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TSR - 13 - Cuore Puro

13. Cuore Puro



Kanto, Aranciopoli, Ospedale Civile

L’angoscia divorava ogni cosa.
Green era in piedi con le mani nelle tasche, davanti alla finestra, guardava oltre il vetro, dove la tempesta aveva cessato la sua furia. Silver era poggiato con la schiena al muro, le braccia incrociate e indossava l’espressione peggiore che avesse. Guardava Sandra, seduta su di una fredda panca d’acciaio, con la testa fra le mani e gli occhi chiusi. Il bip dell’elettrocardiogramma scandiva pause che la stanchezza mostrava infinite; ogni vuoto diventava un profondo fossato da cui riuscivano a vedere la luce un secondo sì e uno no, a intermittenza.
Gold era vivo però, e tanto bastava.
Bastava soprattutto a lei, che l’aveva visto quasi morire, stringendolo a sé. Nonostante non lo avesse mai stimato, nonostante fosse l’ultima persona che avrebbe voluto come partner, quel giorno, non poteva negare a se stessa che il cuore del ragazzo fosse limpido. Cuore puro, anima buona; se non fosse stato per Gold, che aveva sovrastata e protetta dal crollo, forse Sandra sarebbe morta. Se ne rese conto, spostò un ciuffo ceruleo dal volto e slacciò il mantello dalle spalle. Nonostante quella stanza d’ospedale fosse riscaldata, tutto quel bianco le dava un senso di freddo non indifferente. Inoltre la compagnia non brillava per simpatia ed estroversione.
Un po’ come lei, immobile. Alzò lo sguardo e vide il sole sbucare dalle nuvole, poi poggiò gli occhi sugli altri due: Silver guardava in maniera spasmodica il volto del ragazzo, in attesa che riaprisse gli occhi, mentre Green aveva appena preso a camminare nervosamente davanti al letto, sospirando in maniera profonda e cercando di assimilare tutti gli eventi che erano capitati.
“Ripetimi quello che è successo” tuonò.
Quella si era voltata, annuendo, rassegnatasi al fatto che avrebbe dovuto raccontare quella storia per molte, molte altre volte.
“Allora… Eravamo all’interno del palazzo, siamo scesi dagli uffici e abbiamo trovato dei nemici in mimetica grigia...”.
“Come quelli che erano all’esterno dell’edificio, va bene”.
“E poi siamo riusciti ad arginare un grosso agguato proprio davanti agli ingressi... Gold è stato molto intelligente ad usare Sudo... bo..., o come si chiama, per... insomma, per limitare i loro movimenti”. Sospirò, poi sbuffò, aveva sonno e fame. Continuò. “Li abbiamo cacciati e siamo entrati nel caveau. Lui è arrivato dopo di me, per fare una telefonata e...”.
“Chi ha chiamato?” domandò Green, fissando la Capopalestra d’Ebanopoli dritto negli occhi.
“Non lo so. Forse Marina”.
“Marina, dici?”.
“No. Dico che forse ha parlato con Marina…”.
Green annuì. “Procedi”.
“C’era questa donna…” diceva lei “... del tutto identica a me. I miei occhi, lo stesso colore dei miei capelli, la stessa faccia, lo stesso corpo. Era soltanto più magra, più sciupata. Però ero io, te lo assicuro. Aveva anche lei un Kingdra”.
“Eri tu?” domandò Green, aggrottando lo sguardo.
“Quella ero io, sicuramente” annuì lei.
“E poi?”.
Sandra si voltò e guardò il viso di Gold, rilassato ed impassibile. “E poi l’abbiamo provocata a parole. Lei era lì per rubare denaro e oro ma sembrava essere stata totalmente coinvolta da ciò che dicevamo, tanto da essersi infuriata. Con quello strano Charizard ha distrutto tutto”.
“Questa è la parte che non capisco” ribatté Silver. “Cosa intendi per strano Charizard?”.
“Già” annuì Green. “E per esplodere”.
Sandra fece spallucce, poggiandosi sul davanzale della finestra. “Era nero. Non uno di quelli cromatici, quelli li conosco. Era totalmente nero, anche la fiamma sulla sua coda. Solo gli occhi erano rossi e accesi...”.
“L’energia è fuoriuscita da Charizard?” chiese Green, grattandosi il mento.
“Sì! Tutto a un tratto un calore enorme ci ha investiti e non siamo stati più in grado di vedere niente. Poi ogni cosa è crollata. Gold si è buttato su di me, cercando di salvarmi, ma nel farlo…” sbuffò ancora. Sentiva le lacrime premere per uscire. “… è rimasto ferito da una delle lamiere…”.
“Il medico…” interruppe Silver, continuando a fissare l’elettrocardiogramma “... ha detto che è stata interessata buona parte della colonna vertebrale durante il crollo. Gold potrebbe esser rimasto paralizzato”.
“Dobbiamo aspettare che si svegli, per esserne certi, Silver. Ciò che è sicuro è che senza di lui saresti potuta morire” concluse l’altro, guardando Sandra, che annuì, stretta nel suo abbraccio.
“Lo so benissimo… mi ha salvata. La cosa che però non capisco è come possa essere stato possibile che, dopo quella folle esplosione, quella donna sia riuscita lo stesso nel rubare ogni cosa”.
Silver fece spallucce e Green sospirò. “Questa cosa mi sembra un’impresa. Una cosa davvero difficile da mettere in pratica” disse l’ultimo.
“Un po’ come è successo a Libecciopoli” ribatté il rosso.
Sandra li guardò, prima che la porta si spalancasse.

“GOLD! CAZZO, GOLD!”.

Marina entrò velocemente nella stanza, con le lacrime agli occhi e il trucco sciolto sul viso. Aveva ancora capelli e vestiti bagnati. Gettò l’attrezzatura sul pavimento e si fiondò sul suo uomo, afferrandogli le mani, attenta a non staccare alcun sensore. Cominciò a piangere quasi subito, affondando il viso nelle lenzuola e cominciando a urlare disperata.
Green le si avvicinò, stringendola la spalla.
“Calmati… non urlare” fece.
“Che è successo?!” sbraitò. Gli occhi della Ranger si poggiarono sull’elettrocardiogramma e sullo snervante procedere della sua linea. Il cuore di Gold batteva lentamente.
Sandra guardava il volto distrutto della donna e sospirò, sentendosi colpevole.
“Mi spiace”.
Marina parve non sentirla. Forse avrebbe dovuto ripetere anche a lei come fossero andate le cose ma non voleva ferirla ulteriormente quindi preferì rimanere nell’angolo, a guardare quel dolore così liquido fluire verso l’esterno, bagnarle di lacrime il volto e stringere come una morsa gli stomaci dei presenti.
“Che cazzo hai fatto?!” urlava al proprio uomo,  inginocchiata accanto al letto mentre gli stringeva la mano.
“Marina...” disse Green, abbassando la testa. “Gold non è morto ma... ma nulla, lasciamo perdere. Ora sta riposando”. Omise la parte in cui Gold sarebbe potuto rimanere fermo su di una sedia a rotelle, cercando di non caricare la donna d’ulteriori ansie. Quella annuì, si sollevò leggermente e strinse con vigore la mano fredda del suo uomo.
“Non mo-morirà, v-vero?” chiese, con un filo di voce. Pulì poi le lacrime dal viso con l’avambraccio.
“No… ce la farà sicuramente” rispose il capo dell’Osservatorio, stanco. Guardò poi fuori, oltre la finestra, annuendo. “Alla fine ce l’avete fatta...”.
Lei fece cenno di sì, tenendo sempre sott’occhio il viso di Gold e continuando a stringergli la mano. “Era Lugia...” fece, spostando i capelli dal volto. Tossì ed annuì, come per darsi la forza di continuare.
“La sua furia può creare tempeste lunghe quaranta giorni” osservò Silver.
“Già. Difatti era infuriato. Questo perché aveva una sorta di sonda tra le ali che lo feriva”.
Green inarcò le sopracciglia e sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?!”.
“Una sonda tra le ali. Che lo feriva”.
“E voi avete...”.
“Gliel’ho estratta io, personalmente”.
“Ed ora dov’è, quest’aggeggio?”.
“Ce l’ha Martino…” sospirò, trattenendo le lacrime. Poi deglutì e continuò. “È nella sala d’aspetto con l’unica tra le Kimono Girl rimaste ancora in vita”.
Silver annuì e guardò Green immobile, confuso.
“Non... non capisco”.
Quella si alzò da terra, continuando a stringere la mano di Gold. “Sì. Un uomo utilizzava questa sonda per rilasciare scariche di... non lo so, forse elettricità...” faceva.
“Un uomo?!” sobbalzarono i due uomini, all’unisono.
“Sì... Gold mi ha suggerito di scattargli una fotografia”.
“Hai una sua foto?!” esclamò Green, avvicinandosi subito a lei. La vide annuire, per poi allontanarsi a prendere il Pokégear e mostrare al ragazzo l’immagine. Silver accorse accanto a lui rapidamente, prima di spalancare gli occhi.
“Non ci posso credere...” sussurrò: occhi rossi e capelli biondi, l’uomo era intento a parlare e non s’era reso conto del fatto che Marina gli avesse scattato una fotografia.
Green non riusciva a capacitarsi del fatto che quello fosse identico in toto a Xavier Solomon. Guardò Silver, che si limitò ad annuire e quindi si voltò, uscendo di fretta dalla stanza. Rimasero in tre, con l’uomo dai capelli rossi ancora scosso e Sandra che non afferrava bene la situazione.
Sbuffò, lui. Guardò Gold e poi tornò a focalizzarsi su Marina.
“Ora devo andare, ma tornerò presto… Stagli accanto. Chiamerò Crystal per permetterti di andare a fare una doccia e cambiarti”.
Fece rapidamente cenno di no, quella. “Non è necessario… Non mi muoverò di qui”.
Silver si limitò ad annuire, e ad andare via. Era sola con Sandra, che intanto guardava il viso di Gold, immobile. Il silenzio stava divorando anche l’ultimo briciolo di tranquillità, aggredito a intermittenza per via del macchinario, lamentoso e irregolare. Le mani di Marina tremavano come foglie secche, mentre si riavvicinavano a quelle del suo ragazzo.
“Siediti” le disse, avvicinandole la sedia che aveva accanto. Quella annuì, e subito dopo eseguì. Sandra le poggiò il pesante mantello sulle spalle, avvolgendola per bene.
“Sei tutta bagnata” osservò. “Spero che possa riscaldarti un po’...”.
La Ranger la guardò negli occhi ed annuì.
“Ti ringrazio”.
“Non serve che mi ringrazi...” disse. Poi guardò Gold, sospirando. “Gli devo la vita. Gliela dovrò per sempre…”.
Marina conosceva alla perfezione la lista di persone a cui Gold non stava simpatico, e Sandra ne era probabilmente in cima, tuttavia rimase profondamente colpita dalle sue parole: spostò la sua attenzione sulla donna e schiuse le labbra, lentamente.
“In che senso?”.
Sandra sospirò, per un lunghissimo secondo, sperando che quell’aria viziata le infondesse un po’ di coraggio.
“Lui mi ha salvato la vita... Ha fatto quel che ha fatto e ora è qui perché è stato infilzato da una lamiera al mio posto”.
Marina spalancò gli occhi, aggrottando la fronte. Le labbra si schiusero automaticamente. “Ti ha... ti ha salvato la vita?”.
“Sì...” annuì la Capopalestra di Ebanopoli. “Eravamo in banca per sventare una rapina”.
L’altra ricordò i messaggi. Cominciò a collegare.
“Il fatto è che erano davvero in troppi… Stavamo per morire, il nemico era molto più forte di noi e…” sorrise poi, Sandra, voltandosi a guardarlo. “Beh, lui ha aiutato a mettere in sicurezza decine e decine di persone, e ha usato l’intelligenza per sconfiggere altrettanti avversari…
“Sembra un cretino, ma in realtà è sveglio…”.
La vide poi sorridere. “Il cuore del tuo uomo è limpido e questa cosa mi ha permesso di rivalutarlo. Spero vivamente che si rimetta, perché gli devo molto”.
Marina rimase immobile, senza sapere bene cosa dire e pensare, quindi si voltò a guardare il ragazzo.
Si voltò a guardare l’eroe.


Johto, Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon

Il sole era ritornato a splendere debole sull’umida Amarantopoli quando Xavier aveva deciso di smettere di lavorare. Aveva bisogno di una doccia rigenerante, motivo per cui aprì l’acqua nella doccia ed entrò nella sua camera; lì prese un boxer e una maglietta intima, almeno prima di sospirare e guardarsi allo specchio. Fissò il suo volto, che ormai cominciava a sentire il peso del tempo; notava quelle piccole rughette d’espressione sulle guance quando sorrideva.
Lo fece anche in quel momento, toccando quei solchi d’esperienza sul volto. Poi tese solo la guancia sinistra, notando anche piccole pieghe accanto all’occhio.
Non voleva invecchiare. Non prima di aver fatto quello che doveva. Sospirò e guardò a sinistra, come attirato dall’angolo in basso dell’armadio.
Era aperto, leggermente. Sospirò e scosse dalla testa la malsana idea che qualcosa fosse potuto entrarci mentre non vedeva e levò il maglione beige, rimanendo poi a torso nudo. Magro, lui, con una leggera peluria tra i pettorali, bionda, come i suoi capelli. Grattò il mento, pensando che avrebbe dovuto radersi e che Cindy lo avesse visto disordinato in viso. Gli occhi celesti si persero nel ricordo delle labbra morbide della donna, rosse come il rossetto che utilizzava. Ci ripensò, poi chiuse le palpebre, pensando al suo volto. Ricordava quel bacio di quasi dieci anni prima, sentendo ancora i loro corpi ancora che aderivano l’uno contro l’altro.
Controllava la voglia di toccarla, lui, carezzandole il collo ad occhi chiusi e stringendole la vita. Sentiva sotto il naso il profumo dei suoi capelli.
E poi, quando riaprì gli le palpebre, la vide accanto a lui. Era ovviamente lei, la fissava in maniera vuota attraverso l’immagine opaca di quello specchio appartenuto anni prima a suo padre.
“Mi guardi così?” domandò lui, quasi sorridendo. Si voltò, prendendo le ciabatte e poi tornò a guardarla. “Mi fissi con quello sguardo assente? La verità è che dietro quello sguardo non c’è niente…” sussurrò, colpevolizzandola.
Lei continuava a guardarlo. Faceva cenno di no con la testa e gli poggiava una mano sulla spalla destra.
 “Non è così…” aveva risposto, mostrando dispiacere. Xavier sospirò e la vide allontanarsi, fino a quando non rinvenne.
Dormiva, chissà da quanto tempo, mentre lo scroscio dell’acqua nella doccia non si arrestava.
“Dannazione…” sospirò, sollevandosi e mettendosi a sedere. Fissò la porta dell’armadio, perfettamente chiusa, e quindi lo specchio.
Era solo.
Fece cenno di no, poi sospirò e allungò la mano verso il terzo cassetto del comodino, accanto al letto, prendendo un blister di pillole. Staccò un paio di compresse e le infilò in bocca, prima di spegnere le luci ed entrare nel bagno.

La doccia fu veloce e calda, rilassante e rigenerante allo stesso tempo. Pensava a dei possibili sviluppi dell’utilizzo delle energie rinnovabili in ambiti insoliti quando qualcuno suonò alla sua porta.
Infilò l’accappatoio e le ciabatte per poi scendere al piano inferiore e quando aprì la porta vi trovò un uomo dai capelli brizzolati che indossava un impermeabile beige ad attendere; manteneva tra le mani una Glock e un paio di manette.
“Xavier Solomon, la dichiaro in arresto con l’accusa di terrorismo ambientale e omicidio doloso plurimo. Ha il diritto di rimanere in silenzio e tutto il resto, avrà visto almeno un film dove i poliziotti arrestano in cattivi, no?”.

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