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HNK - TIR - 23 - Ideale e Verità

 
 
Ideale E Verità




Erano passati poche settimane dall’ultimo discorso di Sua Santità ai propri seguaci, e da allora l’intera città sembrava essere sprofondata nel chaos. L’agitazione era ovunque, tutti erano indaffarati e davano il massimo nei loro lavori, per poter riuscire lì dove aveva predetto il loro leader: trovare Kyurem e utilizzarlo per riportare la purezza nel mondo.
“Tutte stronzate” pensò Alice, mentre li osservava dall’alto della Torre Bianca, operosi come tante piccole formiche ai suoi occhi; solo che, secondo lei, sprecavano le loro energie per qualcuno che non meritava altro che la morte.
Quei pensieri le balenarono in mente nello stesso istante in cui, senza saperne il motivo, pensò nuovamente ai suoi genitori.
Cercò immediatamente di pensare ad altro e la sua mente si concentrò su quello che sembrava un enorme Exeggutor proveniente da Alola, lo riconobbe dal suo collo molto allungato. Un gruppo di persone di cui non riuscì a distinguere l’età lo circondava, ammirando uno dei pochi Pokémon esotici visti nella Regione, negli ultimi anni. Alola era l’unica Regione non considerata dal Sacro Ordine e, per questo, era diventata un rifugio di chiunque fosse in fuga, soprattutto coloro che erano considerati “non puri” e quindi ridotti in schiavitù. Per qualche motivo, Sua Santità, evidentemente la considerava di scarso interesse, e quindi non si interessò più di tanto quando le popolazioni di Alola rifiutarono di accettare il nuovo Credo.
“Stupidi e rudi pescatori e barcaioli” venivano spesso apostrofati dai più. Alice invece, giorno dopo giorno, si immaginava sul dorso di qualche Pokémon volante, intenta a solcare i venti, diretta verso Alola e la liberazione. Da anni, ormai, era rinchiusa in quella torre, al massimo le era concesso di tanto in tanto, quando non finiva in punizione, di fare un giro nei Giardini Sacri posti tutt’intorno, ma sempre all’interno delle mura di cinta della Torre Bianca. Il suo padre adottivo era fin troppo apprensivo verso di lei, e questo le faceva venire la nausea.
Stranamente, però, dal giorno del discorso, lui era completamente scomparso. Non che la cosa le dispiacesse, però le sembrava strano di non averlo ancora visto, neanche ai pranzi che di solito era obbligata a consumare in sua presenza.
Quel giorno, mentre scrutava il mondo fuori dalla finestra, decise di approfittare di questa novità e decise di scendere giù, ai giardini, e farsi una camminata fra gli alberi.
Senza la presenza del suo patrigno, Alice si sentì libera di non dover seguire le regole imposte per il vestiario. Balzò giù dal davanzale della finestra, eccitata all’idea, e si diresse verso l’armadio. Lo aprì immediatamente e ne estrasse rapidamente tutti i vestiti all’interno, ben ripiegati, stirati e puliti. Li lanciò alle sue spalle, noncurante di dove sarebbero finiti, accatastandoli uno sull’altro. Una volta che il ripiano più basso fu libero, Alice corse alla sua scrivania e ne trasse una robusta riga per il disegno tecnico, spingendola poi nella piccola fessura che si intravedeva nel profondo dell’armadio, nell’angolo sinistro. Così facendo forzò la base in legno e riuscì ad alzarla, riaprendo dopo tanto tempo lo scompartimento segreto che era riuscita a ricavarne, grazie soprattutto all’aiuto di Kal e Kalin.
Spostò rapidamente i pochi averi che aveva nascosto, compreso il suo quaderno per gli appunti e la Poké Ball che aveva utilizzato per Gallade quando era ancora un Ralts, regalo sempre dei due fratelli e tenuta nascosta in quanto il suo patrigno gli aveva proibito più volte di possedere un Pokémon, anche Gallade, in una Poké Ball. Infine riuscì a vedere i vestiti che custodiva con tanta gelosia: un semplice pantalone di tuta color nero, leggermente largo in modo da nascondere in parte le sue forme, e una maglietta lunga, di cotone e completamente grigia. Li indossò velocemente, spogliandosi in fretta e furia, lanciando il pigiama sul letto. Una volta finito, si abbassò vicino i cassetti inferiori, aprendo il primo ed estraendone un paio di calzini lunghi. Li mise e poi prese gli stivali lunghi col tacco basso, anch’essi neri come i pantaloni. Non pensò neanche di sedersi per indossarli e se li infilò in piedi, barcollando. Mettendo il secondo, andò a sbattere contro il comodino vicino al letto e imprecò a bassa voce, dovendo rigettare indietro i capelli che gli erano finiti in bocca a causa del trambusto. Fu allora che perse l’equilibrio e cadde sul pavimento, con le braccia spalancate e la gamba in cui stava infilando lo stivale ancora issata in alto. Almeno, era riuscita a calzarlo.
Alice si alzò a sedere, dando uno sguardo a Gallade che non parve per nulla infastidito dal baccano da lei provocato e continuava a meditare, fluttuando a mezz’aria.
- Vado un po’ nei giardini, ho voglia di stare all’ombra degli alberi, vuoi venire anche tu? – Alice indicò la Poké Ball nell’armadio.
Gallade aprì una palpebra, per poi richiuderla subito dopo.
- Perfetto.
Alice fece appiglio sul letto per potersi alzare più facilmente. Ritornò vicino l’armadio, chiuse lo scompartimento nascosto, ributtò alla rinfusa tutti i vestiti all’interno dell’armadio e chiuse le ante.
- Ci vediamo dopo, allora – lo salutò lei, uscendo dalla porta.
Kal e Kalin erano appostati come sempre fuori dalle sue stanze. Vedendola uscire, le rivolsero un cenno di saluto, senza scomporsi troppo in quanto c’era un gran vai e vieni di persone, nel corridoio. Di norma, avrebbero dovuto seguirla ovunque si dirigesse ma, Kal, notando i vestiti di Alice, parlò di proposito ad alta voce, in modo che tutti potessero sentire ed essere testimoni.
- Kalin, credo sia arrivato il momento di fare rapporto al nostro superiore rispetto il turno di guardia di stanotte, direi di dirigerci nei suoi uffici. La signorina Alice potrà contare sulla scorta del personale, situata al momento nella biblioteca del terzo piano – Kal ricalcò queste ultime parole, come fosse un avviso.
- Grazie – sussurrò Alice ai due, mentre si incamminavano nella direzione opposta alla sua, deliberatamente allungando il tragitto fino all’ufficio del loro superiore.
Lei camminò lentamente nella direzione opposta, dirigendosi verso le scale della Torre. Non le era mai piaciuto viaggiare su e giù con l’ascensore, per questo ogni volta che poteva, preferiva prendere le scale. Non appena le imboccò, incominciò a correre, fuori dalla portata di occhi indiscreti che avrebbero potuto parlare con Sua Santità sul suo comportamento “poco signorile”, con conseguente arrivo di altre punizioni per lei.
Si lanciò dunque a capofitto per le scale, scendendo piano dopo piano. Arrivata al terzo, rallentò l’andatura, in quanto le scale sbucavano vicino l’ingresso della biblioteca, vicino il quale si stavano radunando i Sacerdoti, per poi dividersi i punti da presidiare. Per sua fortuna e sfortuna, Alice conosceva a memoria ogni passaggio di quella Torre, in quanto era costretta a vivere fra le sue mura da diversi anni, e quindi non ebbe difficoltà, tramite corridoi secondari e passando un paio di volte nei locali cucine, dove sgraffignò anche un paio di pagnotte di pane con scaglie di cioccolato, ad arrivare al piano terra. Qui si sistemò distrattamente i capelli in una coda, per poi ficcare le pagnotte di pane all’interno del piccolo zaino che si era portata dietro, contenente il minimo indispensabile.
I Giardini esterni erano, come sempre, di una bellezza unica: i colori si alternavano uno dopo l’altro fra i vari fiori e i più disparati alberi, da quelli locali ai più esotici provenienti da Alola o Unima. C’era perfino una porzione di terra dedita alla crescita degli alberi di ghicocche, provenienti da Johto. Fontane in marmo bianco e sculture intervallavano il tutto, poste ai lati dei lastricati in pietre lavorate o in punti strategici, dove erano sistemate poltrone e divanetti per poter passare il tempo a osservare il panorama. Il posto preferito di Alice, tuttavia, era il lago che si trovava al centro della sezione Nord dei Giardini; oltre ai vari Pokémon acquatici e non che lo abitavano e ne approfittavano per procurarsi acqua e cibo, c’era un enorme abete bianco che raggiungeva i sessanta metri d’altezza e superava di gran lunga le mura della Torre.
Alice superò il lago, in cui un banco di Goldeen era intento a fuggire da una Milotic piuttosto eccitata che si divertiva a inseguirli e determinarne l’allontanamento gli uni dagli altri quando ci passava vicino.
Quando il Pokémon la vide, saltò fuori dall’acqua per poi ricadere all’interno, spruzzando fini goccioline tutt’intorno e provocando un piccolo ed effimero arcobaleno sulla superficie del lago.
Alice salutò con la mano la Milotic che conosceva ormai da anni e si avvicinò alla targa esplicativa sotto l’enorme pianta sempreverde.
- Abies Alba, l’esemplare più antico di tutta Sinnoh. Età approssimata, cinquecentoventotto anni. Altezza di circa 60m. Tutti i dati sono riferiti alle misure effettuate in data quattro Giugno del primo anno del Sacro Ordine.
La ragazza lesse con sdegno le ultime parole, storcendo il suo naso che spesso le ricordava una piccola patata.
Scosse la testa, obbligando sé stessa a non farsi rovinare l’attimo di libertà. Diede una rapida occhiata dietro la schiena, giusto per essere sicura di non essere osservata da nessuno. Ma, come quasi sempre, quel lato del giardino era completamente sgombro da altre persone. Non perse un istante di più e si legò saldamente lo zaino, chiudendo le fibbie posteriori sul ventre e si issò sui primi rami.
In poco tempo e con facilità, riuscì a raggiungere l’altezza del muro di cinta, conoscendo quasi a memoria la struttura dell’albero su cui si era arrampicata ogni giorno, sin da bambina. Coperta alla vista dalle foglie dell’abete, si inerpicò su uno dei rami, sporgendosi il più possibile verso il muro. Poi, con un salto, giunse infine sul tetto di una delle torri di guardia. Aspettò quindi che nessuno stesse guardando e scese dall’altra parte del muro di cinta, mettendo piedi e mani nelle piccole insenature che aveva trovato negli anni precedenti.
Una volta toccato terra, dietro la solita casa che la nascondeva sempre da occhi indiscreti, estrasse il berretto da baseball dallo zaino e lo mise in testa, limitando le possibilità di essere vista. Purtroppo, essere la protetta di Sua Santità portava notevoli conseguenze negative, come quella di essere vista come una salvatrice e cercare i suoi favori. Non che ad Alice dispiacesse, le piaceva aiutare quando le era possibile, ma non era nel suo stile volere l’adulazione degli altri.
Si risistemò lo zaino sulle spalle e si diresse nel viale su cui affacciava la casa. Già stracolmo di gente che andava e veniva in ogni direzione, il quartiere commerciale era come sempre una banda musicale ambulante.
Alice si camuffò fra gli altri abitanti, solo un’altra ragazza in cerca di qualcosa da comprare in uno dei tanti negozi. Passò ancora una volta davanti a quelle vetrine immense, in cui erano esposti i vestiti più strani che abbia mai visto in vita sua.
La sua attenzione venne rapita da un capo in particolare, completamente bianco, composto di una gonna cubica, la cui forma era ottenuta tramite dei supporti che ne attraversavano i lati, e una maglietta fatta da quadrati bianchi intervallati da spazi vuoti in cui mancava il tessuto. Infine, il cappello, aveva la forma di un enorme piramide.
- Chi diavolo si metterebbe mai una cosa del genere?
Alice guardò in basso, notando la targhetta col prezzo; non aveva mai visto tanti zero, uno dietro l’altro. Rimase completamente senza parole quando si accorse che stava leggendo solo il costo del cappello, mentre per l’insieme dell’abbigliamento si giungeva a cifre che probabilmente neanche esistevano.
Decise, disgustata, di non soffermarsi oltre e riprese a camminare, percorrendo l’arteria principale del commercio. Mano a mano che si allontanava dal centro città, i negozi e le persone parvero “umanizzarsi” col tempo: affioravano sempre più venditori di alimenti, negozi di giocattoli, ogni tanto passava qualcuno con un carretto, carico di oggetti più disparati e antichi. Da una di loro, Alice comprò un vecchio orologio analogico con il marrone del cinturino in pelle quasi completamente scolorito, lasciando una buona somma di denaro extra. Si allontanò dall’anziana donna per poi continuare ad addentrarsi nel mare di persone che parlavano, concitate, le une con le altre. Sentì qualche risata in sottofondo che l’indusse a ridere a sua volta, pensando a quanto è bello sentirsi circondati da persone che vivono le une con le altre, invece delle solite macchine che sembrano sempre con la testa altrove, perse nei loro aggeggi tecnologici per fare chissà cosa.
Finalmente, giunse al sarto verso cui era diretta. L’insegna, recitante “Filch & Murdock”, era quasi completamente corrosa dal tempo. Aveva ormai perso da anni il suo colore acceso, dove il bianco delle lettere risplendeva lucente sul blu scuro che ne faceva lo sfondo.
Nonostante il cartello recasse la scritta “Chiuso” Alice spinse ugualmente la porta, sapendo che si sarebbe aperta. Il solito odore di biscotti caldi e cornetti appena sfornati la salutò sulla soglia, mentre la campanella suonava e avvisava l’arrivo di un nuovo cliente.
- Chi è così cretino da non saper neanche leggere un semplice cartello? Siamo chiusi!
Un uomo anziano uscì dal retrobottega, con addosso quel che sembrava un giubbotto antiproiettili.
- Ciao, Ferdinand – Alice lo salutò con un grosso sorriso.
- Oh… è lei, signorina Alice. Mi scusi, è colpa di quei ragazzini che…
- Non ti preoccupare, e smettila di chiamarmi signorina, ti ho già detto di chiamarmi solo Alice.
Superò il bancone con sopra la polverosa cassa e diede un lieve bacio sulla guancia del vecchio, lasciandogli una piccola busta in mano.
- Questi sono per i vestiti che mi ha confezionato tuo nipote – indicò ciò che portava addosso – Più qualcosa per te, così magari potrai sistemare quella serratura. Però voglio un paio di chiavi, altrimenti resto chiusa fuori.
- Non c’è bisogno, Alice. Sei una nostra amica e la figlia di Sua Santità, non puoi pagare.
- Certo che posso, e l’ho appena fatto.
Sorridendo, si diresse verso il retrobottega, dove c’era il laboratorio.
Sparì dietro le doppie ante mobili, che le ricordavano tanto un saloon del far west e oltrepassò un paio di scatole colme di tessuti. Lì polvere e ragnatele erano ovunque, costellando l’intera lunghezza del corridoio che aveva pavimento e pareti in legno. Le lampade che cadevano dal soffitto emanavano una tiepida luce in ogni direzione, accentuando le ombre di scatoloni, manichini e scaffali posti lì alla rinfusa, abbandonati da un’era in cui il negozio era colmo di clienti.
Aprì una porta in acciaio e immediatamente venne bombardata dal chiasso delle macchine in azione lì dentro. Tra il fragore del metallo e il sibilo dei tessuti lavorati, al centro della sala, c’era un ragazzo piuttosto in carne che lavorava a mano un vestito, seduto su una piccola sedia e appoggiato a un traballante tavolo in legno.
Alice gli si avvicinò chiamando a gran voce il suo nome, ma il rumore delle macchine impediva anche a sé stessa di sentirlo. Giunse quindi alle sue spalle, per poi affondare la mano nei lunghi capelli ricci del ragazzo. Lui si girò immediatamente e parve urlare quando la vide. Si alzò immediatamente e, facendo segno di aspettare, corse verso il pannello di controllo principale. Lì spinse delle leve e calò qualche bottone, imponendo il silenzio all’interno della sala.
- Bucky, che canzone è questa? – chiese Alice che, solo allora, riuscì a sentire la canzone che c’era in filodiffusione all’interno della stanza.
- Alt-J, Something Good – fece lui, col sorriso che gli si stampava sul volto.
Bucky corse al trotto verso di lei, per poi abbracciarla e sollevarla da terra. Una volta che Alice sentì nuovamente il pavimento sotto i piedi, dovette alzare lo sguardo per guardarlo nel volto.
- Incredibile, sei cresciuto ancora.
- Beh, zio Filch mi dà da mangiare, nonostante dica sempre di odiarmi a morte e che il suo stupido fratello l’ha fatta apposta a morire e a lasciarmi a lui, così da rovinargli la vita.
Bucky sorrise rozzamente, mentre i suoi occhi color nocciola non smettevano un attimo di fissare Alice, scorrendo da un punto all’altro della ragazza.
- Vedo che… - Bucky si fermò un istante, con le lacrime che iniziavano a scorrergli sul viso.
- Sì, li adoro, grazie Bucky.
Quello fece crollare la diga e l’enorme ragazzo iniziò a piangere dalla gioia.
Alice cercò di tranquillizzarlo, assicurandolo che erano i suoi vestiti preferiti non solo perché glieli aveva confezionati lui. Ma questo parve farlo ricadere nel pianto.
- Scusa, è che sono stati i primi che io abbia mai fatto, non pensavo venissero bene.
- Ma dai, sono bellissimi. In effetti non li metto mai quando sto su, alla Torre.
- Come mai?
- Beh, li tengo per le cose importanti, no?
Bucky rise a questo e sembrò essersi fermato per un istante.
- Lo odi, vero?
- Sì, dopo che ho scoperto quello che mi ha fatto, odiarlo è il minimo. Però qualcosa di buono ogni tanto se ne ricava.
Alice si tolse lo zaino da spalla e ne estrasse le pagnotte che aveva prima rubato in cucina. Le consegnò a Bucky e insieme iniziarono a mangiarne una parte, raccontando uno all’altro quello che era successo in quel mese che era passato senza che si potessero vedere.
A metà del suo racconto, Bucky si alzò, tutto eccitato, e si diresse verso un armadio. Tornò con in mano un fagotto di lenzuola.
- Questi sono per te, ho pensato di migliorarli un po’ dall’ultima volta.
Alice aprì il fagotto e ne trasse una bellissima maglietta blu chiaro, sul cui davanti erano state ricamate, in bianco, le figure di un grosso abete bianco e un piccolo Deerling. C’era anche un jeans che richiamava in parte il colore della maglietta.
Lei rimase senza parole e non poté fare altro che abbracciare Bucky che ricambiò, soddisfatto, la dimostrazione di affetto.
- Sono lieto che ti piacciano, per ora sei la mia prima e seconda cliente.
- Bucky, non so come ringraziarti.
- Una cosa puoi farla. Voglio bene a mio zio ma, quando scapperai da questa maledetta città, portami con te.
Lei sorrise e accettò, stringendogli la mano per siglare il loro patto.
In quel momento, il megafono collegato allo studio di Ferdinand gracchiò delle parole che non riuscirono a comprendere bene.
- Fa sempre questo, la vecchiaia gli ha dato al cervello. Ora vado a dirgli di spegnerlo.
Alice parve riconoscere una delle voci e zittì immediatamente l’amico.
- Aspetta, sembra la sua voce.
I due rimasero in attesa, finché la voce di Ferdinand non scomparve.
- So per certo che lei forniva abiti militari tecnologicamente avanzati e senza pari a un gruppo di ribelli sotto il comando di uno dei maggiori ricercati, Suraji Wanjala. Sono venuto qui oggi, in questa catapecchia, per darle la possibilità di redimersi dagli errori e potersi trovare un posto migliore dove passare i propri giorni. Ha qualche familiare che potrebbe venire con lei?
- No – gracchiò la voce di Ferdinand.
- Beh, non sarà un problema poterle fornire qualcuno che possa farle compagnia, quando si trasferirà nella Torre Bianca per lavorare con i miei scienziati.
- Che cosa ti serve?
- Vestiti e armature, le migliori che tu possa creare.
- Che devi farci?
- Insolente, non sono cose che ti riguardano, devi solo…
- Se non so a cosa ti servono, non so come devo lavorare. E se non so come lavorare, tanto vale che resti qui, in questa catapecchia.
Alice sorrise quando il suo patrigno parve non riuscire più a parlare, non era abituato a essere interrotto. Dopo un silenzio che parve infinito, parlò nuovamente.
- Una, in particolare, deve essere in grado di resistere alle energie di Reshiram e Zekrom, non vorrei finire colpito dagli attacchi dei miei stessi Pokémon. Le altre devono semplicemente essere più resistenti possibile. Dobbiamo affrontare e catturare Kyurem. Contento, vecchio?
Bucky guardò con la bocca spalancata Alice, che rispose allo stesso modo.
- Sì, grazie mille per avermi informato.
- Bene, ora deve solamente dirmi i materiali e i macchinari di cui ha bisogno, provvederemo a tutto noi.
- Vada a farsi fottere, per piacere – Ferdinand parve mettere tutto il sarcasmo esistente al mondo in quelle due ultime parole.
- Come, scusi?
- Ho detto: Vada A Farsi Fottere – Ferdinand scandì alla perfezione le parole, divise da brevi silenzi tattici che parvero accentuare di mille volte il suo pensiero.
Immediatamente dopo, ci fu come un’esplosione emanata dal megafono.
- Ripulite questo posto. Il cadavere del vecchio eliminatelo e lavatemi la pistola, credo che si sia sporcata con qualche schizzo di sangue.
Alice e Bucky rimasero in silenzio mentre i fruscii generati dai movimenti davanti al microfono nella stanza di Ferdinand echeggiavano nelle loro orecchie.
Bucky, come svegliato da un sogno, corse verso l’armadio da cui aveva preso i nuovi vestiti di Alice e ne trasse una grossa ascia affilata. Brandendola, si diresse verso la porta.
- No! – gli urlo Alice, tirandolo per un braccio.
- Bucky non puoi, ti uccideranno.
- Hanno già ucciso mio zio, devono pagarla! – lui si liberò dalla presa, voltandosi verso di lei.
Alice lo stava fissando, con gli occhi pieni di lacrime. Sussultò quando lui fece scivolare il manico dell’ascia dalle sue mani e la testa cozzò sul pavimento. Il ragazzo si accasciò a terra, in ginocchio, piangendo sempre più forte.
Alice gli si avvicinò, gli prese l’enorme testa colma di capelli e l’avvicinò al suo petto, mentre lui continuava a piangere e le sue enormi mani cercavano conforto stringendole le spalle. Lei chinò la sua testa verso quella del ragazzo, accarezzandolo.
- Non possiamo fare niente, adesso. Andiamocene – disse lei, risoluta.
- Come? – lui alzò lo sguardo, con gli occhi pieni di lacrime e scosso dai sussulti.
- Tuo zio è morto, e il mio patrigno è un essere orribile. Dobbiamo andare via da questa città.
Lo sguardo fermo e deciso di Alice quasi spaventò Bucky, che a fatica si stava rialzando.
- Come pensi di poter fare? Non voglio lasciarlo qui.
- Lo hai sentito, c’erano altre persone con lui. E io e te non siamo abbastanza forti da sconfiggerli e prendere il corpo di tuo zio. Proprio come è successo coi miei genitori, non ci possiamo fare niente.
Alice indugiò un attimo sul volto dell’amico, che la guardava con gli occhi vitrei e lo sguardo abbandonato chissà dove.
- Stanotte, dammi il tempo di andare in camera mia a prendere le cose necessarie e Gallade. Poi ce ne andremo. Nel frattempo hai qualcuno da cui nasconderti?
- S-sì, c’è la vecchia fornaia che credo sia innamorata dello zio.
- Ottimo, vai da lei, allora. E porta con te Wartortle.
- In realtà si è evoluto, ora è un Blastoise – Bucky indicò la Poké Ball che aveva nascosta in tasca.
- Oh… beh, complimenti – Alice abbozzò un sorriso, suscitando un lieve miglioramento nello sguardo di Bucky.
Alice aspettò Bucky, in silenzio, mentre inseriva quanta più roba poteva all’interno dell’enorme zaino che si stava preparando. Il ragazzo raccolse l’ascia e l’utilizzò per sfasciare un macchinario, da cui trasse un grosso libro.
- Non lascerò che quei tizi prendano le ultime ricerche di mio zio – esclamò, quando Alice gli si avvicinò, impaurita che il rumore potesse attirare qualcuno.
- Tranquilla, la sala è insonorizzata. Possiamo fare tutto il baccano che vogliamo. In effetti…
Bucky trottò attraverso la stanza, mettendo in moto tutti i macchinari e sistemandoli in modo strano, armeggiando con fili e bracci meccanici.
- Tutto pronto, andiamo.
Il ragazzo spinse un grosso armadio sotto una finestra, per poi metterci davanti il tavolo da lavoro. Ci fece salire Alice e poi la seguì. Nessuno dei due parlò, una volta fuori. Corsero a perdifiato, in direzione della casa della fornaia, con Bucky che apriva la strada. Si fermarono solo una volta scavalcato il recinto del giardino e messi al sicuro, all’ombra del balcone.
- Sono sicuro che alla vecchia Dolores non piacerà per niente, ma sarà felice di aiutarmi.
Bucky bussò alla finestra, e subito sentirono dei passi provenienti dal soggiorno.
- Bucky, devo chiedertelo. Perché hai acceso quei macchinari?
- Li ho manomessi. La porta è sigillata, entro stasera si saranno surriscaldati a sufficienza da esplodere. Ho pensato che sarebbe stato un buon diversivo per poter scappare.
Alice rimase senza parole. Mai una volta aveva visto Bucky fare un pensiero più malvagio del mischiare cioccolato bianco e fondente.
- Mio zio ha sempre detto di voler andarsene col botto, penso di averlo accontentato.
Bucky si sforzò di ridere e Alice lo seguì nel suo intento.
- Credo sia meglio che tu vada, ci vediamo stasera a mezzanotte, qui nel giardino. Ok?
- Va bene, buona fortuna, Bucky – Alice gli diede un bacio sulla guancia e poi, tenendo saldamente il cappello con una mano, scavalcò nuovamente la recinsione e si diresse verso le mura della Torre.
Corse il più rapidamente possibile e non si spaventò di essere vista mentre si arrampicava sulle mura, per poi salire sul tetto della torretta di guardia e risalire sull’albero. Cadde con un tonfo nell’erba, e poi riprese nuovamente a correre per i giardini, fra le urla di sgomento dei nobili che ci passeggiavano. Quando fu nella sua stanza, era ormai passato da tempo il tramonto.
Kal e Kalin rimasero sull’ingresso, dopo che lei gli raccontò tutto. Tutti e due, da sempre fedeli a lei e non ad altra persona, si occuparono personalmente di non far passare nessuno, in modo da renderle più rapidi i preparativi.
- Alle undici, miss, saremo stranamente convocati da qualcuno – Kal fu il primo a parlare.
- E questo telefono è nel caso lei abbia bisogno di qualcosa, nel caso si dovesse stranamente trovare fuori dalle sue stanze – concluse Kalin.
Alice li ringraziò entrambi, facendogli poi promettere a tutti e due di seguirla non appena possibile. Solo dopo averli convinti, entrò nella sua stanza.
Lì vi trovò Gallade, ancora intento a meditare, che aprì gli occhi non appena la vide, cercando tuttavia di restare impassibile e nascondere la propria preoccupazione.
- Gallade, facciamo i bagagli. Andiamo via.
Sentendo quelle parole, il Pokémon parve riprendere vita. In un attimo balzava da un angolo all’altro della stanza, raccogliendo tutto ciò che la sua allenatrice gli diceva di prendere, felice come non mai.
Alice guardò fuori dalla finestra, notando una grossa sagoma diretta verso di lei. Il Pokémon volante si librava lì davanti al vetro, come in attesa di poter entrare.
Gallade fu più veloce della ragazza e si diresse alla finestra. Dopo pochi istanti in cui i due si fissarono negli occhi, Gallade aprì la finestra e un enorme Noctowl ne entrò.
In quel momento Alice non capì come, ma delle immagini le balenarono nella mente, concludendosi con la vista di lei e Bucky volare via, sul dorso del Pokémon.
Senza pensarci, Alice prese la Poké Ball di Gallade, lo fece entrare e se la mise nella tasca dei pantaloni. Si mise lo zaino sulle spalle e salì in groppa al Pokémon.
Fuggirono, via dalla Torre, diretti alla casa di Dolores. Lì Bucky ne uscì, pieno di domande. Dovette però trattenersi per il momento, in quanto Alice insistette per partire immediatamente.
Così, senza fare alcun rumore, le ali di Noctowl li portarono via, nelle ombre della notte che inghiottirono i loro corpi, nascondendoli alla vista di Pokémon e tecnologie.



 
- Hancock

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