19. Claustrophobia
Johto,
Amarantopoli, Casa di Angelo
Come un
pugno nello stomaco.
Angelo
osservava quella scena, con quei due che dormivano l’uno accanto all’altra, e
qualcosa di insano cominciò a passargli per la mente. Xavier era lì, immobile,
con gli occhi chiusi.
Vulnerabile.
Portò il
braccio, quello sano, al fianco e sbuffò, con la televisione che ancora
continuava a raccontargli, inutilmente, ciò che era successo quella notte. La
spense e vide Xavier aprire gli occhi; dal canto suo, l’inventore non aveva
programmato nulla di tutta quella situazione.
Non che
fosse successo qualcosa.
Lo vide,
cercò di fare mente locale, di capire dove si trovasse e perché quello lo
stesse guardando con tutta quell’acredine. Sentì il profumo dei capelli di
Cindy e ricordò rapidamente tutto, e in testa gli balzò l’immagine di quel
bacio, interrotto dal fischio della teiera.
Ritornò a
fissare il volto di Angelo, col braccio rotto e il petto nudo.
“Credo mi
spetti una spiegazione” tuonò quello, sbattendo le palpebre un paio di volte.
Xavier riusciva a sentire sotto lo sguardo la quantità di stanchezza che
quell’uomo provava in quel momento.
“Stai bene?”
gli domandò.
“Non tanto.
Ora anche peggio”.
Xavier
sorrise e annuì. “Touché… Ma non è niente di ciò che pensi. Parliamone in
cucina, Cindy ha preso sonno pochi minuti fa…”.
“E tu hai
aspettato che si addormentasse…”.
Xavier
scivolò lentamente di lato, lasciando che la donna sprofondasse comoda tra i
cuscini del divano. Andarono assieme nell’altra stanza, con Xavier che
precedeva il padrone di casa.
Angelo si
pose davanti alla porta, come per non farlo scappare. Xavier sospirò, cercando
di far trasparire dalla sua espressione il candore della sua innocenza. Fu lui
il primo a parlare.
“Ti sei fatto
male al braccio, stanotte?”.
Angelo parve
non sentirlo.
“Vuoi
spiegarmi per quale motivo stavi dormendo accanto a mia moglie?”.
Xavier
sospirò, sorridendo amareggiato. “Si dà il caso che tua moglie sia anche mia
amica e...”.
“Xavier.
Xavier Solomon...” sussurrò Angelo, avanzando lentamente verso di lui. “Non vi
siete parlati per anni. L’hai odiata perché l’ho rubata dalle tue braccia e tu
ce l’hai avuta con lei per tutto questo tempo. Invece ora vuoi farmi credere
che sei qui perché sei suo amico? A te piace mia moglie. A te Cindy è sempre
piaciuta”.
Gli occhi
dell’ultimo arrivato erano sempre distesi, calmi. Quelli di Xavier invece erano
spalancati, increduli di ciò che vedevano, con le sclere arrossate per il
sonno.
“Non è così,
Angelo. Nonostante tra noi non corra buon sangue (me e te, intendo) non mi ha
lasciato indifferente saperti coinvolto in un affare pericoloso. E conoscendo
Cindy immaginavo si fosse lasciata prendere dal panico. Tutto qui”.
“E che avete
fatto?”.
“Abbiamo
bevuto un tè e guardato il telegiornale. Poi mi sono addormentato e mi sono
svegliato un minuto fa, con lei che mi dormiva addosso e tu che volevi
uccidermi”.
“Voglio
ancora ucciderti”.
“Appunto”.
Gli occhi di
Angelo ben interpretavano l’espressione rocciosa che aveva assunto il suo viso.
Xavier guardò per un attimo i pettorali ben scolpiti dell’uomo, seguendo la
linea degli addominali.
Era bello,
muscoloso, famoso e ricco.
Era quasi
giusto che fosse così arrogante.
“Io non
voglio più vederti. Neppure al locale, da nessuna parte. E voglio che tu dica a
Cindy che non vuoi più avere nulla a che fare con lei”.
“Guarda che
io già gliel’ho detto!” urlò Xavier.
“Ecco perché
stanotte sei corso qui... Perché non volevi avere nulla a che fare con lei... giusto?”
replicò il Capopalestra. “Amico, sii onesto con te stesso... e anche con me e,
per favore, con Cindy. Tu sei ancora innamorato di lei ma lei è per me che
piangeva, stanotte. Ti reputa soltanto un amico”.
“Io non sono
innamorato di lei...” replicò l’altro, abbassando lo sguardo e sospirando.
“Devi uscire
da casa mia”.
Xavier non
se lo lasciò ripetere due volte, avanzò e tornò nel salotto a prendere il suo
giubbino.
Poi si voltò
e lasciò la casa di Angelo.
Tuttavia non
si accorse del fatto che gli occhi di Cindy fossero spalancati. Aveva sentito
tutto e il cuore le batteva duramente nel petto.
Kanto,
Aranciopoli, Ospedale Civile
Erano
passate le dodici da un paio di minuti quando Marina s’era svegliata. Si era
lavata rapidamente e aveva addentato un croissant mentre infilava la giacca a
vento, dopodiché si era immersa nella fiumana di persone che ogni giorno viveva
tranquillamente la propria vita.
Pensava,
lei. Credeva che nessuno di quegli individui immaginasse minimamente la paura
che stesse provando nell’animo, in quel momento.
Sapeva di
per certo che a nessuno interessasse. Sapeva che la gente si facesse gli affari
propri a ogni costo, specialmente in una città grande come quella, una
metropoli che conteneva milioni di teste, che contenevano miliardi di pensieri.
E tra tutti
quei pensieri c’erano anche i suoi, intangibili desideri che cominciavano a
rasentare il limite accettabile della speranza. Sì, perché lei, in quel preciso
momento, stretta nella sua giacca nera, col vento che le arruffava i capelli
castani, sperava vivamente che Gold quella notte avesse riaperto gli occhi. Sorrise,
immaginando la prima battuta stupida che avrebbe pronunciato una volta
risvegliatosi, in stile scusate il
ritardo oppure sono stato lontano per
poco e ti ritrovo già con la faccia da funerale. Ci vuole più di una vecchia lamiera arrugginita per mettere fuori gioco
Gold. Ce ne vogliono almeno due. Poi sorrise di nuovo, soltanto pensando al
fatto che ormai aveva capito quale fosse lo standard delle sue battute. Ormai
lo conosceva da tanto, troppo tempo, e il fatto che in quel momento non fosse
al suo fianco le riempiva la testa di continue domande e lo stomaco di una
paura continua e dolorosa, sottoforma d’ansia armata di coltello a serramanico.
Era appena
entrata in centro quando i suoi occhi color nocciola si scontrarono contro i
titoli dei giornali dell’edicola vicina al porto, che enunciavano:
ROVINE D’ALFA SACCHEGGIATE, MORTI TRE CAPIPALESTRA
Nella notte
il raid di un team criminale ha messo a ferro e fuoco i resti delle antiche
civiltà di Johto. Pag.2
Sospirò,
pensando al fatto che in quei giorni la
criminalità fosse aumentata in maniera esponenziale. Pensò alla morte di Rafan
a Unima, oltre alla rapina proprio lì ad Aranciopoli; bisognava infine
aggiungere gli avvenimenti di quella notte. Cercò di capire cosa potesse essere
realmente accaduto ma convenne con se stessa sul fatto che dovesse essere
qualcosa di parecchio importante per aver causato la morte di tre Capipalestra.
Sperò
vivamente che non fosse coinvolto Angelo. Non aveva dimenticato di quando aiutò
Gold con la maledizione che quell’Idrotenente gli aveva lanciato a Hoenn, nei
giorni in cui si erano conosciuti.
Ricordava
con passione il ricordo di quei giorni, assieme
Ricordava
col sorriso di quando si ritrovò innamorata di lui.
E non sarebbe
potuto finire lì. Non in quel modo.
Entrò
nell’ospedale e salì al piano dove il suo fidanzato riposava. La porta era
chiusa e lei l’aprì, bussando lentamente.
Vide Martino
poggiato al muro accanto alla finestra, che aveva lasciato il posto accanto a
Gold ad Altea, seduta in religioso silenzio con un libro tra le mani. Entrambi
si voltarono quando la videro entrare.
“Hey...”
disse suo fratello, guardando gli occhi di quella infrangersi sulla figura del
suo uomo, ancora immobile.
“Martino, Altea...
ciao” disse. Poi si girò verso la donna. “Come ti senti?”.
“Tutto bene,
grazie” rispose quella, passando una mano nei lunghi capelli corvini.
“Ci sono
novità, con Gold?”.
Fu Martino a
rispondere. “Nulla. Nel modo più assoluto, nulla. Il respiratore ha fatto su e
giù per tutta la notte ma non è successo nulla, né nel bene né nel male”.
Marina gli
si avvicinò, levando il soprabito e poggiandolo sulle gambe del degente. Si
abbassò su di lui e gli diede un leggero bacio sulle labbra.
“Buongiorno,
amore” disse. Infine alzò gli occhi, guardando suo fratello. “Puoi andare a
riposare... Quando sarai pronto andrai a fare rapporto nel mio ufficio, a
Violapoli. Infine potrai tornare a Oblivia”.
“Non se ne
parla” ribatté Martino. Guardò Altea negli occhi per un istante prima di
continuare. “Non posso lasciarti da sola con Gold in queste condizioni”.
Poi
sentirono bussare alla porta e Red e Yellow fecero il proprio ingresso.
Il primo
fece un sorriso leggero e stentato guardando Marina, che fissò la propria
attenzione sulla grande medicazione che l’uomo aveva sulla guancia.
“Che hai
combinato?” chiese la Ranger.
Lui si
avvicinò al letto e guardò Gold, carezzandogli la fronte. Poi si voltò verso di
lei.
“Hai saputo
di stanotte?”.
“Ho letto
qualcosa sul giornale” disse, prendendo la mano di Gold. “Ma non ho ben
capito”.
“L’obiettivo
erano i mosaici” s’inserì Yellow, con la voce limpida. “Hanno distrutto quattro
sale. Noi di Kanto abbiamo lottato accanto ai Capipalestra di Johto ma…”. Poi
ebbe difficoltà a continuare.
“Non è
andata bene. Abbiamo salvato soltanto un mosaico. E la cosa peggiore è che sono
morte delle persone e dei Pokémon” concluse Red.
“Chi… chi è
morto?” domandò la Ranger.
“Raffaello e
Furio. E Chiara, questa mattina…”.
Marina
spalancò gli occhi, all’ultimo nome. Sapeva che Gold avesse avuto un debole per
lei, in passato, ma ora non c’era più. Abbassò lo sguardo e sospirò,
dispiaciuta.
“Due erano
parecchio giovani...” sussurrò Altea, abbassando lo sguardo.
Il silenzio
si sedimentò per qualche secondo, diventò un minuto e i sospiri lo sostituirono
immediatamente. Quella discussione aveva congelato gli animi, e in un contesto
del genere, dove la speranza doveva ardere viva, non era il caso.
“Beh... noi
andiamo a riposare” sospirò Martino, aiutando Altea ad alzarsi e dando un bacio
sulla guancia di sua sorella.
“Ci
becchiamo dopo”.
“Ciao a
tutti” salutò la Kimono Girl, abbandonando la camera e lasciando la coppia di
Dexholder con la Ranger.
Red si
sedette accanto al ragazzo e sospirò.
“A breve ci
sarà una riunione per conoscere le sorti della Lega Unificata di Kanto e Johto.
In questa regione mancano cinque Capipalestra. Ed è una vergogna che qualcuno
abbia causato la morte di uomini e Pokémon...” continuò Red.
Yellow
abbassò lo sguardo, prima di osservare l’espressione estremamente stranita di
Marina.
“I Pokémon
non dovrebbero mai morire. Li usiamo come mezzi per raggiungere degli scopi,
degli scudi, delle spade. Dimentichiamo che dovrebbero essere amici” fece l’ultima.
Le parole della Ranger costrinsero i due Dexholder ad abbassare il capo.
“Hai
ragione” rispose la bionda.
Guardarono
tutti Gold quando sentirono poi bussare alla porta. Si voltarono e Sandra fece
il suo ingresso.
“Buongiorno
a tutti”.
Indossava un
bomber nero e un jeans aderente sulle cosce. Si avvicinò a Yellow e le diede un
bacio sulla guancia, poi strinse la mano a Red. Infine alzò lo sguardo, tutto
sommato timidamente, verso Marina. Lei la fissava immobile, quasi incredula nel
vederla nuovamente lì.
“Ciao” fece
la Capopalestra di Ebanopoli.
“Che ci fai
qui?”.
Gli occhi
della Ranger si scontrarono con quelli della donna dai capelli turchesi,
stranamente sciolti quel giorno. Sandra in borghese era una normalissima,
bellissima donna qualunque.
Yellow
s’intromise. “Le ho chiesto io di venire”.
Marina si
voltò immediatamente verso la Dexholder. “Non mi piace che sia qui”.
Sandra
sbuffò, girando la testa di lato. Il tatuaggio che aveva sul collo, a
rappresentare la testa di un dragone stilizzato, era nascosto dalla lunga
chioma. Ritornò a fissare gli occhi rancorosi della Ranger e inarcò le spalle
per qualche secondo, prima di dare fuoco alle polveri.
“Sono stanca
di questo comportamento...”.
“Tu!”
replicò immediatamente Marina. “Se non avessi tentennato... Se non ti fossi
bloccata, impaurita... Non avresti avuto bisogno di Gold!”.
Le urla
riverberarono nella stanza, riempita soltanto dai respiri dei presenti e dai
bip dei macchinari.
Sandra
spalancò occhi e bocca, incredula. “Marina! C’erano più di trenta nemici e io ero
l’unica persona all’interno della banca in grado di poter dare una mano ai
Dexholder fuori!”.
A Red sembrò
opportuno intromettersi.
“Del resto
anche Gold è un Dexholder... E se Oak ha pensato bene di consegnargli un
Pokédex è perché ha visto in lui delle capacità al di sopra della norma”.
“Il nonnino
non è uno sprovveduto” aggiunse Yellow.
Red annuì e
continuò. “Noi abbiamo l’obbligo morale di dare una mano, se vediamo qualcuno
in difficoltà. A maggior ragione se è un’operazione unificata, in cui diversi
Capipalestra e persone rischiano di rimetterci la pelle”.
“Avrei
preferito rimanere a Ebanopoli e continuare i miei allenamenti, piuttosto che
passare quel brutto quarto d’ora. E se sono qui è soltanto perché Gold mi ha
salvato la vita, e gli sono riconoscente... Solo questo”.
Marina
faceva segno di no con la testa, col sorriso stampato a mo’ di adesivo sul
volto.
“Lui ha
protetto te...” disse, quando una lacrima le attraversò il viso. “Ti ha
protetto ed è stato quasi ammazzato...”.
“Questo fa
di lui un eroe” le rispose Red, con Yellow e Sandra che gli facevano da coro.
“E nulla potrà mai cambiare questa cosa”.
Marina non
riuscì più a trattenere le lacrime e sospirò, pulendosi dal trucco sciolto che
le macchiava il volto.
“Io volevo
soltanto vivere in pace!” urlò, straziando i presenti nel profondo. Riusciva a
trasmettere il dolore che provava in maniera impeccabile, tanto che Yellow rapprese
le labbra. “Volevo stare bene... stare bene qui, con lui. Crearmi una nuova
vita, lavorare. Volevo che stesse lontano dai guai...”.
“Abbiamo
avuto bisogno di lui” aggiunse Sandra. “Perché è un grande Allenatore. E mi ha
aiutato personalmente...”.
“Zitti!”
urlò quella. “Andate via! Lasciateci in pace!”.
Sandra e
Yellow inarcarono le sopracciglia e sospirarono. Si alzarono e uscirono
rapidamente, seguiti da Red, che carezzò la mano dell’amico e fece per
andarsene, prima di fermarsi sulla porta.
Guardò gli
occhi di Marina e annuì.
“È un
guerriero. Ce la farà”.
*
Yellow e
Sandra si erano avviate verso la fine del corridoio. Sostarono davanti a un
grosso finestrone ormai opaco, in cui la luce filtrava sporca e poco invadente.
“Allora?
Perché mi hai chiesto di venire proprio qui?” domandò la Capopalestra di
Ebanopoli. “Marina vuole uccidermi, e non mi sembrava il caso di presentarmi
davanti a lei”.
Yellow
annuì. Il modo di fare di Sandra era sempre lo stesso, diretto e sintetico. Abbassò
il volto e sospirò, unendo le mani davanti al bacino.
“Avevo
bisogno di chiederti una cosa. Una cosa molto importante...” disse quest’ultima.
“C’era
bisogno di farlo di persona?”.
“Beh, sì. Si
tratta di Lance”.
Sandra
aggrottò le sopracciglia e inclinò la testa.
“Che
intendi?”.
“Ho bisogno
di parlare con lui di una cosa assai delicata, Sandra”.
“Che cosa?”.
“Mi serve
solo il suo numero. È privata. Personale”.
“Oh...”.
Sandra storse le labbra e sospirò.
“Neppure Red
ne sa nulla... Perdonami...”.
La donna
prese il Pokégear e prese a digitare qualcosa sulla tastiera.
“Te l’ho
inviato. Tranquilla. Ma è grave?”.
“No, no”
sorrise poi Yellow, con la solita e involontaria dolcezza. “Devo solo
chiedergli alcune cose... Non ha fatto nulla di male”.
“Beh,
okay... Non c’è problema...”.
“Grazie”
disse la Dexholder, chinando il capo in segno di ringraziamento. “Credo che sia
il caso per te di stare lontana per un po’ da Marina e Gold...”.
“Decisamente.
Lei oggi ha avuto un brutto crollo...”.
Johto,
Amarantopoli, Rainbow Hotel
Yellow era
rientrata in albergo da sola. Red aveva deciso di sottoporsi a una seduta di
allenamento e lei aveva finalmente avuto l’opportunità di potersi rilassare un
po’. Da quando quella brutta faccenda del Cristallo
del Caos era cominciata s’erano ritrovati invischiati in qualcosa di così
difficile decifrazione da bloccarli, letteralmente, in quel limbo confusionario
di eventi.
Lei stessa
era stata gettata tra le fauci della paranoia, proprio la notte precedente.
Lance era
suo fratello.
O almeno
così aveva capito, in quell’illusione così vivida da averla resa totalmente
paranoica.
Aveva
conosciuto sua madre, aveva capito perché era stata abbandonata in quel bosco.
Aveva capito
il motivo dei suoi speciali poteri.
Quella
visione strana cambiava tutto; sì, perché era cresciuta per quasi trent’anni con
la convinzione di essere sola al mondo, con soltanto i suoi amici Pokémon. I
concetti di mamma e papà mancavano, quello di famiglia era limitato e circoscritto
alla fauna del Bosco Smeraldo che l’aveva aiutata a crescere e a quel vecchio pescatore di Smeraldopoli
che chiamava zio.
E per quel
fatto era sconvolta.
Certo, si
era interrogata per anni su come fosse potuta essere possibile la sua esistenza
senza dei genitori. Tuttavia, con la maturità e la vicinanza a Red aveva
imparato che, certe volte, le persone possono scambiarsi i ruoli, e che gli
amici possono diventare la tua famiglia.
Perché è
famiglia chi ti dà amore, chi ti protegge.
Aveva
scoperto, forse, che la sua famiglia, quella originaria, fosse una delle più
importanti e rappresentative di Johto.
Avrebbe
dovuto indagare.
Sandra le
aveva inviato il numero personale di suo cugino Lance e lei aveva tutte le
intenzioni di chiamarlo e indagare su quella che aveva l’aria di essere
assolutamente un condizionamento mentale ingiustificato.
Il Pokégear era
davanti a lei, poggiato sul letto. Yellow era seduta tra i cuscini e guardava
l’apparecchio con insistenza, quasi a costringerlo ad avvicinarsi da solo.
Pensò per un attimo al fatto che le lenzuola fossero veramente ben tirate e che
il servizio di pulizia delle camere fosse molto efficiente.
C’era un
profumo di fresie fresche, nell’aria.
Le
piacevano, quei fiori.
Pensò al
fatto che nel bosco crescevano allo stato selvatico e che, ogni volta che
passava davanti al grande albero a nord, era solita raccoglierne un mazzolino.
Sciolse i lunghi capelli e abbassò il volto, trovando finalmente il coraggio di
afferrare tra le mani l’apparecchio telefonico. Aprì il menù e vide il numero
di Lance, già salvato in rubrica. Lo selezionò, varando un piano d’azione in cui
non sarebbe sembrata una stramba che voleva soltanto disturbare il Campione
della Lega Pokémon.
Mise in
vivavoce e poggiò l’apparecchio sul materasso. Il suo respiro si frammentava
ogni volta che il segnale di occupato squillava, fino a interrompersi totalmente
quando l’uomo rispose.
“Pronto?”.
“Ehm...
Lance?”.
“Chi è? E come hai avuto questo numero?”.
“Lance,
ciao, sono... sono Yellow. Yellow del Bosco Smeraldo. La Dexholder...”.
L’ansia le stava facendo esplodere il cuore; sentiva
le tempie pulsare.
“Oh... Ciao Yellow”.
“È stata
Sandra a darmi il tuo numero”.
“Cos’altro è successo? Novità per
quanto riguarda le Rovine d’Alfa?” domandò.
“No, no, in
realtà volevo chiederti una cosa... è molto importante, per me”.
“Certo”.
“Tuo... tuo
padre... si chiama Donald?”
Sentì l’uomo
dall’altra parte del telefono tentennare. “Beh,
sì... Ma tu che ne sai?”.
“È un uomo
non molto alto, ti assomiglia...”.
“Hai visto mio padre?”.
“Ha una
cicatrice sulla guancia?”.
“Sì, Yellow, ma stai cominciando a
spaventarmi...” ridacchiò leggermente
quello.
“E... che tu
sappia... a Ebanopoli vive una donna di nome Diana?” ribatté famelica la
bionda, piegandosi verso il Pokégear.
Passò
qualche secondo prima che l’interlocutore rispondesse. “Possibile. Non ricordo con perfezione. Bisognerebbe andare negli
archivi della Palestra di Sandra per vedere se ci sono dei riferimenti. Ma
perché? E che c’entra con mio padre?”.
“No,
nulla... è una cosa personale”.
“No, ferma” rispose Lance. “Che diamine significa?! Tu non hai nulla di personale con mio padre!”.
“No, no,
assolutamente... è che...” doveva trovare una scusa, e in fretta. “È che forse
tuo padre, essendo uno degli anziani del villaggio, forse poteva conoscere
questa donna”.
“Glielo domanderò. Ora, se permetti,
avrei da fare. Se trovate informazioni utili sulla rapina alle rovine
chiamami... Possibilmente non sul mio numero privato”.
“Sì!”
avvampò violentemente la bionda. “Scusami, mi spiace tanto!”.
“Sì, ciao...” concluse quello, attaccando.
Yellow si
lasciò andare, rilasciando la tensione in eccesso nell’unico modo che soleva
utilizzare: cominciò a piangere.
Si stese di
fianco e si abbandonò alla frustrazione di non essere mai stata a capo dei
propri desideri.
Non aveva
mai avuto in mano le redini della propria vita.
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