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Merry Christmas or whatever...

Merry Christmas or whatever...
 
Universo Z, Unima, Austropoli
 
Voltò velocemente l'angolo, Yvonne, stretta nei ruderi di quel vecchio soprabito sdrucito beige. Quel giorno era riuscita a rubare un paio di mele ed un pezzo di pane. Il cielo era limpido ma gli alti palazzi lo nascondevano, unendosi sulle sommità e lasciando che la volta sparisse tra le mura sporche di fuliggine.
Molti di quei palazzi erano impraticabili.
Yvonne non mangiava qualcosa di dolce da parecchio tempo. Pensandoci, erano due giorni che non metteva qualcosa sotto i denti ed il solo possedere quelle due mele ed il piccolo pezzo di pane raffermo all'interno della borsa la riempiva contemporaneamente d'ansia ed eccitazione.
Pensava a Xavier, quando l'avrebbe saputo.
Diamond lavorava alla mensa comune ed aveva chiaramente un debole per lei.
Tutti avevano un debole per Yvonne, con i lunghi capelli biondi e gli occhi grigi.
Quando lei andava alla mensa comune Dia le consentiva di prendere qualcosa senza che nessuno se ne accorgesse.
Non era una ladra professionista, anzi, Diamond faceva finta di non vedere, sperando che quelle due mele ed il tozzo di pane secco portassero a qualcosa di buono.
Tuttavia il cuoco non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile che un ragazzo così tetro e triste come X fosse riuscito a conquistare la fiducia di una perla come Yvonne pronunciando meno di dieci parole al giorno.
Voltò l'ultimo, pericolosissimo angolo, Y, camminando poi fino a metà del vicolo, fino a quando un rumore sinistro la fece voltare alle spalle, di scatto.
Prim'ancora di riuscire a vedere cosa fosse successo, fu sbattuta con le spalle contro il muro di mattoni rossi. Gli occhi le si spalancarono automaticamente, ed in maniera quasi primordiale fece un rapido check del volto della persona che aveva davanti.
Strinse la borsa con le mele ed il pane al petto, prima di rendersi conto che di fronte aveva una persona, che anche se brutta e meschina, con la barba incolta e più denti mancanti che cariati, in quella bocca maleodorante, era pur sempre una persona.
Un ladro, un rapinatore, forse un meschino stupratore; succedeva.
Almeno non era uno delle bestie.
"Dammi la borsa!" urlò quello, massiccio com'era. Le pupille dell'uomo erano dilatate, probabilmente era sotto l'effetto di qualcosa venduto all'interno della vecchia Palestra di Artemisio. Quel posto era pieno di spacciatori.
Lei ed X non prendevano quella roba; quelle cose erano per i disperati ed Yvonne non si disperava mai. In Yvonne cresceva viva la speranza.
Ma spesso aveva paura, lei, perchè viveva nel pericolo da quasi quattro anni ed ancora non s'era abituata ai soli neri, alle giornate di pioggia di fuoco ed alle cattive persone.
Tranne qualche angelo muto, lì erano tutte cattive persone.
L'uomo, fasciato nello stretto giubbino di pelle, strattonava la tracolla di canapa indiana che conteneva il pranzo per lei e Xavier, continuando ad intimarle di lasciarla.
La forza di quell'uomo pareva incontenibile e la rabbia lo spingeva ad andare fino in fondo, afferrando la cinghia della borsa proprio sopra al seno e sbattendola contro il muro ripetutamente, più e più volte.
"Lasciami andare! Aiuto!".
"Dammi questa borsa, troia!".
"No!" prese a piangere quella. Il trucco già disordinato si sciolse sul viso, alimentando l'espressione disperata che si  era dipinta in volto; non avrebbe lasciato quella borsa. X non mangiava da giorni, doveva darsi da fare per lui. Gli diede uno spintone, cercando di allontanarlo e di scappare, entrando nel portone e chiudendosi in casa ma quello era grosso e pesante e non riusciva a spostarlo neppure di pochi centimetri.
“Lascia la borsa!” urlò di nuovo, colpendo con una forte manata la donna sul volto, facendola sbattere sul muro di mattoni sporchi alle sue spalle.
Le mani non lasciavano la tracolla.
“Ti prego! Lasciami stare!” piangeva quella.
E poi un lampo nero tagliò in due il tempo, creando un attimo vuoto, dove il cuore si riprese dallo spavento e la sorpresa crebbe nel petto di Yvonne, condividendo il posto con la paura.
Il manigoldo indietreggiò, lamentoso e dolorante, dopo esser stato colpito violentemente al volto.
La donna si rese conto che fu qualcuno a difenderla. Lentamente spostò il viso verso destra, da dov’era venuta lei, vedendo il volto contrito di Black bruciare con lo sguardo quell’armadio in giacca di pelle.
“Questa è una donna. E le donne non si toccano”.
Il cuore di Yvonne saltò un battito; respirava con la bocca, lei, mentre i lunghi capelli biondi, quelli sfuggiti dalla presa della treccia, venivano alzati dal vento e le impedivano di vedere il suo salvatore.
“Non costringermi a mettere mano alla sfera...” minacciò quello.
Gli occhi del malfattore si spalancarono. Si pulì dal sangue che fuoriusciva dal labbro spaccato ed indietreggiò ancora, spaventato. Osservava la superficie rossa ed opaca della parte superiore della Pokéball.
“Vado via! Vado via! Lasciami in pace, non cerco guai!” disse, voltandosi e correndo goffamente via.
Black sospirò, accorgendosi dello sguardo di Yvonne che lo scrutava, impaurita ma rincuorata dalla sua presenza. Sapeva che quella stesse osservando i suoi occhi color nocciola, nascosti dietro l’espressione accigliata, concentrata.
“G-grazie...” fece quella, facendosi forza sulle gambe che tremavano per rimettersi dritta. L’eroe sospirò ed annuì come costernato, offrendole la mano.
La bionda l’afferrò subito.
“Non dovresti battere questi vicoli tutta sola”.
Lei fece spallucce e sistemò la treccia, facendola cadere sulla spalla destra, dove il cappotto era più consumato. “Io vivo qui” fece, con la voce che tremava.
Lo vide annuire, mentre il vento scompigliava anche la sua capigliatura, non troppo ordinata e dalle stesse fantasie cromatiche dei suoi occhi.
“Stai attenta. Hai per caso un Pokémon?”.
Yvonne abbassò lo sguardo, scatenando il sorriso in Black. Le piaceva quando rideva.
“No, tranquilla. Non voglio rubartelo... Eventualmente tu ne possieda uno sarebbe meglio che tu non te ne separassi”.
“Ho un... un Fletchling...”.
Lui continuava a sorriderle mentre le stringeva la morbida mano. “Un Pokémon molto valido! Allenalo, potrà proteggerti in situazioni simili”.
Yvonne annuì. “Grazie mille...”.
“Mi chiamo Black”.
“Yvonne Gabeña. Y, per gli amici”.
“Va bene, Y... Lascia che vada. Entra in casa e stai attenta”.
Avvampò violentemente, lei, quindi annuì e lo vide proseguire da dov’era venuto. Rimase qualche secondo a metabolizzare quello che le era accaduto prima di sbrigarsi ed imboccare il portone del palazzo dove viveva.
Quarto piano, i corridoi ed i pianerottoli sembravano poter crollare da un momento all’altro; la finestra al terzo piano era stata sostituita da una busta di plastica nera, opaca e consunta, che lasciava entrare neve, pioggia e vento. L’intonaco era caduto dalle pareti già da parecchi anni, lasciando spazio sui muri a grosse macchie d’umidità e di muffa.
La porta di casa sua era stata forzata, qualche mese prima. Era notte, e sia lei che X dormivano.
Avevano rubato due bottiglie di vetro, vuote, e la penna che quella custodiva gelosamente nel terzo cassetto del mobile del soggiorno/cucina/camera da letto.
Pearl, che viveva accanto, era riuscito ad aggiustare la serratura con qualche colpo di martello ben piazzato ma dubitava sinceramente delle capacità manuali del ragazzo; era sicura che al primo soffio di vento la porta avrebbe cigolato in quella maniera sinistra che entrambi avevano imparato a riconoscere.
Anche quel giorno cigolò, quando Yvonne entrò, sana e salva e con due mele ed un pezzo di pane da mangiare.
Le finestre erano totalmente chiuse, come sempre; X non sopportava la luce del sole, nonostante in quel periodo dell’anno fosse rarissimo vederlo affacciarsi dai balconi del cielo. Pearl aveva sentito da Platina che quella settimana avrebbe dovuto addirittura nevicare.
Aveva accolto la notizia con un pizzico di malessere: non avevano l’abbigliamento adatto per affrontare le temperature basse e la neve sporca che si depositava sugli altrettanto sporchi asfalti della città.
Chiuse la porta a chiave e mosse qualche passo verso il tavolo, dove poggiò la borsa.
X era ancora a letto, avvolto nelle coperte che avevano trovato in quell’appartamento qualche anno prima. Le stringeva, il ragazzo, nonostante puzzassero incredibilmente di stantio.
La bionda sorrise, vedendo l’amico di una vita dormire stanco e sfatto. Quella notte era rimasto alla finestra per accertarsi che le mura di frontiera non crollassero.
Yvonne era sicura che non l’avrebbero mai fatto. Erano riusciti a fuggire ad Austropoli poco prima che l’intera Kalos sprofondasse nel sangue portato da quelle bestie che si mangiavano a vicenda.
Miracolati, loro, assieme a pochi altri.
Le faceva strano comprendere che i suoi amici, sua madre e persino qualcuno tra i suoi Pokémon fosse rimasto vittima della grande malattia.
La chiamavano così, quella disgrazia che aveva sgretolato le vite di tutti.
Prese le due mele ed andò verso il letto, sedendosi accanto al corpo stanco dell’amico. Da due mesi a quella parte, quando tutto era cominciato, il fisico di X era andato lentamente a sciuparsi, come anche quello della ragazza.
E quando si ha fame il sonno e la fame stessa, diventano di più. Quando si ha paura diventa di più anche la voglia di calore umano.
E due corpi freddi e tremuli, due foglie secche nelle tempeste d’autunno, di calore non ne avevano se non nei propri occhi, dove il fuoco ancora ardeva forte.
In quelli d’Yvonne sì, per lo meno.
X non ardeva più, lasciatosi trasportare da quella fuga soltanto per paura che ad Yvonne fosse potuto succedere qualcosa durante il viaggio da Kalos ad Unima.
Il letto cigolò quando lei si sedette accanto a lui. Lo scoprì leggermente ed alzò il volto, verso la finestra dalla quale l’uomo aveva passato la notte a scrutare l’orizzonte. Lì c’era una candela, che aveva prontamente acceso prima d’uscire di casa.
Quello era il loro albero di Natale.
“Xavier... Sveglia, Xav...”.
Quello si lamentò debolmente, schiudendo le palpebre con lentezza esemplare. “Ti ho detto mille... mille volte che non mi devi... che non mi devi chiamare così...”.
Quella sorrise, baciandogli la guancia. “Buon Natale, X”.
“Grazie, Gabeña...”.
“Ho portato due mele”.
Gli occhi del ragazzo rimasero vuoti d’emozioni, nonostante Yvonne riuscisse a specchiarvisi all’interno. “Secondo me saranno dolcissime!”.
“Mangia pure” fece quello, chiudendo nuovamente gli occhi.
“No! Svegliati e mangiamo assieme!” faceva quella, scuotendolo per le spalle.
X sorrise debolmente e si sollevò, rimanendo steso ma puntellandosi sui gomiti. “Assaggiamo i pomi del peccato, allora...”.
“Stupido...” sorrise lei, dandogli la mela e carezzandogli i capelli neri.
Evitò ogni riferimento alla rapina ed all’eroe che l’aveva salvata, sapeva benissimo che quello avesse una paura atavica del mondo al di fuori di quelle quattro pareti e mal digeriva ogni tentativo d’approccio della bionda di farlo uscire.
Questo è un posto di merda, Gabeña... prima lo capiamo e più rimarremo vivi.
Lo ripeteva in continuazione, X.
Non aveva preso nel migliore dei modi la nuova vita, non riusciva a raccogliere l’intraprendenza che Y gli lasciava disseminato per quella casa che sembrava il covo di un gruppo di tossici e finiva per rimuginare sul fatto che tutto fosse cambiato e nulla sarebbe tornato come prima.
Un po’ lo capiva, Yvonne, ma tra i due era sempre stata lei quella del bicchiere mezzo pieno. Lo vide addentare la mela e sorridere leggermente.
“È buona, Gabeña...”.
“Credo che il cuoco mi abbia vista mentre la prendevo di nascosto...”.
X sorrise. “Quello che ha una cotta per te? Che poi, un cuoco con una cotta è il colmo...”.
Yvonne sorrise. “Sì. Ha girato il volto e mi ha fatta andare via... E comunque neppure a me piace quando mi chiami Gabeña!”.
“E come dovrei chiamarti?”.
“Yvonne. Quello è il mio nome... Come il tuo è Xav...”.
“Non provarci nemmeno... Ho lo stesso nome di quel maniaco, Gabeña...”.
“Hey!”.
“Yvonne, scusa...”.
La bionda lo vide addentare famelicamente la mela e poi ancora, fino a quando non si stese di nuovo, quella volta accanto a lei.
Rimasero in ascolto del silenzio per qualche secondo, poi lei si voltò, stringendosi infreddolita a lui, che la guardò.
“Comunque auguri anche a te. E grazie...”. Il volto dell’uomo s’incrinò in una strana smorfia, a metà tra il dispiacere e la gratitudine. “... Tu fai tanto per me ed io rimango qui, con la paura d’uscire... Mi spiace di non poter fare di più”.
Lei sorrise. “Tu mi proteggi, Xav...”.
“X” ripeté quello, sbuffando e sistemando il ciuffo di capelli corvini oltre la fronte. “Vorrei poter fare di più, Gabeña ma...”.
“Yvonne...” interruppe lei. “E lo fai! Passi tutte le notti in bianco per paura che succeda qualcosa. Vegli il mio sonno... ecco...” sorrise poi. “In effetti è un po’ strano che mi guardi mentre dormo...”.
Sorrisero ancora, quella volta entrambi, quando la grossa sirena antitornado prese a suonare.
Il ragazzo scattò all’in piedi e saltò oltre Yvonne, spalancando la finestra ad occhi sbarrati.
“Una breccia...” sussurrò, mettendo a fuoco da lontano ciò che vedeva. “C’è una breccia nelle mura della città, Yvonne! Dobbiamo fuggire via da qui!”.
La donna s’alzò velocemente, prese il pezzo di pane e lo infilò nella borsa, mentre X spense la candela e gliela lanciò. Velocemente spostò il tavolo e s’avvicinò ai fornelli, cercando con foga l’accendino.
“Dov’è?!” urlava.
“Nel cassetto! Prendi pure un coltello! Due coltelli!”.
Quello non annuì neppure, eseguì prendendo per buono l’ordine datogli dall’amica.
Fecero per andarsene quando Yvonne urlò come una dannata. “No! I Pokémon!”.
X annuì, correndo verso il giaciglio e ribaltando il materasso. Due sfere erano nascoste tra le molle e la spugna in un apertura del letto. Le estrasse e poi afferrò velocemente la mano d’Yvonne.
Uscirono di casa senza neppure chiudere la porta.
Nel pianerottolo si sentivano urla provenire dai piano inferiori. La porta di casa di Pearl era spalancata, lui era già scappato via.
“Stai attenta a non cadere, Yvonne!” la redarguì quello, scendendo i gradini a tre a tre, mentre quella, più guardinga, stringeva con una mano il corrimano arrugginito delle scale e con un’altra la tracolla che aveva sul petto.
“Attenta” fece di nuovo, quando, arrivati al piano terra, una fiumana di persone scappava verso il nord della città. Il ragazzo respirava con la bocca aperta, spaventato.
“Non dobbiamo perderci, Y...”.
Lei fece cenno di no. Strinse forte la mano del ragazzo e si gettò assieme a lui nella folla spaventata.
La ragazza ascoltava le voci delle persone che cercavano soluzioni all’imminente catastrofe.
Mentre qualcuno suggeriva di fuggire verso il deserto, a nord della città, altri avevano lasciato intendere di volersi nascondere nel complesso sistema fognario urbano.
“Dove andiamo, Xavier?!” urlava quella, cercando di far ascoltare all’altro la propria voce. Il cuore le batteva all’impazzata nel petto quando sentì qualcosa batterle il polpaccio e farle perdere l’equilibrio.
Cadde, stringendo ancora la mano del ragazzo che la risollevò di peso prima che la folla la uccidesse, calpestandola.
“Stai bene?!” le urlò lui.
La donna, scossa ed impaurita, annuì velocemente. Alzò poi gli occhi e vide Black, il ragazzo che l’aveva protetta da quel rapinatore poco prima, che, in piedi su di una vecchia Ford Fiesta ribaltata, cercava impaurito qualcuno.
“White!” urlava. “Presidentessa, dove sei?!” continuava.
“Black!” sentì urlare quello, proprio vicino alla coppia proveniente da Kalos. Automaticamente Yvonne le afferrò il braccio e, con uno sguardo d’intesa col ragazzo in piedi sulla macchina, tirò a se la donna. Questa si voltò spaventata, fissando negli occhi la bionda e l’uomo che teneva per mano.
“Lasciami!” urlava quella, con gli occhi celesti ed i capelli tenuti su con un elastico. Sembrava più grande di lei. Sicuramente era più alta, e le forme del suo corpo erano state più generose prima della malattia e della denutrizione.
“Ti porto da Black! Forza!” urlò Yvonne.
X si voltò stupito, trovando rassicurazione negli occhi dell’amica, che annuiva convinta.
Alzò nuovamente lo sguardo, quella, vedendo Black gettarsi con foga nella fiumana, attraversandola orizzontalmente fino a raggiungere il terzetto.
“State bene?!” urlò quello, con gli occhi marroni spalancati. X annuì, continuando a macinare passi.
“Dove siete diretti?” chiese nuovamente Black, sporco sulle mani del grasso della macchina che aveva usato come basamento.
“Non lo sappiamo” ribatté duro X, senza neppure guardarlo in volto.
“Le fogne sono il posto più sicuro” riprese l’altro. “Austropoli ha solo due accessi al sottosuolo fognario ed uno è esattamente a pochi metri da qui!”
“E se entrano nelle fogne?!” urlò White.
“Fidati di me, Presidentessa!” sorrise quello, stranamente fiducioso in quella situazione senza speranza. X si voltò un paio di volte per cercare l’approvazione di Yvonne: non sapeva se fosse giusto seguire o meno Black nelle fogne. Y annuì, stringendo sempre al petto la tracolla e non perdendo mai di vista la testa di X, che le stringeva forte la mano.
“La maggior parte va verso il deserto!” urlava White, preoccupatasi anche per loro.
“Nelle fogne ci sono Pokémon, Presidentessa...” rispose immediatamente quello dai capelli castani. Dovevano attraversare la strada, ma farlo con tutte quelle persone era come guadare un fiume in piena. Si voltò di schiena e si creò una piccola bolla di spazio, quindi tirò a sé White ed X e, di conseguenza,Yvonne. “Dobbiamo andare dall’altra parte!”.
X non se lo fece ripetere: strinse ancor più forte la mano dell’amica e diede una, due, tre violente spallate alle persone che gli camminavano contro, portando il corpo della donna quanto più vicino al proprio per proteggerla.
Yvonne continuava a stringere la borsa.
White e Black lo raggiunsero e l’uomo fece la stessa cosa, stringendo a sé il corpo di White e creando una piccola camera d’aria, in cui X ed Y s’inserirono velocemente.
La folla urlava e strattonava, qualcuno addirittura provò a mettere le mani nella borsa della donna ma quella ci stava attenta: lì dentro c’era tutto ciò che possedeva.
“Stanno per arrivare!” sentì qualcuno urlare da dietro. X e Black allora spinsero con forza, gettando per terra persone che poi furono calpestate, e lo stesso fecero Yvonne e White, fino ad arrivare al muro, e poi oltre, dove un piccolo vicolo vedeva una sezione di folla molto ridotta dirigersi verso le cancellate verdi alla fine della strada.
“Presto!” urlava un uomo, dal lungo soprabito nero e la testa calva. Mantenendo aperto un grosso tombino. “Non ci metteranno molto!”.
“Sbrighiamoci” sussurrò X. Yvonne lo seguiva fedele, col cuore che batteva all’impazzata ed i capelli sul volto ansimante. Entrarono nel tombino, prima Black, poi le ragazze ed infine l’altro.
Il vociare della gente non riusciva a coprire il rumore dei loro cuori che batteva forte e saturava i timpani con tonfi sordi. Scesero una lunga scaletta, alla fine della quale grossi canali d’acqua salmastra si snodavano in un labirinto di mura grigie.
Le urla dall’apertura in alto erano sempre più forti, fino a quando l’uomo col soprabito non tirò dentro una donna con in braccio un bambino e chiuse il tombino, che risuonò con un cigolio sinistrissimo.
Piangevano tutti, mentre i passi dell’uomo s’avvicendavano sui pioli della scala d’acciaio.
Mise i piedi per terra, X sentiva distintamente il suo cammino passare lentamente nella disperazione umida delle persone che erano riuscite a salvarsi.
“Doveva accadere, prima o poi...” aveva detto qualcuno.
“Siamo fottuti”.
“Non dire così... Vedrai che riusciremo a trovare il modo di salvarci”.
Yvonne scrutava il buio, sentendo quell’ambiente umido e fetido piegarsi su di lei, modificarsi. Stringeva la borsa, e la mano di X. Quello l’aveva cinta con un braccio intorno al collo, sussurrando a se stesso parole di circostanza e sconforto, come se già sapesse che una cosa del genere sarebbe dovuta accadere.
“Hey... Xav...”.
“Non mi devi chiamare così, Yvonne...”.
E poi la luce dell’accendino illuminò per un attimo l’ambiente; la fiamma andò ad incontrare la cima della candela, e donò pochi secondi di calore ai due. Black e White si avvicinarono, come a protezione del fuoco. I loro occhi erano vivi, impauriti, come quelli delle prede braccate.
Quello che erano, insomma: prede braccate.
“Insieme la supereremo, X. Tutti assieme... Buon Natale...”.


 

E nulla, come già anticipato questa storia è la progenitrice di una long futura che vedrà gli stessi personaggi agire con coraggio all'interno d'un mondo distopico, in cui gli effetti di un virus maledetto (descritto chiaramente all'interno d'un'altra mia shot - Back Thru: Scelte giuste d'una mente malata) ha costretto i Dexholders di cui non avevo ancora trattato nelle mie storie a vivere alla bene e meglio all'interno di Austropoli, città rifugio all'interno dell'Universo che io ho definito disastro, ovvero quello Z, in cui, alla fine dei conti, si risolverà tutta la saga Courage.
Auguri a tutti.

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