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Andy Black - La Sindrome di Stendhal - Genziane e Aquilegie

La Sindrome di Stendhal - Genziane e Aquilegie
OVVERO: di come uno zuccone prese per mano la principessa del castello
DarkstoneShipping (Gold x Lady Platinum Berlitz)



Questo posto è un fottuto congelatore…”

Gold non era mai stato quel tipo di persona che contava fino a dieci, prima di parlare; credeva che il concetto stesso del pensare fosse simile al semplice parlare senza aprir bocca e non era così sicuro di riuscirci senza far rumore.
E poi sostanzialmente aveva ragione: a Sinnoh faceva davvero freddo.
L’autunno era praticamente alle porte e il Percorso 204 era stato imbastardito gentilmente da una mano di rosso, che aveva pittato le foglie degli alberi.
Alcune di quelle, più audaci e coraggiose, sfoggiavano lo stesso il loro colore vivido e verde, in quel pot-pourri di colori che andava a sbiadirsi.
Il cielo, del resto, era una tavola di nuvole impastate tra di loro, grigie e minacciose.
Da qualche parte erano nere. Su Evopoli già pioveva.
Il nostro eroe stringeva i pugni nelle tasche, con le dita che cominciavano già a perdere sensibilità.
“Non mi faccio mai gli affari miei, questa è la verità…” fece poi, salendo una larga scalinata costeggiata a destra e sinistra da alti alberi. Ripensò a Crystal, che gli aveva domandato di andare a Sinnoh a raccogliere qualche esemplare di bacca del luogo.

“Non puoi fartela inviare tramite Fedex?”
Quella l’aveva guardato terribilmente male mentre, seduta sul letto accanto a un Silver più che febbricitante, agitava il termometro a mercurio per far scendere la temperatura.
“Ci sarebbe andato Silver… ma sta male! E poi lo sai che qualsiasi spedizioniere io scelga mi porterà un pacco contenente frutti rotti, che non potrò analizzare!” fece quella, alterandosi a voce bassa.
“Ma cosa diamine significa?! Che cosa dovresti analizzare?! Una mela è una mela, un’anguria è un’anguria e un ananas è un ananas! Perché le bacche di Sinnoh dovrebbero essere differenti da quelle di qui?!” esclamò quello dagli occhi dorati, vedendo gli occhi di Silver stringersi a ogni sillaba più alta di un sussurro.
“Non alzare la voce, troglodita!” replicò quella, urlando in silenzio. “E comunque devi aiutarmi! Me lo devi, per tutte le volte che ti lasciamo casa libera!”.
Gold spalancò gli occhi e assunse una smorfia di sdegno. Batté le mani, applaudendo e annuendo. “Complimenti. Se avessi saputo che per fare del sano sesso avrei dovuto andare a sbattere le mie chiappe di Johto in quel frigorifero con la montagna al centro mi sarei limitato a un cinque contro uno nel bagno”.
Crystal abbassò lo sguardo e sospirò.
“E mi sarei pulito le mani sul tuo accappatoio…”.
“Fai schifo, Gold…” sussurrò Silver.
“Tu riposa” ribatté Crystal, spingendogli le spalle contro il materasso. “E tu vai a fare i bagagli”.
Gold si vide costretto a trasformare il suo viso in quella che chiamava la “morsa del lamento”: il labbro inferiore era proteso verso l’esterno, gli occhi assumevano un’incurvatura ad A e le sopracciglia seguivano il resto.
“Non mi fai pietà…” sbuffò la ragazza, mettendo sotto il braccio del rosso il termometro.
“Non puoi andarci tu?!” urlò l’altro. “Rimarrò io a badare a Silver!”.
Quello spalancò gli occhi e si sollevò, preoccupato. “Neanche per idea!” urlò, sentendo la propria vita messa in gioco.
Crystal spinse nuovamente Silver sul letto e fece cenno di no con la testa.
“Tornerei direttamente al suo funerale”.
“È un po’ di febbre!” protestò l’altro. “Non morirà di certo!”.
“Ma se tu con trentasette e mezzo hai chiamato tua madre per fare testamento!” ribatté pronta l’altra.

E alla fine convennero tutti e tre che sarebbe dovuto essere proprio lui ad andare a Sinnoh a prendere quei campioni da studiare. Sentì quel profumo dolciastro, che sostituiva quello della natura selvaggia che lo aveva accompagnato dall’inizio di quel viaggio.
Del resto Sinnoh era parecchio simile a Johto, se non per quel clima così rigido. Probabilmente era soltanto lui a percepire tutto quel freddo, a fine settembre, come del resto era sicuramente lui ad avere esagerato quel giorno, mettendo quel maglioncino rosso di filo, così aderente sul petto e sulle spalle.
Sbuffava, salendo i gradini. “Se avessi saputo di trovare il clima dell’Alaska avrei portato anche sciarpa e cappello di lana. E guanti. Guanti con le dita...” diceva a se stesso, guardando in alto.
E quando anche l’ultimo scalino fu lasciato alle sue spalle una lunga folata di vento spostò la folta chioma del moro.
“Dannata Crystal” sussurrò, mentre digrignava i denti.

“Devi mettere ogni campione che raccogli in un sacchetto sigillato differente. Non li unire”.
“Mi credi così stupido?!”.
Quella si limitò a sorridere a denti stretti. “Ti credo molto più stupido di questo, in effetti”.
Gold indossò nuovamente una maschera di sdegno.
“Donna senza fede e senz’amore”.

Poi qualcosa d’inaspettato gli si parò davanti agli occhi: il grande prato colorato di Giardinfiorito era inginocchiato davanti a lui, in tutta quella naturale e monumentale bellezza. Le onde del vento riverberavano tra i petali viola e blu, e gialli, e arancioni.
Il ragazzo rimase strabiliato.
“Dannazione…” sorrise, con gli occhi spalancati. La vastità di quel campo lo aveva scioccato, come anche quell’ordine geometrico in cui i vari fiori erano stati piantati.
Si sentì piccolo e vulnerabile, per un piccolo istante; saltò un battito e sospirò, sorridendo.
La natura era magnifica.
Nonostante l’autunno e gli alberi che facevano tutt’intorno da cornice cadente, rossastra, arancione e gialla, con qualche pittata di verde audace e grintoso che stentava a lasciare la tela di quel colpo d’occhio, Gold si ritrovò dinnanzi uno spettacolo meraviglioso, con migliaia, forse decine di migliaia di fiori, ordinatamente piantati in quello che era il giardino più bello e profumato che avesse mai visto.
Gli venne da sorridere, automaticamente.
Poi si voltò, ancora confuso, e vide persone che, ancora a mezze maniche, giravano tranquille sui piccoli sentieri dell’insediamento che anticipava il bosco.
“Andatevi a coprire” suggerì lui, senza neppure guardare gl’interlocutori. Avanzò verso la grande tabella che aveva a pochi metri. E lesse:



Giardinfiorito

Città Profumata


“Sì, hanno ragione. Profuma davvero” ragionò, guardandosi attorno. Una nuvola più chiara delle altre passeggiava lentamente nel cielo, mentre nella testa del ragazzo serpeggiò quella strana voglia di rotolarsi in quel mare di petali e steli. Si avvicinò al prato e s’inginocchiò, guardandosi attorno.
“Provo un’irresistibile attrazione per tutti questi fiori. E la cosa mi fa sentire anche parecchio checca, ma non posso farci nulla” disse a se stesso, sentendo poi qualcuno sorridere.
Si voltò, vedendo una moretta parecchio carina. Sembrava divertita.
“Ridi di me?” domandò Gold, guardandola.
“Io non rido di te” rispose quella.
“A me sembra proprio che tu stia ridendo di me”.
“No” ribatté quella, seria. “Non rido di te. Non ho mai riso di te”.
Gold la squadrò meglio, con gli occhi dorati a carezzare l’intera figura della donna, avvolta in un vestitino corto a metà coscia, nero con le balze della gonna in tessuto rosa. Indossava un paio di francesine basse e la cosa gli faceva parecchio strano, perché Gold praticamente congelava.
Alzò lo sguardo, disegnando delicatamente con gli occhi linee e sguardi che lo accompagnavano alla vita di quella, e poi più su, verso quel seno elegante e leggermente accennato dalla breve scollatura dell’abito. Era nascosta leggermente da una lunga sciarpa rosa, come la gonna, che terminava poco prima dei grossi stivaloni rosa, che seguivano l’intera linea tirata dalle belle cosce.
“Ok…” disse poi lui, già conturbato. Fu quando alzò gli occhi, e constatò quanto bella fosse che il suo sorriso mutò; fu sfoderato immediatamente. Ne guardò le labbra, forse morbide, e quel piccolo naso, una virgola su quel volto candido. Gli occhi, due pozze grigiastre, esprimevano timidezza e contemporaneamente una dolcezza inaspettata, ed erano nascosti dalla frangetta corvina. I due ciuffi di capelli che scendevano ai lati del volto stati poi tirati indietro e legati ordinatamente in una treccia, che scendeva leggera dietro la nuca.
“Ho una domanda” esordì lui, rimanendo ancora inginocchiato nei fiori. Attese che lei annuisse, prima di parlare.
“Per quale dannatissimo motivo riesci a stare con quelle calzette alle ginocchia e poi ad avere le cosce totalmente scoperte?”.
Si sollevò e la guardò negli occhi, mentre sorrideva.
“Cioè” continuò. “Mi si congelerebbe tutta la passera, con questo freddo”.
Lei arrossì e abbassò lo sguardo, per poi prendere coraggio e incontrare nuovamente quei fari dorati.
“Oggi non è così freddo. C’è un po’ di vento ma direi che si stia bene”.
“Sinnoh è un congelatore” ribatté lui, abbassandosi e strappando un paio di fiori dal prato, uno viola e uno blu.
Li porse alla ragazza, che arrossì prepotentemente.
A lui quella cosa piaceva.
“Tieni” disse poi, sfiorando la mano delicata di quella, che li raccolse. “Io mi chiamo Gold” continuò. “E tu sei?” sorrise sornione, con quella faccia tosta che solo lui riusciva ad avere.
“Io mi chiamo… Ti piacciono questi fiori?”.
“Non ho capito il tuo nome…”.
“Questi sono tipici fiori di montagna” proseguì nel discorso la signorina, odorando i doni appena ricevuti. S’incamminò verso ovest, in direzione d’una piccola locanda in legno col porticato ricco di fiori.
“Sì, ma come ti chiami?” faceva Gold, inseguendola nel grosso campo colorato, mentre un Combee ronzò lontano da loro.
“Non molti giovani uomini si appassionano a queste cose…”.
Il ragazzo sbuffò, rassegnato. “Ora mi verrà una sincope, immagino. Comunque non mi piacciono i fiori, generalmente. Ma li ho visti così…” fece, allargando le braccia. “Tutti qui, stesi in questo enorme giardino, ed è come se qualcosa si fosse… acceso?”.
“Questa blu è una genziana…” replicò lei, poggiandola tra le mani del ragazzo. Alzò l’altro fiore, quello viola, e l’odorò con trasporto, chiudendo gli occhi e sorridendo. “Mentre questa è un’aquilegia. Sono fiori molto particolari, sai?”.
Il ragazzo odorò a sua volta la genziana e guardò negli occhi l’altra.
“Come sai tutte queste cose? Hai mangiato un’enciclopedia?”.
Quella sorrise, e nel farlo rivelò le meravigliose fossette ai lati della bocca. A Gold piacevano in maniera smisurata.
“No” rispose poi. “Ho letto tantissimi libri, su ogni cosa”.
“Su ogni cosa?!” esclamò l’altro, poggiando i piedi su di un verdissimo ciuffo d’erba. “Che infanzia triste che devi aver avuto”.
Quella si voltò e lo fissò negli occhi. “No” disse, tornando a guardare dritto. “Non triste. Ho imparato tante cose… Anche se ho capito soltanto più tardi cosa fosse il mondo”.
“In che senso, scusa?”.
Lei annuì, comprendendo d’esser stata poco chiara. Avrebbe avuto tanta voglia di parlare di come, da bambina, i suoi amici più diretti fossero i tomi della grande e fornita biblioteca di famiglia, o il suo maggiordomo, Sebastian, ma le sembrava davvero inutile.
Chi era quel ragazzo dagli occhi dorati e le mani congelate?
Non lo conosceva.
Tuttavia adorava quella luce che illuminava il suo sguardo.
“Senza nome!” la chiamò Gold, agitandole la mano davanti agli occhi. Quella trasalì e poi sorrise nuovamente, con quella dolcezza e quella grazia che stavano rapendo Gold con prepotenza. “Ci sei?”.
“Ce l’ho un nome” ribatté lei.
Quello ne prese atto e annuì. “Saresti anche così gentile da dirmelo?” chiese.
La ragazza si fermò e lo guardò seria.
“No” rispose, concisa.
“Ma dai!” esclamò Gold, inseguendola anche dopo che quella riprese a camminare. Le afferrò il braccio e sorrise. “Che ha di così particolare, il tuo nome, da non poter essere pronunciato?”.
“Non lo dico a tutti quanti, il mio nome”.
“Ma io non sono tutti quanti!”.
Lei sorrise ancora e vide le mani del ragazzo prendere i due fiori che quella stava stringendo. Li mise uno accanto all’altro e li inserì nei capelli della bella moretta.
“Non sei tutti quanti?” domandò lei, quasi scettica. E quell’aria di sfida che esprimeva faceva impazzire Gold. Era diventata una questione di principio, adesso, sapere come si chiamasse.
“Certo che non sono tutti quanti! Non vedi la televisione?”.
“A dire il vero non ne abuso, no”.
Quello spalancò gli occhi e sospirò.
“Sinnoh è ancora nel medioevo. Dove sono i vostri castelli?”.
“Io ho una magione, se può farti felice” ribatté quella, sorridendo.
“E invece io ho soltanto freddo”.
Lei lo guardò per un momento e poi decise di togliersi la sciarpa, porgendola a lui.
“Tieni” disse, sorridendo. “Me la ridarai dopo”.
Lui guardò quella striscia di calda e profumata stoffa e poi gettò gli occhi in quelli della bella moretta.
“La prendo” ribatté. “Ma sappi che non ti lascerò salire facilmente a casa mia”.
“Casa tua?” domandò confusa quella, con un’espressione immensamente ingenua.
“Scherzavo…”.
“Oh. Non afferro subito il sarcasmo, chiedo scusa”.
Gold avvolse la sciarpa attorno alla collo e quindi sospirò. “Immagino dipenda dal fatto che sia stata sempre in casa”.
“Non sono stata sempre in casa” rispose con garbo l’altra, quasi immediatamente.
“Come ti pare”.

Entrarono subito dopo nella locanda in fondo al piccolo sentiero. Lì la temperatura era notevolmente più calda e Gold poté restituire la sciarpa alla ragazza, che rispose facendo un piccolo inchino, in segno di cortesia quando la riaccolse tra le mani.
Quella era una classica locanda di montagna: col camino (ma spento) di fronte la porta, il bancone in legno sulla destra e tanti tavolini piazzati in una sala colma di tappeti rossi. Il profumo di resina e whiskey era forte, lì dentro, ma non disturbava per niente.
Era piacevole, come del resto le luci soffuse che illuminavano il centro del piccolo locale, già riempito quasi per metà a quell’ora del mattino.
“Buongiorno, Clementine” sorrise gioviale ed educata la bella moretta, piegando in più parti la sciarpa e poggiandola su di un tavolo. La locandiera, una signora di mezz’età più che tracagnotta e dai biondissimi capelli ricci, le fece un cenno col capo.
“Ho fame” osservò Gold, tirandola per mano verso il tavolino che lei aveva scelto. Le si sedette di fronte e la vide arrossire sotto il suo sguardo, che indugiava sulle sue labbra e sul collo, ormai scoperto.
“I frullati di frutta di questo posto sono meravigliosi. I migliori di Sinnoh” suggerì la bella moretta, sorridendo.
“Fame” ripeté Gold, sbuffando quasi infastidito per non esser stato compreso dapprincipio.
Clementine s’avvicinò al tavolo e carezzò i capelli lucidissimi della signorina, sorridendo.
“Salve ragazzi. Che vi porto? Per te il solito, Signorina?”.
Gold spalancò gli occhi. “Neppure lei conosce il suo nome?!”.
“In realtà il suo nome lo conoscono tutti, qui a Sinnoh…” fece la locandiera, mordicchiando la punta della Staedler e guardando distratta nel vuoto.
“Non glielo dica, Clementine. Per favore” sorrise l’altra, ricevendo uno sguardo d’intesa da parte della donna.
“Questo segreto morirà con me”.
Gold sbuffò e roteò gli occhi. “Per me un cestino di patate fritte”.
La ragazza guardò con garbo il piccolo ed elegantissimo orologio da polso che portava al braccio, di lucido argento e col cinturino in pelle, e fece spallucce.
“Beh, io sono ancora in orario post-colazione… prenderò un frullato alle fragole…”.
“Il solito, quindi” sorrise Clementine.
“Come sempre”.
La cameriera s’allontanò e metà della sua figura sparì oltre il bancone, lasciando i ragazzi naufragare nel vociare indistinto del locale.
Gold la guardava, lei guardava lui. Sorrisero entrambi, anche se negli occhi della ragazza non v’era alcuna traccia di sfida e divertimento che ne conseguiva.
Solo gentilezza, e tanta, tanta grazia.
“E così sei famosa” disse lui, battendo con i polpastrelli sul legno duro del tavolo.
“Non così tanto…” ribatté quella, alzando gli occhi al cielo.
“Sono famoso anche io, dicevo. Ho vinto il Pokéathlon, a Johto”.
Lei annuì. “Sai, tra Sinnoh e Johto c’è una profonda correlazione… Si dice che molti abitanti di Sinnoh fossero migrati nella più mite Johto diversi millenni fa… Il culto di Arceus s’è sviluppato così, nelle regioni centrali…”.
Gold sbuffò. “E benvenuti a una nuova superpuntata di History Channel, in cui la famosissima ragazza senza nome né freddo, che sa tutto e prende frullati alle fragole, ci spiegherà tantissime cose che non sapete. E non importano a nessuno…” ghignò, dopo l’ultima parola, vedendola spalancare gli occhi.
Solo allora si rese conto d’aver un po’ esagerato.
“Mi spiace che le mie parole t’abbiano annoiato. Se vuoi non dirò più nulla” fece, arrossendo violentemente e abbassando lo sguardo.
Gold si rese conto che quella non fosse Crystal.

No.

Era un fiore più delicato, più raro, i cui petali si sgualcivano più facilmente.
“No, continua. Devi sapere che faccio il gradasso, delle volte…” fece ammenda quello dagli occhi d’oro.
Lei rialzò lo sguardo e lo vide sorridere a mezza bocca.
“Mi fai uno strano effetto” ribatté Gold, non capacitandosene.
“Spero sia qualcosa di buono” disse lei, seria.
Lui continuò a guardarla negli occhi, avvicinandosi al tavolino e puntellandovi i gomiti sopra. Poggiò poi la testa tra le mani, senza mai distaccare lo sguardo.
“Stranamente sì. Vuoi dirmi come ti chiami?”.
Lei sorrise nuovamente, facendo poi cenno di no con la testa.
“È tipo un nome orribile? In stile Asdrubala… o Ermenegilda? Calogera? Non lo so!”.
Lei rise, portando la mano delicata davanti al volto.
“No. No, no, sei fuori strada, Gold”.
“E perché allora non vuoi dirmi il tuo nome?”.
Lei fece spallucce, continuando a sorridere.
“Dannatissime femmine” sospirò quello, vedendo poi Clementine arrivare. Poggiò un cestino di patate fritte, dorate e bollenti, davanti al ragazzo. Infine fece scivolare sul tavolo un grosso bicchiere di vetro, col frullato della giovane.
“Buon appetito” disse la donna, dileguandosi.
Passarono due minuti di studio più che assoluto tra i due, in cui non si scambiarono neppure una parola.
Soltanto sguardi, soltanto occhi che s’incrociavano a metà strada.
In cuor suo la Signorina era divertita dall’ostinazione che provava quel giovane. In un certo senso le ricordava Pearl, in qualche atteggiamento portato dalla grinta che i loro occhi esprimevano. La faceva ridere, e la cosa le piaceva tanto.
Provava entusiasmo e la cosa non succedeva da quando era partita per il suo personalissimo viaggio, mutato poi nella più grande avventura che avrebbe mai potuto vivere.
O anche solo immaginare.
Il Pokédex nella tasca pesava sempre di più, quando si doveva relazionare ad altre persone. Come se quel semplice oggetto facesse di lei una persona speciale, più particolare e importante delle altre.
Tutto nella sua vita era girato attorno alla conoscenza, all’apprendimento di quelle cose che mai avrebbe potuto sognare di acquisire restando tra le mura di casa.
Ormai era una donna, lei. Tuttavia i dubbi l’attanagliavano ancora, stringendola in una morsa di curiosità dalla quale non riusciva a districarsi.
Gold, quel ragazzo così spontaneo che stava divorando un cestino di patatine a un quarto d’ora da mezzogiorno, era qualcosa che voleva apprendere, spinta dalla fame di sapere.
Stava flirtando con lui, forse inconsciamente.
Tuttavia stava imparando qualcosa di nuovo, quel mattino: l’attrazione per un uomo si manifestava in quel modo, con le mani sudaticce e le gote arrossate, e quella strana e insensata voglia di spostare la sedia accanto alla sua.
Qualcuno fischiettò un motivo di una vecchia canzone e catturò l’attenzione di entrambi.
Gold sorrise.
“Quella canzoncina me la cantava mia madre, quand’ero piccolo…” osservò, infilando l’ennesima patatina in bocca.
“La conosco…” sorrise lei, quasi imbarazzata.
“Non ne avevo dubbi, Signorina…”.
Tornò il silenzio ma quella cosa non le piaceva. Lui distoglieva lo sguardo, quindi tornava a fare altro. No, lei voleva che tornasse a chiedere il suo nome.
“Già hai ceduto?”.
Quello la guardò nuovamente e poi fece cenno di no.
“Io non cedo mai…”.
“Felice di sentirlo”.
“Hai intenzione di dirmi come ti chiami?”.
Quella s’avvicinò al tavolo, poggiando il mento sul palmo della mano e sorridendo.
“Dimmi perché dovrei dirtelo?”.
Gold annuì. “Te lo spiego subito, il perché: io sono il tuo biglietto per il luna park. Tu dovresti volermi dire il tuo nome per il semplice motivo perché, dopo averlo fatto, potrei chiederti di uscire assieme”.
Lei arrossì immediatamente. Tuttavia allargò il sorriso.
“Non puoi farlo senza sapere il mio nome?”.
Fece cenno di no, Gold. “Ho una formula precisa, io. Le cose le faccio con una certa metodologia”.
La moretta sorrise e inarcò un sopracciglio. “Sono curiosa, ora”.
“Dimmi il tuo nome”.
“No, caro mio…”.
“Sei ottusa!” esclamò lui, facendola esplodere in una risata. “Più di me, e questo è, credimi, incredibile!” esclamò, agitando per aria la patatina. Spostò i capelli corvini dal volto con la manica del maglione, e tornò a parlare.
“Ho come l’impressione che i tuoi occhi analizzino tutto”.
Lei annuì. “È proprio così”.
“Come se avessi sempre il cervello acceso. Come se imparassi sempre qualcosa. Sembra tu ne abbia bisogno”.
Lei rimase interdetta, fissandolo immobile. Come poteva quel ragazzo leggerla come un libro aperto?
“Dalle poche cose che so di te, posso dire che la tua infanzia non è stata come la mia. Sai tante cose, teoricamente. Ma in pratica, che hai fatto?”.
Distolse lo sguardo, la Signorina.
Dopo una piccola pausa fu lei a parlare. “Non è una vergogna” ribatté.
“Voglio insegnarti qualcosa che non sai” sorrise poi lui. “Voglio insegnarti a rischiare per ogni singola cosa, proprio come faccio io!”.
I loro occhi s’incrociarono nuovamente. Gold alzò poi una patatina e la inzuppò nel frullato.
“Mi è bastato poco per capire che io e te siamo questo” disse lui, mostrandole quella strana unione di cibi. “Diversi. Strani e forse incompatibili, all’occhio. Ma incredibilmente buoni, assieme”.
Avvicinò la patatina col frullato alla bocca della ragazza, che la aprì delicatamente. Gold le carezzò il labbro inferiore quando le permise di mangiarla, sorridendo poi nel momento in cui vide i suoi occhi illuminarsi.
“È buona” sorrise.
“E tu sei bella. E io ho una gran voglia di baciarti”.
Le lunghe ciglia della ragazza batterono per diverse volte, prima che il suo sorriso s’aprisse a ventaglio.
“Platinum. Lady Platinum Berlitz” si scucì lei, arrossendo con violenza.
Gold sorrise, tronfio e vincitore.
“Allora, Platinum… vuoi uscire con me, questa sera?”.

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