò al Pokémon.
“No! Non
farlo!” urlava Allegra, seduta sulla rampa dello scivolo, col volto contrito,
attenta sullo scontro. Al contrario, Leonard tifava per suo padre, alle sue
spalle.
“Invece devi
farlo! Forza!”.
Zack
sorrideva, meno concentrato di Ryan, basso sulle gambe e divertito.
“Schiva a
sinistra e attaccalo sul fianco!”.
Gallade
affondò con la lunga sciabola, senza però riuscire a colpire l’avversario,
mentre Luxray eseguì invece l’ordine velocemente.
Tuttavia,
prima di affondare il colpo, Gallade si teletrasportò accanto a Ryan.
Zack impiegò
qualche secondo per capire ciò che succedeva; vedeva Luxray confuso,
indietreggiare con le zampe ben piantate sul terreno. Ringhiava, mentre una
serie di scintille cominciarono a formarsi attorno al suo volto.
L’Allenatore
capì che fosse ora di concludere lì la sfida. Con un sorriso si rivolse a Ryan.
“Imbrogli
sempre. Come al solito”.
Ryan rispose
al sorriso, divertito. “Andiamo… gli avrebbe fatto male”.
Anche
Gallade tornò nella sfera e i bambini poterono avvicinarsi ai loro genitori,
sorridenti.
Lenny pareva
assai esaltato dalla sfida. Si rivolse poi ad Allegra.
“Quando sarò
grande sarò un Allenatore bravissimo come papà!”.
Quella finì
per snobbarlo, voltandosi e raggiungendo Arcanine.
E di
Arcanine, Rachel non aveva paura. Guardò la scena da lontano, mentre il campanello
di casa suonava.
Gli altri
rientravano, si lavavano le mani e Rachel andava ad aprire.
Era Alma,
con marito e pancione annessi.
Thomas
sorrise educatamente e porse alla padrone di casa un vassoio.
“Va in
frigo”.
Rachel
sorrise. “Oh, grazie, non dovevate”.
Alma fece
una smorfia divertita e sbuffò. “Li volevo io. Doveva comprarli per forza”.
“Ovviamente”
ribatterono Rachel e Thomas all’unisono.
La donna in
stato interessante entrò in casa a fatica: il pancione non aveva mai raggiunto
quelle dimensioni, all’interno della maglietta larga, bianca. Come accadeva
negli ultimi tempi, camminava mettendo entrambe le mani dietro la schiena, sofferente,
ma con un sorriso splendente e gioioso sul volto.
Quel bambino
sarebbe arrivato presto e la cosa la elettrizzava. La sua espressione era
sempre gioiosa, e anche in un giornata come quella la sua pelle ambrata
riluceva dei baci di quel sole spento.
“Tra poco fa
boom...” disse Allegra, carezzando la
pancia della donna dalla lunga treccia corvina, che sorrise.
“Quella
pancia tra qualche giorno si trasformerà in un bel bimbo” ribatté Zack,
prendendo dalle mani di Thomas la grossa borsa che negli ultimi tempi li
accompagnava ovunque andassero.
Sì, nel caso
si fossero rotte le acque.
L’uomo
ringraziò e sospirò, aiutando Alma a sedersi sulla poltrona. Pareva provato in
viso e Marianne, che spesso gli lanciava qualche sguardo fuggiasco, gli si parò
davanti.
“Ehi, papà,
che si dice?” domandò.
Quello la
guardò e sbuffò. “Che si dice? Si dice che papà non veda l’ora che mamma
diventi mamma perché da quando mamma è lievitata è diventata
insopportabile...”.
“Thomas!”
esclamò Alma, facendo ridere i presenti.
“E lascialo
stare! Poverino...” ribatté infine Rachel.
Momento
felice. Momento leggero.
Si sedettero
a tavola.
Allegra fece
di tutto per accaparrarsi il posto accanto ad Alma. Quella le spiegava che
nella sua pancia ci fosse un bambino, e che quindi lei e Lenny non avrebbero
dovuto fare tanto baccano. La bambina passò tutto il pranzo a rimproverare suo
cugino ogni qualvolta alzasse di troppo il volume.
Rachel
vedeva Zack sorridere sereno.
Sapeva che la
sua famiglia fosse al sicuro, e tanto gli bastava.
Johto, Amarantopoli.
Green e Silver erano appena atterrati ad Amarantopoli.
Il viaggio era stato parecchio lungo, ed entrambi furono cullati dai
rispettivi silenzi.
Green era molto preoccupato per la faccenda del cristallo e aveva
limitato le parole allo stretto necessario, rimuginando su come fosse stato
possibile che qualcuno avesse commesso quell’effrazione senza che lui se ne
accorgesse in tempo.
Silver invece era la quintessenza del silenzio.
Arrivarono nella piazza principale, scendendo dai rispettivi Pokémon.
Amarantopoli era piena di gente, in festa, con le Kimono Girl che ballavano su
di un palchetto, in piazza. Il fulvo si fermò a guardarle per qualche secondo
ma l’altro non si era reso conto d’aver perso il compagno di viaggio per la via
e aveva proseguito.
Era ben concentrato, stringeva nella mano sinistra la Pokéball di
Charizard e nella destra una fotografia.
Era stanco e assonnato, ma aveva tanta di quell’adrenalina in corpo che
il suo corpo non se n’era accorto.
Quella notte, dopo aver scoperto del trafugamento del Cristallo del
Caos, aveva passato diverso tempo davanti allo schermo a scorrere ogni
fotogramma delle riprese del sistema di videosorveglianza. Fu difficile
trovarne uno in cui fosse chiaramente visibile il volto del ladro dato che,
nonostante il volto scoperto, quello si era mosso con velocità; pareva non appartenere
a quella realtà, come fosse un ologramma.
Rimase soltanto pochi secondi di panico all’interno dell’ufficio,
quello, e in quei pochi attimi riuscì a eludere le lenti delle telecamere.
Tranne che per un fotogramma.
Un singolo, unico fotogramma, che aveva impresso ai posteri il volto di
un uomo biondo, dal lungo cappotto nero. Aveva diramato nella notte il massimo
allarme e spedito in via ufficiale l’immagine alla Lega di Kanto e Johto, che
poi l’aveva trasmessa a ogni Capopalestra. Qualche ora dopo fu Angelo a
rispondere all’appello.
“Quell’uomo... si chiama Xavier Solomon. È un amico di mia moglie
Cindy, l’ho visto più volte. Vive in una grande villa poco fuori il centro di
Amarantopoli, agli inizi della periferia”.
E così, mentre Crystal e Blue cercavano altri indizi all’interno
dell’Osservatorio, Green e Silver erano saliti sul Supertreno e avevano
percorso nel Supertreno il tratto tra Fiordoropoli e Amarantopoli.
Il più piccolo dei due amava quella città, da sempre immersa in una
bolla in cui il presente faticava a entrare. Sotto la protezione della Torre
Bruciata, la gente di Amarantopoli poteva godere ogni giorno dell’abbraccio
degli aceri che accerchiava il nord di Johto, e ogni meraviglioso dettaglio che
caratterizzava ogni tegola rossa di ogni casa, ogni lampione di ferro battuto,
ogni marciapiede decorato.
Raggiunse Green, aumentando il passo. “Dove abita?” disse.
“Angelo ha detto poco oltre il centro della città. Quindi immagino che
sia tra la Palestra e il vecchio manicomio abbandonato. Dovrebbe esserci un
grande complesso residenziale, con le case dai tetti blu”.
Silver si limitò ad annuire e continuò a camminare, ripiombando nel
silenzio più che assoluto. Green aveva imparato a conoscere la sua poca
propensione alla conversazione leggera ma non lo biasimava, considerato i
racconti di Blue sulla loro infanzia.
Virarono verso la Rainbow Avenue e proseguirono in direzione nord, fino
a entrare nel grande centro residenziale. Questo era composto da diverse
villetta a schiera, ognuna con ampia porzione di giardino e un grosso steccato
bianco a delimitare i confini.
“Dovrebbe essere qui...” disse Silver, entrando nel vialetto che
portava davanti l’uscio di Xavier Solomon.
Green si soffermò per un attimo a guardare nella cassetta della posta,
piena di comunicazioni in carta bollata e volantini pubblicitari.
“Non ho buone impressioni” fece poi. “Ma provar non nuoce”.
Le nocche di Silver batterono sul legno della porta ma dopo una ventina
di secondi, in cui soltanto il sibilo del vento disturbava quel fastidioso
silenzio, i due furono costretti a guardarsi in faccia, per valutare altre
soluzioni.
“Non sembra essere in casa...” osservò Green, che poi posò la sfera di
Charizard e afferrò quella di Porygon.
“Che cosa vuoi fare?” domandò l’altro, accigliato.
“Nel citofono, forza” ordinò il primo al proprio Pokémon, immettendosi
nella linea elettrica e finendo all’interno dell’impianto domotico. “Apri,
appena puoi...” concluse.
“Questa si chiama effrazione...”.
Green lo fissò un secondo di troppo, sbuffando. “Hai appena detto
quello che hai detto? Sai, vero, quanto è importante recuperare il cristallo?”.
“Non mica detto che fosse un problema...”.
La porta s’aprì, subito dopo.
I cardini cigolarono sinistri, presentando agli invasori un salotto
buio e polveroso ma molto ben arredato. Le finestre erano serrate e le persiani
non permettevano alla luce di entrare all’interno. Green camminò lentamente,
fissando i piatti sporchi sul tavolino davanti alla televisione accesa, ma
senza volume, e un paio di scarpe sporche di fango sul tappeto.
Silver fece segno di fare silenzio, si chiuse la porta d’ingresso e si
mosse piano verso il centro della stanza, per poi muoversi verso le scale che
portavano al piano superiore. Fece cenno a Green di salire, come fosse il
comandante di un’operazione militare; si schiacciò contro il muro e percorse i
gradini con movimenti diretti e fluidi.
L’altro lo seguiva a ruota, guardando nuovamente la faccia dell’uomo
nella fotografia che stringeva ancora tra le mani.
Arrivati su si ritrovarono davanti a un corridoio buio, dove
s’affacciavano diverse porte chiuse. Silver controllò quelle di destra, Green
quelle di sinistra. Non trovarono nulla.
Soltanto nel bagno, ultima porta sulla sinistra, trovarono qualcosa
d’alquanto agghiacciante: impronte di mani trascinate giù, lungo lo specchio.
Per terra c’erano una camicia azzurra, un paio di calzini e un asciugamani
bianco.
“Non c’è nulla qui” fece il rosso.
“Manca solo la cantina, Silver”.
E quindi scesero, sempre con molta attenzione, strusciando le mani
sull’intonaco delle pareti, trovandosi nuovamente nel salone. Scesero al piano
di sotto.
Ancora nessun rumore.
Poggiarono passi leggeri sui gradini di legno, con le orecchie tese e i
cuori che battevano, quando poi un colpo di tosse li fece sobbalzare.
Spalancarono gli occhi. Misero mano alle Pokéball.
Scesero ancora più lentamente, fino a quando non ebbero chiara davanti
agli occhi la figura d’un uomo di spalle, dai capelli biondi e le braccia
incrociate, in piedi. Poggiava il peso sulla gamba destra e guardava una
lavagna con concentrazione.
Green prese parole e fece un passo avanti.
“Ora stai fermo dove sei e non voltarti. Metti le mani in alto,
lentamente”.
L’uomo s’irrigidì ma, al contrario di come ordinatogli, si voltò
repentino e impaurito, non riuscendo a nascondere il terrore sul volto nel
vedere due sconosciuti in casa sua.
“Chi diamine siete voi?! Non possiedo gioielli né contanti, è tutto in
banca!”.
“Non siamo rapinatori. E poi, la domanda da fare non è chi diamine
saremmo noi, ma il contrario” ribatté Green Oak. Guardò Silver, che annuì.
“Dov’è il cristallo?” chiese.
Gli occhi blu di Xavier Solomon erano spalancati, le labbra tremavano.
Le sopracciglia s’arcuarono immediatamente, alla domanda di quello.
“Non ho gioielli, l’ho detto!”.
“Non mi servono i gioielli! Rivoglio il cristallo che mi hai rubato
stanotte!” urlò Green, avvicinandosi nervoso a quello e prendendolo per il
collo. Lo sbatté contro la lavagna e mostrò i canini.
“I-io...” balbettò quello, afferrando invano il polso dell’uomo.
“Tu stanotte eri a Biancavilla!” ribatté quello.
“N-non è vero... Stanotte ero qui...”.
“Io ti ho visto!” replicò Green, infervorato. E fu tanta la rabbia che
lo mosse che lo colpì con un pugno.
“Fermati!” esclamò Silver.
“Io ti ho visto!” ripeteva l’altro. “Ho una tua fotografia, qui! E
questo sei tu! Non mentire! Le telecamere di videosorveglianza ti hanno
registrato!”.
Xavier era
caduto per terra dopo il diretto al mento. Aveva il labbro spaccato, sputò sangue.
Poi si alzò e sbuffò. “Che bello, mi pestano... come a scuola. Ho anche io
delle telecamere, Ivan Drago, ti faccio vedere dov’ero stanotte...”.
Adamanta, Timea.
Timea quella
domenica era particolarmente spenta.
La statua di
Timoteo imperava silenziosa su di una piazza quasi vuota, dove poche persone
passeggiavano annoiate. Del resto il vento freddo che proveniva da nord
congelava fin dentro le ossa. La neve era scesa per ore, quella notte, e aveva
ricoperto tutta la piazza di candido gelo.
Linda
l’attraversava di buon passo, stretta nel suo cappotto nero. I suoi occhi verdi
riflettevano il biancore circostante. Rapida, s’immise in una via secondaria,
dove l’intero marciapiede destro era occupato da automobili dal tettuccio
coperto di neve. Rallentò davanti a una vetrina, gettò un occhio, sarebbe
passato a raccoglierlo più tardi.
In quel
momento aveva parecchio da fare.
Bruciava
ancora, la cicatrice. E più ripensava al Monte Trave più quel dolore diventava
impossibile da sopportare: ricordava con perfezione il momento in cui Ryan
Livingstone li aveva traditi, quando la tramortì.
Si era
svegliata per terra, sulla Vetta Lancia, a Sinnoh. In qualche modo riuscì a
tornare indietro ad Adamanta e a cominciare una nuova vita. Tuttavia nutriva
ancora l’indiscussa attrazione per l’uomo che l’aveva trasformata in una
cospiratrice divina.
Uccidere
Arceus, sostituirsi a un dio. Lionell stava per riuscirci.
Sospirò,
stringendo i pugni nei guanti.
Aveva
raccolto le ceneri dell’Omega Group, trasformandola in qualcos’altro; la
Omecorp progettava e vendeva sistemi di videosorveglianza. I clienti maggiori
erano parchi residenziali e piccoli locali aperti tutta la notte.
E gli affari
non andavano benone.
Aveva
cercato di reinventarsi, immergendosi in un lavoro non suo e nonostante tutto
nutriva ancora una flebile speranza di poter vivere una vita normale,
possedendo lo stesso il ricordo del più grande fallimento della sua vita.
Forse era
Arceus che la puniva per aver provato a detronizzarlo.
Forse era
solo demoralizzata. La sua vita era senza mordente.
Cancellò
momentaneamente quel pensiero ed entrò negli uffici, salutando con un cenno del
capo Melissa, la sua segretaria personale; non proprio la donna più intelligente
del mondo, passava la gran parte del tempo a parlare al cellulare con la sua
fidanzata Pauline, e a mettere lo smalto alle unghie.
A Linda
bastava che prendesse le telefonate.
“Buongiorno,
signora Greensmith. Ha ricevuto sei telefonate durante la sua assenza”.
“Messaggi?”
domandò Linda, con la voce stanca. Levò il cappotto e lo posò nell’armadio. Si
specchiò per un momento, rapita dal suo stesso sguardo, che lambiva la sua
figura riflessa.
Vedeva una
donna dai lunghi capelli castani e dal sorriso spento.
“No. Oh,
forse sì...” disse Melissa, cercando sulla sua scrivania. Trovò un foglio,
sollevata. “Sì, sì. Malva, da Kalos...”.
“Non era una
dei Superquattro?” domandò Linda, più a se stessa che alla sua segretaria. “Se
non erro ebbe problemi con la giustizia...”.
La donna
fece spallucce, poi rispose al telefono.
La
proprietaria la lasciò andare ed entrò nel suo ufficio. Si sedette dietro la
scrivania e raccolse attorno a se tutto il materiale cartaceo di cui aveva
bisogno per richiedere un’offerta a uno dei suoi fornitori.
Sbuffò.
Odiava il suo lavoro.
Fece le sue
telefonate, guardando di tanto in tanto la serratura dell’ultimo cassetta della
scrivania, dove custodiva tutti gli originali degli studi fatti da Lionell.
Tutti gli
appunti sul Cristallo della Luce.
Lo
nascondeva male, sia a se stessa che agli altri, ma era follemente innamorata
di quell’uomo; erano passati tre anni da quando era scomparso.
Le aveva
lasciato in mano sabbia, vento e un pugno di mosche appassite al sole ma non
aveva mai finito di amarlo.
Sbuffò,
accese il computer e dimenticò totalmente della notizia su Malva.
Non voleva parlare
con lei, non la conosceva.
In breve la
dimenticò pure.
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