Capitolo
8: Caramelle
e sconosciuti pt. 2
Cassandra
cliccò
sull’icona a forma di cornetta del telefono accanto al contatto. Portò
il dispositivo all’orecchio. Attese per il tempo di due o tre suoni.
‒
Dimmi ‒ rispose una voce femminile dall’altra parte.
‒
Aurora, credo sia arrivato il momento di preoccuparci.
‒
Perché dici questo? ‒ c’era rassegnazione nella sua voce.
‒
Kalut è entrato in azione attivamente, sono certa che quelli che hanno
lavorato
con lui vorranno capire che cosa sta succedendo.
‒
Può eluderli come ha fatto sempre, è Kalut, per Dio…
‒
Sai bene che non può farlo, non con loro.
E
Aurora lo sapeva, sapeva bene che era difficile e poco conveniente
tenere dei
Dexholder all’oscuro dei fatti.
‒
Qual è il piano, allora?
‒
Attualmente si sono sfaldati e attendono l’allerta di Kalut, raggiungi
uno di
loro, ti guiderò io.
‒
Siamo sicuri di ciò che sto per fare? Parlo per tutta l’organizzazione.
‒
Certi, al cento per cento. Non c’è altra strada ormai. Ti mando i file
del
ragazzo che devi agganciare.
‒
Va bene.
‒
Richiamami, ciao.
E
la telefonata tra le due Capopalestra si interruppe. La prima:
Cassandra,
Capopalestra di Idresia, a Sidera. La seconda: Aurora, Capopalestra di
Porto
Stellaviola, a Holon. Complici da anni, amiche da molto di più. Aurora
aprì la
casella della posta, cliccò sulla prima mail.
“Luogo di origine: Borgo Foglianova
Abilità più sviluppate: combattimento,
cattura
Segni particolari: è solito sfruttare una
stecca da
biliardo in molteplici occasioni…”
Green
aveva
lasciato Biancavilla quella mattina. Sedeva alla sua scrivania
pensieroso, con un bicchiere di brandy in mano. Era in chat con Blue,
che
invece si trovava dai suoi.
“Riesci
a
rilassarti?” le chiese.
“Per
niente,
mi sono già pentita di essere venuta qui, avremmo potuto fare qualcosa
in questo momento morto” rispose lei.
“Prova
a
bere qualcosa.”
“Sì,
sicuramente.
Adesso è proprio il momento adatto.”
Il
ragazzo,
ignorando la sua disapprovazione, prese la bottiglia e versò altro
liquido ambrato nel suo bicchiere.
“Avremmo
potuto
cercare informazioni sulla sparizione di Red.”
Nessuno
di
loro sapeva che in realtà ci stesse già pensando Gold. Forse, se lo
avessero
saputo, si sarebbero sentiti degli amici ancora peggiori.
“Hai
ragione…”
“Secondo
te
che cosa gli è successo?”
“Non
possiamo
saperlo, ma ho qualche idea.”
“Spiegami.”
“In
realtà
credo che anche tu abbia avuto questa impressione…”
Ad
Albanova,
il pomeriggio era scorso in fretta, anche per via del jet-leg. Sul
far della sera, Sapphire stava spulciando tra i documenti di suo padre.
L’ufficio di quell’uomo era diverso da tutti gli altri: un caos generale
simile
solo a quello che sua figlia creava nella propria camera, un pavimento
perennemente sporco e spesso interrato, una quantità imponente di foto
sviluppate appese al muro. Questo era il professor Birch.
La
ragazza
aveva libero accesso a tutte quelle documentazioni. Nonostante non
avesse mai avuto una particolare affezione verso le cose da leggere, si
ritrovava spesso a controllare lì, ultimamente. Ritrovò la foto dei tre
Dexholder di Sinnoh: accanto alla sua amica Platinum c’erano due ragazzi
dallo
sguardo non particolarmente sveglio. Ricordò i nomi Pearl e Diamond.
Avrebbe
voluto conoscere i suoi colleghi lontani, ma in quel momento l’ultimo
dei suoi
obbiettivi era mettere nei guai anche dei ragazzini.
Spulciò
ancora
un po’, trovando i documenti riguardanti i Dexholder di Unima, Kalos e
Alola. La storia si faceva interessante, quelli di Unima avevano la sua
età,
forse erano pure al torneo senza che lei potesse riconoscerli.
Stranamente, in
quella regione erano stati arruolati quattro possessori del Pokédex. Si
avventurò tra i documenti che li riguardavano, rimase paralizzata a
fissare le
schede che parlavano di uno dei primi Dexholder di quella regione: un
certo
Black. Tra i dati, c’era una data di morte. Il ragazzo, stando a quei
documenti, si era sacrificato per aiutare la sua compagna.
Quindi
Emerald
non era stato il primo Dexholder a perdere la vita.
Sospirando,
passò
avanti. Trovò i dati riguardanti lei e i suoi amici. Lesse anche quelli,
fissando in mente i gruppi sanguigni di tutti, per ogni occasione. Poi,
al
termine della cartella, trovò una portaschede molto particolare. Il
primo
foglio, nel frontespizio, diceva:
Progetto
ARBOR
VITAE
Creato
dai
sottoscritti professori Pokémon: Samuel Oak, Joshua Elm, Nicholas
Birch…
‒
Quello è materiale riservato ‒ la distrasse suo padre, sulla porta della
stanza. ‒ Anche per mia figlia.
‒
Che cos’è? ‒ chiese lei, riponendo il foglio.
‒
Se te lo dicessi non sarebbe più riservato ‒ l’uomo prese la cartella e
quei
fogli e li portò via con sé.
‒
Dai, non mi hai mai nascosto niente!
Birch
rise:
‒ Lo so, sbagliando.
‒
Ti prego, papà ‒ piagnucolò lei.
Il
professore
rifletté per qualche attimo. ‒ Ma non devi dirlo a nessuno dei tuoi
amici.
Sapphire
esultò.
‒
Il progetto Arbor Vitae è un’idea ancora molto lontana dalla
realizzazione
nella quale dovremmo concentrarci tutti noi professori Pokémon delle
varie
regioni, come avrai già letto. Si prefigge come scopo quello di far
smettere alla
piccola Sapphire di farsi i fatti altrui ‒ la prese in giro, lasciando
la
stanza.
‒
Dai! ‒ si lamentò lei.
Distraendosi
immediatamente,
tornò a spulciare nei documenti. Dopo poco trovò le schede che
le interessavano: i dati raccolti su Ruby durante la sua vita da
Dexholder. In
base alle stime psicologiche realizzate dal professore, Ruby era
fondamentalmente una persona egocentrica, ma capace di operare per il
bene
degli altri. Probabilmente era spinto anche in quel campo dall’auto
gratificazione. Tuttavia, questa sua attenzione nei confronti della
propria
persona sembrava scomparire quando Ruby si trovava a dover agire per il
bene di
determinate persone specifiche. Poi Sapphire studiò bene ciò che era
stato
scritto circa la sua ascesa al potere come Campione della Lega. Il
ragazzo era
divenuto più attento alla propria carriera e maniacale nel controllo
dell’immagine mediatica. Questo suo comportamento era stato interpretato
come
una risposta dura al trauma della perdita dei suoi genitori. In altre
parole,
un atteggiamento puerile che tornava a galla dalla personalità matura e
analitica
del ragazzo.
E
poi la Faces, informazioni che suo padre non possedeva ma che Sapphire
sapeva
stessero condizionando la vita di Ruby. Quale mistero si celasse dietro
la sua
storia, ancora era uno dei più grandi dubbi della ragazza. Tuttavia,
voleva
avere fiducia nel ragazzo e sperare che un giorno o l’altro lui sarebbe
tornato
indietro e le avrebbe dato qualche spiegazione.
Si
rese
conto di aver quasi dimenticato ciò che era venuta a cercare: le schede
dei Pokémon posseduti.
Estrasse
quella
di Flygon, uno dei più potenti esemplari utilizzati dal ragazzo. Il
Pokémon era stato donato da Norman a Lino molto tempo prima, poi
quest’ultimo
lo aveva riconsegnato a Ruby, dopo la morte del genitore. Scelta
particolare,
sicuramente motivata, ma che costituiva uno dei pochi elementi su cui
Sapphire
avrebbe potuto indagare. Purtroppo, per farlo, avrebbe avuto bisogno
dell’aiuto
di Yellow o Lance, il che risultava abbastanza complicato, al momento.
Non vedeva
altre piste, eccetto la ricerca di Ruby in prima persona, che non era il
migliore dei piani.
Gold
aveva
raggiunto Secondisola. Il villaggio era piacevolmente affacciato sul
mare
e la brezza serale estiva creava il clima perfetto, un toccasana per le
malattie. Nella parte più isolata, vicino alle scogliere, Red aveva
fatto
costruire la propria villa, qualche anno prima. Questa era una proprietà
di
medie dimensioni posizionata su un altopiano boschivo, vi si accedeva
tramite
un viale alberato e il panorama a cui dava l’occhio era tra i migliori
di tutta
la regione. Era stato più volte all’interno e ricordava abbastanza bene
la
planimetria.
Ciò
lo
aiutò a muoversi senza essere visto da eventuali custodi o abitanti. Si
era
già accertato che Red non fosse all’interno tramite il programma di
localizzazione del Pokédex che aveva di nascosto scaricato dal
dispositivo di
Green, dopo la loro vicenda a Hoenn. Secondo il GPS, Red si trovava a
Unima, il
posto più lontano possibile da casa sua. Gold ignorava cosa ci stesse
facendo,
voleva solamente indagare all’interno della casa dell’amico. Era certo
che
prima di sparire, Red e Yellow fossero tornati in quella villa.
Non
trovò
guardie, ad occuparsi della sicurezza dei suoi membri era l’istituzione
della
Lega, ragion per cui l’abitazione di un Campione congedato non era più
sorvegliata. Il ragazzo dagli occhi d’oro salì agilmente al piano
superiore
aggrappandosi al balcone. Con l’aiuto di Ambipom spalancò le porte di
vetro
senza lasciare impronte o rompere serrature. L’allarme non era
installato, i
pochi che avrebbero potuto degnamente irrompere a casa di Red erano di
certo
forniti di strumenti o Pokémon capaci di eludere ogni sistema di
sicurezza. Gli
altri, anche non conoscendo questa particolarità, non osavano fare
irruzione
nella villa di uno degli Allenatori più forti del mondo. Si ritrovò
esattamente
nello studio di Red: lo dimostravano le vetrine piene di trofei, i
portamedaglie completati appesi al muro, le foto e i ritagli di giornale
con personaggi
famosi di ogni genere e sorta. Trovò carina la riproduzione in scala
della
statua in cui Red fu trasformato dal Darkrai di Sird anni prima. Il
marmo,
scolpito in poche copie da un famoso scultore di Johto secondo
l’immagine del
ragazzo, lo raffigurava a petto nudo con Yellow in braccio. Gold
ricordava bene
quella triste sorte che toccò, oltre che quei due, pure Blue, Green e
Silver.
Grazie all’aiuto suo e dei Dexholder di Hoenn, tutti loro furono
liberati da
quella trappola durante gli eventi che sconvolsero l’inaugurazione del
Parco
Lotta.
‒
Sentimentale… ‒ borbottò, ricordando la loro avventura.
E
così, il giovane fece per avvicinarsi alla scrivania di Red. Accese il
computer
e aprì i cassetti, assicurandosi di rimettere tutto al proprio posto,
una volta
conclusa l’indagine. Controllò, durante l’avvio del Mac, pure il cestino
dell’immondizia. Non riuscì a individuare nessun elemento di interesse.
Dopo
essersi
divertito per qualche minuto ad indovinare la password di accesso al
computer dell’amico, non essendoci riuscito, lo spense. A quel punto,
ormai
sconsolato, individuò una cartella giallo ocra depositata su uno degli
scaffali. Red non era caotico. O meglio, quella stanza era il suo tempio
quindi
si trovava in perfetto ordine nonostante fosse gestita da un uomo.
Proprio per
questo, quella cartella che si trovava lievemente dislocata rispetto
agli altri
elementi nella stanza sembrava parecchio sospetta.
Improvvisamente
ricordò
dove lo aveva già visto: quella era una delle cartelle cliniche
dell’ospedale di Vivalet, ognuno di loro ne aveva ricevuto una con i
responsi
della propria visita dopo gli eventi di Rayquaza.
Allungò la mano per afferrarla.
Poi
un
rumore.
Ambipom
era
già pronto al combattimento, piazzato sulle zampe, e Gold si guardava
attorno guardingo per individuare l’intruso.
‒
Non si ruba a casa degli amici ‒ disse una voce femminile.
‒
Non ci si introduce nelle case degli sconosciuti ‒ ribatté Gold a tono.
‒
Dai, davvero mi troveresti minacciosa?
Una
ragazza
apparve davanti a Gold, come uscendo da dietro un pannello trasparente.
Non dimostrava più di vent’anni, aveva dei lunghi capelli celesti e
vestiva un
top a righe bianche e nere e una minigonna. Era bellissima.
‒
Dolcezza, non puoi avere queste sembianze e comparire a casa delle
persone,
potresti essere fraintesa ‒ scherzò Gold.
‒
Oh, ma io voglio essere
fraintesa.
Gold
cercò
di distrarsi, scacciando i cattivi pensieri. ‒ Scusa, ma questa è casa
di
un mio amico, quindi devo fermarti e farti qualche domanda.
‒
Sì, ti stavo seguendo, se è questo ciò che ti interessa.
‒
E?
‒
E ho bisogno di parlarti, tanto sono sicura che tu abbia già capito chi
sono,
Sherlock ‒ insinuò lei, avvicinandosi alla luce.
Gold
effettuò
qualche rapido collegamento, poi la riconobbe: Aurora, una
Capopalestra di Holon.
‒
Arrivo subito, Gabriel ‒ e faceva due salti a destra, per sistemare la
fasciatura di un ragazzino. ‒ Attenta con quel coso, Colette ‒ e
compariva
provvidenzialmente per salvare una bambina che minacciava di estrarre
l’ago
della propria flebo. ‒ Sono subito da te, Martin ‒ e si avvicinava ad un
terzo
marmocchio, cui doveva essere somministrato un analgesico particolare.
Crystal
si
muoveva lesta come una gazzella tra quei pazienti in miniatura. Silver,
che
pure cercava di dare una mano a modo suo, la osservava incredulo. La
ragazza
non aveva parlato con i suoi amici per giorni, poi, di punto in bianco,
era
tornata ad essere pimpante ed energica.
Segretamente,
il
rosso la ammirava. Vedeva la speranza e la serenità nei bambini che lei
aiutava. Crystal non permetteva che questi avessero paura, conosceva
tutte le
loro abitudini e i loro gusti, manteneva la promessa di portare le
caramelle a
chi avesse mangiato tutti i broccoli. Silver si rivedeva in quei
bambini:
feriti, orfani, soli. Ma lui non aveva mai avuto la fortuna di conoscere
una
Crystal, al suo tempo. Lui era cresciuto con una maschera che non poteva
togliere, in gabbia nel suo freddo stanzino, abbandonato da tutti.
Per
questo
cercava di sorridere a quei ragazzini. Avrebbe gridato in faccia ad
ognuno di quei mocciosi che la vita sarebbe andata avanti, che le loro
cicatrici non sarebbero scomparse ma che loro avrebbero potuto vivere di
nuovo,
che i loro genitori non sarebbero resuscitati ma che ci sarebbero state
tante
altre persone pronte a dargli l’affetto di cui avevano bisogno. Ma era
Crystal
quella che brava in queste cose.
Lui,
purtroppo,
ci credeva poco. E così, si limitava a distribuire il cibo,
sistemare le loro cose, lavare i panni.
Nel
frattempo,
la sua amica prendeva in braccio Jimmy che piangeva perché sua madre
non era stata tirata fuori dalle macerie dell’hotel in cui alloggiavano
e
cercava di farlo sorridere, parlandogli di come sarebbe divenuto un
Allenatore
fortissimo, che avrebbe salvato tanti altri bambini come lui.
Tutto
questo,
mentendo spudoratamente: Jimmy era rimasto paralizzato dalla vita in
giù, e avrebbe passato la vita su una sedia a rotelle.
‒
Silver, puoi prendere altre garze? ‒ le chiese l’infermiera Crystal.
E
il fulvo la fissava con sguardo vacuo. Lei aveva i capelli raccolti e un
grambiule decorato da un motivo floreale. Sorrideva. Per la prima volta,
dopo
la morte di Emerald, sorrideva.
‒
Silver, le garze! ‒ e schioccava le dita.
‒
Subito ‒ si scusava lui, correndo al lavoro.
Ore
dopo,
si stavano rilassando in uno degli ostelli messi a disposizione dei
corpi
di soccorso. Tra i soccorritori volontari si respirava la responsabilità
e la
soddisfazione, ma anche l’opprimente senso di angoscia. Vedere quelle
scene,
quelle facce, quegli occhi avrebbe devastato la psiche di chiunque. Le
zone
turistiche di Vivalet erano diventate dei formicai di infermieri,
medici,
soccorritori. Chi poteva aiutare, lo faceva senza remore. Chi aveva
bisogno di
soccorso, veniva subito accolto. Era questo ciò che permetteva a Crystal
di rimuovere
ogni cattivo pensiero dalla sua mente, anche solo per una giornata.
Nel
frattempo,
gli operai avevano cominciato a lavorare con le macerie, nel
quartiere limitrofo. C’era da ripulire il gigantesco disastro di un
intero
stadio e varie decine di edifici ridotti in pezzi da Rayquaza. Per
fortuna, non
si udiva più alcun lamento provenire da quella landa sterile. Tacevano
gli
ultimi corpi che venivano ritrovati in mezzo alla polvere e alle
lamiere:
pallidi, grigi, spenti.
‒
Vado a farmi una doccia ‒ annunciava Crystal. ‒ Puoi ordinare la cena?
Vorrei
riattaccare subito.
‒
Sì… certo ‒ annuiva Silver, docile come non mai.
E
la guardava con la coda dell’occhio mentre si sfilava la canotta ed
entrava nel
bagno abbassandosi le bretelle del reggiseno. Si sentiva sciocco, si
sentiva
Gold. Ma era così strano ciò che provava in quel momento, che gli
rimaneva
difficile persino concepirlo. Si distrasse chiamando la pizzeria più
vicina e
ordinando una margherita e una capricciosa.
Crystal
uscì
dal bagno poco dopo, proprio mentre Silver chiudeva la porta con i
cartoni
delle pizze in mano.
‒
Capricciosa, come piace a te ‒ le disse lui, prima che potesse chiedere.
‒
Grazie, Sil.
Il
rosso
notò immediatamente una nota bassa nella sua voce, ma ci fece poco caso.
Crystal era uscita dal bagno con indosso solamente un asciugamano a mo’
di
vestito, il che aveva attratto la gran parte della sua attenzione. La
ragazza
prese dei vestiti leggeri e tornò in bagno per cambiarsi, aggiunse però
un secondo
asciugamano in testa, avvolto attorno ai capelli.
‒
Buon appetito ‒ augurò all’amico, sedendosi.
A
quel punto Silver se ne rese conto. Aveva la carnagione arrossata tipica
del
post doccia, ma quegli occhi gonfi erano inconfondibili. Crystal aveva
pianto.
E anche parecchio. lo aveva fatto da sola, in bagno, quando nessuno
poteva
vederla. Decise di non farle notare l’evidenza della cosa, la avrebbe
messa a
disagio.
‒
Sei fantastica ‒ le disse invece, pensando fosse la cosa più giusta.
Lei
lo
guardò titubante, era insolito ricevere un complimento da lui.
‒
Là fuori, con i ragazzini, sei eccezionale…
‒
Grazie ‒ rispose lei sorridendo teatralmente.
Silver
si
sentì scaricato.
‒
Crystal, non fingere, capisco quello che stai provando ora… voglio
cercare di starti
vicino.
‒
Perché mi parli come se dovessi rassicurarmi? ‒ domandò allora lei,
aprendosi
un pochino di più.
‒
Perché credo che non ci sia niente di male nell’accettare l’aiuto di
qualcuno ‒
spiegò il fulvo, andando contro ad ogni sua tipica abitudine.
Crystal
lo
guardava come si guarda la propria casa dopo esser stati via per anni.
Poggiò
la
testa sulla sua spalla. Silver si fermò. La guardò. Crystal sollevò il
capo
per incrociare i suoi occhi argentei. Lo baciò sulle labbra.
Non
scoprì
mai il motivo di quel gesto. Forse lo aveva fatto per sentirsi più
sicura, forse per ringraziarlo, forse perché ne aveva semplicemente
bisogno.
In
ogni
caso, quella sera non tornarono a lavoro, né finirono di cenare.
Kalut
spense
ogni pensiero negativo. Il suo Arcanine gli si era accoccolato attorno,
tenendolo al caldo. A poca distanza, c’era invece Xatu. Si trovavano
sulla cima
di una montagna. La temperatura era rigida e il silenzio profondo. Kalut meditava seduto a gambe
incrociate,
modellando i flussi di pensiero della propria mente come fluidi in
assenza di
gravità.
Cercava
di
inserirsi nella mente di Zachary, che aveva avuto modo di studiare e
ispezionare da cima a fondo per molti mesi.
“Rabbia,
tradimento,
vendetta…” pensava. “Dolore, amici, bugie.”
“Ci
sei
quasi” lo aiuto Xatu, Pokémon millenario, in collegamento mentale con
lui.
“Kanto…
Hoenn…
Unima…”
“Continua
così”
fece Xatu.
“Ultima.
Chance.
Distruzione, Nemici.” realizzò.
“Le
tue
sinapsi sono più potenti di quanto qualsiasi uomo possa immaginare,
Kalut…”
commentò Xatu.
“Non
c’è
bisogno di dirlo, ma di dimostrarlo” ribatté lui.
“Allora,
avviserai
i Dexholder?”
“Zero
vuole
colpire una delle sedi centrali FACES, ce ne sono tre: a Zafferanopoli,
a
Porto Alghepoli e ad Austropoli. Non posso essere in tre posti
contemporaneamente,
devo allertarli per forza.”
“Va
bene,
e quanto tempo hai?” il Pokémon eterno
sembrava quasi un professore che interrogava il proprio alunno. E in
un
certo senso era così.
“Poco
tempo:
agirà domani sera” rispose Kalut, alzandosi e preparandosi a tornare a
valle.
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