Still Alice:
The annoying evidence of Moore’s Paradox
Epilogo.
The annoying evidence of Moore’s Paradox
Epilogo.
Dicono che sia la pioggia.
Non so se è vero, ma è così, si dice, che tutto il senso sta lì, quando il mondo comincia a crollarti addosso. Nella pioggia.
Forse, qualcuno ha trovato una rivelazione, una strada, così, semplicemente lasciandosi annegare all’aria aperta, nel freddo che bagna le ossa, rendendole friabili come biscotti.
Tendendo la mano, magari, la pelle è riuscita a frenare la rottura di un gioiello d’acqua e, da qualche parte, la verità era scritta lì. In una lingua che chiunque riuscirebbe a comprenderla.
Ma io non credo. Non credo nell’origine mitica del mondo, o nella scienza del microscopico, non credo nelle magie, nel caso, nelle coincidenze.
Non credo che un giorno mi risveglierò e saremo tu, e io, e nessuno piangerà di sottofondo in un campo di fiori bagnati, non rimarremo per sempre addormentati sopra o sotto la terra smossa.
Fa troppo freddo per rimanere qui, forse tra un po’ nevicherà: il cielo è torbido e l’aria è così umido che ti senti ugualmente bagnato. Ma non nevica.
Sembra che il cielo si stia rifiutando di versare anche un singolo fiocco di neve, rompendo quel coro silenzioso di gente che si guarda e pensa: è la pioggia.
Dicono che ha storie diverse, che dà risposte diverse, se riesci ad ascoltarla. Se sei abbastanza paziente e rimani a scioglierti sulla terra in divenire.
Allora, appena prima di diventare un grumo di pelle bagnata, forse allora capirai che non c’è tempo, non c’è spazio, che sono solamente leggende che ci insegnano a ripetere fin da quando riusciamo a pensare.
Vorrei che nevicasse, anche solo qualche fiocco che, con la grazia di una ballerina, sarebbe in grado di congelare le parole.
Così, la smetterebbero di dirlo.
«Piove».
Eppure, io non credo.
***
Enunciato:
è assurdo affermare una proposizione e al medesimo tempo affermare di non crederci
Sono passati tre anni, no, mille giorni, e altri cento o giù di lì.
Mille giorni da quando Adriano si è alzato, una mattina, e ha aperto la finestra: aveva il mantello avvolto come una coperta, lungo le spalle e, controluce lo si scambiava quasi per un sudario.
Mille giorni da quando Alice si è svegliata e, guardandosi allo specchio, si è scoperta diversa: si dice che il tempo attenui il dolore, e forse è vero.
Di certo, le aveva spento la rabbia e, le cicatrici del suo Altaria sulla pelle di Adriano, non le causavano più alcun colpevole brivido di piacere.
Era finita così, una storia che pensava non sarebbe terminata mai. Un tempo si era convinta che il rancore non si sarebbe affievolito, che le sarebbe sempre rimasto quel retrogusto di fiele nella punta del cuore.
Invece no. Un giorno si era svegliata e aveva scoperto che anche quella cicatrice si era sbiadita e non si notava nemmeno più, nella trama generale della pelle.
Sono passati tre anni, no, trentasei mesi e poi altri tre o giù di lì.
Tre mesi da quando Rocco Petri è sparito, inghiottito dal buio, in un tunnel di rocce dove si perdono anche le anime.
Qualcuno dice che è morto, qualcun altro che è un codardo e non tornerà, altri che si pentirà e farà uno o cento passi indietro.
Ma non succede nulla di tutto questo.
Rocco non torna, Alice non smette di cambiare nei riflessi degli specchi, e Adriano non sa come chiudere la finestra.
In fin dai conti, potrebbe riflettere Alice, davanti alla finestra aperta, è questione di sopravvivenza: Rocco è fuggito, prima che il dolore aumentasse di intensità. È fuggito e non è tornato mai più.
Il pensiero seguente le si blocca nel cervello, come un ingranaggio oliato male, si inceppa nella testa e non riesce a tramutarlo in parole. Sembra come se, senza dirlo, avesse meno verità da trasmettere.
E io sono ancora qui, riflette, non ho un posto dove scappare. Forse le gambe non mi reggerebbero nemmeno, o si metterebbe a piovere, non lo so.
Non so niente, non credo in niente.
È che le cose brutte succedono, e tu non ci puoi fare assolutamente nulla: non sembrano più di tre anni, o trentasei mesi, o mille e più giorni. Sembra un secondo esatto, quello in cui lei si è voltata e, nell’ombra sul muro, ha continuato a trovarsi cambiata.
Ma non è stato soltanto un secondo: Alice ha trascorso tre anni a percorrere le stesse stanze, a guardare le stesse finestre chiuse, sbarrate perché non capitassero altri incidenti. E non si è nemmeno mai chiesta perché, cosa la spingesse a farlo, che sciocco sentimento la muovesse, ancora, quando non doveva esserle rimasta che una cicatrice appena più chiara della sua stessa epidermide.
È semplice evidenza, alla fine: lei è stata l’unica abbastanza folle per rimanere. Perfino Rocco ha levato le tende, issato in spalla lo zaino ed è andato via.
Ma non lei.
È rimasta lì, immobile, con la pioggia che scende, senza che sia in grado di accorgersene: se non senti qualcosa, puoi dire di essere sicura che esiste per davvero?
Perché Adriano è morto oggi, ma lei non riesce ancora a crederci.
Questa storia nasce come imbarazzante ritorno di fiamma tra me e i paradossi logici: il paradosso di Moore rimarrà sempre il mio preferito e, pensandoci bene, si prestava alla mia “prima” long-fic. La prima parte del titolo, invece, è ripresa da uno dei film che più mi è piaciuto, tra quelli visti quest’anno: Still Alice. E, per chi lo ha visto, forse sarà più facile indovinare dove andrà a parare questa storia. Dal prologo (o epilogo, perché c’è chi inizia in medias res, e chi comincia dalla fine) non si capisce molto, e sinceramente non vorrei dare spiegazioni non necessarie, come la mia scelta di iniziare dalla fine, in quanto rovinerebbero l’effetto sorpresa. Perché, sì, questa storia inizia dall’ultimo capitolo e andrà indietro. Non vi dico come finirà, ma spero che la mia idea vi sorprenda, almeno un po’. Eh, niente, buona lettura.
Gaia
Commenti
Posta un commento