15. Perfect
Pitch
Johto, Amarantopoli, Sky Building
“Cindy… Che
ci fai qui?” chiese Angelo, glaciale. Aveva afferrato la mano di sua moglie,
bloccandola poco prima della sala riunioni, dove si sarebbero le deposizioni
per la difesa di Xavier Solomon. Quell’ufficio era largo e arioso, illuminato
dalle finestre degli uffici, le cui pareti erano composti interamente da
vetrate.
Subito dopo
l’incontro con l’avvocato Jackson, all’interno dell’Harold’s, Cindy era corsa a
casa, s’era preparata come meglio poteva e s’era presentata a Common Street,
salendo al trentasettesimo piano del più alto palazzo del centro economico di
Amarantopoli.
Non
s’aspettava minimamente di trovare suo marito lì.
“Mi rispondi?”
domandò quello, con la solita flemma inquinata da una piccola macchia di
stizza.
“Xavier...”.
“Sì”.
“È stato
arrestato ed è innocente”.
“No” ribatté
immediatamente il Capopalestra, spostando i capelli dalla fronte e passandoli
dietro le orecchie. “Ha ammazzato delle donne e...”.
“Era con me,
Angelo”.
Quello si
bloccò e batté le palpebre per qualche secondo.
“Con te?
Credevo che la tua fase adolescenziale fosse ormai finita”.
Gli occhi
dell’uomo, di quel viola intenso, si rifletterono in quelli smeraldini della
sua donna prima che, sfuggevoli, seguissero l’invito dell’avvocato Oliver
Jackson a entrare nella sala.
Lì non vi
era molto; una grande vetrata illuminava a giorno la sala e uno schermo,
spento, era posto proprio sulla sinistra, sul muro. In mezzo alla stanza c’era
un tavolo in alluminio assai grosso, con elementi in vetro e diverse sedie
attorno. E al centro del tavolo un microfono, accanto a una piccola videocamera.
Si sedettero
entrambi, mentre due associati parecchio giovani si alzarono in piedi,
abbozzando un saluto. Oliver fece un cenno con la mano, per farli accomodare,
poi incrociò le mani sul tavolo e annuì, accendendo la videocamera. Aveva lo
stesso volto di quel mattino, solido, con la mandibola squadrata e serrata, lo
sguardo concentrato ed i capelli ancora perfettamente pettinati di lato.
“Signora
Harper” fece, alzandosi in piedi. “È pronta per la deposizione?”.
“Sì”.
“Okay. Consapevole
delle responsabilità morali che il suo impegno assume, s’impegna a dire la
verità e a non nascondere nulla di quanto in sua conoscenza…” disse.
La donna annuì.
“Sia messo a
verbale che ha fatto cenno di sì con la testa. Può dire il suo nome?”.
“Cindy Harper” rispose lei, con le cosce
strette e le mani raccolte sulla borsetta che aveva sulle ginocchia.
“Signora
Harper, può dirmi dove si trovasse questa mattina?”.
“All’Harold’s,
come ogni giorno”.
“Come mai si
trovava lì?” domandò rapidamente l’uomo col colletto inamidato.
Cindy
scrollò le spalle e sospirò. “Gestisco quel locale per conto di mio marito”.
“Chi è suo
marito?”.
“Angelo, il
Capopalestra di Amarantopoli”.
Oliver annuì
ed aspettò che quelle parole fossero verbalizzate. “Perfetto. Quindi lei è nel
locale di suo marito ogni mattina?”.
“Esattamente”.
“E mi dica,
questa mattina ha parlato con molte persone?”.
“Come ogni
giorno, del resto...”.
“Lei conosce
Xavier Solomon?” chiese immediatamente Oliver, sistemandosi la lunga cravatta.
“Sì”.
Gli occhi di
Cindy si scontrarono contro il granito delle iridi dell’uomo che le poneva le
domande, non riuscendo a sostenere il peso mentale delle possibili implicazioni
che potevano avere determinate risposte. Sapeva di essere dalla stessa parte
dell’avvocato ma era comunque in ansia; e se avesse sbagliato qualcosa? Avrebbe
condannato Xavier alla galera?
“Da quanto
tempo?”
La donna non
esitò neppure per un istante.
“Diciannove
anni”.
“E questa
mattina, intorno alle dodici, può affermare d’aver incontrato il mio cliente?”.
Cindy annuì.
“Sia messo a
verbale che ha annuito” disse Oliver. “Il mio cliente afferma d’esser stato,
durante l’orario in cui è stato accusato d’omicidio doloso e terrorismo
ambientale, nel suo locale. Lo conferma?”.
“Lo confermo,
era lì” annuì energicamente la donna.
“Conferma
d’aver parlato con il mio cliente per un lasso di tempo abbastanza lungo da
scagionarlo dagli eventi di cui è stato accusato, che sono avvenuti tra le nove
e venticinque e le dodici e trentasette?”.
“Credo...
credo di sì” rispose confusa.
“Riformulo
la domanda... è possibile che nel lasso di tempo sopracitato il mio cliente
fosse in due posti contemporaneamente?”.
Cindy fece
segno di no con la testa. “Era davanti a me. Ci ho parlato... Gli... gli ho
stretto le mani...”.
“Sia messo
agli atti che ha scosso il capo in risposta negativa al mio quesito. Infine,
signorina Harper...”.
“Signora.
Signora Harper” interruppe lei.
“Mi scusi.
Signora Harper... lei può affermare di aver mai visto nel mio cliente
comportamenti che lo accostino a profili simili a quelli di cui è stato
accusato da suo marito, Angelo, e dalla Polizia Internazionale?”.
“No!”
esclamò accorata lei. “Xavier è un uomo gentile. Lui è buono… Ha sofferto...
non è capace di azioni simili. Non ucciderebbe mai nessuno!”.
“Sia messo a
verbale” disse Oliver, annuendo lentamente. S’allungò verso la telecamera e la
spense. “Abbiamo finito, signora Harper. Credo che suo marito voglia affrontarla
muso a muso, non appena uscirà da questa stanza”.
Johto,
Amarantopoli, Rainbow Hotel
“Hey...”
fece Blue, aprendo lentamente la porta della camera di Yellow e Red. Infilò
solo la testa, palesando il suo ingresso per evitare di trovarli in situazioni
sconvenienti. Ma nulla, Red era uscito e Yellow era rimasta sul letto, con le
gambe accavallate, mentre leggeva un libro.
“Avanti...”
fece, dopo un lungo sospiro.
Blue
camminava nella piccola antisala della stanza, passando davanti a uno specchio
dalla cornice argentata, vedendo dapprima i piedi del letto e poi la figura
della ragazza. I loro occhi s’incrociarono per qualche istante, prima che
quelli della bionda si perdessero lungo la fitta trama del copriletto. Aveva
visto Blue e si era resa conto di quanto realmente fosse bella.
Fu proprio
quest’ultima ad esordire.
“Un tempo
eravamo care amiche, Yel...”.
La sua voce
era disturbata dal respiro greve, che non riusciva a trattenere. A Blue
scoppiava il cuore nel petto e tutta quella situazione gli pareva parecchio
pesante da sopportare. Odiava l’indifferenza e odiava che a sbattergliela in
faccia fosse quella che reputava la sua amica più cara.
A quelle
parole la bionda si limitò ad alzare gli occhi, ma a deviarli, non riuscendo ad
affrontare la controparte azzurra.
“Lo so…”.
Blue sospirò
e abbassò lo sguardo.
“Sono
mortificata per tutto questo… non ero in me e sicuramente non mi sarei permessa
di...”.
“Io amo il
mio uomo, Blue. E voglio credere che lui ami me. Se siamo venuti qui, assieme a
voi, è solamente per un bene superiore ma... ma non ho dimenticato quelle cose”.
L’altra era
rimasta in piedi, totalmente immobile. Stringeva il gomito sinistro col braccio
destro, rigida.
“Mi spiace
molto. Anche io amo il mio uomo e non avrei fatto mai nulla di ciò che è
successo se avessi avuto un po’ più di coscienza di ciò che succedeva attorno a
me”.
“Non l’hai
avuta”.
La voce di
Yellow era limpida come il suono di una campanella.
“Non l’ho
avuta...”.
Lo sguardo
della più piccola fu assalito da un coraggio inaspettato, e cominciò a scrutare
la figura dell’altra in maniera continua, capendo quanto in realtà fosse piena
di debolezza; la stava leggendo come un libro aperto, e a Blue quella cosa non
piaceva. Doveva rimanere imperturbabile in quelle situazioni, imperscrutabile
nell’animo. Le sue sensazioni erano solo sue, al massimo del suo uomo e neppure
sempre. Yellow invece aveva scavalcato tutti i suoi cancelli, aveva aggirato le
sue difese, spogliandola d’ogni scudo.
Blue era
vulnerabile.
“Il problema
di per sé non sussisterebbe se fosse finita lì” sbuffò Yellow, gettando il
libro sul letto e stendendo le gambe. Tirò i capelli verso l’alto e li legò.
Blue non capiva.
Fece un altro passo per avvicinarsi al letto, nel tentativo di guardare meglio
l’interlocutrice.
“Non è
chiaro...” le disse.
“Io... ho
come l’impressione... il problema è Red” concluse lei, sospirando e arricciando
le labbra. “Lui è sempre stato innamorato di te, Blue. Il tempo ha dato ragione
a Green ma io so benissimo che ti desiderava e questo mi fa stare male”.
“Lui ti ama,
Yel” faceva cenno di no con la testa l’altra, come ad allontanare quel
pensiero. “Non dovresti farti angosciare da queste paranoie”.
“Lo so, lo
sento, e anche io amo lui. Ma amare è differente da desiderare… e lui ti
desidera”.
Blue si
sentì quasi colpevolizzata, a quelle parole.
Forse è per il mio atteggiamento?
Per il mio modo di fare?
L’ho sedotto per anni e alla fine… alla
fine ci sono riuscita.
Si era resa
conto di qualcosa. Alzò il volto e scontro gli occhi contro lo sguardo glaciale
dell’altra. La stava condannando, Non l’aveva mai vista più sicura di sé.
“Yellow… Io
non amo Red...”.
“Non è
questo il problema” sorrise l’altra, amaramente. “È che ti sento in ogni bacio
che mi da, in ogni carezza che mi dona. Ti sento perché è lui a metterti lì...
E non so quanto tempo ancora potrò vivere in questo modo”.
Blue si
sedette ai piedi del letto, carezzando le morbide coperte con la punta
dell’indice.
“Non so che
dire...”.
“Non puoi
dirmi niente, è questo il fatto…” fece, sbuffando. “Il fatto è che non voglio più
averti nella mia vita... Una volta finita questa storia vorrei che sparissi per
sempre”.
L’altra
rimase basita, sorpresa dalla reazione, dal coraggio e dalla lucidità di cui
s’era vestita per parlare di quella situazione.
“Mi condanni
in questo modo e provi ancora risentimento…” fece, stretta nel suo abbraccio,
con lo sguardo basso. “Mi sto mettendo a nudo, e sai che non succede spesso…”.
Yellow
ridacchiò divertita, facendo riferimento al doppio senso.
Blue fece
finta di nulla e continuò.
“Quella cosa
però l’ho fatta con Red. Se provi ancora così tanto risentimento, allora,
perché sei ancora accanto a lui?”
La donna abbassò
lo sguardo. Il ventaglio di risposte era così ampio da farla avvilire.
“Quella che
invece si mette troppo a nudo sono io…” sospirò. “Ora vorrei che te ne andassi
e mi lasciassi finire il mio libro in santa pace…”.
Quelle
parole la colpirono con così tanta violenza da farla sobbalzare. Totalmente
differente, nei suoi atteggiamenti, nei suoi movimenti, la donna del Bosco
Smeraldo era stata tutto fuorché quello, negli anni precedenti. E tutto per via
di Red. Blue capì che se quella non fosse stata convinta così tanto dalle sue
emozioni, dai sentimenti, non gli sarebbe rimasto accanto.
Lei aveva
bisogno della presenza di quell’uomo nella sua vita. Rappresentava qualcosa,
era più che chiaro.
Certe volte si accettano gli errori
degli altri, perché stare soli con se stessi è peggio di vedere delle immagini,
quelle immagini, davanti agli occhi, ogni volta che s’incrocia lo sguardo di
qualcuno che ti ha tradito.
Come ha fatto Green.
Annuì. Ormai
la situazione era limpida.
“Sparirò dalla tua vita, Yel...”.
Si voltò e
imboccò l’uscita, sbattendo la porta.
Kanto,
Aranciopoli, Ospedale Civile
“Sei ancora
qui?” chiese Marina, rientrando nella stanza di Gold. L’elettrocardiogramma
cantava placido ogni due secondi, scandendo un ritmo lento e monotono.
“Sì. Ho
aspettato che tornassi” aveva risposto Sandra, seduta accanto al letto. Aveva
lo sguardo provato da quella maratona d’ansia e paura, e gli unici rumori che
la tenevano ancora lì erano il respiro di Gold e il bip automatico della macchina. I capelli erano ancora legati, ma la
coda era ormai spettinata, e molti ciuffi le ricadevano davanti al volto. Vide
Marina andare dall’altra parte del letto e prendere la mano del suo uomo. Poi
gli poggiò un delicato bacio sulle labbra.
“Magari si
svegliasse…” sospirò.
“Come nelle
favole…”.
La Ranger
annuì, quindi si voltò, smontando il grosso cappotto beige e poggiandolo su di
una sedia. Poi si voltò, aprendo leggermente la finestra poggiandovisi con la
schiena.
Guardò
infine Sandra, col volto serio, e incrociò le braccia.
“Vai a
casa”.
“Non
preoccuparti” ribatté rapida quella, continuando a fissare il pavimento.
“Voglio rimanere qui”.
L’altra
sospirò e abbassò il viso. Quel giorno aveva chiamato in ufficio e aveva
spiegato la situazione; Gold era la priorità di tutta la sua vita e niente
avrebbe potuto prevaricare la sua importanza. Vederlo in quel letto, dormiente
e livido, con accanto una donna che si ostinava a non muoversi era una scena
che l’avviliva parecchio.
E Sandra,
soprattutto lei, era un grande elemento di disturbo.
“Perché vuoi
rimanere qui?” chiese, rialzando poi il volto. Catturò il suo sguardo,
tastandone la paura. Capiva quanto fosse avvilita da quella scena, e nonostante
la sua posizione pareva non aver mai provato sulla pelle ciò che stava passando
in quel momento. Sandra si limitò ad annuire, e abbassò lo sguardo.
“Lui mi ha
salvata. Al suo posto sarei dovuta esserci io...” disse con voce tremante e
profondamente colpevole. Una lacrima andò a sporcarle la guancia destra di ciò
che rimaneva del suo trucco.
Marina
ripeté le sue parole, annuendo, con lo sguardo perso nel vuoto. “Al suo posto
saresti dovuta esserci tu...”.
Sandra la
guardò subito. Aveva riconosciuto il campanello dall’allarme dal tono glaciale
della donna, e aveva trovato conferma di quell’impressione dalla sua
espressione, tirata, con le labbra sottili e gli occhi aperti quanto bastava
per non perderla di vista.
“Voglio solo
sdebitarmi come posso…” ribatté la Capopalestra, alzandosi in piedi. Guardò
Gold, annuì, come a riconferma delle sue parole, e poi sentì i morsi della fame
aggredirla.
Marina
invece era rimasta immobile. Stringeva i denti, riconosciutasi capace di
odiare, forse per la prima volta nella sua vita. Stava cercando di trattenere
l’impulso di aggredirla fisicamente, di mantenere le lacrime negli occhi.
Di non
urlare.
Ma alle
parole della donna non fece altro che sorridere, amaramente. Fece cenno di no,
sospirando.
“E non va
così. Non puoi… non puoi sdebitarti, e di certo non puoi riuscirci ai miei
occhi...”.
Sandra
rimase sorpresa. Aggrottò la fronte, mentre vide l’altra cominciare a piangere,
prima di avvicinarsi verso l’uomo e stringergli la mano.
“Gold ora è
qui... conciato in questo modo...” continuò la Ranger, non riuscendo più a
trattenere le lacrime; la bocca le si asciugò rapidamente, mentre cercava di
articolare le parole: voleva pungere ma si ritrovò ad abbassare lo sguardo,
dando adito all’altra di affondare un tentativo per rimediare.
“Marina…”.
“Gold ora è
in coma, e-e… e forse non si sveglierà... Il medico dice anche… dice anche che,
nel caso dovesse riaprire gli occhi, ci sono alte… cazzo!” esclamò, furibonda,
lasciando la mano del ragazzo. Si voltò, provando ad asciugare le lacrime
meglio che poteva. Poi tornò a fissarla iraconda.
“Gold
potrebbe rimanere su di una sedia a rotelle! E al suo posto saresti dovuta
esserci tu!”.
Sandra
abbassò lo sguardo, poi la sentì ridere debolmente.
“Cioè... ti rendi conto?! Gold! Su di una
sedia a rotelle!”.
La fissava,
carica d’ira.
“Su di una
sedia a rotelle!” urlò.
La sua voce
rimbombò nella camera, facendo sobbalzare nuovamente una Sandra già fragile.
Cominciò a
piangere con trasporto, quella. Abbassò il capo e portò le mani davanti al
volto.
“Mi
dispiace…” sussurrò.
Poi la porta
della stanza si spalancò. Era Red, ansimante.
“Che diamine
succede qui?!” urlò.
Il ragazzo
analizzò la situazione il più velocemente possibile, vedendo entrambe le donne
piangere. Subito gettò un occhio all’elettrocardiogramma, vedendo il battito di
Gold rimbalzare lungo lo schermo dell’apparecchio.
Il cuore di
Red saltò un battito.
Sospirò,
poggiandosi al montante della porta. “È vivo...” sussurrò, impaurito. “Perché
hai urlato, Marina?”.
Quella piangeva,
stringendo la mano del suo uomo. “Perché le dispiace! A lei dispiace!”.
Red guardò
l’espressione atterrita di Sandra, mentre stringeva il gomito sinistro, ancora
stretta in quella tutina da allenamento. La sua espressione era mortificata, e
le lacrime che stava piangendo erano testimoni di quella sua sofferenza.
“Marina…
Sandra si sente responsabile… Non è di certo stata una sua scelta finire qui,
forse non dovresti essere così dura con lei…”.
“Sandra si
deve sentire responsabile! Perché è responsabile! Qui sarebbe dovuta esserci
lei!” esplose la Ranger, gesticolando nervosa. Prese ad avanzare
aggressivamente verso la donna, che si limitò a spalancare gli occhi, incredula
di quanto le stesse per succedere, quando Red si frappose tra le due,
afferrando per i polsi la donna dai capelli castani e bloccandola.
“Stai calma!
Non perdere il controllo!”.
E fu lì che quella
si lasciò andare in un pianto disperato, affondando il volto nell’incavo del
collo del ragazzo. Si sentì stringere attorno al collo, percependo la sua mano
carezzarle i capelli.
“Andrà tutto
bene, tranquilla. Gold si sveglierà e tornerà a vivere come prima”.
“Non voglio
che muoia!” piangeva lei, stringendo a sua volta il ragazzo. Red girò il viso
in direzione di Sandra e le fece cenno di uscire.
Quella
rispose di no.
“Marina,
siediti accanto a lui, tra poco tornerò a farti compagnia” le disse il
Dexholder, accompagnandola alla panca e prendendo Sandra sottobraccio. La portò
all’esterno della stanza e sospirò. Lì c’era fermento: un tir s’era ribaltato e
aveva travolto diverse automobili e tutti i medici e gl’infermieri erano in
fibrillazione.
“Non volevo”
disse la Capopalestra, stringendo il pesante mantello tra le braccia. Abbandonò
la schiena contro il muro e Red le si pose davanti, stringendosi a lei nel
momento in cui due barelle s’incontravano proprio in loro corrispondenza, nello
stretto corridoio.
“Lo so” le
rispose intanto lui. La vide poi sciogliere i lunghi capelli e sospirare,
struccata dalle lacrime. Red le sorrise dolcemente e le porse il fazzoletto che
aveva nella tasca interna del giubbotto.
Fece un
passo indietro quando le barelle si dileguarono.
“Ora va
così. Lei ti vede come la causa, anche se chiaramente non è vero. Non sentirti
troppo in colpa, stavate facendo il vostro dovere e Gold... beh, Gold è fatto
così. Ha la testa dura ma in fondo è un eroe”.
“Io non volevo
che finisse così…” faceva, mentre s’asciugava il volto. “Ho avuto paura che
morisse… steso addosso a me”.
Quello le
prese il lungo mantello dalle mani e glielo poggiò sulle spalle. “Fuori è
freddo. Lascia che la situazione sbollisca un po’… Gold sicuramente si
sveglierà e la farà ragionare. Ma anche tu, sei scioccata, hai visto quel che
hai visto e sicuramente non sarà semplice da metabolizzare. Ora torna a casa e
fatti un bel bagno caldo... Stai in compagnia, se necessario io e Yellow, nel
momento in cui sarà possibile, ti staremo accanto. Ma vedrai, riusciremo a
risolvere tutta questa brutta storia e riporteremo la normalità”.
“Non voglio
tornare ad Ebanopoli... Non voglio stare da sola...”.
Red rimase
in silenzio per qualche secondo. “Immagino che Yellow non avrà problemi a
dormire in camera con te, stanotte”.
Adamanta,
Primaluce, Casa Recket
Il sole
s’era ormai rintanato dietro l’orizzonte, lasciando il posto a una falce di
luna sottilissima. Qualche stella brillava nel cielo ormai pulito e Rachel le
guardava affascinata, come diamanti gettati a caso su di una coperta nera.
Dava leggere
pennellate sulla tela, accompagnata dal silenzio e dalla musica classica che
tanto le piaceva. Con l’arrivo di Allegra diventarono molto più rari i momenti
per stare un po’ da sola con se stessa erano diventati rarissimi, e anche la
convivenza non aveva aiutato. Del resto Zack era un essere parecchio empatico e
mal sopportava la solitudine, quindi passava la gran parte del suo tempo con
lei.
E Rachel,
nella sua delicatezza, non voleva dire a suo marito d’aver bisogno d’un po’ di spazio.
Amava la sua
rumorosissima famiglia, ma mentre dipingeva si era resa conto di quanto bello
fosse stare in silenzio ad ascoltare il rumore del proprio respiro, cullato
dalle dolci note in sottofondo che uscivano dalle casse dello stereo. Dipingeva
quel cielo, così buio e immenso, accecato nella parte bassa dai lampioni delle
strade, che però nulla potevano più in alto, dove le mani luminose delle luci
non arrivavano.
Sorrise,
pensando al fatto che quel dipinto stesse uscendo davvero bene. Aveva sempre
avuto la passione per il disegno e da adolescente, proprio da quella casa,
aveva disegnato un ritratto di un paio di vecchietti che sonnecchiavano su di
una panchina del parco. Poi si guardava le mani, più ossute d’un tempo, e le
unghie un po’ più curate, più eleganti. Abbassò lo sguardo sui capelli, più
lunghi, che terminavano sui seni, più grandi.
Era
cresciuta, ma il suo cuore batteva nello stesso modo.
L’unica differenza
era la consapevolezza: la Rachel di quindici anni prima non sapeva d’esser
donna, né di essere la donna più importante del mondo. Non sapeva neppure che
sarebbe diventata madre, né che la sua bambina sarebbe diventata uno dei
gioielli della corona di Arceus, uno tra i più importanti. Di certo, la Rachel
di quindici anni prima non si sarebbe mai immaginata accanto a un uomo bello
come suo marito, né avrebbe pensato mai di esserne innamorata alla follia.
La
differenza sostanziale tra quella Rachel, quell’appena adolescente e sognante,
con l’apparecchio mobile tra i denti e i primi reggiseni sdruciti, talvolta
imbottiti, e quella ormai donna, era appunto la consapevolezza. La ragazzina
non ne aveva, viveva alla giornata e immaginava il suo futuro, guardandosi alle
spalle soltanto per cose effimere.
Il passato,
nella Rachel più grande, aveva invece un grande peso. Certo, guardava sempre
avanti, al suo futuro e a quello della sua famiglia ma ricordava con immensa
lucidità i momenti che aveva vissuto e che gli sembravano così tanto lontani.
Il cielo era
stato scurito solo per metà sulla sua tela quando la porta della mansarda
cigolò.
“Mamma...”
si sentì chiamare.
La voce di
Allegra era così acuta e contemporaneamente dolce che ogni volta che
l’ascoltava non poteva fare altro che sorridere. Posò pennello e tavolozza e si
voltò. La testa della piccola spuntava tra lo stipite e la porta, coi lunghi
capelli neri, proprio come quelli di Rachel, che cadevano ben ordinati quasi
fino al pavimento.
“Piccolina...”.
“Vado a
dormire” disse, avvicinandosi, in cerca di un bacio della buonanotte. La porta
s’aprì con Zack, che guardava la scena a braccia conserte.
“Aspetta”
ribatté la donna, inginocchiandosi, con le mani e i vestiti sporchi.
“Altrimenti t’inzozzi tutta. Faccio io” disse, baciandole la guancia. “Adesso
papà ti porta a letto”.
Zack annuì.
“Già. Ed è il caso che la mamma cominci a lavarsi, perché papà tra poco porta a
letto anche lei” sorrise, facendo avvampare la moglie, prima che esplodesse in
un sorriso. Lo guardò negli occhi e poi continuò.
“Già... la
mamma puzza di tempera”.
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