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TSR - 2 - Aquiloni



2. Aquiloni



Adamanta, Primaluce

“In pratica sì. In pratica se non fosse venuto Ryan ad aiutare Zack, Allegra e Leonard non starebbero giocando sullo scivolo, adesso”.
Marianne sorrideva dolcemente, col volto ambrato incorniciato dai lunghi boccoli scuri. Il suo viso era illuminato di gioia. Poggiava i gomiti sul lungo bancone di teak, stringendo tra le mani un bicchiere del Sauvignon che aveva portato da casa, e che aveva a sua volta ricevuto diversi anni prima da suo padre.
Suo padre beveva parecchio vino. Vino buono.
Con la gravidanza di suo figlio Leonard la linea asciutta del suo fisico s’era ammorbidita. Rachel non la reputava né bella né aveva particolare simpatia per lei, ma a suo fratello stava bene e lei non aveva nulla in contrario finché fosse andata in quel modo.
Lo sguardo di entrambe attraversò la grossa vetrata della portafinestra della cucina, che dava direttamente sul giardino; Lenny e Allegra giocavano sullo scivolo, a debita distanza da Ryan e Zack che intanto allenavano i propri Pokémon.
Davanti al padrone di casa c’era un Luxray; ultimo  arrivato del roaster dell’ex Campione di Adamanta, quel Pokémon non era vista di buon occhio da sua moglie: era troppo aggressivo, poco incline alla sottomissione. Era probabilmente l’alfa di un branco parecchio grande, con la conseguenza che ogni direttiva di Zack fosse accolta indisciplinatamente. Era aggressivo, quello,  molto portato all’attacco.
Uno stile di lotta che poco si accostava con la riflessività delle mosse di Zack, quando era sul campo di battaglia. Spaventava chiunque avesse attorno, Rachel compresa.
Non Allegra, però. Anzi, il Pokémon sembrava apprezzare la compagnia della bimba e giocavano spesso assieme, sotto gli occhi attenti del padre e quelli impauriti della madre.
Contro quel Luxray, Ryan aveva schierato il suo fido Gallade; la lotta pareva feroce ma in realtà entrambi cercavano di fare meno male possibile all’avversario, utilizzando soltanto mosse fisiche e che recassero poco danni.
Niente fulmini, quindi, niente onde psichiche. Solo forza e agilità.
E Luxray pareva essere in vantaggio.
Ryan sostava in piedi, a debita distanza dai Pokémon, quasi vicino alla staccionata di delimitazione, con la schiena dritta e le braccia incrociate. Aveva l’atteggiamento di chi sapeva affrontare ogni cosa.
“Forza! Colpiscilo!” ordinò al Pokémon.
“No! Non farlo!” urlava Allegra, seduta sulla rampa dello scivolo, col volto contrito, attenta sullo scontro. Al contrario, Leonard tifava per suo padre, alle sue spalle.
“Invece devi farlo! Forza!”.
Zack sorrideva, meno concentrato di Ryan, basso sulle gambe e divertito.
“Schiva a sinistra e attaccalo sul fianco!”.
Gallade affondò con la lunga sciabola, senza però riuscire a colpire l’avversario, mentre Luxray eseguì invece l’ordine velocemente.
Tuttavia, prima di affondare il colpo, Gallade si teletrasportò accanto a Ryan.
Zack impiegò qualche secondo per capire ciò che succedeva; vedeva Luxray confuso, indietreggiare con le zampe ben piantate sul terreno. Ringhiava, mentre una serie di scintille cominciarono a formarsi attorno al suo volto.
L’Allenatore capì che fosse ora di concludere lì la sfida. Con un sorriso si rivolse a Ryan.
“Imbrogli sempre. Come al solito”.
Ryan rispose al sorriso, divertito. “Andiamo… gli avrebbe fatto male”.
Anche Gallade tornò nella sfera e i bambini poterono avvicinarsi ai loro genitori, sorridenti.
Lenny pareva assai esaltato dalla sfida. Si rivolse poi ad Allegra.
“Quando sarò grande sarò un Allenatore bravissimo come papà!”.
Quella finì per snobbarlo, voltandosi e raggiungendo Arcanine.
E di Arcanine, Rachel non aveva paura. Guardò la scena da lontano, mentre il campanello di casa suonava.
Gli altri rientravano, si lavavano le mani e Rachel andava ad aprire.
Era Alma, con marito e pancione annessi.
Thomas sorrise educatamente e porse alla padrone di casa un vassoio.
“Va in frigo”.
Rachel sorrise. “Oh, grazie, non dovevate”.
Alma fece una smorfia divertita e sbuffò. “Li volevo io. Doveva comprarli per forza”.
“Ovviamente” ribatterono Rachel e Thomas all’unisono.
La donna in stato interessante entrò in casa a fatica: il pancione non aveva mai raggiunto quelle dimensioni, all’interno della maglietta larga, bianca. Come accadeva negli ultimi tempi, camminava mettendo entrambe le mani dietro la schiena, sofferente, ma con un sorriso splendente e gioioso sul volto.
Quel bambino sarebbe arrivato presto e la cosa la elettrizzava. La sua espressione era sempre gioiosa, e anche in un giornata come quella la sua pelle ambrata riluceva dei baci di quel sole spento.
“Tra poco fa boom...” disse Allegra, carezzando la pancia della donna dalla lunga treccia corvina, che sorrise.
“Quella pancia tra qualche giorno si trasformerà in un bel bimbo” ribatté Zack, prendendo dalle mani di Thomas la grossa borsa che negli ultimi tempi li accompagnava ovunque andassero.
Sì, nel caso si fossero rotte le acque.
L’uomo ringraziò e sospirò, aiutando Alma a sedersi sulla poltrona. Pareva provato in viso e Marianne, che spesso gli lanciava qualche sguardo fuggiasco, gli si parò davanti.
“Ehi, papà, che si dice?” domandò.
Quello la guardò e sbuffò. “Che si dice? Si dice che papà non veda l’ora che mamma diventi mamma perché da quando mamma è lievitata è diventata insopportabile...”.
“Thomas!” esclamò Alma, facendo ridere i presenti.
“E lascialo stare! Poverino...” ribatté infine Rachel.
Momento felice. Momento leggero.

Si sedettero a tavola.
Allegra fece di tutto per accaparrarsi il posto accanto ad Alma. Quella le spiegava che nella sua pancia ci fosse un bambino, e che quindi lei e Lenny non avrebbero dovuto fare tanto baccano. La bambina passò tutto il pranzo a rimproverare suo cugino ogni qualvolta alzasse di troppo il volume.
Rachel vedeva Zack sorridere sereno.
Sapeva che la sua famiglia fosse al sicuro, e tanto gli bastava. 
 

Johto, Amarantopoli.

Green e Silver erano appena atterrati ad Amarantopoli.
Il viaggio era stato parecchio lungo, ed entrambi furono cullati dai rispettivi silenzi.
Green era molto preoccupato per la faccenda del cristallo e aveva limitato le parole allo stretto necessario, rimuginando su come fosse stato possibile che qualcuno avesse commesso quell’effrazione senza che lui se ne accorgesse in tempo.
Silver invece era la quintessenza del silenzio.
Arrivarono nella piazza principale, scendendo dai rispettivi Pokémon. Amarantopoli era piena di gente, in festa, con le Kimono Girl che ballavano su di un palchetto, in piazza. Il fulvo si fermò a guardarle per qualche secondo ma l’altro non si era reso conto d’aver perso il compagno di viaggio per la via e aveva proseguito.
Era ben concentrato, stringeva nella mano sinistra la Pokéball di Charizard e nella destra una fotografia.
Era stanco e assonnato, ma aveva tanta di quell’adrenalina in corpo che il suo corpo non se n’era accorto.
Quella notte, dopo aver scoperto del trafugamento del Cristallo del Caos, aveva passato diverso tempo davanti allo schermo a scorrere ogni fotogramma delle riprese del sistema di videosorveglianza. Fu difficile trovarne uno in cui fosse chiaramente visibile il volto del ladro dato che, nonostante il volto scoperto, quello si era mosso con velocità; pareva non appartenere a quella realtà, come fosse un ologramma.
Rimase soltanto pochi secondi di panico all’interno dell’ufficio, quello, e in quei pochi attimi riuscì a eludere le lenti delle telecamere.

Tranne che per un fotogramma.

Un singolo, unico fotogramma, che aveva impresso ai posteri il volto di un uomo biondo, dal lungo cappotto nero. Aveva diramato nella notte il massimo allarme e spedito in via ufficiale l’immagine alla Lega di Kanto e Johto, che poi l’aveva trasmessa a ogni Capopalestra. Qualche ora dopo fu Angelo a rispondere all’appello.
“Quell’uomo... si chiama Xavier Solomon. È un amico di mia moglie Cindy, l’ho visto più volte. Vive in una grande villa poco fuori il centro di Amarantopoli, agli inizi della periferia”.
E così, mentre Crystal e Blue cercavano altri indizi all’interno dell’Osservatorio, Green e Silver erano saliti sul Supertreno e avevano percorso nel Supertreno il tratto tra Fiordoropoli e Amarantopoli.
Il più piccolo dei due amava quella città, da sempre immersa in una bolla in cui il presente faticava a entrare. Sotto la protezione della Torre Bruciata, la gente di Amarantopoli poteva godere ogni giorno dell’abbraccio degli aceri che accerchiava il nord di Johto, e ogni meraviglioso dettaglio che caratterizzava ogni tegola rossa di ogni casa, ogni lampione di ferro battuto, ogni marciapiede decorato.
Raggiunse Green, aumentando il passo. “Dove abita?” disse.
“Angelo ha detto poco oltre il centro della città. Quindi immagino che sia tra la Palestra e il vecchio manicomio abbandonato. Dovrebbe esserci un grande complesso residenziale, con le case dai tetti blu”.
Silver si limitò ad annuire e continuò a camminare, ripiombando nel silenzio più che assoluto. Green aveva imparato a conoscere la sua poca propensione alla conversazione leggera ma non lo biasimava, considerato i racconti di Blue sulla loro infanzia.
Virarono verso la Rainbow Avenue e proseguirono in direzione nord, fino a entrare nel grande centro residenziale. Questo era composto da diverse villetta a schiera, ognuna con ampia porzione di giardino e un grosso steccato bianco a delimitare i confini.
“Dovrebbe essere qui...” disse Silver, entrando nel vialetto che portava davanti l’uscio di Xavier Solomon.
Green si soffermò per un attimo a guardare nella cassetta della posta, piena di comunicazioni in carta bollata e volantini pubblicitari.
“Non ho buone impressioni” fece poi. “Ma provar non nuoce”.
Le nocche di Silver batterono sul legno della porta ma dopo una ventina di secondi, in cui soltanto il sibilo del vento disturbava quel fastidioso silenzio, i due furono costretti a guardarsi in faccia, per valutare altre soluzioni.
“Non sembra essere in casa...” osservò Green, che poi posò la sfera di Charizard e afferrò quella di Porygon.
“Che cosa vuoi fare?” domandò l’altro, accigliato.
“Nel citofono, forza” ordinò il primo al proprio Pokémon, immettendosi nella linea elettrica e finendo all’interno dell’impianto domotico. “Apri, appena puoi...” concluse.
“Questa si chiama effrazione...”.
Green lo fissò un secondo di troppo, sbuffando. “Hai appena detto quello che hai detto? Sai, vero, quanto è importante recuperare il cristallo?”.
“Non mica detto che fosse un problema...”.

La porta s’aprì, subito dopo.

I cardini cigolarono sinistri, presentando agli invasori un salotto buio e polveroso ma molto ben arredato. Le finestre erano serrate e le persiani non permettevano alla luce di entrare all’interno. Green camminò lentamente, fissando i piatti sporchi sul tavolino davanti alla televisione accesa, ma senza volume, e un paio di scarpe sporche di fango sul tappeto.
Silver fece segno di fare silenzio, si chiuse la porta d’ingresso e si mosse piano verso il centro della stanza, per poi muoversi verso le scale che portavano al piano superiore. Fece cenno a Green di salire, come fosse il comandante di un’operazione militare; si schiacciò contro il muro e percorse i gradini con movimenti diretti e fluidi.
L’altro lo seguiva a ruota, guardando nuovamente la faccia dell’uomo nella fotografia che stringeva ancora tra le mani.
Arrivati su si ritrovarono davanti a un corridoio buio, dove s’affacciavano diverse porte chiuse. Silver controllò quelle di destra, Green quelle di sinistra. Non trovarono nulla.
Soltanto nel bagno, ultima porta sulla sinistra, trovarono qualcosa d’alquanto agghiacciante: impronte di mani trascinate giù, lungo lo specchio. Per terra c’erano una camicia azzurra, un paio di calzini e un asciugamani bianco.
“Non c’è nulla qui” fece il rosso.
“Manca solo la cantina, Silver”.
E quindi scesero, sempre con molta attenzione, strusciando le mani sull’intonaco delle pareti, trovandosi nuovamente nel salone. Scesero al piano di sotto.
Ancora nessun rumore.
Poggiarono passi leggeri sui gradini di legno, con le orecchie tese e i cuori che battevano, quando poi un colpo di tosse li fece sobbalzare.
Spalancarono gli occhi. Misero mano alle Pokéball.
Scesero ancora più lentamente, fino a quando non ebbero chiara davanti agli occhi la figura d’un uomo di spalle, dai capelli biondi e le braccia incrociate, in piedi. Poggiava il peso sulla gamba destra e guardava una lavagna con concentrazione.
Green prese parole e fece un passo avanti.
“Ora stai fermo dove sei e non voltarti. Metti le mani in alto, lentamente”.
L’uomo s’irrigidì ma, al contrario di come ordinatogli, si voltò repentino e impaurito, non riuscendo a nascondere il terrore sul volto nel vedere due sconosciuti in casa sua.
“Chi diamine siete voi?! Non possiedo gioielli né contanti, è tutto in banca!”.
“Non siamo rapinatori. E poi, la domanda da fare non è chi diamine saremmo noi, ma il contrario” ribatté Green Oak. Guardò Silver, che annuì.
“Dov’è il cristallo?” chiese.
Gli occhi blu di Xavier Solomon erano spalancati, le labbra tremavano. Le sopracciglia s’arcuarono immediatamente, alla domanda di quello.
“Non ho gioielli, l’ho detto!”.
“Non mi servono i gioielli! Rivoglio il cristallo che mi hai rubato stanotte!” urlò Green, avvicinandosi nervoso a quello e prendendolo per il collo. Lo sbatté contro la lavagna e mostrò i canini.
“I-io...” balbettò quello, afferrando invano il polso dell’uomo.
“Tu stanotte eri a Biancavilla!” ribatté quello.
“N-non è vero... Stanotte ero qui...”.
“Io ti ho visto!” replicò Green, infervorato. E fu tanta la rabbia che lo mosse che lo colpì con un pugno.
“Fermati!” esclamò Silver.
“Io ti ho visto!” ripeteva l’altro. “Ho una tua fotografia, qui! E questo sei tu! Non mentire! Le telecamere di videosorveglianza ti hanno registrato!”.
Xavier era caduto per terra dopo il diretto al mento. Aveva il labbro spaccato, sputò sangue. Poi si alzò e sbuffò. “Che bello, mi pestano... come a scuola. Ho anche io delle telecamere, Ivan Drago, ti faccio vedere dov’ero stanotte...”.
 

Adamanta, Timea.

Timea quella domenica era particolarmente spenta.
La statua di Timoteo imperava silenziosa su di una piazza quasi vuota, dove poche persone passeggiavano annoiate. Del resto il vento freddo che proveniva da nord congelava fin dentro le ossa. La neve era scesa per ore, quella notte, e aveva ricoperto tutta la piazza di candido gelo.
Linda l’attraversava di buon passo, stretta nel suo cappotto nero. I suoi occhi verdi riflettevano il biancore circostante. Rapida, s’immise in una via secondaria, dove l’intero marciapiede destro era occupato da automobili dal tettuccio coperto di neve. Rallentò davanti a una vetrina, gettò un occhio, sarebbe passato a raccoglierlo più tardi.
In quel momento aveva parecchio da fare.
Bruciava ancora, la cicatrice. E più ripensava al Monte Trave più quel dolore diventava impossibile da sopportare: ricordava con perfezione il momento in cui Ryan Livingstone li aveva traditi, quando la tramortì.
Si era svegliata per terra, sulla Vetta Lancia, a Sinnoh. In qualche modo riuscì a tornare indietro ad Adamanta e a cominciare una nuova vita. Tuttavia nutriva ancora l’indiscussa attrazione per l’uomo che l’aveva trasformata in una cospiratrice divina.
Uccidere Arceus, sostituirsi a un dio. Lionell stava per riuscirci.
Sospirò, stringendo i pugni nei guanti.
Aveva raccolto le ceneri dell’Omega Group, trasformandola in qualcos’altro; la Omecorp progettava e vendeva sistemi di videosorveglianza. I clienti maggiori erano parchi residenziali e piccoli locali aperti tutta la notte.
E gli affari non andavano benone.
Aveva cercato di reinventarsi, immergendosi in un lavoro non suo e nonostante tutto nutriva ancora una flebile speranza di poter vivere una vita normale, possedendo lo stesso il ricordo del più grande fallimento della sua vita.
Forse era Arceus che la puniva per aver provato a detronizzarlo.
Forse era solo demoralizzata. La sua vita era senza mordente.
Cancellò momentaneamente quel pensiero ed entrò negli uffici, salutando con un cenno del capo Melissa, la sua segretaria personale; non proprio la donna più intelligente del mondo, passava la gran parte del tempo a parlare al cellulare con la sua fidanzata Pauline, e a mettere lo smalto alle unghie.
A Linda bastava che prendesse le telefonate.
“Buongiorno, signora Greensmith. Ha ricevuto sei telefonate durante la sua assenza”.
“Messaggi?” domandò Linda, con la voce stanca. Levò il cappotto e lo posò nell’armadio. Si specchiò per un momento, rapita dal suo stesso sguardo, che lambiva la sua figura riflessa.
Vedeva una donna dai lunghi capelli castani e dal sorriso spento.
“No. Oh, forse sì...” disse Melissa, cercando sulla sua scrivania. Trovò un foglio, sollevata. “Sì, sì. Malva, da Kalos...”.
“Non era una dei Superquattro?” domandò Linda, più a se stessa che alla sua segretaria. “Se non erro ebbe problemi con la giustizia...”.
La donna fece spallucce, poi rispose al telefono.
La proprietaria la lasciò andare ed entrò nel suo ufficio. Si sedette dietro la scrivania e raccolse attorno a se tutto il materiale cartaceo di cui aveva bisogno per richiedere un’offerta a uno dei suoi fornitori.
Sbuffò. Odiava il suo lavoro.
Fece le sue telefonate, guardando di tanto in tanto la serratura dell’ultimo cassetta della scrivania, dove custodiva tutti gli originali degli studi fatti da Lionell.
Tutti gli appunti sul Cristallo della Luce.
Lo nascondeva male, sia a se stessa che agli altri, ma era follemente innamorata di quell’uomo; erano passati tre anni da quando era scomparso.
Le aveva lasciato in mano sabbia, vento e un pugno di mosche appassite al sole ma non aveva mai finito di amarlo.
Sbuffò, accese il computer e dimenticò totalmente della notizia su Malva.
Non voleva parlare con lei, non la conosceva.
In breve la dimenticò pure.

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