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Levyan - Aquiloni - 2 - 4 Secondi

4 Secondi

 

 


Sono sveglio. Sono qui. Sono vivo.
Sento qualcosa dietro la mia schiena, qualcosa di pesante, qualcosa di grosso. Ma non mi interessa. Sono vivo.
È buio, qui dentro. È stretto, voglio uscire, la sensazione di costrizione mi sta dando alla testa, detesto il buio.
Espando il mio corpo, ecco cos’era a gravare sulla mia schiena. Delle ali, ho due ali, due enormi e meravigliose ali. Dio, come sono felice di essere vivo!
Apro le ali.
Sento che la mia gabbia si spalanca, il mio fardello si spezza, sto evadendo dalla mia prigione. Vedo nel buio aprirsi uno squarcio luminoso. Sembra un sole, un sole splendente.
Il sole... ricordo ancora che colore abbia? Non so neanche quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho visto il sole...
Prima potevo osservarlo da lontano, nascondendomi qui dentro. Spiavo il mondo esterno. Ma ricordo poco di quei giorni, quasi nulla. Non ero io quello, non ero io quello nascosto al buio che scrutava il mondo esterno da quel piccolo forellino.
Non ero io. Io sono vivo.
Lo squarcio si fa più ampio. Sempre di più.
L’ultimo sforzo, sento le ali fare resistenza, sento il mio corpo liberarsi dalle costrizioni, distrutto, stanco, devastato. Ma non mi fermo, non intendo fermarmi per restare qui dentro.
Tirò fuori la mia anima, evoco le mie ultime energie e spingo, sorgo da questa posizione sottomessa a me stesso, le mie ali non trovano più ostacoli. Lo squarcio diventa tutt’uno col cielo e attorno a me, il sole comincia a brillare, anche per me.
Sento la vertigine, mi sento cadere, non voglio cadere.
Mi rendo conto di avere delle forti zampe, riesco a rimanere sospeso, aggrappandomi. Sento le ali annichilite, infiaccate. Il sangue deve fluire dentro le loro venature, perché queste diventino utilizzabili. Le sento sempre più pesanti, si stanno riempiendo di liquido, si stanno riempiendo di sangue.
Ho il primo dubbio.
Come farò a portarle? Come potrò trascinare queste ali così pesanti?
Il mio corpo è troppo debole per loro.
Finalmente il loro peso smette di crescere e il loro volume di aumentare. Finalmente capisco. Non sono io a doverle trasportare, sono loro a dover trasportare me.
Sento la stanchezza del mio corpo svanire, il calore andarsene e la fatica allontanarsi.
Sono vivo e ho con me le mie ali.
Le allargo, fiero. La loro ampiezza è maestosa e il loro colore sgargiante. Sento l’aria muoversi attorno a me, il mondo muoversi attorno a me. Loro non spostano me, loro muovono tutto il resto.
Io rimango fermo, nel loro perfetto centro di equilibrio, mentre tutto il mondo viene spostato dalle mie ali. Sto volando.
Sto volando.
Mi sento così potente, così forte, così invincibile.
Arrivo in alto, seguo il sole, la luce.
Do due colpi, due rapidi movimenti e sono più in alto di una distanza che mai avrei pensato di percorrere in così poco tempo. Sto volando.
Mi poso su un ramo, il primo volo è stato fatto, ora tocca al secondo. E so per certo che, quando avrò spiccato il volo per la seconda volta, difficilmente deciderò di tornare a toccare il terreno.
Penso a come sarebbe una vita totalmente in volo, senza mai far riposare queste ali meravigliose, senza mai poterle fermare in modo da ammirarle.
Tutta la vita in volo.
Tutta la vita.
Tutta.
Una settimana.
Soltanto una settimana.

Una misera settimana. Sento l’ansia crescere dentro di me, le lacrime presentarsi agli occhi, lo stomaco stretto in una morsa di preoccupazione.


Ho solo una settimana da vivere...

Piango, ma poi qualcos’altro si presenta in cima alla lista delle priorità, ho fame, devo mangiare qualcosa, devo sopravvivere, ho bisogno di energie perché il mio corpo riesca a sopportare ancora fatica. Sento di dover inserire cibo nel mio corpo. Con la mia lunga bocca nera dalla forma di una cannuccia.

Ho fame, significa che sono vivo.

Mi muovo, sento gli istanti correre e lasciare un segno indelebile sul mio corpo. Un marchio permanente.

Mi avvicino ad un fiore, decido di affrontare gli schemi, non voglio passare tutta la mia vita in volo, atterro su uno dei petali del fiore. Bianco, candido, lucido. Il petalo è morbido e soffice, ma non abbastanza da lasciarmi cadere.

Allungo la mia bocca, la cui punta si inserisce nel cuore del fiore. Inizio a cibarmi, sento il polline che viene attratto all’interno della mia bocca. Che mi sfama, che mi delizia.

Dio, è buonissimo, ha un sapore divino.

Allargo di nuovo le ali, sono sazio, voglio volare.

Ritorna il dubbio.

Una settimana, sette giorni, centosessantotto ore, diecimilaottanta minuti, seicentoquattromilaottocento secondi. Potrei contarli, da ora fino alla mia morte, ammesso che avvenga con precisione. No, avrei già perso il conto, sono vivo da qualche minuto.

Sono vivo.

Volo e penso a quanto dev’essere stato stupido e cinico colui che mi ha creato, dandomi delle ali, questo corpo meraviglioso, questo cibo e l’opportunità di andare dove voglio ma concedendomi solo una settimana di vita.

Viaggio ancora. Incontro sulla mia strada foreste su foreste, natura, verde. Dove sono gli umani? Comincia a scendere la notte.

Un giorno.

Giungo sopra una città, le luci si accendono, la notte scompare. Decido di scendere.

Le persone mi guardano strano, si chiedono che cosa ci faccia io qui. Perché non capiscono che voglio passare i miei pochi giorni di vita dove voglio stare?

Gironzolo ancora per le strade svolazzando. Ad un certo punto le luci iniziano a darmi fastidio, i rumori della macchine cominciano a torturarmi e le voci delle persone a martellare il mio cervello.

Me ne vado, ma quando riprendo quota, mi rendo conto che si sta facendo giorno. La luminosità della città mi aveva ingannato, il sole sta sorgendo all’orizzonte, quanto tempo è passato?

Secondo giorno.

Voglio continuare a volare.

Sono vivo.

 

Sono ancora vivo.

Sto ancora nuotando.

Ancora, nello stesso mare, nelle stesse acque.

Giro l’angolo, il fondale è abitato da dei Clamperl. Almeno così li chiamano gli umani, strani esseri che vivono chiusi nelle loro case, in attesa di qualcosa che li sconvolga, che li uccida o che li trasformi in esseri migliori.

I Clamperl, intendo, non gli umani.

No, anche gli umani, ora che ci penso... ne ho visti tanti, ho vissuto abbastanza, ho assistito alla nascita di molte persone e alla loro morte, una dietro l’altra. Ricordo Michael, lui mi prese con sé da bambino, era felicissimo, diceva che ero una specie rara. Passarono gli anni, e ora ho in testa l’immagine di lui che mi saluta, mi augura il meglio, mi rigetta in mare... vecchio, stanco, prossimo alla morte.

E così tutti gli altri. Mi invidiavano. Non con cattiveria, ma con una punta di malinconia. Da giovani dicevano che ero fortunato, io, che non ero in continua lotta col tempo. Che su di me i giorni non gravavano. Poi, una volta divenuti vecchi, si ricredevano, mi chiedevano scusa affermando che non potevano capirmi, che la noia e la monotonia distruggono ogni cosa... persino la vita stessa.

Quando si decidevano a lasciarmi, provavano compassione per me. Sapevano che avrei passato molto altro tempo sulla terra. O meglio, in acqua.

Svolto per la fossa delle alghe e cominciò a scendere in profondità, in mezzo alle luminose antenne dei Lanturn che mi guidano come muti ciceroni.

Ormai sono abituato, negli ultimi anni ho avuto il tempo di esplorare i mari, gli oceani. Ma non li ho visti tutti e mi piacerebbe avere il tempo di farlo. Tuttavia da molto tempo non incontro nessun umano, forse da un secolo ormai, non pescano più, non nuotano più, non vanno più sulle loro barche.

Sono tornato a riva, un paio di volte. Adesso sono come i Clamperl, vivono nel loro guscio, silenziosi, solitari.

Non so più come divertirmi.

Sono ancora vivo.

Sono vivo, ancora.

Io mi annoio, cerco di uccidere la snervante attesa di questo percorso che fatica ad arrivare al termine... la vita è troppo lunga, la noia ci uccide prima che lo faccia il tempo. Per questo li capisco, i Clamperl e gli umani, quando decidono di nascere e morire soli, fermi, lontani da ognuno.

Anzi... li capirei, li capirei se loro fossero in vita da millenni, come me!

Un secolo, se sono fortunati... un secolo, se proprio la natura decide di essere clemente con loro.

Un secolo per provare tutte le emozioni del mondo, amore, gioia, rabbia, tristezza, delusione, felicità, odio, serenità... e loro lo buttano come fosse sabbia.

Anzi no.

Mezzo secolo. Perché, passata quella linea, cominciano a vivere di ricordi, come se avessero raggiunto un traguardo, e parlano di nostalgia, stanchezza, ricordi, esperienza...

Gli umani sono creature semplici, a loro basta poco per essere felici.

Ma hanno frainteso tutto.

A loro basta poco per essere felici, ma ciò non vuol dire che debbano accontentarsi di quel poco e vivere soltanto una frazione di ciò che la loro vita ha da offrire.

Vorrei poter vivere per sempre per farglielo capire. Mi chiamano Relicanth e io posso raccontare di aver visto il mondo.

Di aver avuto la mia vita, di aver avuto i miei compagni di avventure. Ora sono solo un vecchio e burbero pesce che si lamenta del mondo da dietro il suo teschio ingiallito.

Certe volte penso di aver vissuto troppo. Ogni mattina apro gli occhi cosciente e desideroso di ricominciare, ma dopo poco tempo quell’entusiasmo svanisce e lascia il posto alla malinconia, il tedio delle giornate sempre uguali, sempre identiche.

Sono vivo.

Ancora.

Ho provato molte emozioni, negative e positive, ho visto molti posti e nuotato in molte acque. Una volta sono stato persino in un acquario. Quella sì che è stata un’esperienza particolare. I cuccioli di umano che si fermavano dietro la vetrata mi ricordavano me nel mio primo secolo di vita, quando ancora lottavo con i fili dei pescatori per non essere pescato e combattevo a testa bassa contro gli scafi delle navi che violavano i confini del mio territorio.

Già... il mio primo secolo di vita.

C’era tanto da fare e da vedere, e se non c’era ero io ad inventarmelo.

I cuccioli di umano erano come me, mi chiedevo sempre cosa trovassero di interessante in un vecchio pesce. Poi l’ho capito, ho capito che erano portati a stupirsi per ogni cosa. A curiosare in ogni anfratto della realtà.

Ogni cosa a loro sconosciuta, diventava subito bellissima.

Anche io ragionavo così, da giovane.

Siamo fatti per essere felici di vivere. Solo, ne perdiamo la capacità col passare del tempo.

Io sento che il mio tempo sta per giungere, che la mia era sta per terminare, ma non so quando questo avverrà e sinceramente la cosa mi spaventa. Mi sentirei fuori posto a non essere più vivo dopo tutta questa eternità passata a non preoccuparsi minimamente di raggiungere l’orizzonte. Ma che importa? Io sono ancora in vita.

Sono vivo.

Sono ancora vivo.

 

Sesto giorno...

Sono stanco.

L’ansia grava su di me, le mie ali si fanno pesanti e la mia testa pure.

Sono davanti al fiore che mi ha nutrito ieri, credo di aver dormito su questo petalo, di esser caduto in un sonno profondo senza accorgermene.

Su questo petalo morbido e soffice... ah basta!

L’avevo già detto.

Quante cose ho scoperto si possono dire, tante parole che non conoscevo. Marciapiede, Pokémon, campanello, panettiere.

Beautifly.

Ho scoperto che gli umani mi chiamano Beautifly. Non che una misera identità potesse farmi vivere diversamente. Ho volato, mi sono nutrito, ho visto il mondo dall’alto.

Credo almeno di averlo visto tutto, non ne sono certo ma potrei averlo fatto, sono arrivato al quinto giorno di vita che continuavo a tornare nello stesso punto.

E poi le cose che sentivo di fare erano sempre le stesse.

 

Nuotare, combattere, respirare.

 

Scendere sui fiori, prenderne il polline, portarlo ad altri.

Non so quale sia il motivo di questa voglia di aiutare i fiori. Ma so che voglio farlo, so che è la mia missione. E mi sono reso conto che non abbiamo molto altro da fare, dopo tre giorni che continuiamo a vantarci delle nostre ali.

Ho incontrato anche altri Beautifly, ora che ci penso. Tra cui una femmina, bellissima, credo abbia già deposto le uova dei nostri figli.

Ora non so più che fare.

Continuo ad impollinare fiori, intanto. E continuo a passare in mezzo agli umani.

È divertente vederli quando si girano e sorridono, i bambini mi corrono dietro e sono felici. Ma io vengo inseguito da loro e riesco sempre a scappare.

Mentre lei... la morte mi sta dietro dal primo giorno. Mi dice che arriverà il mio momento, che dovrò cadere anch’io. E io non riesco a pensare ad altro.

 

Non so se è ora di arrivare alla fine.

 

Non riesco a pensare di dover arrivare alla fine.

Sono un essere...

...imperfetto.

 

La mia vita potrebbe essere meravigliosa ma mi ritrovo a sguazzare nella noia, a metà tra la paura di morire e la gioia di liberarmi di questa fatica.

 

Sento la stanchezza degli anni su ogni squama, ma ancora continuo ad avere uno scheletro capace di sopportare i secoli.

 

Impollino fiori.

 

Solco i mari.

 

Continuo la mia vita.

E continuo a pensare che essa sia troppo breve e troppo lunga al tempo stesso. In certi momenti vorrei che fosse migliore o che finisse in quell’istante.

Ma poi mi rendo conto che sarebbe uno schifo.

La mia dolce non-necessità di vivere è quanto di più indispensabile avessi mai avuto.

E ogni fiore che impollino, ogni umano che incontro... mi rendo conto che miliardi di altri esseri la hanno, proprio come me. Loro vivono, io vivo, noi viviamo.

Non lo facciamo per noi, non lo decidiamo. Ma viviamo. E più mi avvicino alla fine, più mi rendo conto di come sono stato perfettamente incastrato in questo enorme meccanismo.

Sono parte di qualcosa, sono vivo.

Non so se sia un bene o un male, ma vivo.

E giorni, anni, secoli o millenni.

Siamo parte di qualcosa di più grande, la mia vita è tutto ed è nulla.

 

Ho vissuto giorni.

Ho vissuto millenni.

Ma mi son sembrati solo quattro secondi.

Uno...

Due...

Tre...

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