12. Royalties
Johto,
Olivinopoli, Porto Civile
Nonostante
la pioggia la M/N FORTUNA aveva attraversato il mare ed era giunta a
destinazione da Oblivia, dov’era partita sedici ore prima. A Martino era
spettata una cabina molto accogliente, con luci calde, copriletto a pois
azzurri e un oblò dalla cornice d’ottone. Durante il lungo viaggio aveva letto
parte di un buon libro di Dennis Lehane ambientato a Boston, guardando il mare
rabbioso in tempesta. Non soffriva il mal di mare ma in quei tre giorni aveva
sentito lo stomaco rivoltarsi più di una volta. Non appena vide da lontano i
promontori di Fiorlisopoli, il capitano Murtaugh aveva avvertito tramite
interfono che avrebbe deviato proprio lungo le coste della città per questioni
di sicurezza legate alle Isole Vorticose. Martino sospirò e cominciò a
prepararsi psicologicamente. Due ore dopo raccolse valigia e coraggio e uscì
dalla cabina.
C’era
parecchio vento; scompigliava la pettinatura castana del Ranger e spingeva il
cappotto sul suo corpo asciutto. Mise piede sulla passerella d’attracco e sentì
le prime gocce di pioggia cadergli sul volto. Dato che non aveva l’ombrello si
limitò ad infossare la testa tra le spalle e ad alzare il colletto del
soprabito, con scarsi risultati.
Quando scese
dalla nave gli altri passeggeri si dileguarono molto velocemente.
Marina gli
aveva detto che sarebbe andata a prenderlo accompagnata da Gold, quindi cercava
sua sorella e qualcuno vestito con colori sgargianti.
Non vedeva
nessuno.
Corse lungo
la banchina, cercando riparo sotto la pensilina del bus, proprio accanto
all’edicola. Rimase a guardare la pioggia abbattersi sulla strada antica del
porto, quando prese a pensare al fatto che Marina non fosse mai in ritardo; era
una tipa precisa e puntuale e non vederla lì lo straniva, data la gravità della
situazione. Si aspettava di dover intervenire tempestivamente.
Forse è successo qualcosa s’arrischiò a pensare, conoscendo
la pignoleria di sua sorella. Non era sua abitudine tardare, e nel caso avrebbe
avvertito; generalmente si anticipava sempre di qualche minuto, lo ricordava
con precisione, si preparava ore prima per non arrivare mai in ritardo da
nessuna parte. Poi, tra un pensiero e l’altro, spuntò Gold.
Già… è sicuramente colpa sua. Sbuffò; la immaginava a trascinare
suo cognato giù dal letto, in quel momento. Letto che condividevano. E rabbrividì.
Mia sorella dorme accanto a quel
troglodita, pensò,
scuotendo poi quell’immagine dalla testa.
E dopo un
rombo di tuonò, si sentì chiamare.
“Martino!”
sentì. Alzò la testa, vedendo un ombrello dorato avvicinarsi a grande velocità
nella foschia della tempesta.
“Martino!”
ripeté la voce. “Dove sei?!”.
“Sono qui!
Marina!” rispose il Ranger, vedendo la sorella apparire nell’atmosfera fumosa
del porto di Olivinopoli. Fece un passo verso di lei e la strinse in un
abbraccio fraterno, carico di sentimento.
“Mari...
come stai?” fece l’uomo, grattandosi il volto ormai bagnato dalla pioggia.
Quella fece
un cenno con la testa e poi abbassò lo sguardo. “Tutto bene. Andiamo a
ripararci nel Centro Pokémon e prepariamoci. Dobbiamo intervenire
immediatamente”.
“E Gold
dov’è?”.
“Mi ha
prestato l’ombrello, è a casa a dormire, non l’ho voluto svegliare”.
Hoenn,
Iridopoli, Sede della Lega Pokémon, Ufficio del Campione
Il Campione
sedeva dietro la sua scrivania, col volto marmoreo e la luce della lampada, elegante,
in ferro battuto, ad illuminarlo. Tutto era perfettamente ordinato, dalle penne
ai bigliettini da visita, dal planning cartaceo alla sua sinistra alla foto di
Fiammetta, che invece era sulla destra.
Blue e Red
gli erano seduti di fronte, Fiammetta era alla sua sinistra e gli carezzava la
spalla. Guardava Yellow stringere nervosamente lo schienale della sedia di Red.
“Possiamo
rivederla?” domandò la Capopalestra di Cuordilava.
Rocco si
limitò ad annuire, toccando il tasto play e facendo ripartire il video
dell’omicidio della receptionist di Libecciopoli commesso da quella Fiammetta
folle. Lo riguardava con foga, cercando di cogliere ogni minimo cambiamento
disponibile, senza però riuscire a notare qualcosa di strano. Forse era troppo
distratto dalla protagonista di quel filmato.
Per un
attimo s’interrogò.
“E se avessi diviso il letto per
anni con un’omicida?”.
Allontanò
immediatamente il pensiero e sbuffò, fissando il volto granitico di Green, alla
destra. Sbuffò, il Campione, stranito. “Qui qualcosa non torna…”.
Bloccò la
riproduzione e alzò gli occhi, in direzione della donna dai capelli rossi.
“Questa sei
praticamente tu…”.
La donna
sospirò e abbassò lo sguardo, facendo cenno di no con la testa. “Sai che non
sono io…”.
“Lo so…”.
“La cosa ha
sconvolto anche noi…” s’inserì Blue, pettinandosi col dito il sopracciglio
sinistro. “Ci siamo precipitati qui appena abbiamo appreso il fatto… Ma di te
non possiamo fare altro che fidarci, se dici che fosse con te non abbiamo
motivo di sospettare di lei”.
Yellow
pareva d’accordo. Le donò un piccolo sorriso carico d’empatia, prima che l’uomo
dagli occhi di pietra riprendesse parola.
“I miei
dubbi non riguardano la sua innocenza… Anzi. Mi sono innamorato di lei per la
sua bontà” fece, giochicchiando con l’anello che portava all’indice. “Riusciamo
a spiegare questa cosa in maniera razionale?”.
Tutti si
guardarono. Red storse il muso, leggendo nel pensiero di Green, che si
allontanò di qualche passo.
“No”.
Tutti lo
guardavano. Si avvicinò al centro della stanza, sul grande tappeto rosso, e
incrociò le braccia. “Non c’è razionalità in questa cosa. O è stata Fiammetta o
è stata qualcuno che le assomiglia davvero tanto, con gli stessi capelli rossi
e…”.
“Lei li
porta legati” intervenne il Campione.
“Avanti!
Stesse labbra, stessi occhi, stesso corpo! Quella è palesemente Fiammetta!”.
“ Calmati,
Green” s’inserì Blue. “Ha detto che non è stata lei, Rocco era con lei e questo
le conferisce un alibi”.
“C’erano
anche la tata e la sorella” annuiva Yellow. Il suo volto era teso, ma quello
della donna dai capelli rossi era cereo. Percepiva il suo cuore battere e la
paura scorrere nelle sue vene assieme al sangue bollente.
Esplose.
“Perché
diamine pensi che sia stata io?!”
Blue
intervenne. “No, Fiammetta… non ce l’ha con te. Non pensa che sia stata tu… ma
questa nella foto sei praticamente tu ed è…”.
“Un
momento…” li fermò Red. “È proprio come con Xavier Solomon… Lui parlava di Multiverso”.
Green
indossò un’espressione incredula sul volto. “Sei serio? Multiverso?”.
Poi fu
silenzio, per quasi dieci secondi. Red abbassò lo sguardo e sospirò.
“Sì. O
questo oppure c’è una fiera dei nostri sosia e sono tutti dei criminali. Non
credo che sia un caso”.
Green andò
verso la finestra e guardò fuori, perdendosi oltre lo scroscio della cascata
d’Iridopoli. “Non penso che sia la giusta risposta alle nostre domande. Non
potrebbe essere una maschera?”.
Fu lì che
Rocco aprì il cassetto sinistro della scrivania, estraendone una grande lente
d’ingrandimento. S’abbassò sulla foto e la puntò sul collo dell’omicida.
“No, Green,
nessuna maschera. Tralasciando che questo è il corpo di Fiammetta, ha i suoi
stessi e identici nei sul collo. E, per quanto la preparazione di questo
ipotetico travestimento sarebbe potuta essere minuziosa non credo che abbiano
studiato anche la sua pelle”.
“Potrebbe
essere” ribatté Green.
“No, amore,
è improbabile. Che motivo avrebbero di incolpare Fiammetta, poi? Lei è
un’eroina” gli rispose Blue.
Yellow la
guardò per un piccolo istante, vedendola infragilita dagli sguardi scrutatori a
cui era sottoposta: aveva le braccia incrociate sotto al petto, gli occhi
impauriti dalla situazione ed il volto avvilito. Era sensibilmente scossa dalla
faccenda, quel mattino non si aspettava d’essere arrestata. Ricordava lo
sguardo di sua sorella Jarica e non lo avrebbe più dimenticato, per tutta la
sua vita.
Sentiva il
suo cuore battere, la biondina, e se ne dispiaceva: aveva capito che quella
soffrisse nel vedere le televisioni trasmettere in ogni occasioni le riprese
delle telecamere della Palestra di Libecciopoli. Quindi le si avvicinò,
prendendole entrambe le mani e sorridendole dolcemente.
“Stai calma”.
Tutti si
zittirono e guardarono la ragazza dagli occhi del colore del sole. “Nessuno ti
ha fatto del male e nessuno te ne vuole fare. Io ti capisco, Fiammetta:
Sentirti messa in discussione dal primo momento e veder perdere qualcosa
d’importante. Lo capisco. Lo so. Non vogliamo metterti sott’accusa, no. Cerchiamo
soltanto di capire. Ma tu sei dalla nostra parte e lo sei sempre stata. Non
potremmo mai dubitare di te”.
Quella prese
a lacrimare, annuendo. Rocco distolse lo sguardo, sospirando. “Quello che intende
dire Green…” fece. “… è che le cose non tornano. Tu, come anche qualcun altro,
sei stata inconsapevolmente coinvolta in qualcosa che è più grande di te e che
inevitabilmente ti ha trascinato a picco”.
Blue annuì.
“Sappiamo che non sei una ladra. Né tantomeno un’omicida”.
Quella
lasciò le mani di Yellow e tornò a chiudersi nel suo abbraccio, nella sua zona
di conforto, accanto a Rocco.
“E neppure Xavier
Solomon...” osservò Green, prima di un lungo sospiro.
Gli occhi di
Red si tuffarono nei suoi. “Una persona del tutto identica a lei” indicò poi
con lo sguardo Fiammetta. “Con un comportamento totalmente opposto... Questo...
Multiverso… potrebbe essere la
risposta”.
“Non lo so…”
sbuffò il nipote del Professor Oak. “Ci serve qualcuno abbastanza intelligente
da poterne venire a capo…” fece, pri9ma che il suo cellulare squillasse. Era
Lance.
Johto, Percorso
41, poco fuori le Isole
Pioveva a
dirotto e il mare in burrasca rendeva temibile la traversata. La formazione era
la solita, con Martino davanti e Marina a stringerlo alle spalle, mentre
l’andatura del Lapras che avevano acquisito con lo Styler rimaneva molto più
certa del loro instabile equilibrio.
Marina
sorrideva, poggiando la fronte contro la schiena del fratello.
“Mi mancava
un casino...” sospirò lei.
“Non riesco
a credere che tu non abbia partecipato a nessuna spedizione speciale, nel corso
di questi anni da Caporanger”.
Marina
sbuffò. “Invece ci devi credere. Sai bene che da quando abbiamo lasciato Hoenn
ho appeso lo Styler al chiodo ma questa situazione è troppo anche per i miei
Ranger migliori”.
Martino
rimaneva immobile, con le mani fisse sul carapace di Lapras. Guardava dritto e
cercava di distinguere qualche figura oltre le onde nere ed infuriate.
“A me non
mancava rischiare la vita in questo modo. Oblivia è parecchio più tranquilla”.
Marina
inarcò velocemente le sopracciglia e poi sospirò. “Johto è molto più grande di
Oblivia. Ci sono Allenatori potenti. Pokémon leggendari...”.
“C’è Gold.
Ed è questo l’unico motivo per cui ti ostini a non voler tornare a casa”.
“Ne abbiamo
già parlato ampiamente, fratello caro: qui ho delle responsabilità, degli
affetti e...”.
“E a casa, a
Oblivia, non c’è nessuno che ti aspetta? Credi che io viva bene la distanza da
te?! Tu... non hai idea, vero, di come mi senta quando leggo di una qualsiasi
cosa accaduta nelle zone di Kanto e Johto?”.
La donna
sbuffò. “Devi smetterla di essere così iperprotettivo... Sono un’adulta ormai”.
“Tu sei
un’adulta che non è mai cresciuta! Innamorata di un uomo che non è mai cresciuto,
e state vivendo qualcosa che non è ancora in grado d’esprimersi in maniera
matura!” s’alterò Martino.
La pioggia
non accennava a fermarsi, e Marina sbuffò nuovamente. “Non devi giudicare né le
mie scelte né la mia vita, fratellino…”.
Altro tuono.
Un’onda parecchio alta rischiò di disarcionare entrambi.
Ancora un
tuono. La pioggia aumentava, e annullava qualsiasi altro rumore.
“Stai
bene?!” urlava l’altro.
“Sì!”.
“Quello che
volevo dire è che non voglio che tu soffra!”.
Marina
sospirò. “Lo so!” urlò poi. “Ma tutte le mie decisioni sono sempre state prese
con la consapevolezza che non sempre sarei riuscita a fronteggiarne le
conseguenze!”
“E questo
non è da persone mature!”.
“Anche
quando il destino... Attento!” urlò, quando un grosso Tentacruel affiorò
dall’acqua, agitato dal temporale. Con lo Styler, Martino lo calmò rapidamente,
facendolo immergere nelle profondità di quelle acque, nere come il cielo sulle
loro teste.
“Bravo”
sussurrò Marina nelle sue orecchie.
“Comunque
hai detto solo cazzate, finora…”.
Marina
rimase impietrita. “Guarda che ho sentito!”.
“Meno male!”
urlò l’altro, con l’ennesimo rombo di tuono a farla sussultare. “Tu sei
soltanto un’incosciente! Se non ti avessi soccorsa saresti morta, quindici anni
fa! Per non parlare di Hoenn…”.
“Hoenn
cosa?! Era il nostro dovere, essere lì!”.
“Fare il tuo
dovere non significa doverti far uccidere!” esclamò quello, voltandosi nervoso.
“Lo so!
Infatti non sono morta! E neppure tu!”.
Si
guardarono per un secondo. I loro occhi, dello stesso colore, erano
vicinissimi.
“Fino ad
ora…” sorrise lui, sdrammatizzando. Anche lei ridacchiò divertita.
“Stronzo”.
“Stiamo per
incontrare Lugia?!” domandò poi lui, tornando a guardare avanti. In lontananza
s’intravedeva l’ombra nera delle Isole Vorticose.
“Con alta probabilità!”
urlò Marina. “Hanno segnalato mari mossi in corrispondenza di queste coordinate
e sappiamo benissimo che lì c’è Lugia!”. La sua serietà sparì dietro a un
sorriso elettrizzato. Pulì i grossi occhialoni e sospirò. “Non vedo l’ora di
tornare in azione!”.
Il ragazzo
fece cenno di no. “Gold non ti fa bene... Questo è un suo tipico
comportamento”.
Marina rise.
“Oh, quanto hai torto... Gold è più noioso di quel che pensi...”.
Erano quasi
arrivati in corrispondenza della grande scogliera che isolava l’arcipelago dal
mare aperto.
“E allora
perché stai con lui?!”.
La pausa che
subito accolse Marina fu riempita dallo scroscio della tempesta. Poi rispose.
“Perché mi sento amata…”.
Dette quelle
parole, una terribile tromba d’aria prese ad imperversare alle loro spalle.
Martino
guardò Marina, sospirando. “Lugia vuole la nostra testa”.
Kanto,
Aranciopoli, Banca Centrale
“Non urlare! Per l’amor
dell’Helixfossile, stavo dormendo!”.
“Gold! Ad Aranciopoli sta succedendo
un casino! Devi correre immediatamente, noi siamo tutti qui ad aiutare!” aveva
urlato Crystal.
“È questo il
motivo per cui sono qui” aveva risposto Gold, mentre Sandra lo guardava
irritata.
Neppure
Aranciopoli era stata risparmiata dalla pioggia torrenziale che aveva investito
l’intera nazione. La gente era chiusa in casa, bagnata e impaurita. Gold era
atterrato dall’alto, con Togekiss, e aveva visto centinaia di uomini in vestiti
militari grigi creare un muro umano davanti alla banca centrale di Aranciopoli.
Alcuni di loro combattevano contro Silver, Crystal e alcuni Capipalestra ma
pareva che la loro difesa fosse ben lungi dall’essere piegata. La banca di
Aranciopoli era la più ricca di tutta la regione, con la sua grande quantità di
lingotti d’oro, di denaro e camere blindate piene di ricchezze.
Vedendo i
suoi amici in difficoltà, la scelta più saggia sarebbe stata gettarsi a
capofitto contro quel numero enorme di terroristi, fiancheggiando i suoi amici.
Ma, pensiero laterale alla mano, aveva deciso di atterrare sul tetto ed entrare
attraverso una finestra rotta in uno degli uffici più in alto. Una volta lì
poté ascoltare gli schiamazzi dovuti alle battaglie tra Pokémon, proprio
all’esterno della stanza. Ovunque per terra, erano sparsi i frammenti della
vetrata sfondata.
Sospirò,
stava ragionando. S’era nascosto dietro a una scrivania rovesciata e aveva
allungato l’occhio, fino a vedere una bella donna di spalle. La riconobbe
subito: era Sandra, e aveva appena sconfitto due di quegli uomini in mimetica.
Quando
quella parve più tranquilla, s’era manifestato. Lei quindi gli domandò cosa diamine ci facesse in quel posto, in
quel momento.
“Non
m’interessa, Gold… Non essermi d’intralcio o giuro che oggi volerai da una
finestra” ribatté quella, spostando il mantello dalla spalla e sistemandolo.
“Proprio
come sono entrato. Ma okay, tranquilla, non sarò di peso” ribatté. Poi annuì e
s’avvicinò ad uno degli sgherri, rimasti senza conoscenza dopo la potenza delle
mosse dell’Aerodactyl della Capopalestra, dandogli un calcio nel fianco.
“Stronzo!”
gli urlò.
“Non era
necessario…” sbuffò quella.
“Ma cosa
diamine è successo, qui?” domandò poi girando la visiera del new-era verso la
nuca.
“Immagino
una rapina... L’unico modo per entrare in questo edificio è dall’alto, ho
sfondato quella finestra e mi sono ritrovata quattro di questi manigoldi
contro”.
“Manigoldi...
Parlate così ad Ebanopoli, vero?” domandò il ragazzo, inarcando un
sopracciglio. “La città della muffa” proclamò, epicamente. Ridacchiò subito
dopo.
Sandra
rimase qualche secondo in silenzio, spostando uno di quei ciuffi celesti
davanti allo sguardo dello stesso colore.
“Non vuoi
veramente vedere cosa potrei farti, vero?”.
“Sarei
tentato, credimi... già vedo scene di bondage, con te col frustino e io coi
miei calzini appallottolati in bocca; tuttavia sono un uomo fidanzato, adesso,
e quindi mi spiace per te, ma dovrai trovare qualche altro sottomesso per il
tuo desiderio di folle dominatrice...”.
“Non
migliori la situazione” sospirò lei, con le mani sui fianchi. “Va bene, ora
puoi andare a casa”.
“No, a casa
dovrei riordinare. Meglio rimanere qui”.
Sandra si
alterò. “Stai davvero facendo una discussione del genere, in questo momento?!”.
“Già.
Comunque ho già detto che non ti starò tra i piedi. Vediamo di finire questa
cosa velocemente così posso andare a prendere un altro po’ di pollo fritto”.
Sandra si
voltò e sospirò. “Pollo fritto alle dieci del mattino...”.
“Ma non
siete mai stati da Harold’s?!”.
“Bah. Andiamo...”.
E
proseguirono.
Uscirono dai
corridoi, con gli occhi aperti e le orecchie in tensione. Sandra precedeva
Gold, accanto al suo Aerodactyl, scavalcando i corpi svenuti e feriti degli
ostili. Gold la seguiva, distratto dal movimento del suo mantello. Exbo, il suo
Typhlosion, chiudeva la fila.
“Dobbiamo
raggiungere la parte più bassa dell’edificio. Più scenderemo e più troveremo
scagnozzi, chiaramente... Dobbiamo essere rapidi e tempestivi, quindi io mi
occuperò delle guardie e tu proseguirai. Tutto chiaro?” domandò la
Capopalestra, girando l’angolo con passo svelto.
Un nemico sbucò
fuori da uno degli uffici.
“Aerodactyl,
Eterelama!” urlò quella, puntando
l’indice direttamente contro l’avversario. Quello vide partire una saetta
d’aria che lacerò le pareti dello stretto corridoio fino a raggiungerlo. Si
gettò per terra, con il volto coperto da una maschera antigas, per poi
risollevarsi.
“Devi andare
avanti, Gold!” fece quella, vedendo il ragazzo sfilare alle sue spalle e il
nemico mandare in campo un Machoke.
“Stai
attenta, draghessa!” urlò Gold, dando un calcio al fianco dell’uomo mascherato
mentre gli passava accanto. Poi camminò per altri due secondi, prima di
voltarsi.
“Non posso
lasciarti qui da sola! Exbo!” urlò. “Ruotafuoco!”.
Sandra
spalancò gli occhi e fece un passo indietro, vedendo arrivare il Pokémon di
Gold come un proiettile, che impattava contro la schiena del Pokémon
avversario.
Brutto
colpo, Machoke per terra e sgherro mascherato impaurito.
“Aerodactyl,
colpisci quell’uomo ma non ucciderlo” ordinò la Domadraghi. Quello eseguì,
sbattendogli con violenza un’ala rocciosa sul volto, lasciando che cadesse
esanime sulla destra.
“Andiamo”
disse poi il ragazzo, afferrando per il polso Sandra e tirandola via di lì.
“Non era
necessario” disse quella, liberandosi dalla presa con uno strattone violento e
seguendo il suo passo celere.
“Non è nella
mia natura lasciarti affrontare queste cose da sola”.
Sandra
inarcò un sopracciglio, seria in volto. Era sincera con se stessa quando
pensava che non si sarebbe mai aspettata un atteggiamento del genere da quel
cretino.
Arrivarono
in fondo al corridoio, calpestando morbida moquette verde scuro, prima di
vedere, dietro l’ultimo angolo, un cartello illuminato che segnalava la tromba
delle scale d’emergenza.
Un tuono
rimbombò sordo nell’ambiente, facendo sussultare Exbo, prima che Gold gli desse
una carezza sulla testa per calmarlo.
Stavano per
aprire la porta che dava sulla lunga scalinata, alta almeno otto piani, prima
che una grande quantità di fango colpisse Aerodactyl, alla fine della carovana
dei buoni.
“Ma che
diamine...” si voltò repentina Sandra: un Toxicroak gracidava immobile davanti
a una decina di suoi simili, tutti pronti a sferrare un attacco. Alle loro
spalle vi erano altrettanti sgherri in grigio, con le maschere abbassate sul
volto.
“Gold!” urlò
Sandra, indietreggiando e correndo dietro ad Aerodactyl, che spalancò le ali, a
proteggerli.
“Odio le
rane!” esclamò quello, schizzinoso. Prese una Pokéball tra le mani e la lanciò.
“Sudobo! Proteggici con uno dei tuoi muri
da mimo strano!”.
Sandra si
voltò, guardando Gold sprezzante mentre il suo Pokémon eseguiva la sua mossa.
Si fermarono giusto per un secondo, prima di cominciare di nuovo a correre.
“Sono troppi!”
osservò la donna, trapelata.
“Tuo cugino
li avrebbe affrontati” ridacchiò quello.
“Sei il
solito stronzo! Muoviamoci!” fece, salendo in groppa al suo Aerodactyl e
spalancando la porta d’emergenza che dava alla tromba delle scale. Altre
reclute salivano la gradinata, ormai certe della presenza d’intrusi. Sandra
ebbe giusto un attimo per valutare la situazione, poi afferrò Gold per il
braccio e lo tirò con forza su Aerodactyl.
“Tieniti
forte!” fece, vedendolo richiamare Sudobo nella sfera e cominciare a scendere
in picchiata nel vuoto tra le rampe.
“Porca
put... tana!” urlava Gold, stringendo la vita di Sandra e mantenendo il
cappello con l’altra mano.
“Ci
attaccano!” urlava l’altra, vedendo altri Toxicroak pronti a sparare fango e
veleno. “Exbo!” urlò Gold, chiamando sopra di loro il suo Pokémon, in caduta
libera.
“Lanciafiamme!”.
Quello prese
a girare su se stesso, sputando fuoco e fiamme lungo le rampe di scale e i pianerottoli,
colpendo tutti i nemici. Atterrarono agilmente per terra, seguiti dalle fiamme
e da Typhlosion, che rientrò nella sfera prima di schiantarsi al suolo. Sandra
rimase strabiliata e guardò Gold scendere con un balzo felino dal suo Pokémon.
“Ammetti che
sono bravo, boccuccia a cuore…” sussurrò quello, spalancando la porta
d’emergenza, che dava al pian terreno.
Vi era un
numero impressionante di reclute, ma anche di civili e persone che lavoravano
in banca. Quelli senza maschera erano tutti stesi per terra, con le lacrime
agli occhi e i cuori pieni di paura.
“Quella è Sandra” aveva sussurrato qualcuno. Lei tirò fuori due
Pokéball e, pochi secondi dopo, chi ce l’ebbe di fronte poté vederla con un
Charizard sulla destra, un Dragonair sulla sinistra e il fido Aerodactyl
proprio alle spalle.
Johto,
Percorso 41, poco fuori le Isole Vorticose
La tempesta
continuava ad imperversare e le onde si erigevano a grossi grattacieli in mezzo
al mare in burrasca. Le Isole Vorticose erano a poche centinaia di metri ma
un’enorme tromba d’acqua si era posta tra Martino e Marina e lo stretto
passaggio che si snodava tra gli scogli, che fungeva da ingresso verso il
piccolo complesso insulare.
Per i Ranger
era assodato che il responsabile della grande burrasca che stava colpendo
quella zona di mare fosse l’unico e vetusto abitante delle Isole Vorticose:
Lugia. O almeno, l’unico che conoscevano. Lapras s’inerpicava sulle cime di
quelle grandi onde, che mutavano, salendo e scendendo.
“Stai
attenta!” urlava Martino, stringendo il carapace del Pokémon con le mani
guantate e sentendo sua sorella avvinghiata al torace. “Non sbilanciarti e
non...”.
“Lo so! Tu,
piuttosto, non muovere la testa! Mi piove in faccia!”.
Martino
sorrise.
L’acqua
cadeva dal cielo, inesorabile e congelata, incontrando a pochi metri dai Ranger
la grande tromba marina: mare e cielo erano uniti dalla spaventosa potenza
della natura, attirando a mani aperte qualsiasi cosa fosse nei paraggi e
respingendola poi col piglio ottuso di chi non vuol sentire ragioni. L’oceano
mutava davanti a quella dimostrazione di forza, si piegava, e come conseguenza
di ciò s’innalzava più indietro, abbassandosi subito e rialzandosi,
rimestandosi, piegandosi su se stesso e creando spuma bianca e fumosa.
E quando una
grande onda s’alzò accanto a loro, l’unica cosa che poterono fare fu stringere
i denti.
“Attenta!”
ribadì Martino poco prima dell’impatto, spostando i capelli dagli occhialoni
col dorso della mano e finendo per cadere. Il mare li accolse, caldo ma buio,
come il cielo di quel mattino.
Per un
attimo, un piccolo frammento di secondo, tutto pareva fermo: l’acqua avvolgeva
i muscoli, e gli occhialoni proteggevano lo sguardo da quell’ammasso nero ed
estraneo.
Martino
sentiva il cuore spingere nel petto, il battito gli pulsava nelle tempie e le
dita paralizzate carezzavano l’acqua in maniera lasciva. Aprì gli occhi, il respiro
abbandonò il suo corpo tramite un paio di bolle che fremevano per salire in
superficie, dove la pioggia attaccava il mare con proiettili di ghiaccio.
E da essi veniva
ferito.
Il Ranger si
guardò intorno, cercando di mantenere la calma; vide sua sorella, tre metri più
in basso, risalire prontamente verso la superficie, dove le zampe ed il
carapace di Lapras erano più che visibili. Lei aveva gli occhi spalancati
mentre ascoltava una voce dalla profondità dei mari chiamarla.
AIUTAMI, TI PREGO, NON POSSO RESISTERE ANCORA MOLTO.
Rimbombava
nella sua testa, e pareva che Martino non la sentisse.
Forse è solo un’allucinazione, pensò lei.
Risalirono
entrambi, vedendo che la corrente al di sotto della tromba marina fosse forte
ed attrattiva. Ripresero respiro e pulirono gli occhialoni. Paradossalmente si
sentivano più sicuri all’'interno del mare che su Lapras.
“Dobbiamo
entrare” disse Marina, risalendo con fatica sul Pokémon. Un tuono rimbombò
potente, un fulmine era caduto a qualche
centinaia di metri da loro.
“Non è
sicuro stare qui!” fece lui.
“Mi pare
ovvio!” urlò sua sorella, sarcastica.
“I fulmini!
E la tromba marina!”.
“Dobbiamo
passare!” ragionò quella.
Guardarono
ancora il cono, totalmente stazionario, mentre attirava l’acqua dal basso e la tirava
su, verso le nuvole, spettatrici dall’alto.
“L’acqua è
calda!” osservò Martino. “Siamo in gennaio! È strano!”.
“Si vede che
Lugia si sta divertendo!”.
“È per
questo che è nata la tromba marina!” s’illuminò Martino, vedendo sua sorella
fissarlo con un interrogativo sul volto.
“Non capisco!”.
“Lo abbiamo
studiato quando eravamo reclute, ricordi?! Questi fenomeni si formano
quando...”.
“Correnti di
differenti temperature s’incontrano! Lo so! Ma non vedo questo come possa
portarci alla soluzione!”.
Martino
sorrise. “Dobbiamo raffreddare il mare!”.
Marina batté
le palpebre quattro, cinque volte, dietro gli occhialoni. Un’onda più grande
fece sobbalzare Lapras.
“Come
intendi fare?!”.
“Lapras! Aiutaci
a congelare la superficie!” disse al Pokémon l’uomo.
“Vuoi...
congelare il mare?!” esclamò Marina.
Suo fratello
annuì, sorridendo. “Funzionerà! Ma partendo da lontano! Quindi vai, Lapras!”.
E così il Pokémon Trasporto caricò nelle sue fauci
una grande quantità d’energia criogena, emanandola sotto forma di raggio; puntò
il mare, che all’istante si cristallizzò, diventando una tavola trasparente, a
riflettere il nero del fondale e del cielo.
La tromba
marina sparì qualche secondo dopo.
“Ha... ha
funzionato!” esclamò sorridente Marina. “Facciamo presto!” urlò, saltando giù
da Lapras e salendo sulla spessa lastra di ghiaccio appena creata dal Pokémon.
Seguita da Martino, raggiunse velocemente la corona di scogli che circondava le
Isole Vorticose. L’apertura verso le isole era precluso a chiunque non
riuscisse ad attraversare i sei grandi mulinelli che si erano formati lungo il
percorso marino che dava sul piccolo porticciolo di Capo Piuma, un minuscolo
insediamento quasi disabitato sulle coste sabbiose dell’isola più grande, dove
si trovava l’ingresso della Grotta Sacra.
I Ranger
saltarono sugli scogli e li percorsero con attenzione, balzando di roccia in
roccia fino a raggiungere la baia portuale, dove il fondale sabbioso aveva
fagocitato decine e decine di navi. Alcune di queste spuntavano dalla
superficie mossa dalle forti correnti, come artigli di legno consumati dalla
salsedine.
I due
fratelli si tuffarono in quelle acque calde e irrequiete, nuotando per un paio
di minuti, fino a raggiungere la banchina del porto, costruita interamente in
mattoni anneriti dal tempo. Salirono le scale di mattoni e raggiunsero lo
spiazzale, totalmente deserto.
Ruderi di
rimorchiatori e barche a vela venivano colpiti dalla forte pioggia. Il vento
soffiava verso ovest dove, sul vecchio pontile di legno, la sagoma d’un
pescatore temerario sfidava la tempesta.
Avanzarono,
salendo verso la cittadina vera e propria: quattro case, una palazzina in
calcestruzzo e una bottega. Quest’ultima era aperta, le case invece erano
interamente sbarrate.
Il freddo
cominciò a farsi sentire, col vento che tirava forte e spingeva i vestiti
contro i corpi bagnati.
“Lì vedo
delle luci” disse Martino, prendendo la sorella per mano e correndo verso la
bottega.
Quando vi
entrarono trovarono una vecchia donna con lo sguardo appesantito e le gote
macchiate dal tempo. I capelli, totalmente candidi, erano tenuti in una
crocchia bella ampia sulla testa. Indossava un giacchetto di filo beige, chiuso
fino all’ultimo bottone, e una gonna marrone.
“Buongiorno…”
fece quella, un po’ sorpresa di vederli. “Cosa vi porta qui?”.
“Buongiorno”
ricambiò Marina, chinando leggermente la testa. “Io mi chiamo Marina e sono la
Caporanger del distretto di Johto, mentre lui è mio fratello Martino, del
distretto di Oblivia. Siamo qui per assicurarci che il Pokémon che abita
quest’isola sia estraneo a questa grande tempesta”.
La signora
strinse ancor di più gli occhi sottili e annuì. “Se permettete vorrei offrirvi
una buona tazza di tè caldo. E lasciate che vi dia qualcosa per asciugarvi”.
“Grazie
signora…” annuì Marina. “Ma noi non...”.
“Devo
raccontarvi quello che è successo”.
Martino
guardò sua sorella e poi sospirò. “A me aggiunga un cucchiaino di miele…”.
Kanto,
Aranciopoli, Banca Centrale
“Entrate
così, alla Die Hard, non le faremo
mai più”.
“E smetti di
dire stupidaggini! Siamo nella merda fino al collo!”.
Sandra e
Gold erano nascosti dietro a una scrivania rovesciata, mentre i Pokémon della
Capopalestra erano al di là della barriera a lottare contro decine di Pokémon
avversari.
Avevano
sprangato la porta d’emergenza con un grosso mobile portadocumenti, in modo da
tenere alle spalle gli altri nemici che avevano già eluso.
“Sei sempre
esagerata! Basta un po’ di strategia e possiamo uscire da qualsiasi
situazione”.
“Strategia?!”
rise Sandra. “Mi sorprende che tu sappia cosa significhi…”.
“Sì, ho
fatto le elementari nella migliore scuola di Borgofoglianova. Tralasciamo il
fatto che ce ne sia solo una…”.
“Continuo a
pensare che tu sia uno stupido e uno sprovveduto. Dovremmo aspettare che
qualcuno dei Dexholder, quelli bravi intendo, riesca a penetrare, per farci
dare una mano”.
“A penetrare
sono il migliore... E comunque possiamo farcela anche da soli” sorrise
sornione.
“Siamo con
le spalle al muro”.
Sandra si
voltò per un momento e s’inginocchiò, col bel corpo aderente alla scrivania.
Gold la guardò, inarcando un sopracciglio ma qualche secondo dopo, davanti ai
suoi occhi apparve il volto di Marina, infuriata per quell’occhiata fuori
luogo.
Sorrise,
pensando a lei.
E pensò al
fatto che se non fosse uscito da lì non l’avrebbe rivista.
“Mi hanno
insegnato che, quando si è con le spalle al muro, devi provare a fare ogni
cosa... e nel caso tu non possa fare niente allora devi sfondare il muro.
Sudobo, forza!” urlò, voltandosi repentino e mandando in campo il suo Pokémon
per la seconda volta, quel giorno.
“Meraviglioso,
il tuo alberello...” sospirò lei.
“Il mio
alberello, modestamente, è duro. E stavolta non alludevo a nulla di sessuale.
Credo. Sudobo, crea di nuovo una barriera e lasciamo che Sandra riesca a
monitorare la situazione”.
Quella lo
guardò sorpresa e si alzò, vedendo gli attacchi dei vari Drapion, Toxicroak,
Muk e Weezing schiantarsi sulla superficie di un muro trasparente.
Guardò poi
lo stato dei suoi Pokémon: Aerodactyl s’era fatto carico degli attacchi diretti
a Dragonair, che intanto aveva effettuato la sua Dragodanza. Infine Charizard attaccava dalla distanza con mosse
ardenti.
“Come
stanno? Hai bisogno di Pozioni?” chiese quello, rimessosi con la schiena contro
il tavolo.
“No, ce le
ho. Ma ora come faremo?”.
“Suppongo
che Sudobo non possa reggere tutti quegli attacchi per sempre. Quindi dovremmo
cominciare a metterli in difficoltà...”.
“Pensa a qualcosa,
perché con la barriera i miei attacchi non possono uscire da qui”.
“Sono qui
per questo...” disse il moro, alzandosi e gettando un’occhiata: le persone
prese in ostaggio erano tutte o quasi alle spalle della barriera, al sicuro
dagli attacchi dei Pokémon nemici. Gold gestì con lucidità la situazione,
saltando oltre la scrivania e aiutando gli innocenti a uscire dal campo di
battaglia, sempre con occhio analitico, fino a quando prese la decisione sulla
mossa da effettuare.
“Sudobo, so
che stai mantenendo un peso non indifferente ma prova a fare un paio di passi
avanti”.
Sandra lo
guardò stupita, mentre utilizzava una Ricarica Totale su Aerodactyl. Vide la
barriera spostarsi in avanti, rosicchiando spazio agli uomini in grigio.
“Fai presto
a curare quei serpentoni, tesoro” diceva Gold, scortando anziani e donne dietro
le casse automatiche.
“Sono draghi!”
ribatté lei. Gold non la considerò.
“Sudobo,
stai bene?” chiese poi.
Quello
rispose annuendo, col volto che mostrava sforzo. “Avanza di un altro paio di
passi e comincia a ruotare verso sinistra la barriera: dobbiamo raggiungere i
cancelli che portano ai caveau, ormai saranno già lì”.
“Forza
Gold!” urlava Sandra, avanzando lentamente. “Sudo... bo, o come diamine ti
chiami, ruota! Stringiamoli sulla parete”.
E così fece
il Pokémon, cominciando a ruotare la barriera lentamente e spingendo Pokémon
nemici e sgherri contro la parete d’ingresso alla banca.
“Ruota
ancora!” urlava Gold.
“Sta
funzionando! Non hanno più spazio!” esultava invece Sandra.
Sudobo aveva
creato una barriera ampissima che stava contenendo tutti gli attacchi; ma la
fatica cominciava a farsi sentire.
“Manca
poco!” faceva Gold, vedendo gli avversari costretti contro le pareti cominciare
ad uscire all’esterno della banca.
“Ce la
stiamo facendo davvero!” replicò la Capopalestra.
Ma poi vide
la parte sinistra della barriera, che riluceva di una luce opaca bianca,
cominciare a sfaldarsi.
“Non ce la
fa più, Sandra! Tra poco entreranno da destra. Manda quelle salamandre lì!”.
“Sono
draghi! Charizard e Aerodactyl, forza! Andate lì!”.
“Non dare
fuoco a nulla!”.
Sandra si
voltò e lo guardò torva. “Sei stato davvero TU a dire a ME questa frase?!”.
“Sì, lo so,
il mondo sta andando a puttane. Attenta!” l’ammonì poi lui, vedendo un Muk
passare sotto la barriera ormai sfaldata.
Sandra si
voltò repentina.
“Aerodactyl,
Rocciotomba!” fece, osservando il suo
Pokémon eseguire celere. “Charizard, devi cercare di tenerlo indietro, usa Lanciafiamme e stai attento a non creare
un incendio”.
“Perché nel
caso si chiamerebbe Incendio la mossa
che utilizzerebbe...”.
“Non hai
idea dell’effetto di quella mossa utilizzata dal mio Pokémon” fece la bella,
spostando i capelli sudati dalla fronte.
“Sudobo,
dobbiamo fare presto! Fai un ultimo sforzo!”.
Due
Toxicroak sfondarono la parete luminosa del Pokémon quando quello pressò gli
avversari con tutta l’energia residua contro la parete. Furono costretti ad
uscire tutti fuori, per non morire schiacciati.
“Ottimo!”
sorrise lui. “Ora rimani per qualche secondo con l’energia di barriera
concentrata soltanto davanti alla porta, trovo qualcosa per sbarrarla e...”.
E poi una
grande esplosione divampò dal lato di Sandra, facendola cadere per terra. Gold
accorse e la alzò, indugiando nel guardarla per qualche secondo di troppo.
“Levami le
mani di dosso!” ringhiò quella.
“Stai calma,
draghessa. E stai più attenta...
Cerchiamo di arrivare sani e salvi alla fine di questa giornata. Riesci a
tenere la situazione sotto controllo finché non riesco a sbarrare la porta?”
chiese quello dagli occhi dorati.
Quella
sbuffò, si pulì e annuì. “Volevo Silver. Voglio che tu lo sappia”.
“Questo ha
passato il convento” disse il ragazzo, spostandosi e cominciando a spingere la
grossa scrivania dietro alla quale si nascondevano qualche minuto prima entrambi,
proprio davanti alla porta d’ingresso della banca, bloccandola. Era fatta di
resistente plexiglass, quindi era in grado di vedere la lotta che stavano
sostenendo all’esterno i suoi amici.
“Ok, Sudobo,
sei stato bravissimo” sorrise quello, sentendo applaudire le persone nascoste
dietro le casse.
“Non è
ancora finita! Charizard, usa Aeroassalto
sui Toxicroak! E Gold, occupati di questo dannatissimo Muk!”.
Quello
sbuffò, aggiustandosi il cappellino. “Uff, ma questo coso puzza!”.
“Forza,
stupido!”.
“Mi ricordi
sempre di più Marina”.
“Non so come
faccia quella santa a starti vicino…”.
Gold sorrise
allusivo e poi prese il Pokédex. Sandra rimase strabiliata dalla
sconsideratezza per il pericolo che aveva quello: Muk, infatti, si avvicinava
minaccioso nonostante la lentezza del suo movimento, mentre Gold fissava lo
schermo luminoso dell’enciclopedia tascabile consegnatagli da Oak in persona.
“Vediamo...
È tossico... i suoi passi sono velenosi... puzza... fa vomitare... non cresce
erba dove striscia... inquina i laghi con una sola goccia... Il Pokédex non
dice nulla di rilevante ed utile” sospirò il ragazzo. Guardò per un attimo
Sandra e sospirò. “Vedendo la sua consistenza non servirà a nulla colpirlo...”.
“Distruggilo!”.
“Non... non
capisco come!”
Sandra si
voltò e lo fissò. “Usa Typhlosion!”.
“No! Finirei
per dare fuoco a tutto! Lascia fare a me l’incosciente e prestami il tuo
Aerodactyl!”.
“Cosa?!”
spalancò gli occhi quella.
“Dammi quel
lucertolone di pietra, porco Moltres!”.
“No!”.
“Dannazione,
dammi una mano!”.
“Scordati di
toccare i miei Pokémon!”.
Gold ruotò
gli occhi versò l’alto e sbuffò. “Aibo, con un bel Gigaimpatto saresti in grado di creare un fosso abbastanza profondo
nel pavimento?” chiese, mandando in campo Ambipom. Quando quello eseguì, creando
un solco di quasi tre metri nel pavimento, un’enorme nuvola di polvere si alzò.
“Stai
attento!” si lamentò quella.
“Bene, Aibo.
Ora, donna col mantello, ti andrebbe far utilizzare a uno dei tuoi Godzilla una
mossa come Metaltestata, dato che il tuo
Pokémon potrebbe non contrarre la clamidia toccando quell’ammasso mobile di
merda?”.
Sandra
lasciò scappare un sorriso e quindi eseguì l’ordine dato da Gold, lasciando che
il suo Pokémon spingesse quel Muk nel fossato, cancellando di fatto il
problema.
“Perfetto.
Sudobo, devi rimanere qui finché qualcuno dei nostri amici non ti ordina di
lasciarli entrare” fece Gold, alzando le maniche della felpa e sistemando il
berretto, muovendosi infine verso la porta spalancata che dava al caveau.
Johto, Isole
Vorticose, Capo Piuma
La vecchia
signora aveva richiamato suo marito, il pescatore temerario che sfidava la
tempesta seduto sulla banchina, e aveva chiuso le porte della bottega. Subito
dopo aveva fatto accomodare i due Ranger nel retro, raggiungendoli con
dell’ottimo tè caldo e dei morbidi asciugamani azzurri. I due giovani presero
posto su due lati di un vecchio kotatsu,
ben apparecchiato per il tè. A Martino bastò una rapida occhiata per capire che
quel luogo dovesse essere parecchio vecchio, visto anche l’arredamento, in
piena simmetria con la cultura tradizionale giapponese.
Di fronte a
loro, il vecchio pescatore dalla lunga barba bianca era sprofondato in una
poltroncina infeltrita dai motivi floreali e dallo schienale e i braccioli
sdruciti. La vecchia poggiò la teiera e le tazzine di porcellana bianca davanti
a loro e li raggiunse sotto le calde coperte.
“Allora…
Lugia è un essere antichissimo. Quasi quanto questo mondo”.
“Lo so,
signora Amano” ribatté Marina. “Ecco perché riteniamo sia stato lui ad aver
creato questa tempesta enorme”.
“Sapete... Si
racconta che la sua furia possa creare quaranta giorni di tempesta”.
“Come con
Noè...” ridacchiò il giovane. Marina sorrise ma vide la donna annuire.
“Esattamente.
Il suo potere è strettamente legato a quello della luna, a quello dei mari e a
quello dei venti”.
“Quindi ha
delle correlazioni con Kyogre, Lunala ed il trio di kami, ad Unima” continuò la
ragazza.
“Questo non
lo so… Le uniche relazioni vere e proprie di Lugia sono con Moltres, Zapdos ed
Articuno. E col tiranno della torre bruciata”. La donna sospirò, e cominciò a
versare il tè nelle tazze.
“Ho-Oh…”
annuì Martino, sotto lo sguardo torvo del vecchio pescatore. “Ma perché ci ha
condotti qui?”.
“Un tempo
anche io ho indossato il kimono…”
disse, porgendo una tazza fumante all’uomo seduto accanto a loro. Quello annuì,
sorridendo appena.
“Tanti anni
fa…” fece.
“Assieme a
poche altre giovani, potevamo vivere su quest’isola ed entrare nella Grotta Sacra…
Col tempo molte sono morte, altre hanno lasciato che l’amore influenzasse le
proprie responsabilità, e sono andate via. Alcune, però, più forti, risiedono
ancora qui. E talvolta finiscono per innamorarsi d’un bel pescatore coraggioso…”.
sorrise dolcemente, in direzione dell’anziano uomo che sorseggiava il tè. Ecco
perché questo posto non è totalmente abbandonato. Ma c’è di più”.
Martino
annuì, fremendo.
Fu però
Marina a rompere gli indugi. “Cosa?” domandò.
La vecchia
annuì, prendendo un sorso di tè. Poggiò la tazzina sul kotatsu e sospirò.
“L’antro è
stato aperto da qualcuno, qualche giorno fa. Lugia si è svegliato ed è furioso.
Ecco perché piove... Le più giovani e coraggiose di noi si sono avventurate
all’interno della grotta, l’altro ieri, ma non ne sono più uscite. Io sono
troppo vecchia per andarle a cercare, la Grotta Sacra è un luogo impervio”.
Martino
bevve il tè tutto d’un sorso, poi si alzò dal tavolino. “Dobbiamo salvare delle
donne, quindi, oltre a dover calmare Lugia”.
La vecchia
annuì. “Marina...” fece poi, voltandosi verso la ragazza. “Lugia è un Pokémon
dai profondi poteri telepatici, sicuramente si aprirà con te se noterà in te
bontà d’animo…”.
Quella
spalancò gli occhi. “Telepatici?”.
“Comunicherà
con te. Non spaventarti e accogli quest’occasione come un momento di profondità
spirituale senza eguali”.
Quella batté
le palpebre confusa, prima di fissare di nuovo l’anziana. “E perché dovrebbe
farlo?”.
“Non lo so…”
sorrise l’altra. “È un essere infinitamente intelligente e solo. È un onore
sentire la sua voce”.
“Io ho già
sentito... ho già sentito la sua voce. Prima, mi chiedeva aiuto…”.
La donna si
bloccò e raddrizzò le spalle, posò la tazza e sospirò. Voltandosi poi per un
attimo verso suo marito, raccolse le mani sul tavolino.
“Dovete
correre immediatamente”.
*
La pioggia
continuava a battere radente e non accennava a diminuire. Capo Piuma era
diventata un’illusione d’ombre dietro quel palcoscenico liquido che cadeva dal
cielo.
“La grotta è
questa” faceva Martino. “Le Kimono Girl
non sono più uscite, una volta entrate qui…”.
“E questo è
un problema, fratellone. Sono delle grandi combattenti, le Kimono Girl... Per non essere riuscite a chiudere questa missione
vuol dire che qualcosa di molto forte le ha sopraffatte”.
“O
qualcuno...” rispose granitico il ragazzo.
Ormai
l’acqua aveva impregnato i capelli del ragazzo e lo aveva costretto a tirarli
indietro. Le gocce cadevano lente dal suo mento e terminavano sul suo petto
tonico.
“Entriamo”
fece poi Marina, prendendo il fratello per mano e immergendosi nell’oscurità.
La prima
cosa che riuscirono a percepire fu un forte odore d’umido, normale, dato il
luogo.
Tutto era
buio, i due non riuscivano a vedere nulla.
“Pichu...” sussurrò Martino, smontando lo
zaino dalle spalle e liberando il piccolo Pokémon che percorse il suo braccio
fino ad arrivare alla sua spalla.
“Ottimo”
annuì Marina, che già aveva capito.
Il ragazzo
prese il suo Pokémon partner e lo poggiò per terra, quindi annuì a sua volta.
“Ora illuminiamo questa grotta con un Flash”.
E
d’improvviso un bagliore molto potente fu sprigionato dai loro piedi: Pichu
Ukulele era diventato una torcia. Marina guardò tutt’intorno, fissando le alte
pareti che si collegavano al soffitto di pietra. L’acqua filtrata attraverso la
roccia porosa cadeva dall’alto formando pozze più o meno profonde e dando vita,
in altri casi, a stalattiti doppie e resistenti.
“Incredibile...”
fece stupita la donna, avanzando su quel fastidiosissimo fondo sabbioso. Le sue
parole rimbombarono sui muri della grotta e formarono una profonda eco, che
ritornò indietro poderosa.
“Dobbiamo
stare in silenzio, Mari...” sussurrò Martino. “Se ci fosse qualche malintenzionato
ci sentirebbe arrivare diversi secondi prima”.
Quella annuì,
riprendendo a camminare e arrivando molto rapidamente a un grosso lago dalle
acque calme. La poca luce non lasciava trasparire nulla oltre la superficie.
Potrebbe esserci qualsiasi cosa, lì
sotto pensò
Martino, guardando sua sorella e facendole segno che avrebbero dovuto
attraversare il più rapidamente possibile lo specchio. Marina annuì, immergendo
subito il piede: l’acqua era calda.
Sarebbe
potuto esserci qualsiasi cosa, al di sotto di essa.
Guardò
Martino e lo vide fare lo stesso, poi avanzò e la sorpassò. L’acqua era
praticamente immobile, increspata soltanto dal loro passaggio. Remoraid
temerari s’avvicinavano alle gambe veloci dei due, per poi allontanarsi
prontamente al loro movimento.
Una volta
arrivati dall’altra parte Marina vide una scala incisa nella roccia che saliva
ad un ipotetico piano superiore, nascosto nel buio. Guardò Martino, nei suoi
occhi convivevano responsabilità ed incoscienza smodata. Il rumore della
pioggia che batteva sulla roccia esterna era inesorabile, e Marina non vedeva l’ora che finisse.
“Andiamo...”
sussurrò il ragazzo, aggrappandosi alla roccia e salendo, seguito da sua
sorella; s’aprì un grosso spiazzale, fatto di rocce ed ampie salite.
“Dovremmo
dirigerci verso la parte alta” osservò quella.
Martino
annuì e, preceduto da Pichu, cominciarono a salire lungo la zona alta. “Qui
potremmo avere una visuale maggiore”.
“Io però
credo che Lugia si trovi verso il basso e...” diceva Marina, quando poi vide qualcosa
per terra. S’avvicinò a una roccia sulla destra e analizzò: si trattava di una
bacchetta per capelli, di quelle che indossavano le Kimono Girl.
Si
guardarono subito dopo. Lui annuì.
“Siamo sulla
strada giusta” disse, sempre a bassa voce. Marina si guardò intorno, cercando
invano l’altra bacchetta.
“Proseguiamo”
sentì dire dal fratello.
“E dove
vorresti andare?”.
Martino si
girò e, guardandosi attorno, si fermò. “Lugia si trova verso il basso, questo
lo sappiamo per certo...”.
“Sì, le
testimonianze sono queste…” ragionò Marina.
“Però ora
siamo in alto”.
“Quindi
dobbiamo scendere”.
Ripresero a
camminare, esplorando la grotta in lungo e in largo, affondando i piedi nella
sabbia e nell’acqua calcarea fino a quando, dalla parte opposta dell’ingresso,
non trovarono una piccola discesa, dietro a un grande pilastro dalla forma
vagamento cilindrica. Quando la percorsero, si ritrovarono davanti a uno
stretto corridoio; il rumore dell’acqua che scorreva si faceva sempre più forte
mano a mano che lo percorrevano e, proprio a metà di esso, Martino vide l’altra
bacchetta.
“Guarda!”
esclamò, alzando un tantino il volume della voce. Raccolse il bastoncino di
legno e lo comparò a quello trovato precedentemente.
“No...”
sussurrò Marina, come sconvolta. “Guarda tu...”.
La sua voce
era flebile. Alzò l’indice in avanti. Martino fissò il dito, prima di scorgere
nel buio soffuso, mitigato a distanza da Pichu, la figura d’una giovane donna.
Era tramortita, stesa sul fianco. Dietro di lei altre tre donne, inermi.
Corsero
entrambi dalla prima delle quattro, col ragazzo più rapido nell’inginocchiarsi
e avvicinare l’orecchio alla labbra schiuse di quella; sua sorella rimase in
silenzio, soppesando il fiato per paura di emettere troppo rumore.
“Respira
ancora” disse quello, afferrandola sotto le braccia e spostandola.
La pelle di
quella era diafana e faceva molto contrasto con i capelli estremamente scuri
che, inzaccherati di sabbia, le ricadevano sulle spalle. Non sembrava avere più
di trent’anni.
Non appena
si sentì trascinare, spalancò gli occhi e lanciò un urlo fortissimo.
“Chi
siete?!” esclamò, con gli occhi terrorizzati e il battito del cuore a mille. Le
iridi azzurre penetrarono nello sguardo di Martino e lo spiazzarono,
attraversandolo e dividendolo in due, come un fulmine nel nero del cielo della
tempesta.
“Siamo... i
buoni. Siamo i buoni, siamo i buoni, tranquilla…”.
“Sei svenuta
qui” replicò velocemente Marina. “Ti abbiamo trovata svenuta, qui per terra”.
La donna
guardò la linea creata dal suo corpo sulla sabbia bagnata, poi passo in
rassegna con i corpi tramortiti delle altre donne. Il suo volto si spense, con
le lacrime che fuoriuscirono quasi involontariamente. Poi la bocca si spalancò,
come anche gli occhi.
“È entrato!
Lui è entrato!” urlava quella, impanicata.
“Chi?!”
domandò il ragazzo, sobbalzando.
“L’uomo! L’uomo
dagli occhi rossi! Lui ha ucciso le altre ed è entrato!”.
Marina
guardò suo fratello, repentina. “L’uomo che ha rubato la Lacrima di Giratina
aveva gli occhi rossi...” fece, tirando fuori il cellulare dalla borsa; poi
scrisse a Gold.
11.57 Sono nelle Isole Vorticose
11.57 Sono
un tantino impegnato,
tesoro
11.57 Qui c’è un uomo dagli occhi rossi,
responsabile della furia di Lugia e della tempesta che si sta abbattendo su noi
tutti
11.57 Uhm... Collirio?
11.57 Per una volta potresti essere serio?!
Potrebbe
essere lo stesso uomo dagli occhi rossi
che ha rubato il cristallo nero!
11.57 ...
11.58 Gold?
11.58 Cerca di fotografare quell’uomo. E di sopravvivere. Io devo fare
una
telefonata
11.58 Dove sei?
11.58 In banca
11.58 Non ci prosciugare il conto
11.58 Ci sto lavorando. Ti amo, culo
d’oro, a dopo. Stai attenta.
Marina alzò
gli occhi e vide Martino con lo sguardo contrito, accanto a lui, mentre
guardava lo schermo del Pokégear che quella aveva tra le mani.
“Ti pare il
momento di cazzeggiare?!” fece, sbuffando.
“Non stavo
cazzeggiando...” sospirò l’altra.
Kanto,
Aranciopoli, Banca Centrale
“Devo fare
una telefonata…” fece Gold, fermandosi d’improvviso. Avevano percorso il
corridoio che portava al caveau solo a metà quando Sandrà si voltò,
esterrefatta.
“Che diamine
stai dicendo?! Siamo nel bel mezzo di un’operazione!”.
Gold la
guardò per un istante, sbuffando e cominciando a camminare nervosamente verso
l’uscita.
La donna
invece spalancò la bocca: non credeva che Gold fosse così irresponsabile.
“Hai la
capacità di concentrazione di una mosca!” fece, correndogli dietro e
bloccandolo per la spalla.
“Che vuoi?”
domandò, sentendo il segnale di chiamata del Pokégear dare segnale libero.
“Abbiamo una
missione!” esclamava quella. La coda di cavallo oscillava ancora e i ciuffi
davanti agli occhi le adombravano lo sguardo azzurro, che s’incrociava in
quello aureo di Gold ed esplodeva giusto nel mezzo. “Non puoi fermarti adesso!
Stiamo rischiando la vita!”.
“Ora devo
fare un’altra cosa, Sandra. Tra venti secondi potremmo giocare di nuovo ai
coniugi Smith”.
“Non abbiamo
venti secondi!” urlò quella, puntando il dito guantato in direzione del caveau.
“Non dire
baggianate” ribatté distratto, col Pokégear all’orecchio. “Pronto, Xavier!”
esclamò poi, non appena quello rispose.
Sandra era
esterrefatta. “Sei sempre il solito stronzo…” sussurrò incredula. “Non so
perché ancora Crystal e Silver non ti abbiano sacrificato agli dei...”. Si
voltò iraconda e avanzò da sola, sparendo nel corridoio buio.
“Lo hanno
fatto, quelli non mi hanno voluto... Xavier! Mi senti, Xavier?!”.
“…”.
“Dannazione!”.
“Gold... Che succede?”.
“Dove sei?!”.
“A casa mia, a lavorare alla ma...”.
“Esci
immediatamente da lì!” esclamò quello, serio. “Non m’importa se stai scoprendo
la cura per il cancro oppure se stai semplicemente guardando le tue unghie al
microscopio, devi uscire subito di casa!”.
E Xavier, che
aveva capito che tipo di persona fosse l’interlocutore, prese a preoccuparsi.
“Puoi spiegarmi che succede?!”.
“Non te lo
posso dire, ora, o la draghessa mi
arrostirà! Ora vai a prenderti del pollo, che è buono”.
“Non ho voglia di pollo”.
“Prendi il pudding,
allora! Prendi quello che vuoi, vai da Cindy, fai qualsiasi cosa ma esci da
quella casa e stai tra la gente! Gente con gli occhi e le orecchie, fai in modo
che tu abbia testimoni oculari!”.
“... Gold?”.
Quello vide
Sandra sparire oltre la porta blindata della cassaforte, e subito dopo si
levarono urla di sgomento e rumori di lotta.
“Devi fare
presto!” urlò ancora il Dexholder, cominciando a muoversi in direzione del
caveau.
“Ma...”.
“Xav... Più
tardi c’incontreremo e ti spiegherò tutto, ma ora vai”.
“... Ok...”.
“Sei più
testardo di una capra” rispose Gold, attaccando e prendendo a correre.
Johto,
Amarantopoli, Casa di Xavier Solomon
Xavier
rimase un paio di secondi a guardare lo schermo del cellulare, con gli occhi
spalancati e il respiro tagliato. La bocca era schiusa, il cuore batteva. La
prima reazione che ebbe fu di voltarsi verso il laboratorio, guardandosi
attorno e cercando di capire se ci fosse qualcuno intento a guardarlo. Fissò
poi le pareti, scrutando nel buio soffuso della stanza la presenza di qualche
telecamera nascosta. Sospirò e poi fece spallucce. Si risedette davanti al
computer, salvando il suo lavoro e spegnendo lo schermo.
Quando si
rialzò però si bloccò e ripensò alla stranezza della telefonata appena ricevuta.
“Che diamine
voleva, Gold?” chiese, come se avesse qualcuno davanti. Non riuscì a darsi una
risposta rapida e capì che avrebbe fatto bene a portare con sé il notebook con
tutti i dati che aveva elaborato fino a quel momento. Scattò una fotografia
alla lavagna e prese il cellulare, per poi salire al piano superiore. Quando lo
faceva era sempre molto, molto affamato, oppure era stanco di dormire con la
faccia sulla scrivania. Di tanto in tanto andava anche a fare la spesa, anche
se generalmente mangiava poco e male.
Il salotto
era totalmente buio, con le persiane serrate ed i cuscini del divano per terra.
Puzzava di chiuso, lì.
“Dovrei
mettere a posto. Già, dovrei proprio…” pensò ad alta voce, raccogliendo il
cappotto dalla poltrona e immergendosi nel freddo di quel giorno. Pioveva
ancora; aprì l’ombrello e scarmigliò i capelli biondi sulla fronte. Uscito dal
vialetto si vide bene dallo stare accanto alle strade, battute da automobili
furenti e indaffarate: avrebbero sicuramente alzato acqua dalle pozzanghere e
sarebbe finito per arrivare fradicio all’Harold’s. Che poi non sapeva neppure
se andare lì: avrebbe voluto continuare a lavorare e nel locale c’era quasi
sempre tanto rumore. Tuttavia aveva fame e già immaginava una bella fetta di
torta con le meringhe. Gli piaceva. Solitamente la prendeva con un bel
bicchiere di latte caldo, anche se, guardando l’orologio, era quasi ora di
pranzo. Avrebbe deciso una volta che arrivato sul posto, quindi affrettò il
passo. Voltò l’angolo e s’immise sul rettilineo che dava al centro di
Amarantopoli, con i negozi aperti su entrambi i marciapiedi. Allungò lo sguardo
oltre gli edifici, sullo sfondo grigiastro e furibondo, bagnato, dove il
cadavere del vecchio manicomio abbandonato incombeva dall’alto, oltre la
foresta di aceri. Quel posto lo faceva rabbrividire. Vi era entrato soltanto
una volta, da ragazzino, per vincere una scommessa con uno dei suoi amici,
Loris, uno spaccone che col senno di poi avrebbe lavorato come infermiere al
Centro Pokémon. Era andato a trovarlo qualche volta, quando Cindy aveva spinto
con tutto il gruppo per fare una rimpatriata, anche se lui avrebbe volentieri
evitato di uscire dal proprio laboratorio per quelle incombenze sociali.
Xavier non
era bravo con le persone.
Con Cindy
soprattutto, con cui oltre a non essere bravo era persino arrabbiato.
Sbuffò, non
voleva pensarci anche se sapeva che andare all’Harold’s sarebbe equivalso
all’incontrarla.
Arrivò in
piazza, sorpassò la Palestra di Angelo e vide delle luci accese nel campo di
battaglia. Guardò poi la Torre Bruciata attraverso la pioggia e poi giù, verso
il teatro delle Kimono Girl. Accanto,
l’insegna del locale in cui stava per entrare risplendeva luminoso.
Entrando
provò il solito sentore di calore e calma che quel posto distribuiva generosamente
a tutti; gli piaceva lo stile anni sessanta che avevano adottato per arredarlo,
con sedili in pelle bianca e rossa e tavolini ad un piede esterno, che
sembravano venir fuori direttamente dal muro.
Vi erano dei
grossi cappelloni che spuntavano dal soffitto, rossi anche loro, a illuminare
l’intera sala, e anche il bancone, alto, e la vetrina con tutte le squisitezze,
perlopiù torte, crostate e croissant. Quel luogo era famoso per due cose: pollo
e donne; le ragazze che lavoravano come cameriere lì indossavano striminzite
tenute da cheerleader, verdi, con gonne dello stesso colore ma a balze bianche.
Un tempo montavano anche i pattini ma dopo che qualche torta cadde sulla clientela
fu deciso di aggiungere alla divisa anche un paio di comode scarpe.
Da Harold’s
c’era un tavolo che la gente sapeva essere del
Professore.
Era il
secondo sulla destra, quello che per qualche strano motivo era sempre vuoto,
accanto alla finestra in cui la guarnizione era leggermente scollata. In
inverno entrava un freddo terribile, lì.
E Xavier se
ne fregava, gettando il borsello sul tavolo e poggiando delicatamente lo zaino
col pc davanti a lui. Dava le spalle alla porta, dato che non voleva essere
distratto dalla gente che entrava. Osservò il suo riflesso nella finestra: gli
occhi, azzurri e provati, si poggiarono sulle occhiaie stanche, figlie della lunga
notte insonne passata a lavorare su limiti ed equazioni, derivate e formule
fisiche da applicare.
Cercava la
macchina del tempo.
Non esisteva,
quel concetto lo aveva ben chiaro. Aveva praticamente ideato ogni cosa a
riguardo, anche l’ipotetico concept estetico del veicolo, ma non sapeva come avrebbe
dovuto farla funzionare. Aveva scandagliato il concetto fisico del tempo in
ogni suo dettaglio, suddiviso in più parti, analizzato minuziosamente per far
diventare scienza le cose che aveva visto nei film.
Nell’ultimo
periodo credeva che non ci sarebbe mai riuscito.
Accese il pc.
Pensò che fosse diventato schifosamente ricco; ogni mese riceveva assegni da
decine di produttori ed era diventato assai abbiente, col risultato che non
avesse più bisogno di lavorare. Del resto era troppo intelligente per perdere
la voglia di vivere dietro alle scadenze, ai pagamenti e alla vita. Tendeva a
consumare le persone.
Come anche
l’amore.
Cindy era
seduta quasi sempre all’ultimo tavolo sulla destra, spesso era con Angelo. Su
quel tavolino troneggiava sempre un cartellino con scritto RISERVATO.
D’altronde quel locale era stato acquistato proprio dal Capopalestra e Cindy lo
gestiva per lui data la sua mole d’impegni.
Anche perché
era sua moglie.
Quando era
entrato, Xavier aveva gettato subito l’occhio lì, vedendo la donna dai capelli
rossi alzare la testa richiamata dal rumore della campanella sulla porta. Una volta
appurato che a entrare fosse stato Xavier, inclinò la testa verso destra,
sorridendogli e facendogli un gesto con la mano, a mo’ di saluto. Xavier fece
finta di non vederla, ma lei era ostinata e lui sapeva perfettamente che, non
appena avrebbe cominciato a lavorare con più applicazione mentale lei si
sarebbe seduta al suo tavolo.
Disturbandolo.
Cindy lo
disturbava, la sua presenza quasi lo nauseava; quella donna bellissima dagli occhi
dolci, le labbra morbide e il corpo più bello che ricordasse di aver mai visto
in costume era per lui un fastidio. Sbuffò, Xavier, vide arrivare una cameriera
bionda e piuttosto stupida, dal seno prorompente.
“Buongiorno,
benvenuto all’Harold, la tavola calda migliore della città!” esclamò
sorridendo. Quella era una sorta di formula che Cindy aveva imposto a ognuna
delle ragazze che lavorava lì, ma Xavier era infastidito nel sentirla ogni
volta. “Cosa posso fare per lei?”.
“Voglio
delle alette di pollo, con contorno di patate”.
“Un B2,
ottima scelta. Posso consigliarle di abbinarci...”.
“Sì, dammi
la salsa… Sadie” fece quello, asettico, leggendo il nome sul suo cartellino. La
vide arrossire, violentemente. “E dopo mi porti anche una fetta di torta con
meringhe”.
“Certo.
Vuole anche una bella cola, da bere?”.
“No, portami
una birra” disse.
“Che birra
vuole?”.
“Una weiss andrà più che bene…”.
Quella
sorrise, mostrando tutti i denti che aveva in bocca, strinse sotto al petto i
menù e si dileguò sculettando, con coda di cavallo che dondolava al movimento
della sua testa.
Xavier aveva
un pregiudizio sulle bionde.
Alzò la
testa e la vide.
Xavier aveva
un pregiudizio anche su di lei.
Cindy lo continuava
a fissarlo distratta, dietro le spesse lenti degli occhiali da vista. Forse lo
aveva beccato mentre si era voltato a guardare Sadie, di spalle.
Penserà che le abbia guardato il
sedere… pensò. Poi
inarcò un sopracciglio e fece segno di no con la testa, dato che non gliene
importava. Sbuffò e calò la testa davanti al pc, aprendo il foglio di calcolo.
Quattro minuti dopo arrivò la birra, fresca, ma non la toccò fino a quando non
gli presentarono anche il cestino col pollo.
Era
croccante e salato. Caldo. Buono.
Ripensò a
Gold e a quanto quel ragazzo fosse strano. Ripensò alle parole che gli aveva
detto all’interno della Torre Sprout, riguardo Cindy:
“Sei uno stronzo”.
“Prego?”.
“Non fraintendermi, non per
giudicarti... anzi sì, sei proprio uno stronzo”.
“... Temo di non comprendere...”.
“Non capisco perché rovinarsi la
vita da soli! Se tu vuoi lei e lei vuole te perché non te la vai a prendere?!”.
“Punto primo: ho una dignità! Se mi
rifiuti dopo non ti accetto! È una questione di principio! Punto secondo: non
voglio che Angelo mi renda la vita impossibile”.
“Al massimo ti troveresti Linda
Blair che ti aspetta nel bagno”.
Linda Blair.
Sorrise nel pensare alla battuta del ragazzo.
La verità
era che Cindy rappresentava un nervo del tutto scoperto per lui. Fu una delle
poche volte che s’era fidato dell’umanità, che era rimasto affascinato da uno
sguardo. Solo altre due paia d’occhi lo avevano rapito in quel modo: quello di
sua madre e quello di Yuki, la che gli
salvò la vita da bambino. Cindy era rimasta nel suo cuore per tutta la sua
adolescenza, in cui aveva coltivato quel sentimento puro e fragile con la
minuziosità di cui era provvisto dalla nascita; lo aveva fatto in silenzio,
osservando da lontano la bella che raccoglieva delusioni a causa di persone che
non meritavano quello sguardo da cerbiatta.
Persone che
non la amavano, che volevano riempirsi le mani di nuvole e zucchero, che la
raccoglievano in riva al mare e la lanciavano via, lontana, nelle profondità
fredde, solo per divertirsi guardandola rimbalzare sul pelo dell’acqua. Xavier
era sempre andata a raccoglierla, cercandola anche per giorni interi,
scandagliando i fondali. La ritrovava, la riportava sulla spiaggia, senza mai
avere il coraggio di metterla nello zaino e proteggerla, portandola dove non
sarebbe stata più oggetto di quelle follie.
Ma Cindy era
una donna che amava, e andava a finire sempre che, una volta appurato di non
essere contraccambiata, piangesse sulla spalla destra di Xavier, e quando lui ebbe
il coraggio di aprirle il suo cuore lei aveva creato quel groviglio di
sentimenti negativi e positivi, contemporaneamente.
Anche quel
giorno Cindy credeva di poter mettere le cose a posto. Senza che lui lo vedesse
si sedette di fronte a lui, abbassandogli lo schermo sulle mani. Sorrideva; aveva
levato gli occhiali ma lo sguardo era basso, guardava verso sinistra, dove
qualche secondo dopo Sadie poggiò la fetta di torta. I capelli, di quel rosso
tendente al castano, erano sciolti e le ricadevano lunghi e ordinati dietro la
schiena. Cindy aveva il vizio di allungare le maniche dei maglioni e
nascondervi dentro le mani.
Aveva un
fascino senza eguali, per lui.
“Ciao...” gli
sorrise dolcemente. Xavier si limitò a rialzare lo schermo del computer.
“Ciao” ribatté,
asettico come ogni volta che aveva avuto a che fare con Cindy negli ultimi
anni.
“Come stai?”
chiese, abbassando nuovamente lo schermo.
Xavier si
spazientì, rialzandolo.
“Sto”.
Passarono
alcuni secondi prima che lei parlasse di nuovo. “E non mi chiedi come sto io?”.
“Dovrei?”.
“Sì, se
t’interessa...”.
“Non
m’interessa”.
Lei sorrise
amaramente. “Come sei antipatico, dannazione...”.
“Sai che non
è così. Sono antipatico soltanto con te e con le persone che non mi piacciono”.
“Come mio
marito...”. Cindy aveva abbassato un’altra volta lo schermo.
“Sì, è un
buon esempio”.
“E perché?”.
Xavier alzò
di nuovo la barriera tra di loro e prese una patatina. “Vuoi proprio sentirtelo
dire, vero?”.
“No, se non
vuoi”.
Masticava,
l’altro, fissandola negli occhi. “Non voglio parlare con te”.
Lei abbassò
lo schermo, per guardarlo negli occhi.
“E per quale
motivo?”.
“Me lo
chiedi ogni volta che vengo qui. Dovresti smetterla”.
“Smetti di
venire tu, se non vuoi che venga a parlarti! Io qui ci lavoro!” s’alterò la
donna, leggermente divertita. Xavier la fissò per un attimo negli occhi e poi
si dipinse una smorfia di disappunto in volto.
“Probabilmente
farò così”.
“Sai che non
voglio che finisca così”.
“Sai che non
ho sei anni. Non prendermi per il culo”.
Rialzò lo
schermo ma Cindy lo bloccò, toccandogli la mano.
“Per favore”
fece lei. “Parliamo”.
Xavier
guardò la sua espressione contrita ma più che pietà provò un’irrefrenabile
violenza. Non poté però mentire a se stesso: sentire il calore delle sue mani
lo stava nutrendo. La voglia di alzarsi si sgonfiò rapidamente, fu sostituita
da un sospiro e fu sconfitta da quello sguardo.
Cedette,
mise via il pc, lo chiuse meticolosamente nella sua borsa e prese a guardarla,
serio.
Quella
sorrise, afferrando anche l’altra mano dell’uomo.
“Io so che
le nostre strade si sono divise, Xav… E se devo dire che mi sono comportata
bene, intendo con te, che mi sei sempre stato accanto e mi hai risollevata in
quei brutti momenti, beh, probabilmente mentirei…”.
“Mentiresti”
ribadì l’altro.
“Io ho
sbagliato”.
L’uomo
sentiva ancora le piccole mani della donna stringerlo. Lo sconforto era però
più grande dell’emozione.
“Dimmi
qualcosa che non so…”.
“Io lo so che sei l’uomo perfetto, e credimi, saresti la scelta migliore per
qualsiasi donna che esista su questa terra, perché sei buono e intelligente…
Certo, mangi male e stai deperendo ma...”.
“Cindy...”.
Lei sbuffò. “Non
riesco a capire perché tu non possa accettare di vedermi. Hai fatto tanto per
me, io non riuscirei mai a dimenticare a cuor leggero il tempo che abbiamo
passato assieme”.
“Io non l’ho
fatto, Cindy. Non posso dimenticarlo”.
Lei sorrise,
abbassando lo sguardo. Strinse le sue mani con ancora più vigore.
“E allora
perché non possiamo andare avanti?”.
Xavier si
tuffò nei suoi occhi. Gli mancava come l’aria, averla nella sua vita.
“Non posso
perché, purtroppo per te, non so dimenticare le cose”.
“Purtroppo
per me?” domandò lei, più analitica.
“Che cosa
vuoi da me?” rispose a sua volta con una domanda, l’uomo dai capelli biondi,
dopo un lungo sospiro. Era stanco di quella situazione, e inconsciamente temeva
che quelle mani lasciassero le sue.
“Non voglio
stressarti…” abbassò lo sguardo Cindy. “Voglio solo tornare ad essere tua
amica”.
Xavier ebbe
un moto di spirito. “Già… Sai che non puoi essere più mia amica, non
prendiamoci in giro…”.
Lei rimase
in silenzio per qualche secondo. “Io... io capisco che possa bruciare. La vita è
fatta di sconfitte e...”.
“Perché mi
stai dicendo questo?!” s’alterò. “Sai quanto tempo ho impiegato per farti
uscire dalla mia mente?! Per uscire fuori dal dolore che mi stava affogando,
Cindy?!”
La donna
ritrasse le mani, poggiandole sul bancone. Il suo sguardo si piegò,
incupendosi.
“Io…”.
“Anni! Anni
di terapia, di riflessione! Ti ho dovuta demonizzare, prima di poterti parlare
di nuovo!”.
Cindy si
guardò intorno, stringendosi nel proprio abbraccio. “Non urlare… ci sono dei
clienti”.
Quello
abbassò il capo e sospirò. “Scusa...”.
“No,
tranquillo… è comprensibile la tua reazione…”.
“È che io...
mi sono sentito sbagliato. Mi sono sentito terribilmente sbagliato”.
La donna chiuse
le palpebre per pochi secondi, celando per qualche attimo gli occhi. Quando li
riaprì, si sentì colpevole. Una lacrima fuggì via.
“Mi chiedevo
per quale motivo io non potessi avere quello per cui avevo combattuto da quando
ero un ragazzino. Io... ti vedevo lì, così lontana ed inarrivabile. Eppure eri
sempre accanto a me, Cindy… mi prendevi in considerazione, mi parlavi, mi
dimostravi affetto. Quella volta in spiaggia...” sorrise lui, avvampando.
Lei fece lo
stesso. Quello non la vide e continuò. “Beh, credimi, avrei voluto uccidere
Lars Bennett quando ti chiamò... Stavo trovando il coraggio per baciarti”.
Lei sorrise.
“Ha fatto bene a farlo... ti avrei respinto, allora”.
“Non ero
ancora ricco”.
Arrivò
dritto come una freccia. Lei inarcò un sopracciglio, spostando i capelli dal
volto. “Di certo non mi sono interessata a te perché avevi incominciato a
guadagnare bene…”.
“No?”
domandò lui, sapendo di stare per premere dove faceva male.
“No. Mi
piacevi, sei una brava persona e ho...”.
“E ho pensato
di buttare tutto nel cesso, giusto?! Dopo ventiquattr’ore, o neppure, forse di
meno... Beh, sappi che se non ti ho parlato è perché non volevo che mi uscisse
dalla bocca ciò che pensavo di te, qualche anno fa...”.
Si
guardarono. Aspettava solo quella domanda, lui.
“E cosa
pensavi?”.
Un attimo di
silenzio. Incoccò la freccia rabbiosa.
“Che fossi
una stronza, Cindy”.
Quella
rimase immobile.
“Insomma, mettiti
nei miei panni... Anni spesi a correrti dietro, poi ti conquisto, ti bacio,
assaporo il momento in cui avrei potuto stringerti tra le mie braccia la volta
successiva e poi ti vedo con Angelo...”.
Quella
sbuffò e annuì.
“Sono stata
una stronza, va bene, me lo merito, ma...”.
“Ma cosa?!
Hai capito che hai fatto una puttanata?! Che ad Angelo importava del tuo culo e
non di tutto il resto?!”.
Cindy
corrucciò lo sguardo. “Non mi piace come sei diventato…”.
“I soldi
fanno quest’effetto, ma dovresti saperlo... Ora poco importa. Hai il tuo
bell’anello al dito, la promessa di avere una famiglia, un giorno, magari
adottando qualche bambino, o rapendolo. O facendolo resuscitare, chi lo sa,
quell’uomo sembra avere parecchie amicizie nelle alte sfere dell’aldilà...”.
“Finiscila...”.
“Di fare
che? Era questo che sognavi?!” esclamò lui, guardandosi attorno e allargando le
braccia. “Un locale?! Un matrimonio finto con un uomo che ti ha utilizzata per
svuotarsi le palle?! Secondo il mio punto di vista hai preferito l’occasione
del momento di qualcun altro piuttosto che l’occasione della mia vita, Cindy,
quindi non chiedermi perché ce l’abbia con te!”.
“Smettila,
ho detto”.
“Perché
dovrei?! Ora non avresti avuto un locale del cazzo, magari le alette ce le
preparavamo a casa, ma saresti finita per essere amata da un uomo che ti
avrebbe messo al centro della propria vita, che ti avrebbe dato dei figli e che
non avrebbe mai smesso di amarti e...”.
“Mi ami
ancora?”.
Xavier si
bloccò, con la bocca aperta. Poi la chiuse.
“Non so come
rispondere”.
“Ho zittito
il genio” sorrise lei, tronfia. Abbassò nuovamente lo sguardo e col dito levò
la crema sulla torta, mettendolo in bocca.
“Non sto
zitto... parlo, ma non mi senti”.
I loro
sguardi s’incontrarono di nuovo. La donna sbuffò per l’ennesima volta. Pareva
sfibrata.
“Cosa vuoi
che faccia, Xav? Che lasci mio marito? Che mandi tutto alle ortiche?”.
“Voglio che
tu faccia quello che ti fa stare bene”.
Silenzio,
Xavier prese un sorso di birra.
“E a te?”
domandò lei. “A te cosa fa stare bene?”.
Lui sorrise.
“Bella domanda. Bella domanda…”.
Poi s’alzò,
lasciò una banconota da venti sul tavolo e si voltò, prendendo computer e
borsa. “Tieni il resto e dai la mancia a Sadie. Le serve una gonna un po’ più
lunga...”.
“No!”
esclamò lei, alzando la voce. Lo trattenne, tirandolo per il braccio. “Non...
non andare ancora...”.
Kanto,
Aranciopoli, Banca Centrale
Il corridoio
che portava al caveau era stretto e molto lungo, e con ogni probabilità i
malviventi avevano fatto saltare il sistema elettrico, per poter lavorare più
rapidamente sull’apertura della camera blindata. La luce era poca e Gold veniva
guidato dai rumori della lotta che Sandra stava tenendo contro i nemici. Essendo
la sede della riserva aurea di Kanto, erano stati predisposti tre grandi
cancelli di acciaio, uno dietro l’altro, a garantire che nessuno avesse potuto
compiere facilmente una rapina.
Il ragazzo
camminava in quella lunga corsia senza sbocchi laterali. Sprazzi di luce al
neon proveniente dall’atrio all’ingresso invadevano piccole porzioni di
pavimento, creando enormi ombre alla fine della sala, che il ragazzo percorse
correndo. Una volta avvicinatosi al primo cancello e vedendo il metallo spesso
ottanta centimetri totalmente piegato su se stesso Gold spalancò gli occhi.
“Cazzo…”
sussurrò il ragazzo. Lo scavalcò e proseguì oltre, pieno di dubbi. “Questi non
dovrebbero essere rinforzati al titanio?”. Penetrò poi nella breccia e passò
accanto al corpo esanime d’uno scagnozzo calpestato dai Pokémon di Sandra.
L’odore di bruciato era forte e penetrante, e non cambiò quando, attraversando il
secondo cancello, si era ritrovato altri tre uomini fuori combattimento.
Ridacchiò. Sandra è una macchina da guerra, pensò.
E poi
successe qualcosa che lo allarmò.
“E tu chi diamine sei?!”.
La voce di
Sandra, terrorizzata, si era propagata attraverso l’eco. Il ragazzo spalancò
gli occhi.
“Ha bisogno
di me!” esclamò, prendendo a correre e superando con un agile salto anche
l’ultimo cancello, prima di entrare all’interno del caveau. Lì la luce era
quasi nulla: soltanto quattro lampade d’emergenza sulle pareti e un neon assai datato
con le griglie sporche a coprirlo, quasi inutile. Tutt’intorno denaro e oro,
sistemati in maniera ordinata e regolare.
Sandra era
proprio davanti a lei, il suo Charizard a difenderla dall’avversario.
E
l’avversario era anch’esso un Charizard; tuttavia era strano.
Era nero,
completamente nero, con gli occhi rossi. Anche la fiamma sulla sua coda era
totalmente scura. Green aveva parlato di un’altra versione di Mega Charizard
qualche tempo prima, che differiva dalla sua; lo ricordava distintamente,
quando aveva lottato col Dexholder di Kanto contro Zapdos a Lavandonia, prima
degli eventi di Hoenn.
Rabbrividì. Non
voleva pensare a quella città.
“Sandra...”
la chiamò lui. “Che diamine succede?”.
“Gold...
Stai attento...” tuonò lei, con un tono preoccupato che non aveva mai sentito.
Il ragazzo
aggrottò la fronte e fissò bene l’avversario: era una donna assai magra, con la
stessa divisa degli uomini che avevano combattuto fino a quel momento. Tuttavia
non indossava alcuna maschera antigas e nessun paio d’occhialoni; aveva i
capelli dello stesso colore di Sandra nonostante fossero acconciati in una
sorta di carré spettinato. Il volto era smagrito ma anche gli occhi erano dello
stesso colore della Capopalestra di Ebanopoli. Aguzzò lo sguardo aureo, il
ragazzo, osservando meglio i dettagli del volto dell’avversaria, e, nonostante
le labbra screpolate e tagliuzzate e gli evidenti ematomi sulle guance e sugli
occhi, non impiegò molto a riconoscerla.
“Ma che
cazzo succede?!” urlò il ragazzo, avvicinandosi alla partner.
Di fronte a
loro c’era Sandra. Un’altra Sandra.
“Non lo so,
Gold, ma quel Pokémon non mi piace…” sussurrò. Fissava dritto quel Charizard,
dalle cui narici fuoriusciva intenso fumo nero. Anche quel Pokémon era strano,
e tutta quella situazione non faceva altro che farle accapponare la pelle. “Non
so chi tu sia e per quale motivo mi assomigli così tanto ma ti consiglio di
fermarti immediatamente ed arrenderti...”.
Quella,
d’altro canto, fissava dritto la donna col mantello, rigida.
“Quella sei
tu…” osservò Gold, esterrefatto e impaurito. Le parole fluirono lente, come
avessero difficoltà a uscire.
“Lo so
benissimo, non c’è bisogno di puntualizzare…” ringhiò l’altra.
“Se ti può
consolare sei molto più gnocca di lei”.
Sandra,
quella che dava il fianco al ragazzo, si voltò per un secondo, congelandolo con
lo sguardo.
“Va bene,
era fuori luogo, hai ragione... Ora cerchiamo un modo per distruggere quel
Charizard e uscire tutti interi da qui”.
La vide
annuire, lui, poco convinta. Lui sapeva che quella donna fosse una lontana
parente dell’uomo che assomigliava a Xavier, e che aveva trafugato il cristallo
dall’Osservatorio a Biancavilla. Rifletteva, e intanto fissava la fiamma nera
del Pokémon.
“Non sarà
semplice” osservò Sandra.
“Per niente.
Quel Pokémon ha fuso il titanio”.
Sandra lo
guardò nuovamente, stupita. “Come sai che è titanio?”.
“L’ho già
rapinata un paio di volte questa banca” blaterò, mettendo mano alla cintura e
afferrando una sfera. Poi la donna che si spacciava per Sandra batté le mani e
quel Charizard ruggì, spalancando la bocca. Scintille di fuoco cominciarono a
brillare nel buio delle sue fauci.
“Exbo!” urlò
Gold, mettendo in campo il suo Typhlosion accanto al Charizard di Sandra.
“Dobbiamo
muoverci attentamente!”.
“Tu lo
combatti in aria e io da terra” rispose prontamente quello.
Sandra
annuì. “Charizard, vola!”:
“Attento,
Exbo!” ordinò invece l’altro.
La donna in
tenuta militare avanzò un passo, con gli occhi spalancati. Le mani, sporche di
fuliggine e sangue erano strette in pugni così chiusi da fare male. Alzò il
braccio, e il suo Pokémon si alzò in volo, gettandosi contro l’avversario,
affondandogli gli artigli nelle zampe anteriori. Il Pokémon di Sandra urlò,
ferito e spaventato.
“Stai
calmo!” gli ordinò la Capopalestra.
Quel drago scuro
teneva stretti gli artigli, col volto serio e le iridi totalmente spiritate;
controllava ogni movimento dell’avversario.
“Exbo! Vai
con Lanciafiamme!” ordinò Gold,
vedendo Typhlosion gettare una grande quantità di fuoco contro l’obiettivo.
Sandra osservò
bene l’effetto dell’attacco, stupendosi poi del risultato. “Fuoco contro fuoco,
va bene... ma è illeso!”.
“Quel
Pokémon è incredibilmente forte! Se me lo fai ripetere di nuovo ti tiro i
capelli!”.
“Charizard!”
urlò poi Sandra. “Cerca di liberarti utilizzando un Attacco D’Ala!”.
E così fece:
chiuse le ali, aumentando il peso complessivo che l’avversario doveva sostenere
e sbilanciandolo, costringendolo ad allargare le braccia per ritrovare
equilibrio ed evitare di schiantarsi; lasciò la presa dai muscoli del dragone
arancione, che si voltò con rabbia, colpendolo con l’ala destra sul volto.
Quello indietreggiò di qualche metro per poi rigettarsi con foga
sull’avversario, colpendolo con una forte spallata.
“Supporto da
terra, Gold” intimò Sandra, levando il mantello.
“Dannazione,
Exbo, Comete!”.
“Buona
idea...” commentò l’altra.
Typhlosion
lasciò partire piccole sfere d’energia che colpirono dritto sul petto il
Pokémon avversario. La donna in tenuta militare indicò poi Exbo, facendo
spalancare gli occhi a Gold.
“No! No, nononono! Sandra, aiutami!”.
Il Charizard
nero s’avventò in picchiata verso Exbo, come un rapace sulla preda ignara.
“Gold!” lo
chiamò la Capopalestra, afferrandogli il braccio nella mano guantata.
Fu un
attimo, Gold sentì il cuore rimbalzargli in gola e scendere nuovamente giù,
forse un po’ troppo. D’istinto prese la sfera di Typhlosion e lo fece
rientrare, per poi farlo riapparire alle spalle del Charizard nero.
“Vortexpalla!” ordinò, vedendo Exbo
eseguire la mossa e abbattersi contro l’avversario.
Efficacissimo.
Quello
ruzzolò parecchi metri in avanti, molto vicino a Gold e Sandra.
“Usa Eterelama!” urlò poi Sandra.
L’altra, la
copia, schioccò solo le dita della mano, con ancora gli occhi spalancati e
folli, e subito Charizard si spostò, lasciando che il fendente d’aria si
schiantasse a meno d’un metro dai due sfidanti.
“Cazzo!”
urlò Gold, voltandosi.
Sandra era
rimasta immobile invece. Vedeva l’avversario rimettersi in volo per
fronteggiare il suo Pokémon; il sangue che colava copioso dalle braccia del
Charizard rosso, e fu proprio lì che quello nero andò a riaffondare gli
artigli.
“Di nuovo,
no! Charizard!” esclamò.
“Questa cosa
deve finire!” ribatté Gold. “Exbo, ancora Comete!”.
Il Charizard
nero vide partire l’attacco e con potenza immane spostò il nemico volante, nascondendosi
dietro di lui. Altro brutto colpo, e subito dopo afferrò l’altro Pokémon Fiamma, sollevandosi in volo.
Arrivato quasi al soffitto, si ribaltò di centottanta gradi, picchiando verso
il pavimento.
“Non può essere...”
sussurrò Sandra.
“Movimento Sismico…”. Gold digrignava i
denti, prima che il Charizard rosso finisse per schiantarsi al suolo, esanime.
“Exbo!
Subito! Rotolamento!” urlò, puntando
il dito contro il nemico. Fu così che Typhlosion si appallottolò e si mosse a
grande velocità contro il Pokémon avversario, colpendolo una prima ed una
seconda volta.
Alla terza
volta però Sandra, quella muta, batté due volte le mani, ordinando
silenziosamente al Pokémon di volare in alto.
Fu allora
che utilizzò un potentissimo attacco Eterelama,
facendo deragliare la corsa di Exbo e costringendolo a fermarsi.
“Gold,
Charizard non ce la fa più...” sussurrò Sandra.
“Non
seguiamo alcuna regola e nessuno ci squalifica! Metti un altro dei tuoi
serpentoni in campo e...”.
E poi quel Pokémon
così potente vide la sua Allenatrice battere tra di loro i pugni; bastò tanto
per scatenare un’ira tremenda che lo vide gettarsi sulla sua preda con ferocia
famelica: Exbo non s’aspettava tanta furia e cattiveria, la picchiata che
Charizard effettuò fu così veloce da coglierlo del tutto impreparato. Cadde di
spalle, quello, col drago che cominciò a graffiarlo iracondo con gli artigli
appuntiti.
“Oh porca
troia! Liberati!” urlava Gold.
Typhlosion aveva la pelle dura, e quindi
decise di girarsi di spalle, per evitare d’essere danneggiato agli organi più
delicati.
“Exbo, sei
un genio! Eruzione!” ribatté, con un
sorriso ritrovato sul volto.
La grande
fiamma del Pokémon s’accese massiva e immediata, bruciando in volto il drago.
Quello non sembrò risentirne più di tanto ma indietreggiò di qualche metro,
sorpreso.
“Come stai,
cucciolo?!” gli chiese, quello, preoccupato. “Dannata draghessa, hai intenzione
di farmi uccidere oggi?!” chiese, alla compagna di squadra.
“Vai,
Kingdra!” urlò quella, senza neppure ascoltarlo e mettendo in campo il suo
Pokémon più rappresentativo.
“E
finalmente!”.
La donna dal
volto omicida spalancò la bocca e corrucciò lo sguardo, come se avesse appena
ricevuto una coltellata nel petto. Le labbra presero a tremare, anticipando una
lacrima nera, sporcata dal trucco ormai sciolto che le adornava lo sguardo. E
cominciò a piangere, a piangere con forza, prima di urlare.
“NOOOO!” fece, riempiendo quel luogo
ormai così silenzioso di una disperazione quasi liquida, tangibile.
“Sandra...
attenta…” disse Gold, impaurito. Le si avvicinò e facendo rientrare Exbo nella
sfera. “Che diamine sta succedendo?”.
“Non... non
ne ho idea, Gold…”.
“Prova a
pensare... in fondo quella sei tu...”.
Annuì,
Sandra. Deglutì e sospirò. “Beh…” cominciò. “Ha preso a piangere non appena ha
visto Kingdra... che è stato il mio primo Pokémon... quello con cui ho iniziato
il mio percorso a Ebanopoli... Forse il suo non è morto...”.
E per la
prima volta, la sentirono parlare.
“NON DIRE
QUELLA PAROLA!” urlò, facendo sbiancare i due.
“Calmina,
eh...” sussurrò Gold, facendo un passo verso sinistra, per avvicinarsi ancor di
più alla donna che aveva accanto.
La videro
inginocchiarsi, mentre il volto si trasformava, diventando una maschera di
terrore e disperazione. Riunì le mani sul viso, pulendolo dal trucco sciolto,
prima di puntellarle sul pavimento. Il respiro del suo Charizard era greve, e
quasi infastidiva i presenti, prima che la donna tornasse a parlare.
“Lei... lei
era con me quando tutto è cominciato... quando il cielo è diventato nero... E
quando sono venuti a prendermi è stata lei a farmi da scudo, finendo per esser
divorata viva. E non hanno scelto di finirla, di mangiarla completamente.
Sadici... l’hanno gettata in mare, per fare in modo che attaccasse quella merda
a qualcun altro...”.
“Ma di che
diamine parli?!” urlava Sandra, esterrefatta.
“Mi ha
salvato la vita! Mi ha salvato la vita!” urlava, in preda alla disperazione.
Charizard, quello nero, si voltò verso di lei e rimase a fissarla, con lo sguardo
più umano che potesse donarle.
Vista
dall’esterno, la disperazione che quella esprimeva era struggente, e
probabilmente Gold si sarebbe avvicinato a lei con fare empatico, se non avesse
capito di trovarsi di fronte a una folle. La videro calmarsi per un attimo, col
viso sporco e lo sguardo basso. Si morse il labbro inferiore, spaccandolo
ulteriormente, col sangue che prese a fuoriuscire e a colarle sul mento.
Era
distrutta, lo si poteva percepire subito. Nonostante tutto si rimise in piedi,
e quando incrociò lo sguardo di Charizard si limitò ad abbassare il capo.
“Che ha
detto?!” esclamò Sandra.
“Niente!”.
Pochi
secondi dopo tutto divenne luce e fuoco. I ragazzi furono immediatamente
accecati dall’attacco del Pokémon, e il calore seccò loro le palpebre, prima
che Gold afferrasse la Capopalestra di Ebanopoli e la gettasse per terra in un
angolo, sovrastandola e proteggendole il capo stringendolo al suo sterno. Si
erano allontanati abbastanza dalle fiamme che stavano divampando e distruggendo
il caveau, ma il calore era immane e si propagava con forza. Lei era
spaventata; sentiva il cuore del ragazzo battere all’impazzata, mentre i pacchi
di banconote alla sua destra prendevano fuoco.
“Gold!”
urlava lei.
“Fermati!
Stai ferma!”.
Sandra girò
il viso, vedendo la piattaforma con l’oro totalmente divelta dal pavimento, e
sollevata. Non riuscì a comprendere esattamente come successe ma i lingotti
stavano per essere rubati e la cosa la impanicò. Cercò di svincolarsi,
spingendo coi talloni per terra, ma immediatamente dopo un crepitio sinistrò
lasciò posto a un boato enorme. Gold non poté fare altro che stringere con
maggior vigore la donna, quasi tutta nascosta dal suo corpo.
E poi
sentirono le lamiere che avevano sulla testa piegarsi e il cemento crollare su
di loro.
“Attenta!”
urlò ancora lui, stringendo occhi e bocca. Sentiva il corpo della donna
sussultare a ogni rumore.
Durò quattro
eterni secondi. Poi soltanto il crepitio del fuoco e quello della pioggia, che
era entrata a benedirli. Il ragazzo non percepiva più nulla. Aveva gli occhi
chiusi e il timore maggiore, in quel momento, era aprirli: se avesse visto il
volto di Sandra senza vita non sarebbe riuscito a perdonarsi.
Quella però
tossì.
“G-gold…”
sussurrò, tossendo nuovamente.
Quello
schiuse leggermente le palpebre.
“Sei viva?”.
“Sì... sto
bene...”. Allungò poi lo sguardo verso sinistra: dove sarebbero dovute esserci
diverse tonnellate d’oro non vi era altro che il tetto rovinato della banca.
“Ha portato via i lingotti…”.
Gold chiuse
lentamente le palpebre, tossendo a sua volta. Piccole gocce di sangue caddero
accanto al viso di Sandra.
La donna
s’impanicò, guardandolo deglutire e sospirare. Era palese il dolore che
provava.
“Non fare il
coglione proprio ora!” disse, con gli occhi che si riempirono di lacrime.
“Ho qualcosa
nella schiena...” ribatté improvvisamente, provando a muoversi. Chiuse
nuovamente gli occhi, strinse ancora i denti. Le lamiere erano poggiate sopra
di loro e il peso del soffitto crollato peggiorava la situazione.
“Cerca di
resistere, Gold!” esclamava quella, facendo forza sui talloni per salire e
sgusciare fuori. Poco dopo lui sentiva il suo respiro sulle labbra, e un dolore
che lo aggrediva nelle gambe e nella schiena
“Fa male,
Sandra...”.
“Lo so, ma
resisti... Tra poco arriveranno ad aiutarci...”.
“Sì…” fece,
tossendo ancora sangue. Gli occhi erano spalancati e piangevano. La guardava,
lei fissava lui, vedendo il suo volto rappreso, che cercava di non lasciarsi
andare.
L’aveva
salvata, probabilmente sarebbe morta, e intanto cercava lo stesso di trattenere
le lacrime, lui, senza riuscirci.
“Gold…”
piangeva, quella. “Non preoccuparti… Stanno arrivando…”.
Gli carezzò
la guancia, e gli sorrise nella maniera più genuina possibile, senza riuscire a
celare l’immensa preoccupazione che l’attanagliava.
“Sicura…
sicura di stare bene?” sussurrava lui, vedendola in lacrime.
“Sì… sì, sì,
sto bene… Kingdra però era fuori… e tu… il sangue… Cazzo!” esclamò, piangendo.
“Sicuramente
starà bene anche Kingdra…”.
Lui le
sorrise nella maniera più genuina che conosceva, mentre le lacrime gli cadevano
dalla punta del naso e terminavano sulle guance della donna.
“Ti prego…”
pianse a sua volta. “Resisti…”.
“Sì…
resisto…”.
“Non
permetterti di morire!” faceva, con le mani bloccate sotto le macerie. “Non
morire!”.
“Pesa…”
faceva quello.
“Ti ho detto
di resistere!” sbraitò, a pochi millimetri dai suoi occhi.
“Io… farò di
tutto perché tu stia bene… ma… ecco… nel caso dovessi…”.
Gli occhi
della donna si spalancarono. “No! Non succederà!”.
Quello
sospirò, stringendo i denti e sussultando. Calò leggermente il capo, sentendo
il suo corpo preme con forza su quello della donna. Poggiò la fronte sulla sua.
“Qualcosa… è
entrato nella mia… schiena…”.
“Stanno
venendo! Guardarmi!” faceva lei, alzando la fronte e toccandogli il naso con la
punta del suo. “Non chiudere gli occhi!”.
“Fa male…”.
Strinse i
denti, lei, cercando di muovere le dita sotto le macerie. La mano destra non
aveva più sensibilità ma quella sinistra funzionava ancora. Lentamente cominciò
a far forza, senza spostare il grosso pezzo d’intonaco e cemento che la
bloccava.
“Forza…”
stringeva i denti lei, spingendo con la fronte contro quella di Gold. Concentrò
la poca energia rimasta e tirò il braccio fuori, liberandolo.
Si alzò
molta polvere. Sospirò, seguendo la linea del braccio del ragazzo e risalendo i
fianchi, sentendovi sangue caldo e viscoso colare.
“Merda!”.
Gold
sorrise. “Ora dovrò buttare questa maglietta…”.
“Non riesci
a essere serio neppure in un momento del genere!”.
Lui sorrise
e tossì. “Per favore… puoi dire a Crystal e Silver che gli voglio bene? E a
Marina…” tossì ancora sangue. “… a Marina che la amo tanto…”.
“No! Glielo
dirai tu! Resisti, cazzo! Resisti!”.
Johto,
Amarantopoli, Tavola Calda “Harold’s”
Cindy
fissava dritto negli occhi Xavier, con lo sguardo provato. Stringeva il braccio
del ragazzo e sentiva il cuore battere forsennato. Si sentiva sfibrata da
quella situazione e il ragazzo stesso riusciva a rendersene conto; vederla
turbata non era ciò che voleva. Nonostante tutto lui l’amava ancora.
“Non andare
via…” ripeté, mentre le calde luci della tavola calda baciavano delicatamente
il viso da bambola della donna. Xavier la scrutò per un attimo, ricordandosi di
quando, da ragazzini, lui passava il suo tempo a fissarla di nascosto. Avrebbe
sorriso se non fosse così compenetrato nel momento, se non si sentisse trafitto
da quello sguardo da preda senza speranza, che cercava d’impietosire il proprio
carnefice. E quello sguardo parlava, riuscendo comunque a non dire nulla.
“Ci
guardano…” sussurrò Xavier, sorridendo amaramente. Forse vent’anni prima si
sarebbe totalmente sciolto vedendo Cindy trattenerlo in quel modo. Ma vent’anni
prima lui era in basso alla piramide sociale, e lei guardava solo in alto,
accorgendosi solo in quel momento che la bellezza dello stare giù era la
possibilità di salire.
Lui lo aveva
capito prima di lei, e lo sguardo così accorato che Cindy gli stava donando era
semplicemente il segnale del fatto che il valore di Xavier fosse cresciuto.
Cindy voleva
qualcosa da lui, ma lui aveva un muro d’orgoglio da non far cadere.
“Che ti
serve ancora?” tuonò l’uomo, fissandola negli occhi, verdi come smeraldi.
Lei guardò
le sue mani, strette attorno al manico della valigetta, poi passò alle labbra,
poco prima di raggiungere gli occhi.
“Non andare
via…” ripeté, con la voce più dolce che potesse usare. Strinse con vigore il
braccio del ragazzo e calò di nuovo gli occhi, incapace di tener testa al
confronto con i suoi. E nel vederla in quel modo, Xavier si ricordò di non
poter diventare il carnefice di quella creatura.
È così che vince sempre… pensò, sospirando e facendo cenno
di no con la testa. Poggiò la valigetta e vide le mani di Cindy scivolare
nuovamente verso le sue.
Si
riaccomodò anche lei, sorridendo gentile.
“Non credo
che questo sia il posto dove poterti mostrare così affettuosa con un altro
uomo…”.
Quella
aggrottò la fronte e sospirò.
“Non
m’interessa di Angelo, né di quel che pensa la gente… Tu sei mio amico e io ti…
ti voglio bene…” disse, dopo una piccola pausa. “Non posso più sopportare la
tua mancanza... Sei stato importantissimo per la mia vita e voglio che sia
ancora così”.
Con lo
sguardò ammorbidito dai sentimenti che provava, lei provava a convincere l’uomo
della bontà delle sue parole. Si scontrava però contro costruito per dividerlo
dal mondo e dai suoi orrori, come l’amore. Ritirò le mani, Xavier, e guardò
fuori al finestrone. Lì, delle persone attraversavano la strada.
“Per
favore…” continuò lei, sporgendosi in avanti.
“Cindy…” disse
poi l’altro. “… hai una vita piena d’impegni e responsabilità… alcuni di questi
li hai presi con un uomo che hai deciso di voler seguire per tutta la vita”.
“Io devo
essere sincera: mi aspettavo di cambiarlo” annuì. “Mi aspettavo di sciogliere
quella corazza fredda e di riuscire a trovare in lui un po’ di calore umano,
qualcosa che non mi facesse spegnere ma...”.
“Ma?” disse
quello, voltandosi nuovamente verso di lei.
“Ma non ce
l’ho fatta… non ci sono riuscita…”.
A Xavier
venne da sorridere, annuendo. Abbassò la testa, stropicciò gli occhi e poi li
rialzò.
“Lui non ha
calore da donarti. Non ne ha mai avuto e mai ne avrà… È sempre stato
interessato solo a quello che il tuo corpo gli ha offerto per tutto questo
tempo…”.
Lei sorrise
amaramente ed annuì. “E gli ho offerto tutto quello che potevo dargli,
innamorata com’ero… nella speranza di poterlo vedere diverso”.
“È
sbagliato. Non puoi cambiare un uomo. Non devi”.
Cindy lo
guardò, rapita da quell’affermazione. Rimase in silenzio, permettendogli di
continuare a parlare.
“Quando due
persone s’avvicinano...Uff…” sbuffò. “Non è giusto modificare il modo di essere
di una persona perché a noi non piace com’è. È la cosa più sbagliata che esista...
Avresti dovuto scegliere una persona che ti fosse piaciuta fin dall’inizio, e
parlo di quello che c’è dentro… Non l’uomo che ti piace esteticamente, con la
Palestra ad Amarantopoli e il modo di fare tenebroso, perché alla lunga rompe
un po’ le palle con gli sguardi profondi e i silenzi prolungati” sorrise.
E lo fece
anche lei.
“Ho fatto
una stupidaggine enorme...” annuì quella. “Non avrei dovuto sposare Angelo”.
“Non ho
detto questo”.
“Lo sto
dicendo io. Avrei dovuto proseguire per il mio cammino, per come si
prospettava. Questo mio colpo di testa mi ha fatto perdere quasi dieci anni di
felicità...”.
Xavier voltò
lo sguardo, vedendo Sadie prendere le ordinazioni dal tavolo accanto.
“È così che
va, la vita…”.
Johto, Isole
Vorticose, Capo Piuma, Grotta Sacra di Lugia
La pioggia
veniva filtrata dalle rocce della volta e cadeva verso il basso, rimbombando
con forza, nel silenzio. I respiri stanchi e sfiniti della donna s’espandevano
amplificati per via dell’eco. Vedendola per terra, Martino le si avvicinò e la
sollevò. Quella però non riusciva a poggiare la gamba per terra.
Marina si
abbassò, vedendo che il piede della donna fosse storto.
“È
fratturato…” sospirò, prendendo una benda dallo zaino.
Martino
guardava quella sconosciuta, mentre piangeva terrorizzata e dolorante. Era
giovane, dai capelli neri d’ebano e la pelle candida, rosata sulle guance. Il
corpo era gracile, gli occhi come il ghiaccio, le labbra rosee.
“Stai bene?”
le domandò, con fare apprensivo. Le stringeva le mani, mentre quella faceva uno
sforzo per sopportare il dolore alla caviglia. Marina, dal canto suo, cercava
di essere quanto più rapida ed efficace possibile. A quella domanda, la donna
abbassò lo sguardo, e sospirò. Pianse ancora, prima di cominciare a ricordare.
“È stato
terribile…” sussurrò, con un filo di voce. “Ha ucciso tutte loro…” poi il
pianto ebbe la meglio sul suo autocontrollo.
Quello la
strinse al petto, cercando di farla sentire protetta. Sua sorella inarcò un
sopracciglio, tirando fuori lo Styler dalla cintura.
“Noi siamo
Ranger… Siamo specializzati in questo tipo di operazioni… Lei è Marina, mia
sorella, e io mi chiamo Martino. Tu invece come ti chiami?”.
“Altea…”
sussurrò quella, tremando nel rifugio creato dalle braccia forti dell’uomo. “E…
e sono una delle Kimono Girl”.
“Lo avevo
intuito. Vivi qui sull’isola?”.
“Martino...”
interruppe Marina. “Farete conoscenza più tardi...” sospirò. Davanti a loro
v’era il grande ingresso alla parte più interna dell’antro. Una forte corrente
soffiava verso l’esterno, producendo un rumore tetro e sinistro, come fosse
stato un lungo lamento trascinato lungo quei pavimenti rocciosi ed irregolari. Entrarono
in quello che sembrava essere un corridoio infinito e buio, rischiarato da
Pichu e dalla luce che emanava col suo Flash.
Poi ancora
un lamento.
AIUTATEMI! VI PREGO!
Marina bloccò
immediatamente i suoi passì. Mosse la testa verso Martino, incontrando gli
occhi lucidi di Altea e mostrando sgomento. La Kimono Girl sospirò e annuì.
“Lo senti
anche tu, vero?” chiese quest’ultima.
La Ranger annuì.
“Ma cosa?!” aveva
esclamato invece Martino, irritato, mentre continuava a sostenere il gracile
corpo della donna.
“La sua voce…”
gli rispose la sorella. “Lui mi sta parlando”.
“In genere
lo fa alle donne col kimono... ma è
possibile che qualunque donne dal cuore buono riesca a sentirlo”.
Martino
batté le palpebre un paio di volte e annuì. “E che dice?”.
“Ha bisogno
di aiuto” dissero entrambe, all’unisono.
Martino
sospirò e annuì. “Dobbiamo sbrigarci, allora”.
Aumentarono
il passo, Martino caricò Altea sulla schiena, portandola a cavalcioni. Più
s’avvicinavano alla propria meta e più il rumore dell’acqua che scrosciava
aumentava, come anche il vento gelido che soffiava sui loro visi. Un sentore
luminoso azzurro cominciava a espandersi da quella che credevano essere la fine
del corridoio e poi, quando arrivarono lì, lo videro: l’uomo con gli occhi
rossi e il suo Raikou nero.
Si
guardarono.
Marina
sobbalzò, vedendo quel grosso Pokémon in quelle vesti così strane. Il suo
proprietario pareva poco sorpreso di vedere lì gli avventori; si limitò a
girare la testa e a sospirare, più curioso che spaventato, nonostante fosse
stato colto sul fatto.
“E voi chi
sareste?” domandò quello, totalmente asettico.
Martino
rimase immobile, fissando la scena che gli si era presentata davanti: Lugia era
posto al centro d’una grossa sfera giallastra di pura energia, collegata
direttamente a quello stranissimo Pokémon nero. Sembrava elettricità e stava
letteralmente consumando il protettore dei mari, poco a poco.
“Ma cosa…”
sussurrò Marina, aggrottando le sopracciglia. Alle spalle di Lugia vi era una
grossa luce blu, emanata in ogni direzione. La donna si sporse per guardare
oltre, vedendo un grosso altare accerchiato dallo scroscio di una cascata
altissima.
“Cosa stai
facendo a Lugia?!” domandò inorridita. Poggiò poi lo sguardo su quell’uomo:
biondo, capelli ben pettinati e volto pulito. Sembrava uno di quei modelli che vedeva
sui cartelloni della metropolitana. Bello. Ma aveva lo sguardo spalancato e le
iridi rosse che puntavano su di lei.
“È lui...”
sussurrò Altea, nascondendo il volto dietro la nuca di Martino. “È l’uomo che
mi ha sconfitta”.
“Siamo
Ranger della divisione regionale di Johto! E ti dichiariamo in arresto!” urlò
la donna, stringendo lo Styler con vigore. Guardò poi l’uomo sorridere
divertito, stretto in un lungo soprabito di pelle nera. Poggiò poi gli occhi su
quello stranissimo Raikou.
“Ranger?”
tuonò lui, leggermente divertito. “E che ci fareste qui?”
Quelle
parole sbatterono contro il viso del ragazzo, schifato e terrorizzato contemporaneamente.
Empatizzava con Lugia, quasi provava il suo dolore.
“Che cazzo
gli stai facendo?” chiese, a denti stretti.
“Lo sto
controllando. Sto facendo in modo che faccia ciò che voglio io”.
“E vedi di
smetterla immediatamente!” urlò poi, come risvegliatosi. Poggiò delicatamente
Altea sul pavimento e affiancò sua sorella. La cosa ringalluzzì Marina.
“Perché stai
facendo questa cosa orribile? Quel Pokémon non ti ha fatto nulla” gli domandò.
Xavier
sorrise. “Nessuno mi ha fatto qualcosa, amici miei. Sono semplicemente
curioso”.
“Curioso?!”
esclamò Martino, guardando sua sorella incredulo. “Lui è curioso...”.
“Già” annuì
quello. “Sono uno scienziato e per me la comprensione degli eventi è tutto.
Ecco perché è importante che controlli gli effetti della furia prolungata di
questo meraviglioso Pokémon sulla società di oggi…”.
Marina lo
sentiva parlare e intanto aveva preso il Pokégear, scattandogli una foto.
Quello non parve essersene accorto.
“Rischi di
ammazzare persone, in questo modo!” esclamò con forza Martino.
“Beh... Dei
danni collaterali sono più che plausibili, all’interno di determinati
contesti...” rifletté quello, con ancora sul volto quel ghigno divertito.
“La vita
delle persone ha un valore!”.
“Non per me.
Quello che conta è accrescere la consapevolezza di cosa succede attorno a noi”.
“A che
scopo?! La conoscenza è un bene collettivo, di cui dovrebbero beneficiare
tutti!”.
“Non sono
così immorale come credete… Non più delle persone che hanno già sventrato
questo posto, almeno...”.
Marina
inarcò il sopracciglio destro e schiuse le labbra.
“Di cosa
stai parlando?”.
Quello
sorrise di nuovo. “Questa è una storia molto vecchia e lunga... ma mi siete
simpatici e quindi ve la racconterò: tutto cominciò diversi millenni fa;
esistono dei posti così simili a quelli che abitualmente frequentate ma così
distanti da voi che neppure riuscireste ad immaginare. Trasposizioni dei nostri
posti, dei nostri mondi... delle nostre persone, ma in una chiave di lettura
differente. Certo, ognuno di noi è diverso, poche persone possono dire di
assomigliarsi in tutto e per tutto ma in questo caso, differenti... chiamiamoli
fattori... hanno contribuito a cambiare loro del tutto personalità e stile di
vita. Alcuni di questi posti sono molto simili a quelli di questo universo ma
diametralmente opposti nel concreto della propria essenza. E io questi posti li
ho visti. E ne ho visti altri in cui la gente poteva apparire a proprio
piacimento dove volesse…”
“Non sto
capendo un’emerita mazza...” sussurrò Martino.
“Questo è un
folle” sospirò Marina, stringendosi a
lui.
L’uomo mosse
qualche altro passo in avanti.
“Queste
persone erano in grado di viaggiare tra le varie versioni degli universi. Una
cosa pazzesca, se ci pensiamo, no? Adesso tu, bella signorina, potresti
viaggiare nel tempo e nello spazio come ti pare, muovendoti al di fuori dei
limiti spaziotemporali e andando a finire, per esempio, in un universo dove la
Terra è al posto di Marte o dove i nazisti hanno vinto la seconda guerra
mondiale. Potresti andare a finire, chessò,
in un mondo dove il Medioevo non è mai terminato o dove vige una glaciazione
perenne. Arceus è stato fantasioso nel ricreare questo sistema, quest’ordine,
in cui ognuno può effettivamente esistere in luoghi infiniti senza neppure
saperlo. E forse aveva anche pensato al fatto che qualcuno, in questi universi,
sapesse del fatto di non essere l’unico a vivere, per esempio, a Edmund Elm
Street, nell’appartamento al quarto piano, il numero sei. Quell’appartamento
esiste e non esiste infinite volte ed è abitato e non abitato da un signore,
che può essere il signor Richard, il signor Mark, o anche voi, miei cari
fratelli”.
“Come sai
che siamo fratelli?!”.
“Vi conosco
già. Non conosco voi ma ho conosciuto i vostri alter ego. I vostri doppleganger, ecco. Ho visto i vostri
corpi imputridire al freddo dell’inverno di Oblivia, dove il fiato si gelava
non appena uscito dalla bocca”.
“Continuo a
non capire” riprese Martino. “Cosa c’entri tu con Lugia e questa situazione che
ci stai dicendo?”.
“Mi avete
bollato come immorale e voglio dimostrarvi che siete in errore. Io ho la mia
morale. Non ho alcuna intenzione di parlarvi di me però, e vi ho detto anche
d’essere più giusto delle persone che nei secoli hanno sventrato questo posto”.
“Ma chi?!
Cosa è successo?!” s’irritò ancor di più Martino.
“Dietro di
Lugia c’è un altare. Lo vedete?”.
Marina
annuì, mentre suo fratello dovette sporgersi, adocchiando la costruzione
marmorea che sembrava sorgere dalle acque della cascata. Era un’ara bianca, con
su un bassorilievo ormai rovinato dall’acqua che mostrava le figure di quattro
pietre e un cubo.
“Quello è
l’altare sul quale veniva poggiato l’Arcan,
un oggetto dai poteri incredibili, che è stato più volte trafugato. Ora è
andato disperso, più o meno... ma il potere di questo strumento prevarica ogni
umana concezione”.
“E...
allora?!” chiesero in coro i due Ranger.
“E allora
nulla, ragazzi. Allora siete destinati a sguazzare nella voluta ignoranza,
nell’inconsapevolezza dei mezzi che avete a disposizione. Mi siete simpatici e
non vi ucciderò. Ma vi lascerò questa bella gatta da pelare” sorrise.
Saltò
agilmente in groppa a Raikou e sorrise, fissando con sguardo malizioso Marina.
“Arrivederci…”.
Poi Raikou
ruggì, un lampo riempì i loro occhi e quell’uomo sparì.
Erano
rimasti solo loro due, Altea e Lugia, che intanto urlava come se fosse impossessato.
Il battito delle sue ali alzava una grande quantità di vento, schiacciando sui
loro corpi i vestiti umidi.
“Calmati,
Lugia! È andato via!” urlò Martino.
“Lascia
parlare Marina!” ribadì Altea, alle sue spalle.
Il ragazzo
si fermò e sospirò, guardando il volto impaurito di sua sorella; lei, dal canto
suo, aveva davanti agli occhi un titano, un essere gigantesco e infuriato.
Aveva le ali allargate e gli occhi spalancati. Piccoli capillari ricchi di
sangue si diramavano dalle iridi viola. Sentirono un forte tuono rombare
all’esterno della grotta, seguito poi da un altro e un altro ancora.
Il vento
nella grotta non accennava a diminuire.
“Che diamine
succede?! Marina, digli qualcosa!” esclamò il Ranger, preoccupato. Incontrò gli
occhi impauriti della ragazza, schiariti dal bagliore bluastro che attraversava
prepotente la cascata e s’espandeva finché moriva, stanco e sbiadito.
Lugia ruggì.
NON RESISTO PIÙ!
“Stai calmo,
Lugia! È finita!” urlò la Ranger. “Lo abbiamo cacciato, è andato via! Ora puoi
tranquillizzarti!”.
FA MALE! FA TROPPO MALE!
E poi un
enorme attacco Aerocolpo fuoriuscì
dalle fauci del Pokémon, che si alzò in volo e lanciò un altro incredibile urlo.
L’eco s’espanse per la grotta, seguito da un tuono fortissimo.
“Stai
attenta!” urlò Martino, correndo verso la sorella e spingendola, evitandole in
parte la grande bomba d’aria lanciata dal Pokémon. Quella fu colpita
leggermente alla coscia destra, roteando sul proprio asse, in aria, e rovinando
con violenza per terra.
“Dannazione...”.
DEVE… SMETTERLA! DEVE SMETTERLA!
“Di fare
cosa?!” urlava Marina, rimettendosi in piedi. Si voltò e spostò i capelli dal
viso, guardando suo fratello aiutare Altea a mettersi al sicuro. “Martino!”
urlò poi. “Dobbiamo acquisirlo con lo Styler!”. Quello sorrise, dando le spalle
alla Kimono Girl.
“Non avevamo
abbastanza pensieri per la testa, vero?”.
“Che
dovremmo fare, altrimenti?!” indietreggiò l’altra, tenendo sempre lo sguardo
sul Pokémon che intanto s’alzava in volo. “Non possiamo permettere che vada in
giro per Johto a seminare il panico!”.
Martino
sbuffò, correndo di nuovo al centro della grande riva di quel lago sotterraneo.
“Andiamo!” urlò vedendo partire il sensore dell’apparecchio d’acquisizione di
sua sorella. “Ora tocca a me!”. Si frappose tra Lugia e sua sorella e si
abbassò sulle gambe. “Dobbiamo cercare di circoscrivere i suoi movimenti e...”.
Idropompa.
“Attento!”
urlò Altea, con lo sguardo terrorizzato. La grande colonna d’acqua si schiantò
proprio in corrispondenza della posizione di Martino che, se non altro, era
riuscito a dribblare l’attacco verso destra.
“Odio uscire
di casa...” sospirò il Ranger, facendo leva sulle braccia e risollevandosi in piedi.
Marina
continuava a far girare la trottola attorno al Pokémon, ancora in volo, ancora
generatore di quel vento terribile.
“Cerca di
calmarti!” gli urlò quella, per timore che il rumore della folata coprisse la
sua voce. “Siamo qui per aiutarti!”.
IL DOLORE! IL DOLORE È TROPPO!
E partì un
altro Aerocolpo, che si abbatté
parecchio vicino allo Styler, facendolo sbalzare ed annullando la sequenza
d’acquisizione.
“Oh,
dannazione!” si lamentò il Ranger. “Non posso continuare a fare da bersaglio
umano ancora per molto! Avevo voglia di mettere le cose a posto nella mia vita,
di sistemarmi! Non voglio morire qui dentro!”.
“Ricominciamo
l’acquisizione!”.
E così la
trottola partì di nuovo.
Martino era
basso sulle ginocchia, cercando di calcolare la mossa successiva. Valutava le
sue possibilità e aveva compreso che non aveva molte chance di uscire da quella
grotta sulle sue gambe se non avesse realmente aumentato le probabilità di
acquisizione, aiutando sua sorella. Anche perché quello era Lugia, non un Pokémon
qualsiasi.
Non che non
avessero mai fronteggiato dei Pokémon leggendari. Aveva avuto per mesi gli
incubi riguardo il terrore che aveva provato, quando a Hoenn Rayquaza aveva
colpito Marina.
Vederla
inerme per terra fu terribile, dato che si era posto sempre come primo
obiettivo la protezione e l’incolumità di sua sorella.
“Forse
potrei attaccarlo con Pichu” ragionò lui.
“Non farlo!”
replicò velocemente Marina. “Sta già soffrendo abbastanza!”.
Un nuovo
attacco Idropompa s’abbatté violento
contro Martino, che indietreggiò prima di essere colpito dal rimbalzo
dell’acqua; rovinò velocemente indietro, ruzzolando di qualche metro, più
vicino ad Altea che a Marina.
“Dimmi che
stai bene” chiese in lacrime la moretta dagli occhi limpidi.
Martino si
risollevò, sporco di polvere e fango. Sputò per terra un po’ di sangue e
sbuffò. “Alla perfezione. Tu?”.
Non aveva
evidentemente colto l’ilarità di Martino, perché non accennò neppure un minimo
sorriso.
Il vento
continuava ad aumentare.
“Pichu!
Aiutami con Flash!” esclamò poi. Il
Pokémon eseguì nel preciso istante in cui il display dello Styler segnava
chiaramente che avesse ancora da compiere sessanta giri.
Flash lo avrebbe inibito per qualche
secondo e gli avrebbe lasciato guadagnare una decina di giri, ma rimanevano
comunque altri cinquanta rotazioni in cui quel dannatissimo puntatore non
doveva staccarsi da terra.
E Lugia
sembrava averlo adocchiato.
“Me, Lugia!
Guarda me!” urlava Martino, lanciandogli un sassolino sul capo. Quello si voltò
immediatamente e ruggì.
LASCIAMI STARE!
“Attento! È
furioso con te!” allertò la sorella. Videro poi l’enorme Pokémon battere
velocemente le ali e caricare una sfera d’energia dalla bocca.
“Iper Raggio... Marina, è il caso di
accelerare...” rimbeccò velocemente quello, stringendo i denti.
“Stai
attento!”.
Martino non
s’era chiesto come avrebbe fatto ad evitare un fascio d’energia veloce come la
luce. Tuttavia Altea sì.
S’alzò
rapidamente in piedi e zoppicò fino a raggiungere il Ranger. Poi mise in campo
il suo Pokémon.
“Vaporeon! Protezione!”.
La voce
della donna si espanse lungo la volta della grotta e raggiunse anche le
orecchie di Marina, che intanto teneva d’occhio lo Styler. “Ancora venticinque
giri. Resisti...” sussurrò.
La forza
dell’attacco del Pokémon leggendario fu terribile: il fascio luminoso fu così
accecante da costringere tutti a stringere gli occhi. Tutti meno che Vaporeon,
ben piantato sulle quattro zampe, che riuscì a creare una barriera protettiva
qualche attimo prima che l’attacco si schiantasse contro di loro.
Martino
cadde indietro, per lo spavento; stava iperventilando, affondando le dita nel
fango e scivolando ancor più indietro, inconsciamente diretto verso l’uscita.
“Cazzo!”
urlava.
“Dovresti
proteggerti” lo rimproverò Altea.
“Manca
poco!” urlò invece l’altra.
Tre.
Due.
Uno.
Lo Styler
s’illuminò per qualche secondo, prima di fermarsi e venire raccolto da Marina.
Il vento si
calmò.
AIUTAMI… TI PREGO…
Altea si
voltò verso la Ranger e annuì.
“Parla con
te…” disse.
Marina spalancò
gli occhi. “Siamo qui per questo” fece, e poi sorrise dolcemente.
DIETRO… DIETRO DI ME…
L’enorme
Pokémon s’abbassò, allargando le ali e permettendo a Marina di salirgli in
groppa. Per Martino fu come vedere l’abbassamento d’un grosso ponte levatoio,
dalle dimensioni imponenti.
“Dietro le
ali?” chiese la donna al Pokémon.
SÌ… LO HA INFILATO QUELL’UOMO…
Marina
poggiò delicatamente la mano sul piumaggio candido del Pokémon; lì era sporco
di sangue. Saggiò con i polpastrelli la superficie regolare, carezzando la base
delle ali e poi in mezzo, dove qualcosa di metallico spuntava tra le penne.
Era stato
infilato nel corpo del Pokémon.
“Hai
qualcosa qui. Adesso cerco di estrarlo e dopo provvederemo a medicarti.
Potrebbe essere necessario andare in un Centro Pokémon e...”.
NON CE NE SARÀ BISOGNO. MA TU AIUTAMI…
“Sì, sono
qui per questo, tranquillo”.
Prese dalla
borsa le garze e i tamponi d’ovatta. Poi afferrò la testa di quell’oggetto di
metallo e, facendo pressione sulla schiena del Pokémon con l’altra mano, lo
estrasse, rimanendo per qualche secondo a fissarlo: pareva essere una strana
sonda, con l’estremità inferiore appuntita e quella superiore più larga,
appiattita, con una sorta di videocamera all’interno. Piccoli artigli
fuoriuscivano lungo l’intero telaio metallico, atti a rimanere arpionati alla
carne dell’ospite.
Una volta
tirato fuori il Pokémon spalancò le ali e s’alzò in volo. Marina sobbalzò,
impaurita.
STAI TRANQUILLA.
E poi vide
la grande ferita rimarginarsi come per magia. Il sangue impregnava ancora il
piumaggio candido ma i lembi aperti della carne parvero non essersi mai
separati.
“Co… Come…”.
Il volto
della donna, dapprima sconvolto, fu colorato da un sorriso.
“Sei
incredibile…”.
COSA VI HA PORTATI QUI?
Marina annuì.
“Fuori piove
da ormai troppo tempo, ed è colpa della tua furia. Le cose devono tornare al
loro flusso regolare”.
Lugia parve
capire immediatamente e, quasi subito, il rumore della pioggia che batteva
all’esterno della grotta si calmò.
TRA POCO SARÀ TUTTO A POSTO…
La donna
scivolò lentamente verso il pavimento, aiutata poi da suo fratello.
“Non ci ho
capito nulla” fece lui, portando le mani ai fianchi. Si voltò quindi versò
Altea, e annuì, come ricordandosi di qualcosa di importante.
Poi le si avvicinò.
“La pioggia
si è calmata” osservò quell’ultima, col volto ancora scosso. “Ce l’avete
fatta…”.
Martino si
abbassò, facendola salire a cavalcioni.
“Dobbiamo portare
lei e le altre donne col kimono
all’ospedale al più presto”.
Kanto, Aranciopoli,
Banca Centrale
“Che sta succedendo?! Ragazzi! Dove
siete?!”
Sandra stava
per perdere conoscenza; stringeva la mano destra di Gold e con la sinistra gli carezzava
i capelli dietro la nuca. Gli aveva ripetuto che sarebbe andato tutto nel modo
giusto e che avrebbe dovuto resistere, altrimenti avrebbe trovato il modo per
distruggergli la vita anche da morto. Lui aveva sorriso, aveva bofonchiato
qualcosa e mano a mano il suo corpo era diventato sempre più pesante.
Quando sentì
la voce di Red, Sandra spalancò gli occhi, stringendo al petto il volto di
Gold.
“Siamo qui!”
urlò, sentendo la propria voce rinchiusa nelle lamiere.
I passi
dell’uomo anticiparono quelli di decine di persone. L’ex Campione si voltò in
direzione di quelle, dicendo loro di stare attenti.
“Siamo qui!”
ripeté Sandra, cominciando a iperventilare. “Qui c’è Gold! Ha una cosa nella
schiena!”.
“Cosa?!” sentì. “Dove siete?!”.
“Non lo so!
Ma state attenti!”.
“Se spostiamo tutto senza fare attenzione
rischiamo di ferirlo ancora di più…” aveva ragionato quello che sembrava
essere Silver.
“Fate
presto!” urlò ancora quella, sentendo il respiro di Gold diventare sempre più
greve.
I ragazzi
cominciarono a levare le macerie più pesanti. Sandra sentiva il ragazzo
imprecare a ogni sollecitazione.
“Avete un
futuro da dentisti...” sussurrò quello.
“Ti sembra
il momento di scherzare?!”.
Quello alzò
gli occhi e la guardò. “Sono steso su di te ed ho le tue tette a quattro
centimetri dal volto... vuoi davvero parlare di momenti per fare cose?”.
Quella
sbuffò e alzò lo sguardo, quando una grossa lamiera fu spostata e consegnò un
corridoio di luce e aria pulita ai due.
“Piano...”
sussurrò quello.
Lentamente
sollevarono tutte le lamiere. Tutte tranne una.
“Gold... dannazione...”.
Era la voce
di Yellow, quella a essere preoccupata: aveva visto un angolo della lamiera, piegato
durante lo schianto, conficcato al centro della schiena del ragazzo.
Sandra
guardava il volto preoccupato di Blue e quello serio di Green, mentre stava
stesa con la testa nella polvere sporca di sangue. Poi sentì la testa del
ragazzo abbandonarsi su di lei.
“Veloci!
Cazzo, veloci!”.
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